Martini, la parola e il dolore

Fa freddo a Gallarate. È l’inizio di febbraio (del 2011 ndr).

I raggi taglienti di un sole che non riscalda filtrano attraverso i rami dei grandi pini che circondano la casa dei gesuiti.
Torno all’Aloisianum a quasi tre anni dall’ultimo incontro con il cardinale. L’emozione che provo è un misto di gioia per la possibilità di rivederlo e apprensione per le sue attuali condizioni. Sono accompagnato da un amico sacerdote che viene spesso qui. Per quanto è possibile mi ha preparato, ma chi incontrerò veramente oggi? Prima l’ascensore, poi un corridoio lungo e largo.
L’appartamento del cardinale è in fondo. (…)
Martini è seduto su una poltrona bianca, accanto a una finestra luminosa. Mi accoglie con un sorriso dolce. Gli occhi gli brillano. Il Parkinson, senza pietà, sta facendo il suo corso, e la voce ne è rimasta vittima, caduta sul fronte di questa battaglia che non si può vincere. Ma la luce degli occhi, quella, non l’ha potuta spegnere. Ed è una luce nuova, rispetto a come la ricordavo. Perché ha guadagnato un che di fanciullesco. Il lettore deve saperlo.
ra poco, riferendo i concetti espressi dal cardinale durante il nostro incontro, le parole saranno stampate come tutte le altre. Ma se il modo di imprimere le lettere sulla carta lo consentisse, bisognerebbe usare un carattere leggero come l’aria, tenue come una brezza. Ci vorrebbe qualcosa di impalpabile, e vorrei che tutti, leggendo, ne fossero consapevoli.
L’atmosfera è speciale. La malattia, specie quando colpisce un vecchio, spesso crea negli altri un senso di rifiuto e voglia di fuggire. Invece qui sto bene in compagnia del cardinale. Si avverte l’intima gioia che lui ricava dall’arrivo dell’ospite. Una gioia che si manifesta attraverso la curiosità. Tante le sue domande, e al primo posto, come sempre, ce n’è una: vuole subito sapere come sta la mia grande famiglia.
Non è solo, il cardinale. Persone premurose e competenti lo circondano e lo assistono. Con amore e, direi, con devozione. Anche per questo, nonostante la crudeltà di una malattia che avanza ogni giorno di più, qui non regna la tristezza, ma la serenità.
Per forza di cose il dialogo è fatto di poche parole, e ognuna è come una pepita strappata alla roccia di un morbo spietato che ingabbia la persona e la rende prigioniera del suo stesso corpo. Ma  forse, pensandoci, più che un blocco questo è un dono. Il limite diventa risorsa.
Si va all’essenziale, ci vuole tanta attenzione reciproca. I sintomi sono molto simili a quelli che afflissero Giovanni Paolo II. Ricordate la sua impossibilità di parlare? Mi sorprendo a pensare che  il buon Dio, attraverso i suoi disegni misteriosi, potrebbe aver deciso una volta ancora di incidere proprio così, come su papa Wojtyla, sull’uomo che ho di fronte, quest’uomo, questo vescovo, che per tutta la vita si è legato alla parola, soprattutto alla parola divina, indagandola senza tregua.
Non so da dove incominciare. Fosse per me, sinceramente, starei in silenzio, ma vorrei anche che questo incontro potesse diventare un regalo, per quanto piccolo, ai tanti che vogliono bene al cardinale. E allora decido di partire da un punto che potrebbe sembrare lontanissimo da lui. Rivolto a questo grande vescovo, parto da una piccola donna, Madre Teresa di Calcutta, e da una sua rivelazione.
Mi riferisco a quando la santa disse che per lunghi anni sperimentò, in un periodo della sua vita, la terribile esperienza del buio interiore, dell’assenza di Dio. Faceva le cose di sempre, si comportava come al solito, assisteva i moribondi, viaggiava, parlava in pubblico, ma dentro di lei c’era quel vuoto. Ecco: vorrei sapere se anche il grande biblista e arcivescovo Carlo Maria  Martini ha mai fatto un’esperienza simile.
Prima parlano gli occhi, poi, in un sussurro, arriva la risposta. «Sì, è stato alla fine degli anni Settanta, tra la fine dell’incarico di rettore all’Università Gregoriana e l’inizio del mandato episcopale a Milano. Consideravo tutte le cose come fatte dagli uomini e non provenienti da Dio, ma non avvertivo alcun dolore, e proprio la mancanza di dolore era la prova del vuoto. Ci sono passato».
Chiedo: come vive ora questa fase della sua storia personale? «In questa parte della mia vita non sento l’assenza di Dio. Anzi. Si possono fare tante cose anche nelle mie condizioni. Mi sento al centro della mia vecchia diocesi, al centro degli affetti e dell’attenzione di tanti. Ricevo moltissime visite, e poi lettere. Mi trovo nel cuore di una grande rete di rapporti».
Un sorso d’acqua, un breve intervallo per riprendere respiro. E come vede da qui, dal centro di questa rete, la Chiesa cattolica dei nostri tempi? La risposta arriva ancora una volta tanto flebile come suono quanto netta e sicura come contenuto: «La vedo forte nei suoi ministri, debole nelle sue strutture. Poco capace di servire le esigenze del mondo di oggi».
Perché? Da dove nasce questa debolezza? «In parte da una umanità poco sensibile sotto il profilo pastorale, in parte dal fatto che la Chiesa pensa troppo in termini politici. Pensa a come vincere, e dedicandosi a questo perde la capacità profetica. Inoltre la dottrina cattolica andrebbe vista, e spiegata, come qualcosa di gioioso, non come minaccia e paura. Faccio l’esempio del problema della  comunione ai divorziati risposati, perché tanti mi scrivono in proposito. Ci vorrebbe spirito di apertura».
E come vede la condizione del sacerdote, oggi? «Nel trattare con la gente i preti sono bravi, però spesso sono appesantiti e scoraggiati». Che cosa li potrebbe aiutare? «Un legame profondo con la parola di Dio. Perché Dio suscita energie, rallegra, dà entusiasmo».
Il lettore ricordi: queste parole, pensate lucidamente, escono a fatica perché la malattia ha colpito la voce. È chiaro quindi che sto abusando della disponibilità del cardinale. Le persone che lo  assistono sono troppo cortesi per dirmelo, ma so che Martini è stanco.
Continuo? Posso? Gli occhi azzurri dicono di sì. E allora immaginiamo di rivolgerci a un giovane d’oggi, a un ventenne che si ritiene ateo. Come parlargli di Dio? «Con l’esempio di una vita cristiana. Occorre portarlo a meditare su ciò che non è vero. Lui pensa di avere chiarezza dentro di sé, ma non ce l’ha. E poi sono importanti le amicizie, per tenere deste le domande. Troppo spesso i giovani sono svogliati e inappetenti».
Eminenza, mi deve perdonare. Ancora una curiosità. Che cosa provò quando i terroristi la chiamarono e le consegnarono le armi? Ebbe paura? «No, nessuna paura. Quando portarono le borse con le armi chiamai il prefetto. Arrivò e io dissi: bene, apriamo le borse. Lui restò inorridito ed esclamò: per carità, non tocchiamo niente! Una situazione curiosa. Temo che un po’ di paura l’ebbe invece il mio segretario di allora, don Paolo Cortesi».
Eminenza, mi dica: qual è stata la sua più grande gioia, nel corso della vita? E, se c’è, un rimpianto…«La più grande gioia? I ventidue anni di episcopato a Milano. Un rimpianto? Essere stato pigro, negligente e svogliato nei contatti umani e nelle situazioni più difficili».
Le persone che assistono al nostro dialogo sorridono. Dicono che il cronista sembra diventato il confessore e il cardinale il penitente. Mi accorgo che sul pavimento c’è un bel pallone. È un regalo per il cardinale da parte dell’amico prete che mi ha accompagnato qui (…). «Lo usiamo» mi spiega «anche un po’ a scopo terapeutico, per aiutare padre Martini a rispondere alle sollecitazioni agli  arti inferiori e mantenere i riflessi pronti». Chi l’avrebbe mai detto? Nella casa del biblista Martini (…)  un pallone da calcio (…).
Mi rendo conto che non ho mai chiesto al cardinale se ha una squadra del cuore. Lo faccio ora e scopro che non solo non è la mia, ma è anche un’acerrima nemica dei colori della mia passione calcistica. Dopo tutto, nessuno è perfetto! (…)

 

in “Europa” del 15 settembre 2011

 

 

Don Alberto dell’Acqua, Sacerdote fidei donum a Djamboutou, Camerun, ha preparato con i giovani della sua parrocchia un questionario per il Card. Martini, sulla scia delle domande presentate da giovani europei nel libro “Conversazioni notturne di Gerusalemme“.

Il card. Martini ha risposto affettuosamente e brevemente.

Ecco, in esclusiva su questo blog il testo della “conversazione”.

Carissimo don Alberto,
Solo ora posso prendere in mano le tue domande. Non è che abbia molto da fare, ma la mia capacità di lavoro è molto limitata e quindi ci metto molto tempo a fare le cose. Ma ho pensato spesso a voi e mi congratulo con i giovani per le loro domande. Cercherò di rispondere tenendo presente l’ordine con cui tu le proponi.

Domande che riguardano la sua vita e la sua vocazione

1. Perché ha scelto la strada del sacerdozio?
Ho scelto la strada del sacerdozio per donarmi tutto a Dio, che intuii fin dai dieci – undici anni come persona a cui si poteva e si doveva consacrare l’intera esistenza.

2. Le è capitato qualche volta di pentirsi di aver seguito Gesù?
Non mi sono mai pentito di aver seguito Gesù,ma mi sono sempre più rallegrato di lui. Non che mi siano mancate le prove e le difficoltà, ma quanto alla mia decisione fondamentale mi pare oggi la stessa con cui sceglievo settanta anni fa.

3. Riesce a rispettare i 10 comandamenti (n.d.r. in particolare: 6°, 7°, ’8°, 9° e 10°: i peccati più confessati qui)? Se sì, come fa?
Mi pare di sforzarmi di rispettare i 10 comandamenti. Il segreto è fidarsi di Dio e abbandonarsi a Lui.

4. Le è già capitato di avere una rivelazione/apparizione/sogno (n.d.r. al sogno e alla sua interpretazione la gente qui dà spesso una grande importanza e quasi sempre ne ha paura) durante la preghiera? Crede nelle persone che dicono di averne avute?
Non mi ricordo mi sia mai capitato di avere rivelazioni o simili. Rispetto le persone che dicono di averle avute, ma vorrei poterne avere le prove e non e

5. Da dove viene il suo amore per la comunità cristiana di Djamboutou?
Il mio amore viene dallo Spirito Santo e anche dalla conoscenza personale che ho avuto della comunità, bella e coraggiosa.

6. Perché vorrebbe terminare la sua vita a Gerusalemme?
Volevo vivere e morire a Gerusalemme perché è la città della rivelazione e della redenzione, Ma la mia salute non mi ha permesso di viverci ulteriormente.

7. Cosa dobbiamo fare per diventare come lei?
Non dovete diventare come me, ma molto di più, seguendo ciascuno la sua vocazione e rispondendo ai doni di Dio.

 


Domande che riguardano la vita di noi giovani

1. Cosa dobbiamo fare per amare e seguire la Parola di Dio?
Bisogna anzitutto conoscere la Parola di Dio e vedere in essa con quale amore Dio ci abbia amato

2. Cosa possiamo fare come giovani per altri giovani che non credono in Gesù? E per quelli che ci criticano quando parliamo della nostra fede (n.d.r.chiese protestanti, sette, battezzati che hanno abbandonato il cammino…)?
Occorre vivere personalmente il Vangelo. Esso è inoppugnabile quando vissuto nella sua intera verità (con il perdono delle offese, l’amore anche dei nemici ec.)

3. Perché tanti giovani africani si lasciano tentare dalle sette?
Mi pare che le sette corrispondano in positivo a un desiderio di maggiore soggettività nella comunità e in negativo a una religione facile e affidata all’entusiasmo.

4. Come possiamo fare per lottare contro le tentazioni, in particolare quella dell’ipocrisia, del facile guadagno e quelle legate alla nostra sessualità (n.d.r. per guadagnare qualcosa spesso capita che si venda anche il proprio corpo e comunque riesce molto difficile trovare un equilibrio e un buon controllo rispetto alla grande energia della sessualità)?
Bisogna avere grande stima della dignità della nostra anima e del nostro corpo e pensare che v’è più gioia nel sacrificio e nella rinuncia che non nell’accondiscendere alle nostre passioni.

 


Domande che riguardano l’Africa

1. Perché qui in Africa gli uomini e le donne hanno una speranza di vita più breve di quanto fosse nel passato e rispetto agli uomini e le donne di altre parti del mondo?
Non saprei dire se la speranza di vita è più breve. Per quanto ne so la vita media si è allungata anche in Africa, Però è inferiore a quella europea per causa della fame, delle malattie ecc. Bisogna che i paesi dove c’è benessere si diano da fare per l’Africa, ma che anche gli africani stimino il bene comune superiore al bene del gruppo. Altrimenti la politica sarà sempre fonte di corruzione e di lotte.

2. Perché i giovani africani incontrano sempre tante difficoltà per quanto riguarda lapossibilità e la scelta di un lavoro?
Mi pare che in Africa ci sia meno lavoro anche per le condizioni generali del Continente. Ma chi ha veramente voglia e impegno deve rischiare.

3. Spesso il diavolo è presentato come un essere “nero”: questo vuol dire che il continente africano è votato alla perdizione?
Non c’è alcun rapporto tra il “nero” del diavolo (che è piuttosto rappresentato come rosso fuoco) e il “Continente nero”. Oggi, come si vede nel presidente americano, anche il nero può assurgere alle più alte responsabilità come e più del bianco.

da http://cmmddc.blogspot.com/

“C’è Dio nella malattia”


intervista a Gianfranco Ravasi, a cura di Andrea Tornielli

«La dimensione antropologica e teologica della malattia: Il Signore guarisce tutte le malattie (Salmo 103,3)».

È il tema  del convegno dell’Associazione medici cattolici italiani che si apre questa mattina al Centro congressi Assolombarda di  ilano. Dopo l’introduzione del professor Giorgio Lambertenghi Deliliers, la prima parte del convegno vedrà  confrontarsi Alessandro de Franciscis, Presidente del «Bureau Medicale» di Lourdes, la psicoterapeuta Paola Bassani e  padre Carlo Casalone, Superiore provinciale d’Italia dei gesuiti. Nella seconda parte si terranno le relazioni di Massimo  Cacciari (su «Malattia e male») e del cardinale Gianfranco Ravasi. Le conclusioni sono affidate al professor Alfredo  Anzani, della Pontificia accademia per la vita.

«Vengo invitato sempre più spesso a convegni medici: sta crescendo la consapevolezza che la malattia e il dolore sono  un tema globale e simbolico, non soltanto fisiologico. L’accompagnamento umano, psicologico, affettivo e spirituale è  tutt’altro che secondario. C’è bisogno di tornare a una concezione umanistica della medicina».

Il cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio consiglio per la cultura, è abituato a confrontarsi con chi non crede. Ma di fronte alla domanda drammatica sul perché della sofferenza e del dolore – tema del convegno organizzato  oggi a Milano dai Medici cattolici – non si rifugia nelle formule di rito.

Come risponde al quesito sul perché della malattia?
«La scrittrice americana Susan Sontag nel 1978 raccontò la sua esperienza di ammalata di cancro in un libro intitolato  “La malattia come metafora”. Definizione interessante: la malattia non è mai solo una questione biologica. Quando  siamo ammalati abbiamo bisogno di essere confortati, guardiamo alla vita in modo diverso, cambiano le priorità e se la  alattia si aggrava cambia la scala dei nostri valori. E anche chi non crede può arrivare a chiedere a Dio il perché di  quanto gli accade.
Comunque la prima risposta è semplice, logica e razionale».

Qual è la «razionalità» iscritta nella malattia?
«Il dolore è una componente della finitezza delle creature. Un dato che nella nostra società orgogliosa e tecnologica,  che qualcuno ha definito “post-mortale”, non si vuole accettare. Si occulta in tutti i modi la morte, o magari si insegue  la possibilità di vivere fino a 120 o 130 anni, continuando ad allontanare l’appuntamento. Dobbiamo invece avere il  coraggio di guardare in faccia malattia e morte come componenti dell’esistenza».

Una capacità che sembra perdersi in Occidente, ma che è ancora presente in altre culture…
«È vero. Quando ero in Iraq a fare degli studi archeologici, un giorno uno dei miei collaboratori locali mi invitò a casa  sua, così avrei potuto vedere suo padre che stava morendo. Ci andai e vidi quel vecchio adagiato al centro dell’unica  grande stanza della casa, con le donne che cucinavano da un lato e i bambini che giocavano dall’altro e che ogni tanto  si avvicinavano al nonno per toccargli la mano».

La coscienza della finitezza non basta a spiegare il dolore innocente, la malattia dei bambini,
la sorte che si accanisce con chi ha già sofferto.

«Il problema è la distribuzione del male. Resta drammatica quella pagina de “La peste” di Albert Camus, dove davanti  alla morte di un bambino si afferma: non posso credere a un Dio che permette questo. È l’eccesso del male. Qui ha inizio  a frontiera in cui si attestano le religioni con le loro  risposte, che non esauriscono il mistero. Nel Libro di  Giobbe, al culmine della disperazione umana, Dio parla e spazza via tutte le spiegazioni e i tentativi di razionalizzare. La  oluzione può essere solo meta-razionale, globale e trascendente e si trova nell’incontro con Dio».

La risposta del cardinale Ravasi?
«È quella cristiana, totalmente diversa dalle altre religioni. Perché nel cristianesimo è Dio stesso, in Cristo, che non  solo si piega verso di noi per spiegarci il significato della sofferenza, non solo in qualche caso guarisce grazie alla sua  onnipotenza con i miracoli, ma entra nella nostra umanità e prova tutto il dolore dell’uomo. Il dolore fisico, morale, la  paura, il silenzio del Padre. E alla fine anche la morte, che è la carta d’identità dell’uomo, non di Dio. Diventa un  cadavere, senza mai cessare di essere Dio, soffre tutta la sofferenza umana e vi depone un germe di trasfigurazione, che è la resurrezione, fecondando la nostra natura mortale».

Questo però non cancella e il dolore né la domanda. Anche per chi crede.
«Gesù Cristo, il Figlio di Dio non è venuto a cancellare il dolore, tant’è vero che lo ha vissuto. Ma lo ha assunto su di sé  e trasfigurato con il germe dell’infinito, che è preludio d’eternità per noi. Il cristianesimo è una religione fieramente  carnale e vicina al dramma di chi soffre – al contrario di tante altre religioni – perché per i cristiani Dio è diventato un  uomo ed è morto in croce. I cristiani, come attesta la nascita degli ospedali, hanno sempre avuto questa attenzione  verso i malati, perché credono in un Dio che è stato sofferente, ha conosciuto la morte ed è risorto».

Il suo dicastero ha organizzato di recente un convegno dedicato alle staminali adulte, via alternativa all’uso di quelle embrionali. Chiesa e scienza si possono ritrovare insieme?
«L’utilizzo delle cellule embrionali sta ottenendo risultati minimi rispetto a quelli ottenuti con le staminali adulte: si  cancella così il luogo comune che ci attribuisce la responsabilità di non voler alleviare le sofferenze di tanti malati.  Proprio le staminali adulte, che non hanno alcuna controindicazione di tipo etico, stanno portando risultati  incoraggianti in campo oncologico, e contro il Parkison e l’Alzheimer».

 

in “La Stampa” del 26 novembre 2011