La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Attenzione: anche per chi segue il Simposio online è necessario compilare la scheda d’iscrizione
8 – 9 novembre 2024 in Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 – 00139 Roma (RM) Italia
L’Istituto di Catechetica (ICa), la cui nascita risale all’A.A. 1953/54, festeggia il suo 70° di vita. Nel 2023, tra le tante iniziative ordinarie e straordinarie, la rivista on line “Catechetica ed Educazione” ha pubblicato diversi contributi che nel loro insieme fanno memoria dei settant’anni di vita e di attività dell’ICa, in particolare dell’ultimo ventennio. Richiamando il Convegno in occasione del 60° (15-16 maggio 2015) imperniato sul tema della catechesi come comunicazione nell’era digitale e del conseguente “cambio di paradigma”, il Simposio dell’8-9 novembre 2024 intende soffermare l’attenzione sulla dimensione educativa della catechesi.
Alcune informazioni importanti:
La scadenza delle prenotazioni al Simposio è prorogata fino alla fine del mese corrente
L’eventuale rimborso dei costi avverrà al termine dell’evento
Per ulteriori informazioni chiamare al: 375.6427896
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?
I «Carmi del servo di JHWH» riflettono l’esperienza dell’esilio, di cui sembrano raccogliere la lezione: il valore redentivo della prova, delle afflizioni, del dolore.
Già qualche profeta (per es. Geremia) aveva svolto una missione contrassegnata da sofferenze e persecuzioni, ora l’intera nazione, dispersa e disorientata, sta sopportando prove e disagi di ogni genere. Invece di ribellarsi o di reagire insensatamente contro Dio, era più saggio prendere dal Signore il «castigo» e prepararsi a ricevere, se a lui piace, il perdono e la riabilitazione.
Il «Servo di JHWH» non è un individuo né una pura idealizzazione. È il simbolo dell’Israele migliore, di quelli che erano in grado innanzitutto di mettersi in ascolto di quanto era in procinto di dire Iddio al suo popolo. Non è facile dialogare con lui nella disgrazia. Nella circostanza si è portati a chiudersi in se stessi o a imprecare, ma il Servo reagisce e ascolta ciò che gli dice il Signore.
Forse quando l’autore compone i «Carmi» l’esilio era anche passato, ma la situazione è quella precedente; gli uomini sono ancora sotto l’abbattimento, la stanchezza morale e fisica. La sfiducia può prendere anche il profeta, chiamato a rincuorare i fratelli, ma pensa il Signore a tenerlo sveglio.
Il servo è un personaggio e più ancora una personificazione. In lui tutta la nazione rievoca le sofferenze e le umiliazioni subite nella deportazione e che continuano nella restaurazione poiché sono ancora sotto un dominatore. I colpi dei flagelli, lo strappo della barba sono i segni del dileggio morale e fisico a cui gli uomini sono sottoposti. Ma Israele nella sua afflizione ha un consolatore a cui fare affidamento: è JHWH. Il suo Dio è l’unico Signore, viene ripetuto nello Shema. Egli è ora a suo fianco anche in questo estremo frangente e lo aiuterà.
Le prove possono fiaccare, ma sapute accettare dalla mano del Signore, irrobustiscono la fede, rendono più saldo il rapporto con Dio. Se JHWH è vicino, dalla parte delle vittime c’è sempre una speranza che la nazione possa sopravvivere. «Chi di voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo» (v. 10). È il senso di tutto il carme.
Seconda lettura: Giacomo 2,14-18
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».
L’identità del credente è segnata non tanto dalle parole, ma dalle buone azioni che gli vengono suggerite dalla sua fede in Cristo. Non basta ripetere ciò che Gesù ha detto e aderirvi interiormente per essere salvi, ma occorre far propria la sua esperienza.
Non si può dire che sia un comportamento cristiano il discriminare negli incontri comunitari un fratello dall’altro, privilegiare il ricco e umiliare il povero. «Avvilire l’indigente» non è agire come Dio agisce, né come Gesù ha esortato a fare. Il credere non serve a nulla se non è suffragato dalle opere che la fede propone. Sarebbe come il dire a degli ignudi e a degli affamati «riscaldatevi e saziatevi» senza dargli né una veste, né un pane.
La dottrina su Dio sarà sempre utile a instaurare rettamente i propri comportamenti quotidiani, ma se questi non vengono influenzati, modificati, riordinati dalla fede, non vengono conformati alla proposta di Dio (comandamenti) e alla testimonianza di Cristo, in altre parole, se non hanno nessuna risonanza pratica nella vita, servono ad aumentare la responsabilità e la condanna del credente.
Se la fede non rifluisce nei comportamenti, non agisce nella vita, è «morta» (v. 17). È come non averla.
Il v. 18 è misterioso. Sembra farsi avanti un interlocutore fittizio che contesta la tesi dell’inutilità della fede senza le opere (2,14). Certo la fede può precedere le opere e trovarsi anche senza di esse, ma alla fine rimane sempre vero che sono le opere a darle conferma. Talmente che se uno ha solo la fede senza le opere, la sua realtà può rimanere sempre insicura, mentre in chi compie la volontà di Dio, cerca di ripercorrere la testimonianza di Cristo anche se non ha fede esplicita, cioè non sa esattamente e senza colpa chi egli è, è egualmente un implicito credente. Le opere danno un’identità sicura, le parole da sole danno un’identità sempre dubbia.
Vangelo: Marco 8,27-35
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
Esegesi
Il brano di Mc 8,27-35 segna una svolta radicale nel vangelo di Marco. Chiude il ministero galilaico accompagnato da una solenne autorevole manifestazione di Gesù, che non è consentito capire e della quale non è neppure lecito parlare. Gesù preferisce passare in silenzio se non proprio in incognito. Fa tutti i suoi pronunciamenti, compie grandi prodigi che suscitano entusiasmo nella folla: 1,27 («che è questo?») 4,12 («Non abbiamo mai visto nulla di simile»), 4,47 («Chi è dunque costui?») 7,37 («Stupivano») e nello stesso tempo reazioni negative presso gli scribi e farisei: 2,7 («Perché costui fa queste cose? Bestemmia»), 3,36 («Ha uno spirito immondo»), 3,6 («tengono consiglio per farlo perire»). L’agire di Gesù sorprende anche le autorità che parlano per bocca di Erode Antipa, il tetrarca della Gallica (6,14).
Gesù non solo non scopre il suo «segreto» ma proibisce a coloro che possono averlo intuito di parlarne. Tali sono gli ordini impartiti ai demoni (1,34; 3,12) e ai miracolati (1,44; 5,19; 5,43; 6.45; 7.36). L’evangelista afferma che a «quelli che erano attorno a lui», spiegava «in disparte» ogni cosa (4,38), ma il mistero rimaneva nascosto anche a loro.
La tensione che domina la prima parte del vangelo di Marco si chiude con l’interrogatorio di Cesarea di Filippo, fuori della Galilea. Infatti dopo la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26) la comitiva si incammina verso «i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo», la capitale della Traconitide a due giorni di viaggio dal Lago di Tiberiade. È una meta reale e simbolica. L’evangelista vuole sottolineare che la prima manifestazione di Gesù avviene in terra pagana.
La tradizione evangelica ricorda una confessione messianica di Pietro. Giovanni la colloca dopo il discorso sul pane della vita (6,68-69), i sinottici a Cesarea di Filippo. La ricostruzione della scena è più didattica che storica; deve appurare chi è Gesù. Ed è lui che ha proposto e quindi voluto questa «rivelazione». In genere i maestri sono interpellati dagli alunni; qui è Gesù che pone non le domande, ma la domanda che serpeggia in tutto il vangelo. E proprio per non introdurre exabrupto nella questione comincia da un’interrogazione sull’opinione della folla che serve solo a richiamare l’attenzione sulla vera risposta che viene dai discepoli («Ma voi, chi dite»).
Alla luce del linguaggio veterotestamentario, cioè delle profezie messianiche dell’Antico Testamento, Gesù non poteva essere che una figura profetica, del tipo di Giovanni Battista o di Elia del quale si attendeva per di più il «ritorno» all’aprirsi dell’era escatologica (cf. Mal 3,23-24; Mt 11,14). Ma in tutti i modi le categorie dell’A.T. non sono idonee per spiegare chi è Gesù. Occorre una risposta che venga dall’esperienza di coloro che lo hanno conosciuto, che sono stati a suo fianco, alla sua scuola. Ed essi hanno capito che il loro maestro è più che un profeta, «è il Cristo». L’espressione «il Cristo», quando l’evangelista scrive, è la stessa che la Chiesa adopera per designare Gesù di Nazaret che è pur sempre un «grande profeta» (cf. Lc 7,16), ma anche il «messo» di Dio per eccellenza, il messia. In altre parole è il personaggio promesso per la fine dei tempi; allo scopo di imprimere alla storia della salvezza l’orientazione voluta dal creatore. Egli è colui che avrebbe ristabilito tutte le cose. Quindi era il fiduciario e il plenipotenziario di Dio; il salvatore, il «redentore», verrà aggiunto più tardi nella predicazione cristiana.
Se l’espressione si limitasse alle intenzioni di Pietro forse il significato sarebbe stato più ristretto e supererebbe di poco l’espressione «figlio di David» (10,47-48) o «restauratore del regno davidico» (11,18), ma l’evangelista ripete più la fede della Chiesa che quella del primo apostolo. Essa sarà ribadita poco dopo nella «confessione» di Gesù davanti al Sinedrio (14,61).
Ormai i discepoli conoscono colui a cui hanno dato la parola, di cui si sono messi al seguito, ma Gesù ha altre cose da aggiungere alla confessione dell’apostolo per questo è costretto a chiedere ancora di «non parlare» su tale dichiarazione (v. 30). E la «parola» nuova, inattesa da dire è quasi più importante della prima perché ne costituisce il presupposto (v. 32).
Se pertanto la «confessione» chiude la prima parte del vangelo, la dichiarazione di Gesù apre la seconda, quella riguardante la «croce» e il «cammino» che porta verso di essa, in concreto verso Gerusalemme, il Golgota, e del «cammino» che si impone a quanti sono al seguito di colui che, pur essendo «il Cristo», è finito sul patibolo.
I versetti 8,27.30 sono veramente al centro di tutto il vangelo. Gesù adesso non ha più veli nel parlare, non è sfuggente, né misterioso. Annunzia «apertamente» (parresiai) «la parola» (ton logon). Il testo è chiamato abitualmente la prima profezia della passione e della risurrezione, ma nell’attuale versione si è verificata una contaminazione tra i racconti del tragico avvenimento e la dichiarazione di Gesù al riguardo. Alcuni particolari sono passati da un quadro all’altro senza creare confusione, ma dando alla profezia più il colore di una narrazione che di un oracolo.
L’essenziale dell’avvertimento di Gesù è che il Cristo, ma è chiamato più vagamente «il figlio dell’uomo», una designazione che richiama Dn 7,14, deve «molto patire» ed «essere rigettato». In altre parole, il messia non sarà accolto dal suo popolo, fino a condannarlo a morte, ma la morte non sarà la sua fine bensì l’inizio della sua vittoria (risurrezione). «Dopo tre giorni» è un’espressione ebraica per dire «dopo breve tempo», dopo «un corto intervallo».
Il comportamento di Pietro, i «rimproveri» che fa a Gesù, sono verosimilmente storici, ma sono anche emblematici, esprimono non tanto il pensiero dell’apostolo, ma di ogni benpensante, di qualsiasi uomo che stenta sempre a capire come l’affermazione del bene, della verità abbia condizionamenti così irrazionali a cui non c’è alternativa. Si può accettare o rifiutare, non cambiare.
La terza parte della pericope, vv. 34-35, è un’esplicitazione della seconda. Il vangelo (logos) della croce non riguarda solo Gesù, ma tutti i suoi discepoli, indistintamente. A tal proposito è convocata, non si sa da dove, anche «la folla» (ochlos). Se il programma del cristiano è quello di «seguire Gesù» (opiso mou elthein; akolouthein) si tratta di un cammino che non può arrestarsi a metà strada. Non può escludere la «croce» come non ha potuto escluderla Gesù. Per arrivare a ciò bisogna cominciare dalla dimenticanza di se stessi, dalla abnegazione. Occorre la forza d’animo, il coraggio di non prendere troppo in considerazione i propri interessi, i propri beni, la stessa vita. «Rinnegare» significa anche riconoscere i propri limiti. E non si tratta di farne un’offerta a Dio, ma ai propri simili ai quali si è in grado di accordare una più larga, generosa collaborazione.
La «croce» che si è esortati a prendere fa prevedere che il prezzo della sequela di Cristo può equivalere alla perdita della vita, ma può non arrivare a questi estremi. Se la croce è il simbolo di qualsiasi sofferenza può designare ogni rinunzia che si impone al credente per tener fede ai suoi impegni.
La massima conclusiva ribadisce (v. 35) in termini parenetici il messaggio di tutto il discorso tenuto da Gesù ai suoi. Il seguire Cristo non è un consiglio qualsiasi che può lasciare indifferenti l’ascoltatore. La «vita» (psyche) di cui parla Gesù non è né la semplice vita spirituale (anima), né la sola vita fisica (corporea). È l’una e l’altra insieme, cioè l’intera esistenza che comincia nel tempo e si protrae nell’eternità. Non solo non è indifferente il credere e il non credere, ma da esso dipende la felicità nel tempo e oltre il tempo.
Meditazione
La pagina evangelica di questa domenica occupa un posto cruciale nel racconto di Marco. La professione di fede di Pietro, con il successivo «primo annunzio della passione», è infatti collocata al centro del libro e segna una svolta decisiva nel ministero di Gesù. D’ora innanzi il suo cammino prenderà una nuova ‘piega’, una nuova direzione, dirigendosi decisamente verso il luogo del compimento del suo pellegrinaggio terreno. Da Cesarea di Filippo (all’estremo nord del territorio palestinese) Gesù inizia il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, in una marcia di avvicinamento che proseguirà a ritmo incalzante, senza ripensamenti e senza incertezze, fino allo scontro definitivo con i suoi avversari (la prima lettura ci presenta, in parallelo, la misteriosa figura del «servo del Signore» che con coraggio e determinazione va per la sua strada, noncurante delle minacce e dell’opposizione violenta, ma confidando solo nell’assistenza di Dio).
«E per strada interrogava i suoi discepoli» (v. 27). Il Gesù di Marco è uno che interroga spesso, che fa sempre molte domande. I discepoli sono continuamente sollecitati a riflettere sul senso della loro esistenza, sulle ragioni della loro sequela e, soprattutto, sul mistero della persona che hanno davanti. «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 29a). È questa la domanda che, più di ogni altra, interessa a Gesù. La gente può dire tante cose, anche giuste e pertinenti, ma l’identità di Gesù non la si può ‘afferrare’ da lontano: solo una frequentazione assidua e quotidiana, solo una prossimità vitale può mettere nelle condizioni di accedere a una conoscenza non superficiale di lui. Si percepisce bene qui tutta l’attesa di Gesù per la risposta dei suoi discepoli. Ed ecco irrompere sulla scena Pietro che, facendosi il portavoce del gruppo, dà la sua bella risposta, chiara e sintetica: «Tu sei il Cristo» (v. 29b). È la prima volta che Pietro prende personalmente la parola nel vangelo di Marco e possiamo dire che lo fa in modo più che appropriato (non sappiamo come sia arrivato a formulare questa stupenda professione di fede; forse l’esperienza dello ‘stare con Gesù’ per lungo tempo avrà sortito qualche buon effetto…). Dal canto suo, Gesù non commenta la risposta di Pietro, anche se, in qualche modo, sembra approvarla. Gli preme solo che, per il momento, essa non venga divulgata: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (v. 30).
Gesù comincia allora a impartire il suo insegnamento, un insegnamento di capitale importanza poiché, per la prima volta, verte sulla sua sorte di passione e risurrezione. Egli è sì «il Cristo», ma i tratti che lo contraddistinguono sono alquanto inattesi e, comunque, assai diversi da quelli immaginati dai suoi discepoli. In una progressione impressionante, quattro verbi scandiscono il destino di sofferenza e di gloria che attende il «Figlio dell’uomo»: soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso, risorgere (v. 31). Nel momento stesso in cui i discepoli credono finalmente di aver compreso qualcosa intorno al loro singolare Maestro, ecco che si vedono ‘scaricare’ addosso parole scioccanti e incomprensibili: un Messia che deve passare per la sofferenza e la morte (senza dimenticare l’aspetto del rifiuto, della «riprovazione», non meno scandaloso). È questa necessità che i discepoli proprio non riescono a ‘digerire’: perché «deve»? Non potrebbe passare per un’altra via il destino del ‘loro’ Messia? Ed è proprio attorno a questo punto fatidico che esplode fortissimo il contrasto tra Gesù e i suoi. Ancora una volta è Pietro a farsi avanti, reagendo in modo deciso e disapprovando senza mezzi termini le parole di Gesù (addirittura si mette «a rimproverarlo»). Ma Gesù, con altrettanta energia, «rimprovera» Pietro bollando il suo atteggiamento come ‘satanico’ (v. 33). In nessun altro passo del vangelo è riportato un dissenso e uno scontro così violento tra i due! Pietro sembra trovarsi sotto l’influsso di uno ‘spirito cattivo’, tanto che Gesù si comporta con lui come un indemoniato (il verbo qui usato per indicare il «rimprovero» di Gesù, epitimá, è lo stesso generalmente adoperato per le scene di espulsione degli spiriti impuri: cfr. 1,25; 3,12; 9,25). Colui che aveva appena chiamato Gesù «il Cristo», si vede ora apostrofare con un titolo terribile e durissimo: «Satana»! Chi non pensa «secondo Dio», chi non riesce a sentire e a vedere le ‘cose’ di Dio lasciandosi guidare soltanto dai suoi istinti carnali, dai suoi desideri puramente umani, da tutto ciò, appunto, che è «secondo gli uomini», non può far altro che il gioco di Satana, il gioco dell’avversario di Dio per antonomasia. Invece di seguire Gesù, di lasciarsi condurre da lui sulla via di Dio, Pietro si mette davanti, ostacolando il cammino di Gesù e frapponendosi tra lui e il Padre suo (proprio come cercava di fare il Tentatore nel deserto!). Ma subito Gesù, in tono perentorio, ricolloca Pietro al posto che gli spetta: «Va’ dietro a me!». Così Pietro è di nuovo invitato a obbedire a quella voce udita al tempo della sua prima chiamata lungo il mare di Galilea quando, insieme a suo fratello Andrea, si sentì dire: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» (1,17). Il posto del discepolo è sempre «dietro» – come rimarca ancora una volta Gesù nei due detti conclusivi (vv. 34-35) -; ma non solo: se non si osservano alcune condizioni basilari non si può, neanche lontanamente, cercare di seguire Gesù, di conoscerlo, di aderire a lui. Si tratta di imparare a dire di «no» a se stessi per dire di «sì» a un altro; si tratta di entrare nella logica paradossale del vangelo che implica il percorrere la via della croce, la stessa seguita da Gesù; si tratta, in ultima istanza, di spossessarsi persino della propria vita per riceverla nuova e ‘salvata’ dalle mani di Dio.
Immagine della domenica
Lagos de Covadonga (Asturias) – 2021
«Una ligera niebla,
un cielo pálido
y muchos deseos».
(Ivo Andric)
Preghiere e racconti
La rinuncia a se stessi
Quando una situazione umana ci chiede una totale rinuncia a noi stessi, istintivamente cerchiamo il compromesso o semplicemente imbocchiamo la strada della fuga, ci accomuniamo agli apostoli, che anch’essi sono fuggiti di fronte al realismo della Passione di Gesù. A tanti livelli e su tanti piani dobbiamo cercare di smascherare le forme di fuga che caratterizzano il nostro preteso “servizio agli altri”. Quante volte a livello della famiglia, ci lasciamo andare alla ricerca soltanto della gratificazione dell’affermazione di noi stessi e non accettiamo le persone che ci sono vicine così come sono nella loro realtà, le vorremmo sempre diverse e ci arrovelliamo? Quante volte nell’ambito professionale ci lasciamo trascinare solo dall’interesse e non cerchiamo di rendere un servizio fino in fondo, servizio che ci chiede di uscire da noi stessi di prendere parte in qualche modo alla croce e di partecipare alla sua forza rivelatrice? Quante volte di fronte alle richieste che i nostri fratelli avanzano, noi manifestiamo disagio, stizza, rifiuto: tante realtà semplici della nostra vita quotidiana in cui Gesù dalla croce ci chiede di operare una profonda conversione, di metterci davvero in ginocchio davanti alla croce per coglierne il realismo e la fedeltà che cambiano la vita..
Innanzitutto, si rimane colpiti dal fatto che, nel Vangelo di Marco, la descrizione dei miracoli compiuti da Cristo sfuma, fino a scomparire del tutto, quanto più ci si avvicina alla Croce: è qui, dove Gesù non salva se stesso, che anche i miracoli muoiono. Se i miracoli sono i segni tangibili della potenza di Dio, la Croce ci dice in modo chiaro che questa potenza si manifesta soprattutto nell’amore e nel dono che Cristo fa di sé. Per Marco, il vero discepolo è colui che sa riconoscere il Figlio di Dio inchiodato sulla croce per la nostra salvezza (15,39).
«La croce è diventata la suprema cattedra per la rivelazione della sua nascosta e imprevedibile identità; il volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto la condizione, escluso il peccato (Ebrei 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della rivelazione di Dio agli uomini» (CVMC 14).
Porta ogni giorno la croce del Signore
Se anche tu fossi
così sottile e sapiente
da possedere ogni scienza
e interpretare ogni lingua
e scrutare i segreti del cielo,
di tutto ciò non potresti gloriarti,
perché un dèmone, da solo,
seppe delle cose celesti,
e ora sa delle terrene,
più di tutti gli uomini.
E se anche tu fossi il più bello
e il più ricco tra tutti gli uomini
e facessi cose mirabili,
come mettere in fuga i dèmoni,
tutto ciò non ti appartiene,
e non puoi affatto gloriartene.
Solo delle nostre infermità,
di questo solo possiamo gloriarci,
portando ogni giorno
la santa croce del nostro Signore Gesù Cristo.
(San Francesco D’Assisi)
Quale atteggiamento davanti alla sofferenza e alla morte?
La croce non è solo un bell’oggetto artistico per decorare i salotti e i ristoranti di Friburgo, ma è anche il segno della trasformazione più radicale nel nostro modo di pensare, sentire e vivere. La morte di Gesù in croce ha cambiato tutto. Qual è la reazione umana più spontanea davanti alla sofferenza e alla morte?
Per conto mio, sarei portato istintivamente a impedire, evitare, negare, fuggire, star lontano e ignorare il soffrire e il morire. È una reazione che indica che queste due realtà non si accordano col nostro programma di vita. Per la maggior parte della gente, sono proprio questi i due nemici principali della vita. Ci sembra davvero ingiusto che esistano, e ci sentiamo obbligati a cercare in un modo o nell’altro di tenerli sotto controllo come meglio possiamo; se poi non ci riusciamo subito, vuol dire che ci sforzeremo di fare meglio un’altra volta.
Ci sono dei malati che capiscono ben poco la loro malattia, e spesso muoiono senza mai aver pensato sul serio alla morte. L’anno scorso un mio amico morì di cancro. Sei mesi prima di morire era già evidente che non gli restava molto da vivere. Gli facevano tante iniezioni, fleboclisi e cose del genere che si aveva l’impressione che lo si volesse tenere in vita a ogni costo. Non voglio dire che si facesse male a cercare di guarirlo: voglio dire piuttosto che s’impiegava tanto tempo a tenerlo in vita che non ne restava più per prepararlo alla morte.
Il risultato logico di questa situazione è che ci curiamo ben poco dei defunti. Non facciamo molto per ricordarli, cioè per associarli alla nostra vita interiore.
Ben diverso era l’atteggiamento di Gesù verso la sofferenza e la morte. Egli infatti guardava queste realtà bene in faccia e a occhi aperti. Anzi, la sua vita intera fu una consapevole preparazione alla morte. Gesù non esalta la sofferenza e la morte come cose che dobbiamo desiderare, ma ne parla come di cose che non dobbiamo rigettare, evitare o ignorare.
(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 26-29).
La domanda che ci interroga nel profondo: voi chi dite che io sia?
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (…).
Gesù interroga i suoi, quasi in un sondaggio d’opinione: La gente chi dice che io sia? E l’opinione della gente è bella e incompleta: Dicono che sei un profeta, uno dei più grandi! Ma Gesù non è semplicemente un profeta del passato che ritorna, fosse pure il più grande di tutti. Bisogna cercare ancora: Ma voi, chi dite che io sia?
Non chiede una definizione astratta, ma il coinvolgimento personale di ciascuno: “ma voi…”. Come dicesse: non voglio cose per sentito dire, ma una esperienza di vita: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? E qui ognuno è chiamato a dare la sua risposta. Ognuno dovrebbe chiudere tutti i libri e i catechismi, e aprire la vita.
Gesù insegnava con le domande, con esse educava alla fede, fin dalle sue prime parole: che cosa cercate? (Gv 1,38). Le domande, parole così umane, che aprono sentieri e non chiudono in recinti, parole di bambini, forse le nostre prime parole, sono la bocca assetata e affamata attraverso cui le nostre vite esprimono desideri, respirano, mangiano, baciano.
Ma voi chi dite che io sia? Gesù stimolava la mente delle persone per spingerle a camminare dentro di sé e a trasformare la loro vita. Era un maestro dell’esistenza, e voleva che i suoi fossero pensatori e poeti della vita. Pietro risponde: Tu sei il Cristo. E qui c’è il punto di svolta del racconto: ordinò loro di non parlare di lui ad alcuno. Perché ancora non hanno visto la cosa decisiva. Infatti: cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Volete sapere davvero qualcosa di me e di voi? Vi do un appuntamento: un uomo in croce. Prima ancora, l’appuntamento di Cristo sarà un altro: uno che si china a lavare i piedi ai suoi. Chi è il Cristo? Il mio “lavapiedi”. In ginocchio davanti a me. Le sue mani sui miei piedi. Davvero, come a Pietro, ci viene da dire: ma un messia non può fare così.
E Lui: sono come lo schiavo che ti aspetta, e al tuo ritorno ti lava i piedi. Ha ragione Paolo: il cristianesimo è scandalo e follia. Adesso capiamo chi è Gesù: è bacio a chi lo tradisce; non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il proprio sangue. E poi l’appuntamento di Pasqua. Quando ci cattura tutti dentro il suo risorgere, trascinandoci in alto.
Tu, cosa dici di me? Faccio anch’io la mia professione di fede, con le parole più belle che ho: tu sei stato l’affare migliore della mia vita. Sei per me quello che la primavera è per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone. Sei venuto e hai fatto risplendere la vita. Impossibile amarti e non tentare di assomigliarti, in te mutato / come seme in fiore. (G. Centore).
(Ermes Ronchi)
“E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”
È facilissimo dare a Gesù un’identità secondo i nostri desideri ed è anche facile giungere a dire chi lui è, ma è molto più difficile accettare che sia lui a spiegare e a dire la propria identità. Il brano evangelico di questa domenica vuole proprio interrogarci sulla nostra fede-adesione conoscitiva a Gesù. Ascoltiamolo dunque.
Gesù nel suo ministero, con la sua parola autorevole, con il suo comportamento e con le azioni di liberazione dal male che compiva, destava domande sulla sua identità: “Che è mai questo?” (Mc 1,27); “Chi è mai costui?” (Mc 4,41); “Da dove gli vengono queste cose? E che tipo di sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria?” (Mc 6,2-3).
Vi erano giudizi su di lui: veniva definito bestemmiatore (cf. Mc 2,7), “pazzo, fuori di sé” (Mc 3,21), posseduto dal demonio (cf. Mc 3,22). Vi erano, infine, anche urla di demoni che, scacciati da Gesù, gli gridavano: “Tu sei il Santo di Dio” (Mc 1,24), “il Figlio del Dio Altissimo” (Mc 5,7).
Sono dunque i demoni che sanno esprimere la vera identità di Gesù, con la loro conoscenza sovrumana, mentre gli uomini non sanno o sanno poco. Al massimo arrivano a pensare che sia un profeta mandato da Dio (cf. Mc 6,15), perché compie i segni di Elia e di Eliseo, perché parla come gli antichi profeti, con la loro franchezza e autorevolezza, dovuta al fatto che dice quello che pensa e che vive, senza ipocrisie e senza vantare autorità acquisite per qualità sacerdotale o professionale.
Queste si acquisivano per appartenenza a una discendenza o per aver frequentato una scuola rabbinica, come quelle di Gerusalemme o di Tiberiade. Ma Gesù non può vantare nulla di tutto ciò: dunque, chi è in verità?
Egli approfitta di un viaggio insieme alla sua comunità fuori della terra santa, in una regione sirofenicia e pagana, alle pendici dell’Hermon, presso le sorgenti del Giordano, per chiedere ai discepoli la loro opinione su di lui. È Gesù stesso a interrogarli, nei dintorni di Cesarea di Filippo (la città che porta il nome di Cesare, il potente dominatore di questo mondo!), innanzitutto chiedendo che cosa la gente dice di lui.
Essi lo sanno, perché quanti non osavano avvicinare Gesù potevano parlare con loro, manifestando opinioni sul loro rabbi. I discepoli, in risposta, riferiscono a Gesù l’opinione più diffusa: la gente pensa che egli sia un uomo autorevole, un profeta, così simile al Battista suo maestro ucciso da Erode (cf. Mc 6,17-29), al punto da pensare che quest’ultimo fosse risuscitato dai morti (cr. Mc 6,16); oppure lo paragonano a Elia, il profeta degli ultimi tempi. In ogni caso, è percepito come un profeta.
Gesù però non si ferma a questa prima domanda, e pone loro quella seria e decisiva: “E voi, ciascuno di voi, chi dite che io sia?”. Questa domanda esige che i discepoli si chiedano se anche loro seguono l’opinione comune, ciò che quasi tutti pensano, oppure se hanno un proprio pensiero. Certamente tra i discepoli gli stessi Dodici non la pensavano tutti allo stesso modo.
Per Marco è però importante la dichiarazione di Pietro, colui che tra i Dodici teneva il primo posto. È lui – e non a nome di tutti, o come portavoce, ma personalmente – a proclamare: “Tu sei il Cristo, il Messia!”. Pietro dice che Gesù è più di un profeta, è l’inviato di Dio, unto dal Signore per stabilire il regno di Dio. Quella di Pietro è una vera confessione di fede, nella sua espressione teologica, perché Gesù è veramente il Cristo, il Messia (come appare fin dal primo versetto del vangelo secondo Marco), e questo sarà il suo titolo più importante per i giudei, per Israele.
E tuttavia l’evangelista non mette in bocca a Gesù parole che confermino tale confessione, che dicano un “amen” un “sì” a Pietro (come invece in Mt 16,17-19). Nel vangelo più antico questa confessione è accolta da Gesù nel silenzio e con l’imposizione del silenzio, perché era vera, ma poteva essere insufficiente, dunque doveva essere messa alla prova.
Ed è ciò che puntualmente avviene subito dopo. Non appena Pietro ha confessato la sua fede di giudeo credente, in attesa del compimento della promessa di Dio, ecco che Gesù può iniziare un insegnamento nuovo rispetto a quello della tradizione. Per questo “incominciò” (érxato) a dire che egli, Messia sì, ma – come amava definirsi – Figlio dell’uomo, “doveva soffrire molte cose, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Ecco l’insegnamento nuovo e scandaloso, ma fatto apertamente da Gesù. E allora Pietro che, insieme agli altri Undici, stava dietro a lui (opíso autoû), secondo l’usanza dei discepoli nei confronti del loro rabbi, accelera il passo, gli si pone davanti, lo precede e lo rimprovera. Per Pietro è impossibile un Messia che non trionfi, che non sia vittorioso sui nemici, un Messia rigettato dalle autorità legittime della comunità dei credenti di Israele, un Messia che subisca una morte violenta. E poi, cosa significa questo rialzarsi il terzo giorno?
Gesù allora può solo rispondergli: “Passa dietro a me (opíso mou), alla mia sequela, al tuo posto di discepolo”, e lo definisce “Satana”, cioè oppositore, avversario: a Pietro viene dato il nome del demonio! È facile dire a Gesù che egli è il Cristo, il Messia, ma è impossibile accettare un “Messia al contrario”, un Messia sofferente sconfitto; si tratta davvero di un insegnamento nuovo, e Pietro non è pronto ad accoglierlo…
Mosè era morto “sulla bocca di Dio” (Dt 34,5), Elia era stato da Dio assunto in cielo (cf. 2Re 2,1-18), e invece proprio il Messia deve subire violenza, condanna, rifiuto? Non può essere, pensa Pietro… E invece è così – dice Gesù – e in effetti così è stato.
Un abisso separa il piano, la volontà di Dio dai pensieri degli umani (cf. Is 55,8-9), anche dai nostri, dai miei! In verità è tanto facile acclamare Gesù come Cristo, cantarlo e invocarlo; ma accettarne la fine ignominiosa, il fallimento della missione, è scandalo, inciampo, è quasi impossibile per le nostre attese religiose.
E poi, al pensiero che dietro a un tale Messia, maestro e profeta si è coinvolti nella sua vicenda, allora siamo presi da paura e preferiamo non credere, non conoscere la vera identità di Gesù. E così siamo cristiani non del Vangelo, ma del campanile; cristiani culturalmente, non perché seguiamo Gesù; cristiani pii e devoti, ma lontani dall’ombra della croce.
(Enzo Bianchi)
Rinnega se stesso chi ama se stesso
Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […]
«Rinneghi se stesso».
In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.
Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.
(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).
La segnaletica del Calvario
Sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agl’incroci, ce ne sono altre, più piccole, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a imboccare l’unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne indico tre.
La freccia dell’accoglienza. E una deviazione difficile, ma che porta diritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono, con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d’identità! Sì, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che abita di fronte a casa mia. Il cristianesimo è la religione dei nomi propri, dei volti concreti, del prossimo in carne e ossa con cui confrontarsi, non delle astrazioni volontaristiche.
La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana.
La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.
(Don Tonino Bello)
Canto alla croce
Ama la croce, luce e pace,
e per essa, ormai,
Cristo sia il tuo signore!
Tracciala su di te con la mano:
essa ti tiene e tu la tieni
con tutto il tuo essere.
Il cuore in croce, la croce nel cuore,
liberato da ogni bruttura,
calmo e sereno;
che ben forte la croce amatissima
dalle tue labbra sia proclamata:
lodata senza fine.
Nel riposo, nella fatica,
quando ridi e quando piangi,
conserva ben stretta
– quando vai, quando vieni,
nelle gioie, nei dolori –
la croce nel cuore!
(San Bonaventura)
Il dubbio, la verità e Cristo
Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiani e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.
(F. Dostoevskij)
Preghiera
Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia,
la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri.
Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te.
Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione.
Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.
Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita.
Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore.
Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta.
In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.
(L’imitazione di Cristo, III, 15).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Serrano
Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
I capitoli 34-35 costituiscono la cosiddetta «Piccola Apocalisse» del libro di Isaia. Composti probabilmente dopo l’esilio, contengono una serie di oracoli di giudizio contro i nemici d’Israele (34), contrapposti a oracoli di salvezza (35).
Un inno di gioia (35, 1-3) introduce l’oracolo di consolazione rivolto agli «smarriti di cuore»: l’intervento del Signore è insieme vendetta, ricompensa e salvezza. La giustizia si presenta con due facce, il castigo degli empi e la retribuzione dei giusti.
All’annuncio del v. 4 segue la descrizione del giorno della salvezza (vv. 5 e ss.), per mezzo delle immagini tradizionali che rappresentano i tempi messianici. Ciechi, sordi, zoppi e muti saranno sanati: le diverse situazioni di schiavitù, i diversi impedimenti che incatenano il popolo credente cadono come per incanto. Sono guarigioni reali e simboliche a un tempo: aprire gli occhi, schiudere gli orecchi significa anche dare la vera conoscenza spirituale e convertire i cuori all’ascolto della parola del Signore: saltare come cervi e gridare di gioia rappresenta la libertà e l’entusiasmo di confessare la fede.
La salvezza coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche la natura, il cui ritorno alla vita è rappresentato con le immagini dell’acqua che rigenera il deserto e feconda la terra. Il paese inaridito che simboleggiava il castigo divino (34, 10ss.) torna qui a fiorire: scaturiranno acque, torrenti nella steppa, la terra bruciata sarà una palude e il suolo riarso si animerà di sorgenti.
Seconda lettura: Giacomo 2,1-5
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
La lettera di Giacomo entra nel quotidiano della vita di comunità, con chiare indicazioni di comportamento.
Le conseguenze pratiche della fede sono estremamente chiare fin dall’inizio della lettera. Il secondo capitolo si apre con un’affermazione categorica: esiste una contraddizione insanabile tra la fede nel Signore Gesù e gli interessi personali, egoistici e transitori.
I tre versetti successivi (2-4) chiariscono l’affermazione con un esempio. La descrizione dell’uomo ricco e del povero accolti nell’assemblea con evidente disparità di trattamento è vivace e realistica, tanto da far pensare che già nella comunità delle origini esistessero questi problemi. L’interrogativo finale lascia alla coscienza della persona la decisione: ma l’accusa è forte e fa riflettere. Si tratta infatti non semplicemente di discriminare (diakrinô), ma addirittura di giudizi perversi (kritaì dialigismôn ponêrôn). Non è quindi solo una fede debole e incerta, ma una vera e propria ingiustizia nei confronti dei fratelli, qualcosa che ferisce profondamente la comunità. Potremmo dire, con linguaggio moderno, che i favoritismi dettati dall’attenzione al denaro e ai privilegi sociali non sono semplicemente un «peccato veniale».
Segue infatti un ragionamento stringato che ribadisce il pensiero dell’Apostolo. Il v. 5, che introduce l’argomentazione, è una domanda retorica che, nella linea del pensiero dei profeti d’Israele e dello stesso Paolo, ricorda la scelta preferenziale di Dio a favore dei poveri. I poveri agli occhi del mondo sono ricchi nella fede ed eredi del regno: i criteri umani sono quindi completamente capovolti dalla logica di Dio, e se preferenza deve esserci nella comunità cristiana, questa deve andare proprio a coloro che dal mondo sono emarginati e respinti.
Vangelo: Marco 7,31-37
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Esegesi
La guarigione del sordomuto, narrata solo in Marco, è localizzata in territorio pagano (la Decapoli), dove tuttavia sembra essere già giunta la fama di Gesù taumaturgo.
Il primo versetto (31) offre una precisa indicazione geografica, anche se non appare chiaro l’itinerario seguito da Gesù per giungere da Tiro e Sidone (sulla costa fenicia) fino alla Decapoli, a est del lago di Tiberiade.
Il v. 32 presenta la situazione, senza indugiare sui preamboli: la gente del posto chiede a Gesù di imporre le mani sul malato, credendo forse che la sua potenza passi come un fluido magnetico. Non è ancora fede, ma ingenua fiducia, forse mista a superstizione, nei confronti di un uomo che opera prodigi.
I tre versetti centrali (33-35) descrivono il miracolo, con alcune notazioni importanti che introducono il tema del «segreto messianico». Gesù prende in disparte l’uomo, lontano dalla folla, come a voler dissipare ogni fraintendimento propagandistico in quello che sta per fare; eppure indulge alla semplicità della gente e compie anche dei gesti concreti (le dita nelle orecchie, la saliva) che potrebbero farlo assomigliare ai maghi e taumaturghi del tempo. Il prodigio tuttavia non si compie direttamente in conseguenza dei gesti, ma appare piuttosto effetto dell’invocazione di Gesù e della sua parola, non a caso nel versetto centrale (34): egli alza gli occhi al cielo, rivolto palesemente a Dio, e dice in aramaico «Apriti!».
Il collegamento parola-evento è chiaramente sottolineato dall’avverbio «e subito». Il prodigio è espresso con verbi che adombrano anche un significato di conversione interiore: gli orecchi «si aprono», il cuore e la mente dell’uomo sono quindi aperti ad accogliere la Parola del Signore; la lingua «si scioglie», l’uomo è quindi liberato dai legami del male che lo tenevano prigioniero.
Viene poi la raccomandazione del segreto, caratteristica di Marco (v. 36): l’ora non è ancora giunta, e tuttavia la notizia del prodigio viene diffusa nonostante il divieto di Gesù. La reazione (v. 37) è di stupore, il miracolo risveglia qualcosa di più della superstizione che lo aveva preceduto. Queste persone credevano possibili guarigioni prodigiose, ma l’a-zione di Gesù li sorprende: ancora adesso non è fede, ma un passo ulteriore si è compiuto, ci si interroga su chi sia quest’uomo che fa udire i sordi e fa parlare i muti.
Meditazione
Il passo evangelico di questa domenica inizia con una breve introduzione di carattere geografico. Sono nominate le città di Tiro e Sidone, il territorio della Decàpoli: l’evangelista Marco ha cura di farci sapere che Gesù, dopo l’episodio della donna siro-fenicia (cfr. 7,24-30), rimane nella regione pagana del paese e quindi anche il personaggio che tra poco incontrerà è un pagano.
«Gli portarono un sordomuto…» (v. 32). Sulla scena compaiono all’improvviso alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nella sua dimensione comunicativa (è infatti «sordo» e «muto», cioè incapace di ascoltare e di parlare) per chiederne la guarigione. È da notare che il termine impiegato da Marco per connotare il mutismo di quest’uomo (in greco: mogilálon, «che parla a fatica, con difficoltà») si trova solo qui in tutto il NT e ricorre un’altra volta soltanto nell’AT, precisamente nel testo di Is 35,6 (vedi il brano proposto come prima lettura). Con ciò l’evangelista vuole invitare i suoi lettori a comprendere questo episodio come il compimento di una profezia, come uno dei segni messianici che Gesù realizza.
Subito, senza perdere tempo e senza troppi discorsi, Gesù mette in atto la sua ‘terapia’ (vv. 33-34). E per prima cosa «prende con sé» il sordomuto (il verbo evidenzia un tratto di delicata accoglienza da non trascurare, soprattutto nel difficile rapporto che a volte si instaura tra malato e guaritore) e lo porta «in disparte». Per un incontro vero e personale con Gesù è necessario separarsi dalla folla, allontanarsi dagli umori sempre ambigui e volubili di essa. Poi Gesù compie due gesti molto concreti (all’apparenza quasi rozzi e poco eleganti) che esprimono la volontà di stabilire un contatto con il malato – anche fisico, corporeo -, di stabilire una comunicazione che prende avvio proprio dagli organi malati: gli orecchi e la lingua. È un «toccare» che mira a riaprire i canali chiusi della comunicazione alla loro sorgente, là dove ogni suono e ogni voce entra nel corpo (gli orecchi) e là dove ogni parola prende forma per uscire verso l’esterno (la lingua). Gesù quindi prosegue levando gli occhi al cielo, in un gesto di preghiera, ed emettendo un sospiro, un «gemito», quasi a esprimere un appello, un’invocazione muta e silenziosa a quel Dio che può donargli la forza di vincere ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo. Un sospiro che dice la sua pena e, insieme, la sua partecipazione a una tale condizione umana. Da ultimo pronuncia un comando, forte e imperioso, che è la parola centrale e decisiva di tutto il racconto: «Effatà». È una parola in aramaico, come altre parole cruciali e decisive riportate da Marco nel suo vangelo. È curioso che qui Gesù parli al singolare: «Apriti!»: è anzitutto l’uomo come tale, nella sua totalità, che deve aprirsi, che deve lasciare che questa parola rompa, infranga, vinca la sua chiusura. Prima che essere rivolta alle sue orecchie, questa parola di Gesù è rivolta al suo cuore, al centro interiore dell’intera sua persona.
Ed ecco il risultato immediato di tutta questa opera di guarigione: «E subito gli si aprirono gli orecchi…» (v. 35). C’è un’«apertura», c’è uno «scioglimento», c’è un parlare ritrovato e «corretto», che manifestano l’efficacia della ‘cura’ di Gesù e diventano altresì contagiosi, tanto che i presenti non riescono a ubbidire al comando di Gesù, che ingiungeva loro il silenzio, ma «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano…» (v. 36). Con una bella immagine, il card. C.M. Martini nella sua lettera pastorale «Effatà, Apriti» così commenta: «La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea…». L’esclamazione conclusiva (v. 37), pronunciata al colmo dello stupore, rievoca la finale del racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Siamo dunque in presenza di un evento che dischiude di nuovo la realtà originaria, un evento in grado di ricreare quell’umanità così come Dio l’aveva voluta agli inizi della creazione.
S. Ambrogio, nella sua spiegazione al rito dell’Effatà che si celebrava durante la liturgia battesimale (reinserito ora nella celebrazione del Battesimo degli adulti), chiama questo episodio evangelico: «il mistero dell’apertura». In un contesto di iniziazione è fondamentale che qualcosa venga ‘aperto’ ed è nondimeno fondamentale la consapevolezza del bisogno di ‘lasciarsi aprire’. Tutto il vangelo di Marco è attraversato da questa ‘apertura’ (dai cieli che si aprono al battesimo di Gesù fino al velo del tempio che si squarcia «da cima a fondo» al momento della sua morte) e forse non è un caso che questo racconto di guarigione sia stato collocato a questo punto della narrazione evangelica: la sua valenza simbolica in ordine al cammino di sequela dei discepoli può essere illuminante. Ricordiamo che siamo nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc 6,30-8,21) in cui è più volte sottolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente, la loro durezza di cuore: di fronte a sempre nuove e più grandi rivelazioni di Gesù corrisponde da parte loro un’incomprensione sempre maggiore. I discepoli appaiono come ciechi e sordi, incapaci di vedere e udire la novità del vangelo. Ecco allora che la fatica impiegata da Gesù per guarire quel sordomuto (la molteplicità dei dettagli è indicativa di tutta la laboriosità e lo sforzo compiuto per risolvere il caso) diventa segno della fatica usata a guarire i discepoli dalla loro cecità e sordità spirituale (riguardo alla cecità, l’episodio del cieco di Betsàida, in 8,22-26, svolge una funzione analoga). Ma, nello stesso tempo, l’’apertura’ del sordomuto diventa anche segno della possibilità offerta a tutti (discepoli compresi!) di ottenere la guarigione, di ritrovare una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù. Ed è proprio questo il vero miracolo a cui tende tutto il vangelo…
Immagine della domenica
Campo di girasoli nei dintorni di Villa Adriana (Tivoli) – 2021
«Adoro i girasoli. Sanno sempre da che parte voltarsi».
Effatà
«A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento. Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. S. Ambrogio chiama questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.
1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in sé disperato (7, 31-32).
2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti. Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34). E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).
3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano”. La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”” (7, 35-37).
In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale. Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1. rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2. lasciarsi toccare e risanare da Gesù; 3. riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.
Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è comunicazione».
Vivere è percorrere la stessa avventura del sordomuto della Decapoli: ognuno è un uomo che non sa parlare, un uomo che non sa ascoltare. Un nodo in gola, un nodo in cuore. Penso alle mie sordità, al mio ascoltare senza partecipazione; penso alla mia lingua annodata, all’insignificanza dei miei messaggi e delle mie parole. E ne comprendo la causa. Non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall’ambito della famiglia o delle amicizie; o ascolto distrattamente, “a mezzo orecchio”, sperando solo che l’altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più acute, idee più importanti.
E la parola si fa dura e vuota. «Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore» (Bonhoeffer), come il fariseo nel tempio: «Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io…». In quante famiglie si parla tra sordi. E diventano culle di silenzio e di solitudini. Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.
Chi non sa ascoltare perderà la parola, perché parlerà senza toccare il cuore dell’altro.
Guariremo tutti dalla povertà delle parole solo quando ci sarà donato un cuore che ascolta. È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il segno intimo e vitale della saliva.
È ciò che continua a fare con me: mi tocca in ogni gioia e in ogni prova, i giorni vibrano della sua presenza, mi tocca in ogni fratello che mi viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta.
Mi tocca e mi restituisce il dono di ascoltare e di “parlare correttamente”, che non è l’eloquenza ma una nuova capacità di comunicare, di indovinare quelle parole che toccano il nervo della vita, bruciano le ipocrisie, hanno il gusto dell’amicizia. Gesù ripete anche a me: «Effatà, apriti! Esci dal tuo nodo di silenzi e di paure; apriti ad accogliere vite nella tua vita, spalanca le tue porte a Cristo».
Se rimani chiuso in te, non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare» (Pasolini) o che versa le sue lacrime nelle tue lacrime, ma solo distanza e solitudine.
«E comandò loro di non dirlo a nessuno».
Gesù aiuta senza condizioni. Per lui è più importante la gioia del sordomuto, che non la sua gratitudine; la felicità dell’uomo conta più della fedeltà.
Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, rapiti nel gorgo della loro felicità. Invece stanno fecondando in silenzio la storia con una nuova capacità di vere relazioni.
(Ermes Ronchi)
La tua Parola
La tua Parola, Signore, non l’hai scritta perché io la studiassi e la spiegassi. La tua Parola, Signore, mi è giunta perché l’amassi, perché mi sforzassi di calarla nel mio intimo, perché anch’io potessi diventare una tua parola.
(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 119).
«Apri la tua bocca»
Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la nostra lingua esprima la giustizia. La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore. Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste cose quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7). Parliamo dunque del Signore Gesù, perché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la parola di Dio.
Infatti è stato scritto anche questo: «Apri la tua bocca alla parola di Dio». Tu la apri, egli parla. Per questo Davide ha detto: «Ascolterò che cosa dice in me il Signore» (cfr. Sal 84,9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80,11). Ma non tutti possono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele. A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede. Se credi, hai lo spirito di sapienza.
Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6,7). Per casa possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi. Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare. Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come se dovessi giudicarti. Parla per strada, per non essere mai ozioso. Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via. In cammino parla a tè stesso, parla a Cristo.
Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato. Senti come Cristo ti sveglia. La tua anima dice: «Un rumore! È il mio diletto che bussa», e Cristo dice: «Aprimi sorella mia, mia amica» (Ct 5,2). Senti come tu devi svegliare Cristo. L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlio di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3,5). L’amore è Cristo.
(S. Ambrogio di Milano).
La guarigione del sordomuto e la nostra liberazione
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Il percorso tracciato da Marco è molto significativo: con una lunga deviazione Gesù sceglie un itinerario che congiunge città e territori estranei alla tradizione religiosa di Israele; percorre le frontiere della Galilea, alla ricerca di quella parte comune ad ogni uomo che viene prima di ogni frontiera, di ogni divisione politica, culturale, religiosa, razziale.
Scrivo queste parole dalla Mongolia, da una piccola, giovanissima chiesa ad Arvaheer, dove risuonano vere; dove, nella fede sorgiva delle origini, senti che Gesù è davvero l’uomo senza confini, che lui è il volto alto e puro dell’uomo, e che per il cristiano ogni terra straniera è patria.
Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, vita a metà, ma “portato” da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene da colui che è Parola e liberazione, che parla come nessuno mai, che è l’uomo più libero passato sulla terra. E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più di ciò che gli è chiesto, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare la umanità e l’eccedenza, la sovrabbondanza della risposta di Dio. Allora Gesù lo prese in disparte, lontano dalla folla. In disparte, perché ora conta solo quell’uomo colpito dalla vita. Immagino Gesù e il sordomuto occhi negli occhi, che iniziano a comunicare così. E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Secondo momento della comunicazione, il tocco delle dita, le mani parlano senza parole. Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti dò qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito. Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore. Gesù guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore, quasi soffiando l’alito della creazione: Apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole. Apriti dalle tue chiusure, libera la bellezza e le potenzialità che sono in te. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno. Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo), l’uomo tornato a pienezza di vita.
(Ermes Ronchi)
La liberazione dalla schiavitù babilonese è descritta da Isaia con immagini che parlano di vita ritrovata, di vita che sgorga là dove c’era morte: sorgenti d’acqua scaturiscono nel deserto; i ciechi riacquistano la vista, i muti ritrovano la capacità di parola; i sordi possono ascoltare. Marco riprende le immagini del testo isaiano per narrare la guarigione di un sordomuto ed esprimere così l’avvento di una liberazione ancor più radicale: la liberazione messianica. L’espressione tradotta in italiano con “sordomuto” (Mc 7,32) indica una persona sorda che si esprime a fatica, con difficoltà, balbuziente. Tanto che la sua guarigione è espressa dicendo che egli “parlava correttamente” (Mc 7,35). Incapace di ascoltare, egli non sa neppure esprimersi correttamente e perde la capacità comunicativa trovandosi in un isolamento doloroso. È l’incapacità di comunicare che affligge così gravemente quest’uomo privandolo della sua soggettività: egli è totalmente passivo. Condotto da altri a Gesù, è oggetto di gesti e parole da parte di Gesù finché viene liberato dai vincoli che lo imprigionavano impedendogli di comunicare. Ed è interessante e significativo che, per guarire dalla sua incomunicabilità e ritrovare la sua soggettività, egli debba essere separato dalla folla e portato in disparte: lì può essere restituito a se stesso e diventare soggetto della sua parola. Lì avviene l’incontro personale con Cristo.
Quest’uomo simbolizza la situazione per cui la “salvezza” è fondamentalmente esperienza di alterità, è apertura e affidamento a un altro, passa attraverso un altro. Così come investe la corporeità: il testo presenta un incontro in cui la fisicità è centrale. Gesù comunica soprattutto con il corpo: il testo parla di mani, dita e tatto, di ascolto e di orecchi, di lingua, saliva e parola, di occhi e di sguardo. Se il corpo è il nostro modo di essere al mondo e di comunicare con il mondo, Gesù deve svegliare la vita corporea di quest’uomo, deve ridestarne i sensi perché egli possa ritrovare il senso del vivere. Lo spirituale avviene sempre grazie alla mediazione del corporeo. La guarigione del sordo balbuziente, connessa alla guarigione del cieco di Betsaida (cf. Mc 8,22-26), che presenta elementi letterari e tematici molto simili, svela certamente una dimensione simbolica. Le due pericopi inquadrano episodi in cui Gesù si confronta con l’incomprensione e con l’inintelligenza dei suoi discepoli (cf. Mc 8,4.14-21) che “hanno orecchi e non ascoltano, hanno occhi e non vedono” (cf. Mc 8,18), con l’ostilità dei farisei (cf. Mc 8,11-13), mentre moltiplica contatti salvifici con pagani (cf. Mc 8,1-9; anche il nostro episodio si svolge in terra pagana). Insomma, la sordità che impedisce di parlare correttamente riguarda i discepoli e significa un non-ascolto della Parola che conduce a non annunciarla correttamente o a non confessare adeguatamente la fede (come Pietro in Mc 8,27-33). Solo un ascolto della Parola assiduo e profondo genera un annuncio autentico e efficace; solo una ecclesia audiens può essere ecclesia docens. Fuori di questo ascolto, di questa apertura vivificante e sanante alla Parola, l’annuncio della chiesa si riduce a balbettio o addirittura a sproposito.
In questo senso, il gesto terapeutico di Gesù di mettere le dita negli orecchi dell’uomo acquista una valenza spirituale nella linea delle espressioni bibliche che parlano di circoncidere gli orecchi (cf. Ger 6,10), forare gli orecchi (cf. Sal 40,7), ovvero aprire il canale attraverso cui la rivelazione raggiunge il cuore dell’uomo e gli consente di lodare Dio e di annunciare le sue azioni (cf. il rapporto tra “risveglio” degli orecchi e lingua ben istruita in Is 50,4).
Uno solo è guarito, ma l’acclamazione della folla universalizza il gesto di Gesù parlando di muti e sordi al plurale (cf. Mc 7,37). L’esperienza di Dio conosciuta da qualcuno una volta nella storia può essere confessata nella sua estensione universale e nella sua dimensione di eternità nell’azione di grazie, massimamente nella celebrazione liturgica (cf. il salmo 136).
(Luciano Manicardi)
Preghiera
Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio,
per l’amore che hai mostrato a noi
in Gesù Cristo nostro Signore.
In Lui, che ci ha amati sino alla fine,
noi siamo vincitori sul dolore,
l’angoscia, la persecuzione, la fame,
la miseria, e pericoli e la morte violenta.
Nel silenzio dell’abbandono e della solitudine
Tu elargisci le ricchezze della tua benedizione
e sfami la fame di compagnia con l’abbondanza della Tua Parola e del Tuo Corpo.
Ti rendiamo grazie,
perché Tu ascolti il silenzio dei nostri cuori,
Tu agisci in noi con la tua potenza,
ci guarisci dall’incomunicabilità,
sciogli la nostra lingua
e metti sulle nostre labbra il nome
di Gesù tuo Figlio.
Fa’ che possiamo testimoniarTi
come nostro unico Salvatore, sempre più uniti
in una sola fede e in un solo Battesimo.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi
Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo. Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
La prima lettura ci presenta Mosè che parla al popolo e lo esorta a mettere in pratica la legge del Signore: esortazione, che costituisce il tema fondamentale del Deuteronomio (Dt 4,l; cf. 5,1; 6,1; 8,1; 11. 8-9).
I versetti iniziali del capitolo quattro sono costruiti con termini e forme linguistiche tipiche dello stile deuteronomistico: «Ora, Israele (Shemá Israel); «Signore, Dio dei vostri padri»; «icomandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo». Questi versetti sono come un preludio musicale, nel quale vengono anticipati i motivi dell’intera composizione (cf. N. Lohfink, Ascolta Israele, Esegesi di testi del Deuteronomio, Paideia Brescia 1965, p. 106).
Mosè invita con insistenza il popolo a mettere in pratica gli ordinamenti che egli ha ricevuto da Dio ed insegna al popolo. La conseguenza della pratica dei comandamenti è la vita: Israele, attraverso l’obbedienza ai comandamenti è introdotto nella sfera della vita del Signore. La libertà piena sarà raggiunta nella terra «che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri e alla loro discendenza» (Dt 11,9; cf. Dt 8,1). Anche la vita libera e serena nella terra è legata all’obbedienza ai precetti. La disobbedienza può comportare la perdita della terra, come è il caso di Israele in esilio, quando il Deuteronomio viene scritto. Allora sorge una domanda angosciante; Israele che non ha più la terra, non ha più il tempio, può ancora distinguersi come popolo di fronte alle altre nazioni? I versetti 6-8 del capitolo 4, insieme con tutto il libro del Deuteronomio, rispondono: «Israele senza terra e senza tempio è ancora una nazione distinta dalle altre, perché la sua identità di popolo di Dio gli è data dalla Tôrà del Signore, che contiene ordinamenti più saggi e più giusti di tutti quelli degli altri popoli. Questa risposta del Deuteronomio sarà molto preziosa anche dopo la distruzione del secondo tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte dei romani. Intorno alla Tôrà si ricostituirà l’identità del popolo e la testimonianza al Dio unico, peculiare missione di Israele fra le genti, si esprimerà nella pratica dei precetti, l’osservanza dei precetti della Tôrà costituisce la saggezza e l’intelligenza di Israele «agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt 4,6).
Israele, oltre che per gli ordinamenti, si distingue per la particolare vicinanza a Dio. In ebraico c’è un gioco di parole fra «vicino» (qarob) e «invocare» (qarà).
Israele, in esilio, apparentemente abbandonato dal suo Dio, lo ha ancora così vicino, che lo ascolta ogni volta che lo invoca, la vicinanza di Dio non è per Israele legata a un luogo, ma all’ascolto della sua Parola, che deve essere messa in pratica sempre e dovunque. Dopo la colpa, c’è la possibilità del ritorno (teshuvà) «perché il Signore tuo Dio è un Dio mise-ricordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 4,31).
In questa luce si capisce l’entusiasmo del Deuteronomio e di altre pagine bibliche, in particolare i Salmi, per i decreti e gli ordinamenti della Tôrà, che costituisce il patrimonio prezioso di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende vicino a Dio in un modo del tutto peculiare.
Seconda lettura: Giacomo 1,17-18.21-22.27
Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature. Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi. Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
I quattro versetti del primo capitolo della lettera di Giacomo (17-18.21.27) che la liturgia ci fa leggere oggi fanno parte della pericope 1,17-27, che è un’esortazione ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio, perfettamente in linea con la prima lettura.
Giacomo si rivolge a discepoli di Gesù ebrei con un linguaggio a loro familiare. Dio è Padre della luce e Padre di coloro che «per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità» (Gc 1,18). I figli da lui scelti devono rispondergli con l’obbedienza, segno dell’accettazione dei suoi doni, che sono permanenti e perfetti, non caduchi come quelli degli uomini (Gc 1,17). Perfetta è la legge, che è il dono di Dio per eccellenza; essa è «la legge della libertà» (Gc 1,25).
La lettera di Giacomo, entrata nel canone allo stesso titolo delle lettere paoline, può aiutarci a mantenere un atteggiamento equilibrato nei confronti della Tôrà di Mosè, che gli ebrei religiosi del tempo di Gesù e dei secoli posteriori fino ad oggi hanno sempre cercato di mettere in pratica e di insegnare ai figli di generazione in generazione.
La presenza della lettera di Giacomo nel canone, ci ricorda che non possiamo farci una rivelazione su misura. La Bibbia presenta spesso pagine che sembrano a una prima lettura in contraddizione, non dobbiamo di fronte alle difficoltà scegliere una pagina, ignorando l’altra. Non possiamo parlare di grazia senza la legge; la legge (Tôrà) è il dono gratuito di Dio per eccellenza, come dice il Deuteronomio, il segno del patto di alleanza, che costituisce Israele nella realtà di popolo di Dio e lo fa vivere come tale. I cristiani, se provenienti dal giudaismo, come dovevano essere quelli a cui Giacomo scriveva, devono continuare a seguire la legge di Dio «perfetta e legge della libertà», come ha dato l’esempio Gesù stesso. Paolo stesso, nella lettera ai Romani dice: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati» (Rom 2,13). Anche i cristiani venuti dal paganesimo, non sono esonerati dal mettere in pratica la Parola di Dio, l’esempio di Gesù vale anche per loro. Resta la problematica dell’interpretazione e del modo di applicazione, che si fa acuto per i cristiani provenienti dal paganesimo, come ne costatiamo il riflesso nella pagina evangelica.
Vangelo: Marco 7,1-8.14-15.21-23
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Esegesi
La pericope evangelica Mc 7,1-23, di cui leggiamo oggi i versetti 1-8, 14-15.21-23 è costruita intorno alla problematica fondamentale di come distinguere il «comandamento di Dio», dal «precetti degli uomini». Non è messa in discussione la Tôrà (insegnamento, legge) data da Dio a Mosè sul Sinai, ma la sua interpretazione e le modalità della sua messa in pratica. Gesù si scaglia in maniera molto polemica contro «le tradizioni degli uomini», che possono far dimenticare le esigenze fondamentali dei precetti divini, non contro quest’ultimi, che invece devono essere eseguiti, come lui stesso da l’esempio.
I personaggi messi in scena dal brano sono nel primo quadro: i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli (vv. 1-13); nel secondo: Gesù e la folla, chiamata da lui (14-15.[16]); nel terzo: Gesù e i discepoli rientrati in casa (17-23).
La cornice è poco attendibile storicamente, è un pretesto per fissare l’attenzione sulle problematiche discusse. Farisei e scribi, infatti, arrivati addirittura da Gerusalemme, pongono a Gesù una domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,5) e poi scompaiono di scena, senza rispondere all’invettiva polemica di Gesù, nei loro confronti.
Dobbiamo rilevare che non è Gesù a commettere un’infrazione rituale (cf. Mc 2,23), ma solo i discepoli non seguono la regola, presentata come facente parte della «tradizione degli antichi» (Mc 7,3).
Il desiderio di purificazione, che si manifestava nei bagni rituali, nelle immersioni, aspersioni e abluzioni varie era diffuso nelle popolazioni antiche, non solo in Israele. Il Vangelo di Marco presenta la regola di lavarsi le mani prima di prendere cibo come comune sia ai farisei sia a tutti i giudei (Mc 7,1-3). Una affermazione, dice Piero Stefani nel suo commento al brano, che «appare difficilmente valida se situata all’epoca di Gesù. Il lavaggio delle mani (e dei piedi) si presenta, infatti, come esplicito precetto biblico solo nel caso del sacerdote che deve seguirlo prima di entrare nel luogo sacro per compiervi un’offerta (Es 30,17-21; cf. Dt 21,6-7), (ma nulla era richiesto, neppure al sacerdote, in relazione alla consumazione del cibo comune). All’epoca di Gesù, però, particolari gruppi di ebrei (detti chaverini), che si proponevano di realizzare la santificazione di ogni aspetto della vita, e che perciò tendevano a comportarsi nelle loro case come i sacerdoti nel tempio, adottarono la prassi di lavarsi ritualmente le mani prima di mangiare. È proprio quest’estensione della sacralità, tanto accentuata da farla in un certo senso coincidere con la profanità, indicò una delle vie che consentiranno all’ebraismo di proseguire la propria vicenda anche dopo la distruzione del secondo tempio. Tuttavia questi gruppi (di cui non è neppure universalmente condivisa l’identificazione con i farisei) rappresentavano solo una piccola minoranza della popolazione, non certo «tutti i giudei» (Mc 7,3). Solo dopo la distruzione del
tempio (in una data incerta, ma anteriore alla metà del II secolo), tale norma fu estesa a tutti e integrata nella codificazione della Mishná; in tal modo essa, secondo lo spirito proprio della tradizione ebraica, divenne, nonostante fosse stata promulgata dai maestri, tanto valida come se provenisse direttamente dal Signore, cosicché tuttora, quando si compie questa abluzione (detta notilat judalm), si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, o Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato il lavaggio delle mani». È però assai difficile ritenere che all’epoca di Gesù qualcuno potesse recitare una simile benedizione.
Sullo sfondo di queste precisazioni, risulta quanto meno strano che in Marco (ma non in Matteo 15,1-20) il discorso sulla purità prosegue fino a sfociare in una presa di posizione relativa alla stessa esistenza di cibi ritualmente puri (kasher). «Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non entra nel cuore, ma nel ventre e va fino alla fogna? Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,18-19). Non vi è dubbio infatti che le norme sulle purità del cibo non possono in alcun modo ritenersi «tradizioni degli uomini» (o degli antichi) (cf. Mt 15,2.2.6; Mc 7,8.9.13); al contrario, esse devono venir considerate solidamente fondate sulla Tôrà scritta (Pentateuco) (cf. Lv 11; Dt 14,3-20). Né vi è alcuna indicazione che Gesù e i suoi discepoli (almeno prima della pasqua) non si attenessero a questi precetti (stando a quanto pronunciato da Pietro nel libro degli Atti se ne dedurrebbe anzi il contrario, cf. At 10,14; 11,8). La disputa sui cibi divenne argomento di dibattito e tensione entro le comunità cristiane di origine pagana (cf. Gai 2,11-14; Rm 14,1-6), perciò si è ragionevolmente proposto di veder proiettati sulle pagine evangeliche i motivi propri di tali dispute.
Subito dopo la discussione sull’impurità, Marco afferma che Gesù «partito di là, andò nel territorio di Tiro e Sidone» (Mc 7,24; cf. Mt 15,21); espressione quest’ultima che nel suo indicare una terra pagana assume un significato non tanto geografico quanto teologico (cf. 1Re 17,8-16; Le 4,25-26). Nella grande sezione del libro degli Atti (10, 1- 11,18), le tre volte avvenuta e le due volte raccontata visione di Pietro indicano chiaramente che il non considerare più impuro nessun cibo, in quanto tutto è purificato, deve ritenersi come grande metafora del rapporto (profondamente mutato dalla vicenda pasquale) tra figli d’Israele e figli delle genti; tant’è vero che Pietro stesso riassume il senso della sua visione con queste parole: «Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano (koinos) e immondo (kathartos) (At 10,28). Ai nostri giorni perciò, quando le polemiche interne a quelle primitive comunità sono ormai lontane, è legittimo (o addirittura richiesto) sostenere che la possibile partecipazione universale, attraverso la fede in Cristo, alla discendenza di Abramo da parte dei figli delle genti (cf. Gal 4,29) non solo non esclude, ma anzi addirittura comporta che i figli di Israele, popolo sacerdotale (Es 19,6), la cui elezione non è stata tolta (Rom 11,29), continuino ad essere assoggettati a norme più rigide a motivo della propria e altrui santificazione.
Si è detto che il giudaismo, così come vissuto dai farisei (e/o dai chaverim), affrontava il problema della santificazione d’Israele (e santificare qui significa separare), e questo compito si distingue marcatamente dalla dinamica tipica della predicazione del regno e del buon annuncio di salvezza tipico di Gesù e degli apostoli. Per più aspetti tale affermazione
appare convincente, ma ciò non dovrebbe impedire di comprendere adeguatamente le regole insite in tale santificazione, che non coincidono affatto, come una superficiale lettura di qualche passo evangelico indurrebbe a credere (cf. Mt 15,1-20; 23,1-36; Mc 7,1-23; Lc 15,38-52), con un ipocrita tentativo di sostituire un’osservanza puramente esteriore all’ese-cuzione di più gravi e precisi precetti etici.
Per comprenderlo basterebbe tenere presente l’ovvia quanto dimenticata distinzione che «ritualmente impuro» non equivale affatto a «moralmente riprovevole». Non a caso la maggior parte delle regole bibliche sulla purità indicano la maniera di purificare un’impurità contratta in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come ad esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf. ad es. Lv 12,1-8; 15,1-27; Num 19,11-22; Lc 2,22). Una tipica espressione rabbinica per indicare la canonicità di un testo sacro è quella di sostenere che esso «rende impure le mani» (cf. m. Jadaim 3,5); tale espressione sarebbe da sola sufficiente ad indicare l’ambito in cui il giudaismo colloca la sfera dell’impurità o della purità, sfera che ha a che fare non con l’eticità (e ancor meno con l’igiene), bensì con una santificazione della vita compiuta secondo una procedura che non dovrebbe venir schernita, non foss’altro a motivo della millenaria fedeltà con cui è stata osservata da Israele» (P. STEFANI, Sia santificato il tuo nome. Commenti ai Vangeli della domenica. Anno B, Marietti Genova 1987, p. 163-166).
Se è dall’interno di noi che hanno inizio gli impulsi malvagi o quelli buoni, nel nostro stato di creature corporee abbiamo bisogno anche di segni esterni; proprio il gesto del lavaggio rituale delle dita, con la recita di un versetto di un salmo («Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato». Sal 51,4) è il gesto che il sacerdote compie nel rito della
messa subito dopo la preparazione delle offerte, prima di iniziare la grande preghiera eucaristica.
Meditazione
Spesso, nei racconti evangelici, ci imbattiamo in lunghe ed aspre polemiche che vedono a confronto Gesù, il suo comportamento e la sua parola, con l’élite più rappresentativa e impegnata della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi. Questi, alcune volte contestano a Gesù o ai suoi discepoli un comportamento non conforme alle pratiche religiose comunemente e tradizionalmente accolte nel mondo giudaico; altre volte, invece lo interrogano su questo o quell’aspetto della Scrittura per sapere ciò che realmente pensa. In ogni caso questi incontri producono sempre tensione, scontro e si rimane stupiti dalla durezza con cui spesso Gesù reagisce di fronte a quel mondo spirituale e giuridico di cui i farisei erano rappresentanti. Soprattutto ciò che sembra irritare maggiormente Gesù non è tanto l’interpretazione della Scrittura che caratterizzava la visione religiosa di questi uomini, quanto piuttosto la loro sfacciata incoerenza che nascondeva, sotto una apparenza di perfezione, una autosufficienza idolatrica, quella radicale doppiezza di vita che si concentra nel titolo con cui spesso i farisei sono chiamati: ipocriti.
È il caso della situazione presentata nel capitolo 7 di Marco il brano proposto in questa domenica (anche se la liturgia presenta solo una scelta di versetti per dare maggiore unita-rietà al contenuto). «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (v. 5). L’interrogativo stupito e irritato che gli scribi e i farisei pongono a Gesù è dunque motivato da un comportamento ‘spavaldo’ dei discepoli, i quali sembrano non tener in nessun conto le prescrizioni della legge. Il rap-porto tra Scrittura e Tradizione/tradizioni (vv. 6-13) e la relazione tra puro e impuro (vv. 14-23) che caratterizzano il dibattito che segue a questa domanda, mettono a fuoco un aspetto fondamentale. Ciò che è in questione in questa polemica, non sono tanto delle pratiche religiose, la loro validità o meno. Al centro c’è la relazione con Dio, la scoperta del luogo profondo e vero in cui questa relazione prende forma e da qualità a tutta la vita.
Ma, proprio a partire da questo testo di Marco, ci si può domandare: erano realmente così i farisei? Citando il testo di Isaia 29,13, Gesù si rivolge ai farisei in questi termini: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti… Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (v. 6). L’ipocrisia è una prerogativa dei farisei oppure è qualcosa che si nasconde nel cuore dell’uomo? E perché, in ogni caso, l’ipocrisia poteva essere un rischio di questa categoria dei persone? Farisei e scribi di fatto rappresentavano la parte religiosamente più impegnata di Israele, seriamente preoccupata di tradurre nella vita concreta quel rapporto con Dio, quella saggezza che sgorgava dalla parola e che caratterizzava l’unicità del popolo dell’Alleanza.
La responsabilità personale, l’interiorità della decisione morale, il profondo senso della santità e dell’alterità di Dio, la consapevolezza del dono ricevuto nella Legge orientavano questi uomini nella ricerca di una sincera e radicale fedeltà alla volontà di Dio. Ma correvano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata. È il rischio che porta a una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attraverso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri. La gratuità di una relazione, lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà. Gesù smaschera questo pericolo mettendo a confronto ciò che l’uomo cerca (in questo caso ciò che i farisei difendono) e ciò che Dio desidera dall’uomo.
E c’è un primo confronto che colpisce. Il testo del Deuteronomio mette in bocca a Mosè queste parole: «…quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). Colui che è il Santo, la cui trascendenza sembra rendere la creatura molto lontana da un incontro, è il Dio vicino, sempre disponibile quando lo si invoca, è il Dio che ha deciso di fare storia con l’uomo, di camminare con lui. Pur restando irriducibile alla creatura, si lascia trovare ogni giorno e la sua vicinanza si trasforma in fedeltà all’uomo e alla sua storia. Dio non è lontano; è l’uomo che spesso cammina per altre vie e colloca il suo cuore in luoghi diversi da quelli in cui può scoprire il volto di Dio.
E Gesù ricorda la parola di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6). Ecco il pericolo: la pretesa di accostarsi a Dio, rimanendo tuttavia estranei a Lui, lontani. E questo avviene quando il cuore della vita non aderisce veramente a Dio e alla sua parola, anche se si pretende di rendere un culto che è, alla fine, pura apparenza.
Ma c’è un luogo in cui questa vicinanza si fa presenza efficace, parlante: è la Parola stessa di Dio contenuta nella Scrittura. Ancora Mosè ricorda al popolo di Israele: «Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica, perché viviate… quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza» (Dt 4,1.6). A Israele, il Signore chiede di ricambiare la fedeltà di cui Egli ha dato prova lungo il cammino di liberazione attra-verso il deserto, con l’obbedienza e l’ascolto di una Parola di vita e di saggezza. Ed ecco allora un altro contrasto: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini… Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13). L’uomo ha bisogno di attualizzare una obbedienza alla parola di Dio: è la legge della Incarnazione. Ma deve sempre tenere presente questo: che la parola di Dio resta continuamente aperta, anzi è la porta per un incontro vivo e personale con il Signore. Non basta osservare un precetto, se poi non si incontra veramente il volto del Signore. E questo avviene quando si va al cuore della Parola, al luogo dove si rivela ciò che Dio vuole da noi. E su questo punto Gesù è molto chiaro: il rischio che si incontra nell’assolutizzare un modo concreto di tradurre la Parola, è quello di non riuscire più ad andare al cuore di essa.
Come il cuore della Parola ci rivela la volontà di Dio, ce lo fa incontrare, così è il cuore dell’uomo il luogo che deve essere custodito nella verità e nella purezza. Ecco il terzo contrasto che Gesù ci presenta. L’impurità che ci impedisce di accostarci a Dio o la purezza che ci permette di entrare nel luogo dove abita, non sono da ricercare fuori dell’uomo. E se c’è un comportamento esterno che ostacola il nostro rapporto con Dio o con i fratelli, in ogni caso il punto di partenza è sempre nel cuore dell’uomo: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male…»(v. 21). Il cuore dell’uomo non purificato è il covo di vizi che causano la rovina (cfr. Lc 6,45). E Gesù ci offre anche un elenco di ‘propositi di male’ (dialogismoi kakoi): dodici vizi, sei al plurale e sei al singolare che manifestano lo stato negativo del cuore attraverso un errato rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, con gli altri. L’ultimo vizio, la stoltezza, e la sintesi di un cuore intaccato dalla impurità e la fonte di ogni altro vizio: lo stolto è l’uomo che «non conosce Dio», l’uomo che dimentica e disprezza Dio, l’uomo lontano da Dio. «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (v. 20): non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio in chissà quale luogo perfetto e irreale; ci si deve purificare dal peccato che portiamo dentro di noi. È il cuore malvagio che ci rende incapaci di avvicinarci a Dio; ciò che unisce ed avvicina a Dio è il cuore nuovo, il cuore puro che Dio stesso crea nell’uomo, in tutti, peccatori e giusti, giudei e pagani. I farisei si accontentavano di prendere il pane con mani lavate; Gesù ci dice che per ‘afferrare’ il pane non servono mani pure, ma il cuore ‘secondo il Signore’. Il pane, il cibo, sono i simboli della vita, il simbolo della parola che è vita e che Gesù stesso ci dona. Per ricevere da lui questo pane di vita si deve avere un cuore nella verità, un cuore che ama, un cuore buono, che desidera la vita. Subito dopo questa disputa, Marco colloca l’episodio della donna siro-fenicia (Mc 7,24-30). A questa donna, pagana e perciò impura, Gesù dirà: «Non è bene prendere il pane di figli e gettarlo ai cagnolini» (v. 27). Così risponderà la donna: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». La consapevolezza umile di una lontananza da Dio rende il cuore di quella donna puro e lo avvicina a Dio: può sedersi alla mensa ed afferrare il pane che vi è posto sopra, il pane del Figlio.
L’immagine della domenica
Il Cristo delle Nevi (Frontignano di Ussita (MC) – 2021
«Salite su una collina al tramonto. Tutti hanno bisogno, ogni tanto, di una prospettiva, e lì la troverete».
( Rob Sagendorph)
Preghiere e racconti
Questo popolo mi onora con le labbra
Fratelli, siamo umili, deponendo ogni vanagloria, vanità, stoltezza, ira e adempiamo ciò che sta scritto; lo Spirito santo dice, infatti: «Il saggio non si vanti della sua saggezza, né il forte della sua forza, né il ricco della sua ricchezza, ma chi si vanta si vanti nel Signore, di cercarlo e di praticare il diritto e la giustizia» (cfr. Ger 9,22-23; 1Re 2,10; 1Cor 1,31; 2Cor 10,17). Ricordiamoci soprattutto delle parole del Signore Gesù, quando ci insegnava la benevolenza e la grandezza d’animo. Così diceva: «Siate misericordiosi per ottenere misericordia; perdonate per essere perdonati, come farete, così sarà fatto a voi; come date, così sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata con voi; la misura con la quale misurate, verrà usata con voi» (cfr. Mt 6,14-15; 7,1-2; Lc 6,31.36-38).
Attacchiamoci saldamente a questo comandamento e a questi precetti per procedere umili e obbedienti nelle sue sante parole; dice infatti la sua santa Parola: «A chi rivolgerò lo sguardo, se non al mite, al pacifico e che teme le mie parole?» (Is 66,2).
Uniamoci, dunque, a quelli che vivono la pace nella fede, non a quelli che fingono di volerla con ipocrisia. Dice infatti: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; Mc 7,6). E ancora: «Con la loro bocca benedicono, con il loro cuore maledicono» (Sal 61 [62] ,5). E ancora: «Lo amavano con la bocca e con la lingua gli mentivano, il loro cuore non era retto con lui, né rimanevano fedeli alla sua alleanza» (Sal 77 [78] , 36-37). […] Cristo appartiene agli umili e non a quelli che si elevano sopra il suo gregge. Lo scettro della maestà di Dio, il Signore Gesù Cristo, non è venuto nella vanagloria e nell’orgoglio, anche se avrebbe potuto, ma nell’umiltà, come lo Spirito santo aveva detto di lui. Sta scritto infatti: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il braccio del Signore a chi fu rivelato? Noi l’abbiamo annunciato in sua presenza: è come un bambino, come una radice in terra arida; non ha apparenza, né gloria» (Is 53,1-2). Vedete, carissimi, quale modello ci è dato!
(CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinti 13.15-16, SC 167, pp. 120-126).
L’umiltà
«Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l’abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).
«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra abiezione, ma nell’amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).
Verità e umiltà
Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce all’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.
Per tanti anni, per troppi anni, mi sono battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza. Il più sovente l’ho nascosta, preferendo apparire in pubblico con una bella maschera di sicurezza. E’ l’orgoglio che non vuole accettare l’impotenza, è la superbia che non fa accettare di essere piccolo; e Dio, poco alla volta, me l’ha fatto capire.
Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.
E’ un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il catechismo, avrei guadagnato quarant’anni. Ora l’impotenza mia la metto tutta in faccia all’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza. E mi pare essere giunto il momento d’un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare insieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito. Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.
E in questo incontro fra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.
E’ lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.
E’, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.
E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’ è verità, e senza verità non c’ è umiltà.
(Carlo Carretto)
Quel rischio di una fede dal «cuore lontano» piegata all’esteriorità
Si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate (…), quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me (…)”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «(…) Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro (…)». E diceva ai suoi discepoli: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male (…)».
Gesù viveva le situazioni di frontiera della vita, incontrava le persone là dov’erano e attraversava con loro i territori della malattia e della sofferenza: dove giungeva, in villaggi o città o campagne, gli portavano i malati e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccavano venivano salvati (Mc 6,56). Da qui veniva Gesù, portando negli occhi il dolore dei corpi e delle anime, e insieme l’esultanza incontenibile dei guariti. Ora farisei e scribi lo provocano su delle piccolezze: mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti! Si capisce come la replica di Gesù sia decisa e insieme piena di sofferenza: Ipocriti! Voi avete il cuore lontano! Lontano da Dio e dall’uomo.
Il grande pericolo, per i credenti di ogni tempo, è di vivere una religione dal «cuore lontano», fatta di pratiche esteriori, di formule recitate solo con le labbra; di compiacersi dell’incenso, della musica, della bellezza delle liturgie, ma non soccorrere gli orfani e le vedove (Giacomo 1,27, II lettura). Il pericolo del cuore di pietra, indurito, del «cuore lontano» da Dio e dai poveri è quello che Gesù più teme.
«Il vero peccato per Gesù è innanzitutto il rifiuto di partecipare al dolore dell’altro» (J. B. Metz), e l’ipocrisia di un rapporto solo esteriore con Dio. Lui propone il ritorno al cuore, per una religione dell’interiorità. Non c’è nulla fuori dall’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, sono invece le cose che escono dal cuore dell’uomo… Gesù scardina ogni pregiudizio circa il puro e l’impuro, quei pregiudizi così duri a morire. Ogni cosa è pura: il cielo, la terra, ogni cibo, il corpo dell’uomo e della donna. Come è scritto: «Dio vide e tutto era cosa buona». Gesù benedice di nuovo le cose, compresa la sessualità umana, che noi associamo subito al concetto di purezza e impurità, e attribuisce al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.
Il messaggio festoso di Gesù, così attuale, è che il mondo è buono, che le cose tutte sono buone, che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che devi custodire invece con ogni cura il tuo cuore perché è la fonte della vita. Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale, che lui chiama «tradizione di uomini». Libero e nuovo ritorni il Vangelo, liberante e rinnovatore. Che respiro di libertà con Gesù! Apri il Vangelo ed è come una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, ovvii discorsi. Scorri il Vangelo e ti sfiora il tocco di una perenne freschezza, un vento creatore che ti rigenera, perché sei arrivato, sei ritornato al cuore felice della vita.
(Ermes Ronchi)
Dove risiede il male che l’uomo compie e che lo rende ai suoi occhi e a quelli altrui panno immondo: in lui o al di fuori di lui? A questo interrogativo che da sempre assilla la mente umana offre spiragli di luce la pagina evangelica, una controversia tra alcuni farisei, scribi e Gesù a proposito delle leggi di purità rituale (Mc 7,1-13).
Diatribe usuali tra le varie scuole rabbiniche dedite a consumare il tempo in dissertazioni, disputando e dando avvio a casistiche mai concluse. Il caso in questione nasce da una osservazione sfociata in una domanda da parte di farisei e alcuni scribi: «Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate… interrogarono Gesù: Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,2.5). Ove per «tradizione degli antichi» si intende la legislazione orale fatta risalire a Mosè stesso e aggiunta alla Legge scritta, mentre l’espressione «mani impure» rimanda al sistema del puro e dell’impuro dotato di una sua ritualità e attento a separare l’uno dall’altro come il bene dal male e il male dal bene. Così è male e fonte di contaminazione, quindi impuro, il toccare un lebbroso, il mangiare certe carni, il prendere cibo con le mani sudicie e su stoviglie non lavate. Male perché contraddice usanze in ultima istanza fatte risalire a Dio per il bene dell’uomo. E bene, quindi puro, sono la cura alimentare e igienica.
2. Gesù non si nega a una risposta a più riprese: a scribi e farisei (Mc 7,6-13), alla folla (Mc 7,14-15) e in privato ai discepoli (Mc 7,17-23). Ai primi, dopo averne sottolineata l’ipocrisia di obbedienti a Dio a parole e di distanti da Dio con il cuore (Is 29,13), tipico di una religiosità ridotta a formalismo rituale, ricorda l’urgenza di mai dimenticare la distinzione tra «parola di Dio» (Mc 7,13) e «dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,7.13). Opera a cui Gesù si è interamente dedicato rimandando al perno attorno a cui tutto ruota, la parola divina dell’amore in mitezza e umiltà di cuore. Questo il suo dolce giogo e il suo peso leggero che libera l’uomo da dottrine e prassi imposte in nome di Dio ma in realtà pura invenzione umana (Mt 11,18-20). E’ da Dio ogni volontà di bene solidale con il diritto del bisognoso (Mc 7,10-13), questo rende puro l’uomo; non è da Dio ogni dottrina che in suo nome attenta al primato della cura del povero mondo, sia pure per ragioni di culto quando non di bottega: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (Gc 1,27). Questo dice Gesù a farisei e scribi di ogni religione e Chiesa, e questo dice rivolto alla folla: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro» (Mc 7,14-15). Discorso ripreso e approfondito con i suoi discepoli: «Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male…cose cattive che rendono impuro l’uomo» (Mc 7,21.23).
L’insegnamento è chiaro. Il porsi di una vita in termini di bene, pura quindi, in definitiva non dipende da ciò che è «esterno» all’uomo. Si tratti di cibi: «Così rendeva puri tutti gli alimenti» (Mc 7,19) dichiarando che tutto è dono di cui ringraziare, da usarsi con misura e da condividere. Si tratti di preoccupazioni igieniche, il Vangelo sa bene che dietro un vestire lussuoso, nitori in ogni angolo della casa e corpi profumati possono nascondersi lupi rapaci, sepolcri imbiancati e cadaveri ambulanti. Belli fuori e sporchi dentro. Si tratti infine di identificare la fonte del male solo fuori di sé, l’altro da te singolo o gruppo. «Ma il Gesù di Marco non condivide questa illusione: l’interiorità dell’uomo è preda del male. Paolo direbbe: Giudei e greci, tutti sono sotto il dominio del peccato (Rm 3,9). Solo dall’esterno dell’uomo, cioè dalla parola autorevole di Gesù, può venire la liberazione» (E. Cuvillier).
3. L’invito è a scendere nel proprio cuore per apprendere chi e che cosa lo abita, pensieri impuri resi palesi dal corpo che rendono contaminato l’intero esistere dell’uomo, distorta la sua relazione con il cibo (gola), con la sessualità (lussuria), con l’avere (avarizia), con il tempo e lo spazio (accidia o nausea), con il prossimo (ira, gelosia e invidia) e con Dio (superbia e orgoglio). Questa è la realtà interiore dell’uomo, una diagnosi disincantata e un disoccultamento delle sue oscure profondità a cui è terapia la parola illuminatrice e sanatrice di Colui che vuole nascere in noi per farci nascere alla nostra verità di uomini, creature nelle quali pulsi un cuore di carne che adora Dio e che si prende cura del prossimo nel retto uso della propria corporeità, dei propri beni e del proprio tempo. Ove la stessa igiene e la stessa attenzione ai cibi divengono atti di amore del prossimo graditi a Dio.
(Giancarlo Bruni)
Preghiera
Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia. Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito perseguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli. Permettici di riconoscere le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’autenticità della nostra relazione con te e fra di noi.
Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi. Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare. Ci impegniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.
Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di diventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
—
– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Montecchi
È l’estate del cristiano il tema al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste, podcast dedicato a cosa crede chi crede. Cosa fare per evitare di mandare in ferie, cioè di dimenticare, la fede.
L’estate è, per eccellenza un tempo che chiama al riposo, allo svago, in cui, chi ha la possibilità, si concede qualche giorno al mare o in montagna. Ma il cristiano come deve vivere le vacanze? Molti, infatti, sottolineano il rischio che d’estate si mandi in ferie anche la fede, dimenticando per esempio la preghiera e la partecipazione alla Messa. Il tema è al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste che si interroga su come conciliare Vangelo e tempo libero, visto che la parola vacanza nelle Scritture non c’è. Insomma, il credente è chiamato a vivere in modo particolare il periodo estivo? Deve organizzarsi in modo diverso dagli altri? Tra gli spunti di riflessione, il decalogo preparato dai vescovi francesi sulle vacanze cristiane, le parole dei Papi, il testamento spirituale di padre Jacques Hamel, parroco transalpino ucciso da due terroristi islamici.
Taccuino celeste è il podcast di Avvenire dedicato ai temi della fede e della religione, a cosa crede chi crede. Nelle ultime settimane si è occupato, tra l’altro, di Purgatorio (esiste davvero?), delle false dicerie su Maria Maddalena, di cosa sono gli scismi e le eresie, di quando dovrebbe durare un’omelia, del culto delle reliquie. Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Ps: Taccuino celeste si ferma un attimo per la pausa estiva. Tornerà con un nuovo episodio l’11 settembre.
In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”». La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».
Dopo l’epica trionfale del passaggio del mar Rosso, celebrata nel c. 15 dal canto dei figli d’Israele, i lunghi anni di peregrinazioni nel deserto vedono i ripensamenti, le mormorazioni, le ribellioni del popolo, e la paziente cura con cui Dio lo assiste. È una lunga pedagogia attraverso la quale il popolo dovrà imparare che solo da Dio viene la salvezza e la vita.
È il tema della «tentazione» e della «prova»: il popolo «tenta» Dio con le sue accuse, perché non si fida; Dio «mette alla prova» il popolo per temprarlo a dargli forza.
Nel racconto prevale la redazione dovuta alla fonte sacerdotale (P), la più recente, che con uno stile più involuto e barocco insiste sugli aspetti anche rituali della vita della comunità, presenta Aronne accanto a Mosè, richiama la legge del sabato (anche se non è stato ancora consegnato il decalogo).
1. NOTE ESEGETICHE
vv. 2-4 — A Mara l’intervento del Signore ha reso dolce e potabile l’acqua; nel deserto di Sin gli Israeliti patiscono la fame. Tutta la comunità si lamenta: singolare questa sottolineatura di una unanimità nella ribellione. È più facile compattare il popolo nella sterile protesta, che far nascere una comunione di spiriti concorde nella sequela del Signore.
Termine della protesta non è il Signore, ma i suoi portavoce: Mosè e Aronne. La libertà costa cara, è un dono che va anche guadagnato passo dopo passo nella lunga traversata del deserto: il popolo non regge al peso.
Il ricordo della schiavitù si sbiadisce e cede il posto al ricordo del cibo assicurato.
Il Signore parla a Mosè, prima ancora che questi abbia potuto trasmettergli le lamentele del popolo: previene l’intercessione, che pure è un compito che Mosè assolve di frequente a favore del popolo (cf. 14,13-15).
Il Signore farà piovere il pane dal cielo: è la gratuità assoluta del dono, intervento miracoloso dall’alto; ma il popolo dovrà ogni giorno — con l’eccezione del sabato — «uscire» e «raccogliere» la razione quotidiana.
È richiesta quindi anche una attività, per così dire, di cooperazione al dono divino.
Uscire (jatsa’) è il verbo usato per l’uscita, cioè la liberazione, dall’Egitto: il popolo, materialmente già liberato con il passaggio del mare, deve ora liberarsi spiritualmente, smettere di rimpiangere la terra di schiavitù e accogliere consapevolmente e responsabilmente la difficile condizione di libertà.
Raccogliere (laqat) è il lavoro del contadino, ma anche la spigolatura (cf. Rut): lavoro sì quindi, ma reso possibile da un’offerta e da una disponibilità gratuita, accolto con umiltà.
La razione del giorno allontana ogni tentazione di accumulo e di possesso; il termine è diverso (la LXX traduce tò tès emèras, e non epioùsios), eppure forte è la valenza evocativa del «pane quotidiano» del Padre nostro.
Il dono è anche una prova (nasah) per verificare l’osservanza della Legge da parte del popolo. Dio non «mette alla prova» mandando chi sa quali sventure, ma donando il necessario per vivere: accettare la vita come dono di Dio è un atto di fede non sempre così scontato.
v. 12 — Ed ecco ancora ripetute le parole del Signore che preannunciano il duplice prodigio: la carne al tramonto e il pane al mattino, con il consueto ritornello: così il popolo saprà che il Signore è il suo Dio.
vv. 13-15 — Viene descritta ora la realizzazione del prodigio. Come avviene per il passaggio del mare, si tratta di fenomeni naturali (i forti venti che provocano le secche nel «mare dei giunchi», il passaggio periodico degli uccelli migratori, la resina che si forma sulle tamerici del deserto), che assumono tuttavia la forma del miracolo per l’eccezionalità con cui si verificano e la corrispondenza alla parola del Signore. L’apparire della manna al mattino è descritto con stupore sacrale: qualcosa di granuloso, fine come la brina, che gli Israeliti non avevano mai visto. E questo stupore rimane nel nome: la domanda «cos’è?» (man hu) è un’etimologia popolare della parola «manna». Mosè dà la risposta giusta, det-tata dalla fede e non dalla botanica: è il pane che il Signore ha promesso e dato, è il «pane dal cielo» di cui Gesù darà una nuova lettura nel cap. 6 del vangelo di Giovanni.
Seconda lettura: Efesini 4,17.20-24
Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri. Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.
Vicina per tema e per stile alla lettera ai Colossesi, quella agli Efesini è stata paragonata alle variazioni infinite e alle concatenazioni di un’opera musicale barocca. Piuttosto che una lettera ai cristiani di Efeso, è probabilmente una circolare diretta alle assemblee della Frigia. Indicata fra le «lettere della prigionia», potrebbe risalire agli anni 65/70, per mano di uno dei discepoli di Paolo, forse dopo la scomparsa dell’Apostolo.
1. NOTE ESEGETICHE
Il capitolo 4 apre la parte parenetica della lettera.
v. 17 — Dopo aver fortemente richiamato la centralità di Cristo, il capo da cui tutto il corpo ecclesiale trae linfa vitale «in modo da edificare se stesso nella carità» (v. 16), l’esortazione si fa più precisa. Essa poggia su una serie di opposizioni fra ieri e oggi, fra i pagani e coloro che hanno «imparato a conoscere il Cristo», fra l’umanità antica e quella nuova.
L’autore prende le distanze dallo «ieri» dei pagani per esortare alla scelta di un comportamento «nuovo».
vv. 20-21 — «Avete imparato a conoscere il Cristo» significa lasciarsi istruire da lui a vivere secondo l’abito nuovo, quello del battesimo. Emàthete (avete imparato) è la stessa radice di mathetès (discepolo).
vv. 22-24 — L’uomo vecchio, che si corrompe seguendo illusorie chimere, deve essere abbandonato: nel battesimo siamo «sepolti» con Cristo (Rm 6,4). L’uomo nuovo, che corrisponde al disegno della creazione, esige un rinnovamento della mentalità: una metanoia, una conversione. «Rivestire Cristo» e «nuova creatura» sono temi ricorrenti nell’epistolario paolino (cf. Ef 2,15; Rm 13,14; 2Cor 5,17; Col 3,10).
Vangelo: Giovanni 6,24-35
In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Esegesi
Il capitolo 6 del vangelo di Giovanni è dedicato alla moltiplicazione dei pani e al lungo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, in cui egli si identifica nel «pane disceso dal cielo». La tradizione dottrinale e liturgica della Chiesa ha da sempre applicato questo discorso al mistero dell’eucarestia.
Compiuto il miracolo, Gesù sfugge alla folla che vorrebbe farlo re e si ritira solo sul monte: non è un messianismo trionfalistico il suo, ed è necessaria una lunga catechesi perché gli stessi discepoli possano essere condotti ad accettare la via della croce. Segue l’episodio di Gesù che cammina sulle acque, segno anticipatore della risurrezione, alla luce della quale soltanto i discepoli potranno comprenderlo.
La pericope che qui commentiamo contiene la rivelazione di Gesù, vero pane di vita.
vv. 24-25 — La folla attraversa il lago in direzione di Cafarnao, alla ricerca di Gesù. Il tema della ricerca è costante nei Vangeli: si tratta spesso di una ricerca iniziale, inconsapevole, non riflessa, che scaturisce da esigenze primarie e immediate, come il bisogno di pane. Gesù non respinge questa esigenza elementare e non disdegna di soddisfarla, come ha mostrato con il miracolo; ma altro è il dono che egli porta.
I due versetti sono prospettici: il v. 24, che introduce la ricerca (zetèo), rinvia al 26 (mi cercate…), mentre il v. 25, in cui si chiede «come mai» (pote) Gesù è arrivato oltre il lago, rinvia al 52: «come (pos) costui può darci da mangiare la sua carne?».
v. 26 — Gesù conosce i cuori degli uomini e sa che lo cercano perché vogliono saziare la loro fame.
Non hanno ancora compreso che il miracolo non è un prodigio che mira a sorprendere, un modo per risolvere a buon mercato i problemi quotidiani, una soddisfazione materiale o un atto di potenza; il miracolo è segno, indica al di là di sé una verità più profonda, ed è quella che bisogna cercare. Non hanno visto il segno, si sono fermati al pane: da qui parte Gesù per la grande catechesi eucaristica, per rivelare quale è il pane vero che dà la vita eterna. E solo pochi sapranno intendere le sue parole (cf. vv. 66-69).
I vv. 26-27, riferiti alla moltiplicazione dei pani, sono come la proposizione del tema: Gesù (il Figlio dell’uomo) da un cibo che non perisce.
vv. 27-30 — Il tema qui introdotto è la fede, e la parola-chiave che lega questi versetti è operare/opera (ergàzein/ergon): l’opera di Dio è credere.
L’esortazione di Gesù al v. 27, «procuratevi (ergàzesthe) il cibo che rimane», è ripresa nella domanda del v. 28: «cosa dobbiamo fare per compiere (ergazòmetha) le opere di Dio?» L’aporia che sembra sussistere tra un’attività tesa a procurarsi il cibo, e il fatto che questo cibo sia un dono (il Figlio dell’uomo ve lo darà), viene risolta al v. 29: l’opera consiste nel credere (pistèuete) in colui che Dio ha mandato. Le opere di cui i discepoli non hanno ancora capito il senso (erga) del v. 28 —; pensano infatti a precetti da osservare, a opere meritorie da compiere — diventano in bocca a Gesù un’unica opera (ergon): la fede, decisione radicale che coinvolge la libertà dell’uomo e trasforma la vita, è l’opera di Dio che apre alla possibilità della vita eterna (il cibo che rimane per la vita eterna).
v. 30 — La domanda è legata a ciò che precede («cosa fai?», tì ergathe) e a ciò che segue, il ricordo della manna che provoca la spiegazione/rivelazione di Gesù. Cominciano a intuire di non aver percepito i «segni» di cui parla Gesù («non perché avete visto dei segni», v. 26), ma chiedono ancora il «segno» come una prova, una garanzia miracolistica che svuoterebbe la decisione di fede dal coinvolgimento libero, responsabile e personale.
v. 31 — L’espressione di Gesù (che crediate in colui che Egli ha mandato) è chiaramente messianica, e coerentemente i suoi uditori si richiamano all’Esodo, figura di liberazione e di salvezza.
vv. 32-35 — Il tema è ora il discorso di rivelazione: Gesù è il pane del cielo, il vero pane di Dio. Gesù infatti interpreta il miracolo della manna: non Mosè, ma Dio dà il pane del cielo; e il pane vero, di cui la manna è semplice figura, è quello che scende dal cielo (preesistenza del Figlio) e dà la vita al mondo (missione universale di Gesù).
La richiesta del v. 34 ricalca quella della Samaritana (cf. 4,15), con lo stesso fraintendimento tra il livello del cibo e dell’acqua materiali e il livello del segno salvifico. La conclusione di Gesù è il discorso di rivelazione, introdotto dalla formula «Io sono». Gesù si identifica con «il pane di vita», la fede in lui è ciò che dà la salvezza, libera dalla fame e dalla sete, non solo in senso materiale. Questa è la novità sconvolgente, su cui il discorso di Cafarnao continua, fino a provocare scandalo (v. 61) e scissione nella comunità: «da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro» (v. 66). La salvezza consisterà nel riconoscere nella fede le «parole di vita eterna» (v. 68).
Nel Vangelo di Giovanni i segni che Gesù opera sono sempre accompagnati e interpretati dai suoi discorsi. Se il segno conferma l’efficacia della Parola, sigillandone la rivelazione, è la Parola che consente di non fraintendere il segno. Non è pertanto ‘vedere’ il segno a generare la fede, piuttosto è credere nella parola di Gesù che consente di ‘vedere’ nel modo giusto il segno e di accoglierlo nel suo significato più vero e fecondo per la nostra vita. Questa dinamica caratteristica del IV Vangelo ritorna evidente al capitolo sesto, dove il discorso nella sinagoga di Cafarnao interpreta il gesto con cui Gesù ha sfamato le folle. Quanto accade nel racconto di Giovanni è peraltro ciò che si ripete in ogni celebrazione eucaristica, nella quale siamo invitati ad alimentare la nostra fede personale e la nostra vita comunitaria all’unica mensa della Parola e del Corpo di Cristo, secondo la suggestiva espressione del Vaticano II (cfr. DV 21). Questa unità tra Parola e Segno va tenuta presente anche nel leggere Giovanni 6. Secondo la tradizione sinottica, Gesù risponde alla prima tentazione del deserto citando Dt 8,3: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Mt 4,4). Anche in questo ‘deserto’ Gesù dona il cibo, ma non fa mancare la sua parola, che consente di accogliere il pane quale esso veramente è: segno di Dio che rivela se stesso prendendosi cura della vita dell’uomo. Anzi, offrendo il proprio Figlio come pane per la vita dell’uomo. Pane che nutre l’esistenza umana a condizione che ci sia una parola che porti alla luce la sua fame nascosta e più vera. Anche in Samaria la donna incontrata presso il pozzo si era vista consegnare, sempre dalla parola di Gesù, alla sua vera sete. Qual è dunque la nostra fame?
La liturgia della parola domenicale, dopo aver proclamato il segno nella scorsa domenica, per quattro domeniche consecutive ci fa ascoltare il discorso che segue. L’inevitabile suddivisione del capitolo in cinque parti rende più difficile seguirne lo sviluppo unitario. Può essere perciò utile ricordare subito la trasformazione che, grazie al gesto e alla parola di Gesù, avviene tra l’apertura e la conclusione del capitolo. All’inizio del racconto, «lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi» (v. 2). Alla fine del capitolo solo i Dodici rimangono, professando la loro fede con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (vv. 68-69). Dal seguire Gesù perché si vedono i segni operati sui malati alla fede di chi rimane perché crede in una parola di vita; dalla fame di pane al desiderio di una comunione personale con Gesù (da chi altri andare?); dalla guarigione delle malattie alla pienezza della vita eterna: questo è il passaggio molteplice che il segno operato da Gesù, e la parola che lo interpreta, sollecitano a compiere. Non per nulla l’evangelista aveva an-notato che quanto Gesù desiderava operare celava un’intenzione precisa: mettere alla prova Filippo, e insieme a lui ogni discepolo, quelli di allora come quelli di oggi. «Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere» (v. 6). La prova biblica, soprattutto quella che caratterizza il cammino nel deserto, come ci ricorda anche la prima lettura tratta da Esodo 16, non intende solo saggiare quello che c’è nel nostro cuore o la qualità della nostra relazione con il Signore, ma anche purificare la nostra fede per renderla sempre più aderente all’opera di Dio e aperta alla sua rivelazione. Gesù sapeva quello che stava per compiere; la prova è ciò che consente al discepolo di entrare sempre più profondamente in questo suo stesso sapere. I segni che Gesù compie hanno questa duplice valenza: rivelano il mistero di Dio perché nello stesso tempo purificano la fede degli uomini. Nei dialoghi del vangelo di Giovanni la rivelazione si attua sempre secondo questa dinamica, che ritorna puntualmente anche in questo racconto: «Il segno è la moltiplicazione dei pani, letta dalla folla e letta da Gesù: è nel contrasto tra queste due letture che si rivela chi è Gesù» (B. Maggioni).
La domanda che alla fine Gesù porrà ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» (v. 67) deve essere l’interrogativo che sentiamo rivolto alla nostra stessa fede e può illuminare la lettura dell’intero dialogo, non solo delle sue battute conclusive. Certo, rispondiamo insieme a Pietro, vogliamo rimanere! Gesù ci ricorda tuttavia qual è la condizione per farlo davvero, senza andarsene altrove come accade ai più: accettare che la sua parola ci metta alla prova, ci purifichi, ci converta.
Nel testo che leggiamo in questa domenica la conversione si attua almeno a due livelli: è infatti relativa tanto al che cosa cercare quanto al come cercare. Il tema della ricerca è sollevato da Gesù stesso, che svela l’ambigua ricerca degli uomini: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). È superficiale anche la domanda: «Rabbì, quando sei venuto qua?» (v. 25). Non è il quando, ma il da dove e il perché, ossia verso dove e a quale fine, che consente di capire chi sia davvero Gesù. Come mostrerà l’intero discorso, Gesù è colui che viene dal Padre per dare la vita al mondo, attraverso la sua carne offerta. «Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (v. 33). Solamente nell’orizzonte di questo movimento si capisce chi è Gesù. Egli discende dal cielo perché donato dal Padre, e viene per donare al mondo la vita stessa che riceve da Dio. Non è forse questo il sigillo che Dio, il Padre, ha posto sul Figlio? Il sigillo di un dono, che fa sì che il nostro desiderio di vita venga appagato non quando cerchiamo un pane che sazia la nostra fame, colmando il nostro bisogno, ma quando, nutrendoci di questo pane di vita che soltanto Gesù offre, anzi, che egli stesso è, ci lasciamo condurre da esso in una logica diversa. Quella del dono, secondo la quale saziarne il nostro desiderio di vita (la nostra sete, la nostra fame) ogni qualvolta, anziché preoccuparci di appagare i nostri bisogni, diventiamo a nostra volta capaci di prendere in mano la nostra esistenza per consegnarla nel gesto dell’offerta. La differenza che deve convenire la nostra ricerca non consiste tanto tra un pane materiale che colma una fame corporale e un altro genere di pane o di fame. La differenza sta nella logica diversa con cui ci rapportiamo alla nostra vita e a quella degli altri. Da una parte la logica vorace del possesso, dall’altra quella eucaristica e gratuita dell’offerta di sé. Per compiere il segno Gesù non aveva forse chiesto proprio questo ai discepoli? Che divenissero capaci di offrire tutto ciò che avevano, i duecento denari o quanto quel ragazzino poteva mettere a disposizione, perché la folla ricevesse tutto ciò di cui aveva bisogno? Questo è il pane che non perisce; un pane che dura perché ha la consistenza del dono di sé, che rimane, mentre al contrario presto svanisce o si imputridisce, come accadeva alla manna nel deserto, tutto ciò che tentiamo di possedere egoisticamente per noi e per il nostro vantaggio.
«Il pane della vita, sono io», afferma con decisione Gesù al v. 35, e «chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». Andare a Gesù, entrare in comunione con lui attraverso l’unica opera che Dio ci chiede di compiere, la fede, significa per il discepolo assumere la sua logica, o meglio lasciarsi introdurre in quel movimento di consegna che Gesù vive: donato dal Padre al fine di essere dono per il mondo. La vita che, facendosi pane, Gesù ci comunica, è la vita eterna. Una vita che dura, rimane, perché condivide la qualità stessa della vita di Dio. È la vita del mondo di Dio, del suo modo di essere, tutto attraversato e contrassegnato dalla logica del dono di sé: il dono della vita che il Padre fa al Figlio, che il Figlio accoglie e non disperde per donarla a sua volta agli uomini.
Il «fate questo in memoria di me» che ripetiamo in ogni eucaristia assume in tal modo il suo spessore più vero. Ci nutriamo di questo pane di vita, che è Gesù, per divenire sua memoria vivente. Per saziarci di questo pane non dobbiamo fare molte opere o impegnare sforzi eccessivi: una sola è l’opera da compiere, la fede, come uno solo è il comandamento nuovo da vivere, l’amore (cfr. 13,34). La prospettiva di Giovanni è unitaria e unificante: c’è un solo pane di vita che ci sazia, il Signore Gesù; per entrare in comunione con lui è necessaria una sola opera, credere in lui, consentendo così alla vita che ci comunica di portare il suo unico frutto in noi, che è l’amore. In tal modo il dono che riceviamo non perisce, trattenendolo per noi stessi, ma rimane, come dono condiviso nella carità.
Preghiere e racconti
Il pane che ci unisce
Nello spezzare il pane insieme noi affermiamo la nostra condizione spezzata, anziché negare la sua realtà. Diventiamo più consapevoli che mai di essere presi, messi a parte come testimoni di Dio; di essere benedetti dalle parole e dagli atti della grazia; di essere spezzati, non per vendetta o per crudeltà, ma al fine di diventare un pane che può essere dato come cibo agli altri. Quando due, tre, dieci, cento o mille persone mangiano unite alla vita spezzata e versata di Cristo, esse scoprono che la loro stessa vita è parte di quell’unica vita e si riconoscono così a vicenda come fratelli e sorelle.
Vi sono pochi luoghi rimasti al mondo dove la nostra comune umanità può essere elevata e celebrata, ma ogni volta che ci riuniamo attorno ai semplici segni del pane e del vino noi abbattiamo molti muri e cogliamo un barlume delle intenzioni di Dio per la famiglia umana. E ogni volta che questo accade, siamo chiamati a preoccuparci maggiormente non soltanto del benessere dell’altro, ma anche del benessere di tutti nel mondo. Lo spezzare il pane dunque… ci mette in contatto con coloro il cui corpo e la cui mente è stata spezzata dall’oppressione e dalla tortura e la cui vita viene distrutta nelle prigioni di questo mondo. Ci mette in contatto con gli uomini, le donne e i bambini la cui bellezza fisica, mentale e spirituale rimane invisibile a causa della mancanza di cibo e di riparo…
Queste relazioni ci rendono davvero «uniti nel pane» e ci sfidano a operare con tutte le nostre energie per il pane quotidiano di tutti. In questo modo il nostro pregare insieme diventa un appello all’azione.
(Henri J.M. NOUWEN, Compassion, in ID., La sola cosa necessaria Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 197-198).
Quelli che mangiano di me avranno ancora fame
Dice la Sapienza: «Quelli che mangiano di me avranno ancora fame, quelli che bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,29). Cristo, Sapienza di Dio, non viene ora mangiato fino saziare il nostro desiderio, ma soltanto in una misura in cui rinnova il nostro desiderio di sazietà e più gustiamo la sua dolcezza, più il nostro desiderio viene ravvivato. Per questo quelli che lo mangiano avranno ancora fame, finché non giungeranno a sazietà. Ma quando il loro desiderio sarà stato colmato dai beni celesti, non avranno più né fame né sete (cfr. Ap 7,16). Le parole: «Quelli che mangiano di me avranno ancora fame» si possono intendere come riferite al mondo futuro perché c’è in questa sazietà eterna una specie di fame che non deriva dal bisogno, ma dalla felicità. Gli invitati al banchetto desiderano sempre mangiare e non si stancano di saziarsi. La sazietà non conosce fastidi e il desiderio sospiri. Cristo infatti, sempre ammirabile nella sua bellezza, è sempre pure desiderabile, lui «nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo» (1Pt 1,12). Così pur possedendolo lo si desidera, e mentre lo si possiede lo si cerca come sta scritto: «Cercate sempre il suo volto» (Sal 104 [105],4). Si cerca sempre colui che si ama per possederlo sempre. Così quelli che lo trovano lo cercano ancora, quelli che lo mangiano ne hanno ancora fame, quelli che lo bevono ne hanno ancora sete. Ma questa ricerca elimina ogni preoccupazione, questa fame scaccia ogni fame, questa sete estingue ogni sete. Non è la fame dell’indigenza, ma della felicità raggiunta.
(BALDOVINO DI FORD, Il sacramento dell’altare 2,3, SC 93, pp. 252-254)
L’effimero non soddisfa
Che cos’è l’effimero? È ciò che il mondo produce e che offre alla tua fame, senza però poterla saziare. Sono i piaceri della vita, la gloria, il potere, la ricchezza e tutto ciò che popola la fiera delle vanità che gli uomini amano frequentare. Tuttavia non tutto ciò che è effimero è da condannare. Al contrario vi sono tante cose buone, il cui uso e possesso ci è donato dalla bontà del Creatore. La creazione stessa, benché sottoposta alla caducità, è un meraviglioso dono col quale l’Onnipotente desidera rallegrare le nostra vita qui sulla terra. Eppure le cose effimere, anche quando sono buone, possono trasformarsi in un pericolo per la nostra anima e in una illusione pericolosa nella nostra ricerca della felicità.
Come può accadere questo? Le cose effimere possono darti un’apparente sazietà e una falsa felicità. Il loro possesso ti soddisfa momentaneamente e ti illude di sentirti realizzato. Si tratta invece di una sensazione che dura poco, perché l’inquietudine, che sembrava assopita, si risveglia di nuovo e la fame riprende più vigorosa di prima. Quando ci si nutre di effimero non si è mai davvero sazi. La catena delle illusioni e delle delusioni si prolunga all’infinito, finché la corsa non si esaurisce, lasciando alla delusione l’ultima fatale parola. La bestia che è in noi «mai non empie la bramosa voglia e dopo ‘l pasto ha più fame che pria» (Dante, Inferno, I, 99). L’abilità del tentatore e quella di usare le cose finite, per quanto buone e belle possano essere, per trascinarti qua e là lungo le vie del mondo in modo tale che tu perda di vista la meta dell’eternità. Ti tiene al guinzaglio presentandoti il miraggio della felicità, senza però che tu possa assaporarne la realtà. La sua insuperabile astuzia consiste nel soffocare la tua fame di assoluto con l’abbondanza delle cose finite.
Gesù, dialogando con la donna samaritana, che aveva cercato nell’amore vagabondo di dissetare la sua sete di felicità, smaschera la tentazione e mette a nudo l’inganno del falsario: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete» (Gv 4,13) afferma mettendo il dito sulla piaga. Chi di noi potrebbe negarlo? Chi potrebbe affermare di essere felice col possesso di ciò che il mondo offre? Gesù è sicuro di quello che dice perché conosce come nessun altro il cuore dell’uomo. Lui, per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, sa bene che l’uomo è stato creato “capace di Dio” e che non può essere felice se non dissetandosi al suo amore. Perciò aggiunge subito dopo: «Ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la via eterna» (Gv 4,14). Dunque non l’acqua che si attinge fuori di noi, ma quella che zampilla dentro di noi è capace di dissetarci e di renderci felici. […] Sappi che non perderai affatto il piacere per le cose belle della terra. Anzi, le gusterai ancora di più, secondo la promessa del vero Maestro degli uomini: «cercate il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta».
(Padre Livio Fanzaga, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 16-18).
Il pane vivo
Io sono il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51). Vivo precisamente perché disceso dal cielo […] I fedeli dimostrano di conoscere il corpo di Cristo, se non trascurano di essere il corpo di Cristo. Diventino corpo di Cristo se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Dello Spirito di Cristo vive soltanto il corpo di Cristo. Fratelli miei, capite quello che vi dico? Tu sei un uomo, possiedi lo spirito e possiedi il corpo. Chiamo spirito ciò che comunemente si chiama anima, grazie alla quale sei un uomo; sei composto infatti di anima e di corpo. E così possiedi uno spirito invisibile e un corpo visibile. Ora dimmi: qual è il principio vitale del tuo essere? E il tuo spirito che vive del tuo corpo o è il tuo corpo che vive del tuo spirito? Che cosa potrà rispondere chi vive? È il mio corpo che vive del mio spirito. Vuoi tu vivere dello Spirito di Cristo? Devi essere nel corpo di Cristo. Forse che il mio corpo vive del tuo spirito? No, il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. È quello che dice l’Apostolo, quando ci parla di questo pane: Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo (ICor 10,17) . Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuoi vivere ha dove vivere, ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato. Non disdegni di appartenere alla compagine delle membra, non sia un membro infetto che si deve amputare. […] Rimanga unito al corpo, viva di Dio per Dio; sopporti ora la fatica su questa terra per regnare poi in cielo.
(AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni 26,13, in Opere di sant’Agostino, pp. 608-610).
Preghiera
Grande è il tuo amore, o Dio!
Tu vuoi aver bisogno di uomini
per farti conoscere agli uomini,
e così leghi la tua azione e la tua parola divine
all’agire e al parlare di persone
né perfette né migliori degli altri.
Grande è il tuo amore, o Dio!
Non hai timore della nostra fragilità
e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,
perché fosse nostra la tua vita
che guarisce ogni male.
Grande è il tuo amore, o Dio!
Ancora rinnovi la tua alleanza
grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,
a chi pronuncia le parole del perdono,
a chi fa risuonare annunci di vangelo,
a chi si fa servo dei fratelli,
testimoni del tuo amore infinito
che rendono visibile il Regno.
Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone
non vengano mai meno!
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi
In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’intervento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.
Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a ovest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi dove abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio. Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.
La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v. 38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguivano. La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti. L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v. 43a). Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v. 43b).
Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessario: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare» (v. 44).
Seconda lettura: Efesini 4,1-6
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore. Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento. È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».
Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina. La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.
Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamento pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.
All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sopportazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità. Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.
Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo. Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità. Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.
L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati ammessi quando hanno accolto la chiamata di Dio. L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza. Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo. Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.
Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità. In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.
Vangelo: Giovanni 6,1-15
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
Esegesi
Con una indicazione generica di tempo (v. 1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa. Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v. 2: «… e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto. Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni. Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltiplicazione dei pani. Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).
Il monte (v. 3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea. Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù. L’interesse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).
Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corrisponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Gesù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15). C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.
L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’evangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.
Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla. A differenza dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v. 5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.
Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente. Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.
L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è propria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).
Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della primavera in Palestina. Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua. Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.
Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo eucharistéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona. Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.
Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni. I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.
L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, come avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).
Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’entusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia. Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusiasmo messianico della folla è di carattere politico (6,15). La folla vuole rapire Gesù per farlo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo.
Meta finale del Cammino di Santiago: Monte do Gozo, collina nei pressi di Santiago de Compostela – 2023
« “Cos’è più importante”, chiese Grande Panda, “il viaggio o la meta?”.“La compagnia”, rispose Piccolo Drago».(James Norbury)
Meditazione
«C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v. 9). Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…
Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo. Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è. O almeno, non c’è per tutti. La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete. Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa). Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.
Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona. Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù verso altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.
Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù. Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15). Detto altrimenti, ‘si arrangino’!
Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condivisi principi morali e spirituali. Non lo fa nemmeno per prendere tempo. O meglio, il discorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr. vv. 22-59). Ma, appunto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare. E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v. 10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare. Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana. Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù. La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione. E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente. E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr. vv. 11-13). Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr. 1Sam 17).
Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena. Lui desidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita. Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.
Preghiere e racconti
Sofferenza
Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito necessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.
Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).
Questi è davvero il profeta
Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio. E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp. 564-566).
Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro
«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Quel lievito di un pane che non finisce
La moltiplicazione dei pani è qualcosa di così importante da essere l’unico miracolo presente in tutti e quattro i Vangeli. Più che un miracolo è un segno, fessura di mistero, segnale decisivo per capire Gesù: Lui ha pane per tutti, lui fa’ vivere! Lo fa’ offrendo ciò che nutre le profondità della vita, alimentando la vita con gesti e parole che guariscono dal male, dal disamore, che accarezzano e confortano, ma poi incalzano.
Cinquemila uomini, e attorno è primavera; sul monte, simbolo del luogo dove Dio nella Bibbia si rivela; un ragazzo, non ancora un uomo, che ha pani d’orzo, il pane nuovo, fatto con il primo cereale che matura. Un giovane uomo, nuovo anche nella sua generosità. Nessuno gli chiede nulla e lui mette tutto a disposizione; è poca cosa ma è tutto ciò che ha. Poteva giustificarsi: che cosa sono cinque pani per cinquemila persone? Sono meno di niente, inutile sprecarli. Invece mette a disposizione quello che ha, senza pensare se sia molto o se sia poco. È tutto! Ed ecco che per una misteriosa regola divina quando il mio pane diventa il nostro pane, si moltiplica. Ecco che poco pane condiviso fra tutti diventa sufficiente. C’è tanto di quel pane sulla terra, tanto di quel cibo, che a non sprecarlo e a condividerlo basterebbe per tutti. E invece tutti ad accumulare e nessuno a distribuire! Perché manca il lievito evangelico. Il cristiano è chiamato a fornire al mondo lievito più che pane (de Unamuno): ideali, motivazioni per agire, sogni grandi che convochino verso un altro mondo possibile. Alla tavola dell’umanità il cristianesimo non assicura maggiori beni economici, ma un lievito di generosità e di condivisione, come promessa e progetto di giustizia per i poveri.
Il Vangelo non punta a realizzare una moltiplicazione di beni materiali, ma a dare un senso a quei beni: essi sono sacramenti di gioia e comunione. Giovanni riassume l’agire di Gesù in tre verbi: «Prese il pane, rese grazie e distribuì». Tre verbi che, se li adottiamo, possono fare di ogni vita un Vangelo: accogliere, rendere grazie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose, le accogliamo in dono e in prestito. Se ci consideriamo padroni assoluti siamo portati a farne ciò che vogliamo, a profanare le cose. Invece l’aria, l’acqua, la terra, il pane, tutto quello che ci circonda non è nostro, sono “fratelli e sorelle minori” da custodire. Il Vangelo non parla di moltiplicazione, ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità.
(Ermes Ronchi)
Il pane
Il pane, nutrimento basilare dell’uomo mediterraneo, diviene il segno della cura che Dio ha per l’uomo e del suo amore sovrabbondante nel racconto in cui venti pani d’orzo, “secondo la parola del Signore” trasmessa dal profeta Eliseo, sfamano cento persone e ne avanza perfino (I lettura). Nel vangelo, cinque pani d’orzo e due pesci, mediante i gesti e le parole di Gesù, sfamano cinquemila persone e anche in questo caso avanza molto cibo. Più che di moltiplicazione, occorre parlare di condivisione e di dono.
L’iniziativa di sfamare le folle non viene dai discepoli (come nei sinottici), ma direttamente da Gesù. Non è motivata neppure dalla compassione nei confronti di folle stanche o smarrite (come in Mc 6,34; 8,2; Mt 15,32). Il gesto di Gesù è sovranamente gratuito: è un’azione, non una reazione. Nasce solo dal suo sguardo sulla folla in quel tempo prossimo alla Pasqua (cf. Gv 6,4). E così il gesto appare rivelativo: sia in rapporto al Dio che nella Pasqua compirà il suo amore sovrabbondante per l’uomo donando il suo stesso Figlio per la vita del mondo, sia in rapporto all’uomo e alla sua fame non dovuta a particolari circostanze, ma fondamentale, costitutiva. Questa fame non è una disgrazia, ma la verità umana ordinata alla verità di Dio che la precede e la fonda e che è il desiderio di Dio di consegnarsi all’uomo per aver comunione con lui e perché l’uomo abbia la vita in abbondanza.
Il pane è il simbolo più adeguato per esprimere il bisogno dell’uomo e l’amore di Dio. Tutta la storia di salvezza può essere riassunta nel gesto con cui Dio “dà il pane a ogni creatura” (Sal 136,25). Realtà umanissima, il pane è simbolo di vita e riunisce in sé il riferimento alla natura e alla cultura, alla terra, al lavoro dell’uomo, alla sua corporeità, alla sua fondamentale povertà, alle dimensioni della convivialità e dell’incontro, della socialità e della comunione, insomma di tutto ciò che dà senso alla vita sostentata dal pane. Il pane simbolizza tutto ciò che è essenziale per la vita. Il gesto eucaristico di Gesù (“prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì”: Gv 6,11) indica sia l’eucaristia come luogo di incontro di Dio con l’uomo sotto il segno della gratuità, dell’amore sovrabbondante ed eccessivo, del dono che non può essere contraccambiato, sia l’essenzialità del ringraziamento che l’uomo è chiamato a fare prima di mangiare, di fronte a ogni cibo, come confessione di fede che la vita non viene da lui ma è dono. Nel momento dello sfogo dell’appetito basilare della creatura, il ringraziamento immette una distanza tra sé e il proprio bisogno che restituisce l’uomo alla propria verità confessando il Dio signore della vita. La folla coglie correttamente il gesto di Gesù come segno che rivela qualcosa della sua identità profonda (cf. Gv 6,14), ma ne trae conseguenze che Gesù rigetta in modo netto. Sapendo che volevano farlo re, Gesù si ritira in solitudine sulla montagna (cf. Gv 6,15). La sua regalità è altra e apparirà nella paradossale gloria del Crocifisso. Gesù rifiuta la logica mondana di re e governatori che chiede potere e legittimazione del proprio dominio in cambio di elargizioni di mezzi di sussistenza.
Gesù si rifiuta di umiliare la fame “ontologica” dell’uomo, il bisogno umano, sfruttandolo per sé, e di attentare alla gratuità di Dio, facendone mercato. Gesù si ritira, “fa anacoresi”, persino “fugge”, secondo alcuni testimoni della tradizione manoscritta (Gv 6,15). Fugge chi di un profeta vuole fare un re, chi da un gesto di amore e di rivelazione vuole trarre un’istituzione politica. Fugge chi lo applaude e lo acclama, fugge persino i propri discepoli, mostrando che a volte l’arte della fuga è l’unica possibilità di salvaguardare la qualità e la dignità della propria vita e l’evangelicità della propria fede. Gesù fugge, ma non per isolarsi, bensì per trovarsi insieme con il Padre. Fugge nella solitudine abitata della sua comunione con il Padre. Gesù è “tutto solo” (Gv 6,15). Ma dice altrove Gesù: “Io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32).
(Luciano Manicardi)
Offerta al mondo
Noi cittadini e cittadine del mondo,
gente del cammino, gente che cerca,
eredi del legato di antiche tradizioni,
vogliamo proclamare:
– che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia;
che la natura è la nostra madre e il nostro focolare,
e che dev’essere amata e preservata;
– che la pace dev’essere costruita con sforzo,
con la giustizia, col perdono e la generosità;
– che la diversità di culture
è una grande ricchezza e non un ostacolo;
– che il mondo ci si presenta come un tesoro
se lo viviamo in profondità,
e le religioni vogliono essere dei cammini
verso tale profondità;
– che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso
nell’apertura al Mistero inafferrabile;
– che fare comunità ci aiuta in questa esperienza;
– che le religioni possono essere un punto di accesso
alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo,
ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato;
– che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose
vogliamo dialogare tra di noi;
– che vogliamo condividere con tutti
la lotta per fare un mondo migliore,
per risolvere i gravi problemi dell’umanità:
la fame e la povertà,
la guerra e la violenza,
la distruzione dell’ambiente naturale,
la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita,
la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza;
– e che vogliamo condividere con tutti
i frutti della nostra ricerca
delle aspirazioni più alte dell’essere umano,
nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è
e col proposito di poter vivere tutti insieme
una vita degna di essere vissuta.
(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).
Rese grazie per insegnarci a rendere grazie
Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui. E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui. Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). […] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi. Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr. Lc 24,44-45). I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20). […] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie. Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale. […] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti. «Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr. Mc 6,43). Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere. Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale. Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp. 195-198).
Preghiera
Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.
Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.
Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi
In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere. Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena consapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.
Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.
vv. 12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa. Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.
Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi. Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svolge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese. Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa. Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vivere; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.
vv. 14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica. Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina. Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.
È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf. Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.
Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v. 14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini. Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame. Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.
Seconda lettura: Efesini 1,3-14
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosiddette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.
Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera. È una benedizione, secondo la prassi liturgica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.
Il v. 3 – la formula di benedizione — è introduttivo. Il verbo benedire (euloghein) è ripetuto due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio). Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.
La prima parte – vv. 4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio:
1. l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv. 4-6a)
2. la grazia della redenzione (vv. 6b-7)
3. la conoscenza del piano salvifico (vv. 8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio. Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvezza, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia. «Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.
La seconda parte – vv. 11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi:
1. il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv. 11-12).
2. il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appropriazione della salvezza (v. 13).
3. il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti. Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v. 14).
È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifica di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.
Vangelo: Marco 6,7-13
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Esegesi
La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù. Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani (cap. 6). Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.
Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v. 12 si limita a un generico invito alla conversione.
L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.
v. 7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco. Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf. i discepoli del Battista e Paolo). Il «potere sugli spiriti immondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorcismo (9,18).
vv. 8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi. Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.
Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fiducia in Dio. Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quotidiane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.
vv. 10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione. Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele. Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di accogliere il messaggio evangelico.
L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambiamento del cuore, della mentalità: una conversione. Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».
vv. 12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco. Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i malati, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.
L’immagine della domenica
LITORALE ROMANO – 2018
«Perché non c’è niente di più bello del modo in cui tutte le volte il mare cerca di baciare la spiaggia, non importa quante volte viene mandato via».
(Sarah Kay)
Meditazione
Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.
In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi. Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione. «E prese (lett. cominciò) a mandarli…» (v. 7). Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione saranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v. 30).
Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr. 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per. Così che la missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…
Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due». Certamente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr. At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr. Dt 19,15). Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità (cfr. Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco. Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12). E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…
Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come devono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un determinato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé. I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, comunque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore). In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.
Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’. Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. «Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.
Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza. «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero. » (v. 11). Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottolineato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione. Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.
Preghiere e racconti
Hanno annunciato
“Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza“. (At 4,29)
Hanno annunciato che un sapone fa primavera,
hanno proclamato che un tipo di benzina
t’assicura il coraggio e formidabile potenza.
Hanno gridato per le piazze e sui tetti
le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.
Ma hanno taciuto il Verbo
e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola:
la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.
Hanno annunciato che la pace
è fatta di tante uova di cioccolata,
e della tredicesima, e di molte banconote,
di frigoriferi colmi d’ogni bene,
e di appartamenti in città con bagni di maiolica.
Ma la violenza è esplosa per le strade
e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti
che celano nella coda mitra e bombe molotov.
O uomini e donne del nostro tempo,
noi manchiamo di vero annuncio,
perché manchiamo di conoscenza contemplativa.
Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio
perché abbiamo smarrito il silenzio,
anzi ne abbiamo paura.
E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti
a colpi di radioline e transistor.
Ma invano noi edifichiamo la città
se non è il Signore a costruirla con noi.
Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia
invano attendiamo la pace
da noi e dai nostri fratelli.
(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).
Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio
Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. «Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti. […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.
(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).
Il mio sì
Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo. Egli non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.
(John Henry Newman).
Chi vive in Cristo sa che tutte le persone, anche i nemici, non appaiono per casualità
È Domenica, il giorno del riposo, e siamo stanchi per “tutto quello che abbiamo fatto e insegnato”. D’accordo, magari non siamo tutti missionari, e forse questa settimana non abbiamo predicato. Probabilmente non siamo entrati nella storia come gli apostoli, senza borsa né denaro; e può darsi che stiamo covando qualche rancore, e non abbiamo nessuna voglia di riconciliarci, altro che andare “a due a due”…
Ma il Signore lo sa, e per questo, attraverso la Chiesa, ci dona questo Vangelo, una Parola che c’entra sempre con la nostra vita. Ci è predicata perché ci illumini e si compia in noi. Apostoli o no, di sicuro “non abbiamo neanche il tempo di mangiare”.
Le settimane ci scorrono sotto il naso tra ufficio, spesa, scuola, banche, ospedali, palestra, riunioni di condominio; e poi i figli, il fidanzato, i suoceri, il cane che abbaia davanti alla porta, la spazzatura che tracima come un torrente gonfiato dalla pioggia, il piccolo con la febbre alta ma è finito l’antipiretico e sono le undici e mezza, dove sarà una farmacia di turno?
Se siamo preti, ecco le messe, catechismo, consiglio pastorale, riunione in decanato e mille altri incontri. E alla fine non abbiamo mai tempo per mangiare, per riposare davvero. Ma se non ci alimentiamo, e bene, il nostro fare ci distrugge. Infatti…
Quanti figli, mogli, mariti, amici, colleghi, conducenti della macchina davanti e parrocchiani pagano i nostri isterismi da iperattivismo… Troppi. Siamo sempre stanchi, angosciati, nevrotici, stritolati in agende fittissime che neanche Obama si sogna di avere.
E per alimentarci solo un fast-food spirituale, e che vuoi che sia un hamburger di preghiere, ci basta per stare in piedi, cioè in pace, dieci minuti scarsi. Ma questa Domenica di Luglio può essere diverso. Andiamo allora con Gesù in un “luogo in disparte, solitario”, per “riposarci un po’”. Impariamo cioè dal “riposo” di Gesù e degli apostoli come “fare” le cose di tutti i giorni.
Per esempio, nella messa di questa Domenica, il luogo dove imparare a vivere “separati”, cioè “santi”. E nella liturgia, come una saetta, il Vangelo vibra una parola tra le ore indaffarate delle nostre vite: “commozione”, che nel greco del Vangelo, è una parola vicinissima a “viscere”, la fonte della vita che risiede nel seno di una madre.
Gli apostoli dunque, vanno inviati da un amore più grande, l’amore di una madre, assorbito nell’intimità con il Signore. La missione, qualunque missione, si svela nel cuore di Maria, ferito dall’amore, come quello del suo Figlio: “Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 37).
Predicano, annunciano, guariscono, ma poi tornano e si rifugiano dal loro Amato, il Signore che li “rapisce” in un luogo di riposo. Sono questi i ritmi autentici della vita, segnati dall’intimità con il Signore: da Lui, per Lui, con Lui, a Lui. Secondo la Scrittura condensata nel Vangelo di oggi, questa intimità ha un luogo, il deserto.
Questo, nella Bibbia, è il luogo della memoria dell’amore e dell’ascolto dell’Amato: è il luogo del primo amore, quello a cui ritornare sempre per non abbattersi di fronte alle difficoltà: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (Ger. 2,2).
Ma il deserto, in ebraico “midbar”, è anche il luogo-simbolo dell’ascolto della Parola, in ebraico: “dabar”; al centro della missione vi è dunque un luogo dove amare, e dove amare è ascoltare, perché ascoltare è obbedire, e dove vi è l’obbedienza vi è sempre il puro amore. Nel deserto cresce l’amore degli apostoli, nell’ascolto obbediente della parola di Gesù la fede si fa adulta.
Come Maria, come fu chiamata dai Padri, la Chiesa diviene il “deserto fiorito”, la debolezza rivestita della Grazia, l’assemblea convocata per ascoltare la Parola che ha il potere di trasformare il deserto dell’impossibile umano nel giardino del possibile di Dio.
Il deserto è così l’esperienza che si fa memoriale e fondamento per ogni missione, anche la più difficile, anche quella che conduce al martirio, sia esso quello del sangue, sia esso quello di una predicazione in una terra indifferente, o quello di un giovane che voglia vivere un fidanzamento casto, o quello di una madre e un padre che accolgono il settimo figlio, o quello di chi non resiste al male e, a scuola, in ufficio, ovunque, si lascia privare dell’onore offrendo l’altra guancia.
Il deserto infatti è anche il luogo della prova. Nel Deuteronomio è scritto: “Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire” (Dt. 8,14-16).
Si tratta delle prove conosciute da Israele nel cammino dell’Esodo, ma che evocano anche la dura prova della Donna dell’Apocalisse, perseguitata dal drago che vuole divorare il bambino appena nato. Questa donna è Maria, che ha conosciuto la prova della fede, la spada che le ha attraversato l’anima, come la lancia che ha ferito il costato del suo Figlio.
Nel deserto Maria fugge per esservi nutrita, esattamente come gli apostoli, e come la Chiesa durante i secoli. Nel mezzo delle angustie e delle persecuzioni sofferte per il Vangelo, il Signore dona a Maria e ai suoi figli le “ali della grande aquila” per volare nel deserto preparato per la Chiesa, per gli Apostoli, per ciascuno di noi, come un luogo di rifugio, un porto sicuro dove attraccare la barca della nostra vita; dove imparare l’amore nell’ascolto, dove sperimentare la potenza e la protezione di Dio, dove essere nutriti dall’unico alimento che sazia e rende capaci di qualunque cosa, come è stato per Elia che, nutrito dal cibo del Cielo, ha sfidato gli idoli uscendone vincitore.
Possiamo far mille cose, ma senza l’esperienza del deserto, senza vivere come in una cella dove essere con e per il Signore, tutto ciò che facciamo, fosse anche il miracolo più straordinario, non sarà altro che l’ennesima iniezione di fumo a riempire un vuoto abissale. Lo diceva San Paolo, si può far tutto, anche le cose più sante, ma senza la Carità, senza Cristo, è tutto fumo, vapore, vanità di vanità: “Occorre guardarsi, osservava San Bernardo, dai pericoli di una attività eccessiva, qualunque sia la condizione e l’ufficio che si ricopre, perché le molte occupazioni conducono spesso alla “durezza del cuore”, “non sono altro che sofferenza dello spirito, smarrimento dell’intelligenza, dispersione della grazia… Ecco dove ti possono trascinare queste maledette occupazioni, se continui a perderti in esse… nulla lasciando di te a te stesso” (Benedetto XVI, Angelus del 20 agosto 2006; San Bernardo, De consideratione, II, 3).
Fateci caso, anche nel riposo Gesù si “commuove”. Vuol dire che Gesù non viveva a compartimenti stagni, ma tutto quello che diceva e faceva sorgeva dalla sua “compassione”, dal suo sguardo materno che in tutti riconosceva delle “pecore senza pastore”.
Ecco, oggi il Signore ci dice che c’è un solo modo di vivere autenticamente, ed è quello di una madre che si “commuove”, cioè si “muove-con” il figlio che porta nel seno. Tutto di lei è per lui: i pensieri, i gesti, i minuti. Quando mangia sta attenta a quello che potrebbe fargli male, se c’è qualche pericolo sospende qualsiasi lavoro, perfino il riposo della notte dipende strettamente dal bimbo che porta in grembo. Non si appartiene più,è trasformata in vita da donare al suo piccolo.
Come una madre incinta, anche noi siamo chiamati a dare frutto per gli altri in tutto quello che facciamo. A “muoverci-con” le persone che Dio ci affida, ovvero ad amarle sino al punto di entrare nel loro dolore e nella loro gioia. A donare ogni frammento del nostro fare perché tutto nella nostra vita sia un segno della sollecitudine di Cristo. Anche la malattia che ti impedisce qualsiasi cosa, come il dolore, è amore che sgocciola dalle ferite del corpo e del cuore per la folla che soffre senza speranza.
Occorre allora guardarci dentro e chiederci che cosa ci muove: un’ansia che ci impedisce star fermi per non incontrare noi stessi, una nevrosi che cerca di dare senso all’inutile susseguirsi delle nostre ore vuote? oppure la commozione, le viscere stesse di Gesù che risuonano d’amore nelle nostre viscere, che ci proietta in un amore più grande? L’amore che si dimentica di se stesso, che non scrive appuntamenti sulle agende, che non fa conti, ma che, come pane spezzato, si da in pasto ad ogni uomo. Come ripeteva San Francesco: “Donandosi si riceve, dimenticando se stessi ci si ritrova”.
E questo è vero per ogni atto della nostra vita che si fa annuncio del Vangelo: sbrigare una pratica, cambiare un pannolino, fare la spesa, studiare, uscire con il fidanzato, andare al cinema o guardarsi una partita, “sbarcando” ogni giorno con Lui pieni di “commozione” di fronte a tutti quelli che “ci precedono”, dal marito o la moglie che incontriamo svegliandoci, ai figli, ai colleghi, a chi sale sulla metro con noi o sfioriamo al banco del mercato.
Ma la “compassione” nasce dall’essere stati a nostra volta oggetti della “compassione” di Gesù. Per questo oggi ci richiama all’ovile della Chiesa per “riposare” in Lui. E così, dalle “viscere” della comunità dove ci siamo ben alimentati, sapremo uscire ad annunciare le “molte cose” sperimentate a chi ancora vaga nella vita perché non ha conosciuto Cristo.
Chi vive in Cristo sa che le persone, tutte, anche quelle più moleste, anche chi si fa nemico, non appaiono nella vita per casualità: esse “precedono” i discepoli di Cristo; forse inconsapevolmente, o più realisticamente perché in qualche modo hanno intuito che nei cristiani vi è qualcosa di diverso, un barlume di speranza. Per questo un discepolo non si stupisce mai di quello che accade nella sua esistenza, perché ogni istante, ogni incontro, ogni fare è prezioso. Gli occhi della “commozione”, infatti, “capiscono” che ogni persona ci “precede” e non è lì per caso, perché “tutti cercano Lui” in noi, per non restare come “pecore senza pastore”.
(Don Antonello Iapicca)
I discepoli partono due a due, non soli
Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli… Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio. L’ha fatto con Abramo da Ur dei Caldei (alzati e va’); con il popolo in Egitto (lo condurrai fuori, nel deserto…); con il profeta Giona (alzati e va’ a Ninive); con Israele ormai installato al sicuro nella terra promessa.
Dio viene a snidarti dalla vita stanca, dalla vita seduta; mette in moto pensieri nuovi, ti fa scoprire orizzonti che non conoscevi. Dio mette in cammino. E camminare è un atto di libertà e di creazione, un atto di speranza e di conoscenza: è andare incontro a se stessi, scoprirsi mentre si scopre il mondo, un viaggio verso un altro mondo possibile.
Partono i discepoli a due a due. E non ad uno ad uno. Il loro primo annuncio non è trasmesso da parole, ma dall’eloquenza del camminare insieme, per la stessa meta. E ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuore.
Un elogio della leggerezza quanto mai attuale: per camminare bisogna eliminare il superfluo e andare leggeri. Né pane né sacca né denaro, senza cose, senza neppure il necessario, solo pura umanità, contestando radicalmente il mondo delle cose e del denaro, dell’accumulo e dell’apparire. Per annunciare un mondo altro, in cui la forza risiede nella creatività dell’umano: «l’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci).
Entrati in una casa lì rimanete. Il punto di approdo è la casa, il luogo dove la vita nasce ed è più vera. Il Vangelo deve essere significativo nella casa, nei giorni delle lacrime e in quelli della festa, quando il figlio se ne va, quando l’anziano perde il senno o la salute… Entrare in casa altrui comporta percepire il mondo con altri colori, profumi, sapori, mettersi nei panni degli altri, mettere al centro non le idee ma le persone, il vivo dei volti, lasciarsi raggiungere dal dolore e dalla gioia contagiosa della carne.
Se in qualche luogo non vi ascoltassero, andatevene, al rifiuto i discepoli non oppongono risentimenti, solo un po’ di polvere scossa dai sandali: c’è un’altra casa poco più avanti, un altro villaggio, un altro cuore. All’angolo di ogni strada, l’infinito.
Gesù ci vuole tutti nomadi d’amore, gente che non confida nel conto in banca o nel mattone, ma nel tesoro disseminato in tutti i paesi e città: mani e sorrisi che aprono porte e ristorano cuori. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Dio chiama e mette in viaggio per guarire la vita, per farti guaritore del disamore, laboratorio di nuova umanità.
(Ermes Ronchi)
La regola della missione è la condivisione
Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.
Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare.
Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.
Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama?
L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!
Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, non dà raccomandazioni di tipo dottrinale, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica.
Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!
Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù.
È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16).
Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento.
Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine nulla: il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?
Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”.
E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno predicare… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio, che non interessa più a nessuno; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.
No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva.
Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere e vivere ancora… Noi cristiani viviamo questo Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra mente e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!
(Enzo Bianchi)
Portatrici dell’amore di Cristo
Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.
Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche cooperatrici di Cristo, le portatrici del suo amore. Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo. Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace. Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed. San Paolo).
Una Chiesa missionaria
«Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46). «La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).
Preghiera
Signore Gesù Cristo,
parola del Padre a te ci rivolgiamo.
Custodisci i nostri propositi,
ravviva il nostro servizio ecclesiale,
sorreggi le nostre fatiche,
guida i nostri passi
nella ricerca delle vie più adatte
per annunciare il tuo vangelo.
La nostra povertà è grande,
noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te:
incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.
Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo,
vivi e regni in noi nella tua Chiesa,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
(Paolo VI).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
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– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi