Film: La quattordicesima domenica del tempo ordinario

Valutazione

Consigliabile, poetico, Problematico, Adatto per dibattiti
Tematica
Alcolismo, Amicizia, Amore-Sentimenti, Anziani, Dialogo, Dolore, Donna, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Malattia, Matrimonio – coppia, Metafore del nostro tempo, Musica, Politica-Società, Povertà, Tematiche religiose
Genere
Drammatico, Sentimentale
Regia
Pupi Avati
Durata
98′
Anno di uscita
2023
Nazionalità
Italia
Titolo Originale
La quattordicesima domenica del tempo ordinario
Distribuzione
Vision Distribution
Soggetto e Sceneggiatura
Pupi Avati
Fotografia
Cesare Bastelli
Musiche
Sergio Cammariere, Lucio Gregoretti
Montaggio
Ivan Zuccon
Produzione
Antonio Avati, Santo Versace, Gianluca Curti. Casa di produzione: Duea Film, Minerva Pictures, Vision Distribution

Interpreti e ruoli

Gabriele Lavia (Marzio), Edwige Fenech (Sandra), Lodo Guenzi (Marzio da giovane), Camilla Ciraolo (Sandra da giovane), Massimo Lopez (Samuele), Nick Russo (Samuele da giovane), Cesare Bocci (Padre di Marzio)

Soggetto

Bologna anni ’70, Marzio, Samuele e Sandra sono tre ventenni pieni di ambizioni: i due ragazzi sognano un futuro nella musica e fondano il gruppo “I Leggenda”, mentre Sandra ha come obiettivo la moda. I loro percorsi si intrecciano, tra pagine di amicizia e amore. Con il passare del tempo, però, sogni e legami mutano di tonalità e forma. Anni dopo, Marzio, Samuele e Sandra si ritrovano, chiamati a fare i conti con guadagni e irrisolti…

Valutazione Pastorale

Ha diretto oltre 50 film tra grande e piccolo schermo, misurandosi con un’ampia varietà di generi. È Pupi Avati, uno dei maestri del cinema italiano contemporaneo, che ha raffinato la sua marca stilistica soprattutto nel racconto della memoria del passato, dell’Italia del XX secolo, tra tradizioni contadine e spinte socio-culturali legate al boom economico. Avati è diventato il cantore dello spirito di un Paese proteso verso il domani, ma con un occhio rivolto sempre al ricordo dolce e malinconico del passato. Ora il regista bolognese è nei cinema con “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, produzione Duea Film, Minerva Pictures in collaborazione con Sky, nei cinema italiani con Vision Distribution. La storia. Bologna anni ’70, Marzio (Lodo Guenzi), Samuele (Nick Russo) e Sandra (Camilla Ciraolo) sono tre ventenni pieni di ambizioni: i due ragazzi sognano un futuro nella musica e fondano il gruppo “I Leggenda”, mentre Sandra ha come obiettivo la moda. I loro percorsi si intrecciano, tra pagine di amicizia e amore. Con il passare del tempo, però, sogni e legami mutano di tonalità e forma. Anni dopo, Marzio (Gabriele Lavia), Samuele (Massimo Lopez) e Sandra (Edwige Fenech) si ritrovano, chiamati a fare i conti con guadagni e irrisolti… “Il tempo ordinario – ha sottolineato Pupi Avati – indica quel momento del calendario liturgico in cui generalmente ci si sposa. E quel giorno di giugno del 1964 rappresenta per me una grande felicità: dopo quattro anni di corteggiamento la ragazza più bella di Bologna finalmente diventava mia moglie”. “Avevo la sensazione – ha aggiunto – che nella mia filmografia mancasse un’opera simile, di confidenze. Pertanto, ho realizzato questo film dove c’è molto di me”. Avati compone dunque un’opera dove i fili della memoria si annodano con quelli del racconto di finzione, una storia che esplora la stagione del sogno giovanile acceso da desiderio di gloria e mosso da energie pulite, approdando poi in età adulta, dove le sfumature diventano dolenti e cupe. Il regista mette a tema il senso di fallimento, la disillusione che abita la stagione avanzata della vita; e lo fa con coraggio e delicatezza, abile nel cogliere stati d’animo e nel dare forma ai rimpianti. Anche se la storia non sembra sempre bene a fuoco, del tutto solida e compatta nei vari passaggi temporali, il film si rivela onesto e generoso, denso di sfumature di sentimento, di pagine esistenziali. È lo sguardo di una grande autore, che rilegge se stesso in una rielaborazione poetica e divulgativa. Consigliabile, problematico-poetico, per battiti.

Utilizzazione

Indicato per la programmazione ordinaria e per successive occasioni di dibattito.

 

In dialogo con Pupi Avati: “Il discorso della montagna è la mia Costituzione”

Giovedì 11 Maggio 2023

Un articolo di: Sergio Perugini

Dal 4 maggio è nei cinema “La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, il nuovo film di Pupi Avati, con Gabriele Lavia, Edwige Fenech e Lodo Guenzi, che si è già posizionato tra i primi del box office. Avati è uno dei maestri del cinema italiano, che si è sempre distinto per la capacità di raccontare memoria e tradizioni del Paese muovendosi tra realismo e poesia, alternando pagine di diffusa dolcezza a sguardi malinconici. Autore di oltre 50 titoli tra grande e piccolo schermo nel corso di cinque decenni – “Il cuore altrove”, “Gli amici del bar Margherita”, “Un matrimonio”, “Lei mi parla ancora” e “Dante” -, ha ottenuto numerosi riconoscimenti tra cui 3 David di Donatello e 7 Nastri d’argento. Lo abbiamo incontrato per una riflessione sul cinema, tra vis poetica e dimensione del Sacro. Agenzia SIR-Cnvf.

Lei ha dichiarato che “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” è molto personale. Ci vuole spiegare perché?
Vado ad affrontare un arco narrativo molto lungo, che parte dalla mia primissima adolescenza, quando – come tutti – avevo l’ardire di poter attendere dalla vita cose straordinarie. Pensavo che la musica mi desse quella possibilità di raccontarmi, persino di essere famoso. Da lì la parabola si spinge all’oggi, dove con lucidità e serenità comprendo che la maggior parte della mia vita è ormai trascorsa. Così, come un drone, ho sorvolato i miei ricordi, cercando di capire cosa abbia parametrato i momenti più felici.

L’unità di misura della felicità?
Il giorno del mio matrimonio, quando mi trovai a poter sposare quella ragazza che avevo corteggiato per 4 anni. Mi sembrava che quella giornata fosse di una felicità senza pari. Posso affermare che lo è ancora. La temperatura della mia gioia di quel giorno penso di non averla mai più raggiunta. Ho ritenuto giusto rendicontarlo attraverso il cinema, sottolineando anche la distanza che spesso sperimentano le persone tra le loro aspettative e ciò che poi accade nella realtà.

Fa riferimento al personaggio di Marzio?
Sì. Nello specifico, però, c’è un aspetto fondamentale della storia che riguarda il ritrovarsi con una donna, Sandra – interpretata da adulta da Edwige Fenech –, che manifesta una capacità di rimuovere ciò che va rimosso, di saper ricominciare. Una donna che dipinge le pareti di casa di blu, una metafora che indica ancora fiducia nella vita, nel domani.

Anche in quest’opera ricorrono immagini e temi religiosi. Che rapporto ha con il Sacro? E quali le sfide nel proporlo sullo schermo?
Una volta eravamo in due, perché c’era Ermanno Olmi. Adesso mi sembra di essere rimasto solo… Giorni fa facevo una considerazione in pubblico, raccontando un passaggio del film quando alla protagonista Sandra viene diagnosticato un carcinoma ovarico e Marzio, dinanzi a questa situazione così complessa dove la scienza dimostra dei limiti, reagisce entrando in una chiesa per pregare. Si rivolge al trascendente in cerca di consolazione, di un aiuto, di ascolto e conforto. Ho chiesto alla platea se ricordasse un film recente con una scena simile, ma nessuno ha saputo rispondere. Allora mi viene da pensare di essere una sorta di eccezione. Nel film racconto anche la ricomposizione di un matrimonio dopo 37 anni: sono tutti elementi che vengono dal mio retroterra, dalla cultura cattolica, valori per me fondamentali. E continuo ostinatamente a riproporli, esponendomi a volte al dileggio. Credo comunque di manifestare una certa coerenza, non cedendo alle mode di un “proselitismo laico”, che priva della possibilità di intuire che ci sia dell’altro. Al mistero della vita e della morte la scienza ancora non riesce a dare risposte. E anche io mi domando sempre se sono riuscito a dare un senso alla mia vita.

Ci spieghi meglio.
Ultimamente ho registrato un’inversione di polarità nei riguardi della gioia: è molto più bello donarla, che riceverla. Prenda come paradigma il nostro modo di fare cinema, come ci rivolgiamo agli attori: io abitualmente vado a cercare non gli attori di tendenza, ma chi è stato emarginato, dimenticato o non ha ricevuto determinate opportunità. È il “Discorso della montagna”, “Le beatitudini”, il momento più alto del Vangelo, che rileggo tutte le sere: è la mia Costituzione. È la cosa più bella che ci sia, pronunciato da un ragazzo di duemila anni fa indicando come l’essere umano dovrebbe comportarsi nei riguardi del mondo, del prossimo.

Lei è uno dei cantori della memoria del Paese, abile nel rileggere pagine sociali e tradizioni. Che valore hanno per lei?
Sono fondamentali. Stiamo rimettendo in discussione tutto. Pensi alla famiglia, prenda per esempio la figura paterna, che di fatto si è defilata, dimessa, deresponsabilizzata. Pensi al fatto che è stata rimossa la locuzione avverbiale “per sempre”: non sentirà nessuno dire “per sempre” nei rapporti, nel matrimonio. Viviamo nella precarietà dei legami, non diciamo più “mio marito” o “mia moglie”, bensì il “mio compagno” o “la mia compagna”. È il tratto di una precarizzazione dei rapporti. Sarò probabilmente un vecchio “conservatore”, ma rivendico la qualità della vita attraverso una correttezza dei rapporti e nel rispetto degli altri.

Nel 2022 ha firmato il ritratto del sommo poeta, “Dante”. Che significato ha avuto tale progetto?
Non ho fatto altro che fare mia la lezione di Roberto Rossellini. Era un autore che aveva questo atteggiamento, sapeva ampliare la conoscenza delle cose, anche in tarda età. Così è accaduto a me: sono arrivato tardi alla bellezza del sapere, a trent’anni, perché nella prima parte della mia vita c’era la musica. Ho scoperto il piacere dello studio e ho deciso di condividerlo grazie al cinema. E che gioia ritrovare Dante, un Dante diverso da quello dei banchi di scuola. L’ho voluto far scendere dal piedistallo, renderlo prossimo, con un atto di riconoscenza risarcitoria. Sono orgoglioso che tanti ragazzi nelle scuole abbiano visto il film. Mi sconforta solo che in questi giorni l’Accademia del cinema italiano (Premi David di Donatello) non lo abbia considerato: è candidato solo per il trucco, per il naso di Dante. Io di certo continuo ad andare avanti, ma confesso che è un po’ faticoso. A tratti ci si sente soli, anche nei riguardi del mondo cattolico, di una certa comunicazione cattolica.

Ha ancora storie da realizzare?
Fortunatamente non ho sogni nel cassetto. Sin dai primi film, molto sessantottini, che oggi rimpiango come risultato dell’insipienza, perché non conoscevo bene il mezzo – Ingmar Bergman diceva che solo dopo 7 film aveva realizzato un’opera che gli assomigliasse –, sono riuscito a essere coincidente con il mio cinema. Non è presunzione, ma semplicemente consapevolezza di quello che faccio. Non ho particolari storie da raccontare, perché ho sempre proposto tutti gli anni la storia che desideravo. Non ho mai aderito ai salotti, all’“amichetteria” per dirla alla Fulvio Abbate, perché sono stato sempre molto “alternativo”. Non ho la frustrazione di film non realizzati. Per fare “Dante” ho impiegato 20 anni, ma alla fine ci sono riuscito.

 

 

Commissione Nazionale valutazione film CEI

 

Fiducia e speranza, un percorso cinematografico

Nel Messaggio per la 51° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, papa Francesco invita gli operatori della comunicazioni e la comunità tutta a offrire una testimonianza della “buona notizia”: raccontare il contesto sociale e le dinamiche relazionali in maniera attenta e realistica, badando bene però di non sottrarre all’informazione anche una luce di speranza. Per questo, l’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e la Commissione nazionale valutazione film della CEI (Cnvf) offrono, a partire da giovedì 2 febbraio, una proposta cinematografica nel segno della “buona notizia”. Si tratta di un ciclo di schede film ragionate, pubblicate ogni settimana fino al 28 maggio sul portale dedicato alla Giornata e sul sito Cnvf.it (sezione: “sguardi di fede”). Il percorso rappresenta una scaletta culturale “per agire”, per animare il territorio attraverso cineforum parrocchiali, sale della comunità oppure l’attività didattica di docenti o catechisti.
Ogni settimana sarà pertanto segnalato un film – disponibile al cinema o reperibile in dvd – adatto alla riflessione, corredato da un approfondimento dell’opera in chiave educational, dalla menzione di ulteriori spunti cinematografici e con richiami alla scheda di valutazione pastorale del film (sempre a cura della Cnvf).

Le pellicole indicate nel programma appartengono a generi e stili narrativi diversi, che permettono di esplorare la società in tutte le sue sfaccettature, mettendo in evidenza nodi problematici e sfide del quotidiano, ma rivelando comunque un messaggio di speranza e una possibilità di riscatto. Nella scelta si alternano quindi commedie frizzanti come “Ho amici in Paradiso” di Fabrizio Maria Cortese, che declina la malattia e la disabilità con rispettoso umorismo, a duri ritratti di una burocrazia distante dal tessuto sociale come in “Io, Daniel Blake” di Ken Loach.

Per maggiori informazioni sul percorso e per chiarimenti sulle proposte – anche in relazione al pubblico di riferimento – è possibile contattare la Commissione nazionale valutazione film all’indirizzo: cnvf@chiesacattolica.it

 

Calendario delle proposte:

Giovedì 2 Febbraio: Ho amici in Paradiso (2016) di Fabrizio Maria Cortese
Giovedì 9 Febbraio: Veloce come il vento (2016) di Matteo Rovere
Giovedì 16 Febbraio: La pazza gioia (2016) di Paolo Virzì
Giovedì 23 Febbraio: Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi
Giovedì 2 Marzo: Race. Il colore della vittoria (Race, 2016) di Stephen Hopkins
Giovedì 9 Marzo: Gli invisibili (Time Out of Mind, 2014) di Oren Moverman
Giovedì 16 Marzo: Marie Heurtin. Dal buio alla luce (Marie Heurtin, 2016) di Jean Pierre Ameris
Giovedì 23 Marzo: Oceania (Moana, 2016) di Ron Clements, John Musker
Giovedì 30 Marzo: Sully (2016) di Clint Eastwood
Giovedì 6 Aprile: Fiore (2016) di Claudio Giovannesi
Mercoledì 12 Aprile: Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake, 2016) di Ken Loach
Giovedì 20 Aprile: Brooklyn (2016) di John Crowley
Giovedì 27 Aprile: Paterson (2016) di Jim Jarmush
Giovedì 4 Maggio: Piuma (2016) di Roan Johnson
Giovedì 11 Maggio: La ragazza senza nome (La fille inconnue, 2016) di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Giovedì 18 Maggio: Silence (2016) di Martin Scorsese
Giovedì 25 Maggio: Collateral Beauty (2016) di David Frankel

Al Festival del film cattolico, premiato “Poveda”

“Un atto d’amore verso la Chiesa”, così la regista e produttrice Liana Marabini ha definito il Festival Internazionale del Film Cattolico (Mirabile Dictu), la cui settima edizione si è conclusa il 23 giugno a Roma con la cerimonia di premiazione presso il Palazzo della Cancelleria. La regista ha anche parlato del suo nuovo film, Mothers, che uscirà l’11 settembre negli Stati Uniti e ad ottobre in Italia (guarda il trailer), nel cui cast figurano tra gli altri Remo Girone e Christopher Lambert. “È il primo film sulle madri dei foreign fighters, cioè sul fenomeno dei giovani europei che si arruolano nella Jihad – ha spiegato Liana Marabini –. Il suo obiettivo è di sensibilizzare i genitori e le scuole a riconoscere i segni della radicalizzazione”.
 
“Fin dalla prima edizione, sette anni fa, il Pontificio Consiglio per la Cultura che io presiedo è stato patrocinatore di questo evento – ha notato il cardinale Gianfranco Ravasi nel suo saluto introduttivo –. Il cinema è un’arte che rivela sempre più la caratteristica – e lo ha fatto con delle testimonianze straordinarie – di non essere solo ‘rappresentazione della epidermide della realtà’ – come diceva Artaud – come lo era inizialmente la fotografia. Sia il cinema che la fotografia sono diventate espressione di arte e qualche volta di arte altissima”.
“Abbiamo voluto sostenere questa iniziativa – ha proseguito il cardinale – perché il desiderio è di unire fede e arte. Difatti nel Dicastero che io presiedo c’è un dipartimento dedicato a fede e arte, il cui intento non è solo quello di partecipare a iniziative come la Biennale d’Arte di Venezia, ma anche di poter entrare all’interno di questo orizzonte che è l’orizzonte del cinema e riuscire a fare in modo che in esso si realizzi il sogno supremo di ogni arte, quello di saper unire i grandi universali, un po’ come sognava Aristotele, il quale pensava che nell’essere si incontrano tra di loro il vero, il bello e il giusto, il buono. Tutto questo, unito insieme – lo diceva già Aristotele – avviene soltanto nella perfezione del divino. Però noi dovremmo sforzarci maggiormente di riuscire a trovare il nodo d’oro che tiene insieme queste tre realtà, soprattutto nel mondo attuale, nel quale vediamo molto spesso profilarsi all’orizzonte delle nostre città – città spesso splendide, com’è ad esempio Roma – due realtà che hanno la stessa radice in italiano ma sono diverse tra di loro, cioè la bruttura e la bruttezza. Esse non sono del tutto sinonimi, perché la bruttezza esprime una qualità estetica, mentre la bruttura vuol dire invece una qualità di tipo morale. Queste due realtà spessissimo si incrociano tra di loro, perché la bruttezza genera bruttura, pensiamo a certi quartieri degradati che diventano degradati anche moralmente”.
“È per tale motivo – ha quindi concluso Ravasi – che l’impegno di questo Festival e del grande cinema è quello di tentare di unire il bello e il buono, arte e fede, spiritualità e dramma dell’esistenza umana. Io credo che potremo sempre sperare che alcuni registi riescano a trovare quel bello che riesce ad esprimere anche il bene… Ripeto che il bello non vuol dire necessariamente una forma estetizzante, può essere anche scavare nell’oscurità, nelle viscere della società, nelle catacombe dell’anima. Anche quando vediamo dei film che magari sono segnati dalla sofferenza e dal dramma, riusciamo però a vedere che quel regista, quell’attore hanno cercato di far sbocciare questo sogno che non sempre si realizza in tutte le opere, in tutte le arti, in tutti i film, il sogno di raggiungere quello che diceva Aristotele, e che San Tommaso d’Aquino ha ripetuto: ‘Bonum, verum et pulchrum inter se convertuntur’ ”.
 
Oltre mille le pellicole pervenute quest’anno alla segreteria del Festival. Questi i vincitori decretati dalla Giuria – presieduta dalla principessa Maria Pia Ruspoli, attrice, e composta da: monsignor Franco Perazzolo, del Pontificio Consiglio della Cultura, dal distributore e produttore austriaco professor Norbert Blecha, da Michèle Navadic, direttore programmazione RTBF (Belgio) e dalla produttrice Oriana Mariotti – ai quali è stato consegnato il Pesce d’Argento, ispirato al primo simbolo cristiano.
 
Miglior cortometraggioThe Confession di Johnn La Raw (Corea del Sud).
Un uomo, ubriaco al volante, investe mortalmente un pedone senza prestargli soccorso né costituirsi. Dopo anni, ormai prossimo alla morte a causa di una grave malattia, torturato dalla sua coscienza, confessa il suo crimine ad un sacerdote, che si scopre essere il figlio orfano del pedone ucciso.
 
Miglior documentarioA life is never wasted di Krzysztof Tadej (Polonia).
È un film sulla vita e sulla morte, sull’amore e l’odio. Descrive la tragica fine di due missionari polacchi, i padri Michal Tomaszek (31 anni) e Zbigniew Strzałkowski (33 anni), impegnati in Perù a diffondere il messaggio di Dio e assassinati nel 1991 con un colpo alla nuca dai guerriglieri comunisti appartenenti al Sendero Luminoso. I due frati francescani sono stati beatificati da Papa Francesco il 5 dicembre 2015.
 
Miglior registaLampedusa di Peter Schreiner (Austria).
Le vite di un ex profugo africano e di una donna fuggita per far fronte a una crisi personale si incrociano per caso sull’isola siciliana di Lampedusa. Ricordi, sogni e presente si intersecano e si fondono in questo capolavoro contemplativo girato in bianco e nero.
 
Miglior filmPoveda di Pablo Moreno (Spagna), prodotto da Andrés Garrigò (Goya Producciones).
Padre Pedro Poveda (1874 – 1936) è stato un presbitero spagnolo, fondatore dell’Istituzione Teresiana, che ha lottato per i diritti delle donne e il miglioramento dell’educazione dei bambini. Fucilato dai repubblicani durante la guerra civile spagnola, padre Poveda è stato canonizzato come martire da Giovanni Paolo II nel 2003.
 
Il Premio speciale della Capax Dei Foundation è andato al film Kateri di James Kelty (USA), prodotto dal networkcattolico EWTN e dallo stesso Kelty, dedicato alla figura di Kateri Takakwitha, la prima santa pellerossa d’America, vissuta tra il 1656 e il 1680, canonizzata da Benedetto XVI nel 2012.
 
Il Premio alla Carriera è stato attribuito al produttore televisivo italiano Bibi Ballandi. Sono sue le produzioni di molte trasmissioni televisive italiane di successo degli anni Ottanta, Novanta e Duemila, gli ‘one-man show’ di Fiorello, Adriano Celentano, Gianni Morandi, Giorgio Panariello e Massimo Ranieri e i grandi varietà del sabato sera: Ballando con Le Stelle e Ti Lascio una Canzone.

EDUCAZIONE AFFETTIVA: il documentario sul ruolo degli affetti e la creatività a scuola

Dopo aver debuttato a febbraio solo in Toscana, il 30 marzo raggiunge una diffusione nazionale Educazione affettiva di Federico Bondi e Clemente Bicocchi, documentario che vuole sollecitare una riflessione sulla rilevanza degli affetti e della creatività nel processo scolastico, dando voce ai protagonisti veri della scuola, maestri e bambini.   

Bondi (dopo Mar Nero, 2008) e Bicocchi mettono la macchina da presa all’altezza degli scoari e raccontano allo spettatore gli ultimi giorni di lezione di una quinta elementare della Scuola Pestalozzi di Firenze.  

Educazione affettiva è la storia di una crescita, del lento e naturale distacco di un gruppo di bambini dalla scuola primaria fatto di rituali, ansie e paure. Le emozioni e il passaggio alla tanto temuta   adolescenza si manifestano maggiormente in alcuni momenti della gita scolastica dei ragazzi assieme ai maestri Matteo Bianchini e Paolo Scopetani, esperienza che si fa metafora dell’ingresso nell’età   adulta e ci mostra parte di un mondo spesso inaccessibile e segreto per gli adulti.  

“Questo non è un film sulla scuola, tanto meno un film sulla Scuola Città Pestalozzi, o sull’esperienza di una singola classe, ma un film che grazie a Scuola Città Pestalozzi offre la sua esperienza sui percorsi formativi per dare voce ai veri protagonisti assoluti della scuola: i bambini e i maestri”, dicono i registi Bondi e Bicocchi. “L’intento è quindi quello di entrare nel loro mondo fatto di relazioni, giochi, rituali, emozioni e sentimenti che appartengono e sono appartenuti a tutti i bambini di qualsiasi scuola. La fantasia è parte integrante di questo percorso dove i bambini diventano protagonisti e co-autori assieme a noi: un’immagine, che prende corpo quasi per  caso, provoca una serie di reazioni a catena, coinvolgendo suoni, analogie e ricordi, significati e sogni, occasioni di “riflessioni fantastiche” per riconoscere il ruolo della creatività, del cinema e della musica all’interno del processo scolastico, confermandoci il valore dell’immaginazione come ‘funzione dell’esperienza’ e il ruolo educativo dell’utopia come ci indica Gianni Rodari”.

Qui le sale cinematografiche delle proiezioni di Educazione affettiva.

In questo video in esclusiva un estratto di Educazione affettiva:

“Una scuola italiana”

La scuola elementare Carlo Pisacane nel quartiere Torpignattara di Roma è stata sotto l’attenzione mediatica per il sovraffollamento di bambini “stranieri” in un quartiere che è stato uno dei primi ad accogliere le comunità straniere a Roma. Giulio Cederna e Angelo Loy raccontano le conseguenze di quest’attenzione con partecipazione e spontanea vivacità

I fatti hanno destato una larga attenzione mediatica. La scuola elementare “Carlo Pisacane” di Torpignattara, quartiere popolare di Roma, ha un’alta densità di popolazione scolastica di bambini non figli di italiani. Il quartiere ha una larga tradizione di accoglienza essendo stato il primo di Roma a dare ospitalità alle comunità di stranieri che arrivavano nella capitale. Davanti a questi fatti il tentativo degli insegnanti è quello di lavorare sulle diversità culturali in direzione di una integrazione con ogni conseguente beneficio sociale. Va detto che, nonostante possa apparire assurdo, bambini nati in Italia, sia pure da genitori stranieri, non vengono considerati italiani nonostante si esprimano in corretto italiano, e, all’occasione, in perfetto dialetto locale.

La protesta di una minoranza di genitori dei bambini alunni dell’istituto ha fatto scoppiare il caso del “Pisacane”. La ragione di questa protesta è che sono troppi i bambini stranieri nella scuola.

L’associazione Asinitas è stata chiamata a collaborare con le insegnanti. È nato un singolare esperimento di integrazione che coinvolge i bambini, le insegnanti e i genitori. Si dovrà mettere in scena il Mago di Oz, una storia che – non casualmente – presenta personaggi nei quali vibrano i sentimenti anche sotto le spoglie di un uomo di latta e capaci di risolvere i problemi anche se spaventapasseri senza cervello.

Il film di Giulio Cederna e Angelo Loy, nato con la collaborazione di Cecilia Batoli dell’associazione Asinitas, è la cronaca di questo percorso, è il racconto delle difficoltà della scuola davanti a queste proteste, ma anche quello delle storie che si incrociano frequentando la scuola “Pisacane” che appare un vero fortino sotto assedio nel quale emerge il coraggio e la determinazione del corpo insegnante.

Cederna e Loy raccontano con partecipazione la difficile realtà posta all’attenzione della cronaca e con altrettanta spontanea vivacità la messa in scena del racconto di Lyman Frank Baum. Una scuola italiana valorizza, attraverso i primi piani, i volti dei bambini, il racconto delle relazioni che i piccoli protagonisti sanno creare tra di loro o con gli adulti. Il film di Cederna e Loy si aggiunge, in positivo, al novero degli altri titoli che in questi ultimi due anni hanno esplorato i luoghi primari della cultura in Italia. Non vi è dubbio che dietro questa urgenza di raccontare la scuola esista un disagio da una parte, avvertito dalla sensibilità autoriale e la voglia, dall’altra, di rendere pubblica ogni vicenda, ma perfino la quotidianità come si è visto anche in questa edizione del festival. Non sarebbe altrimenti spiegabile la disponibilità dimostrata dall’intero corpo scolastico nei confronti di Marco Santarelli e anche degli stessi genitori nei confronti di Giulio Cederna e Angelo Loy. Ma soprattutto Una scuola italiana racconta un pezzo d’Italia che si riflette nelle aule scolastiche. Per questa ragione questo non è soltanto un film sulla scuola, ma soprattutto un lavoro che con straordinario equilibrio riporta la cronaca dentro il cinema. Cederna e Loy mostrano la vita dentro quella scuola e la vita non ha nazionalità.

Colpa delle stelle

Solidarietà ed altruismo nella difficile storia dei due giovani protagonisti malati di cancro. 

Di film che cercano di commuovere gli spettatori raccontando  una storia d’ amore che termina tragicamente con  la morte di uno dei due amanti a causa di una malattia incurabile, ce ne sono stati tanti; i fiumi di lacrime che vengono versati, i fazzoletti  consumati  testimoniano il perenne successo di queste pellicole. Vorrei  ricordare, come caratteristici di questo filone,  Love story (1970) e Autunno a New York (2000).

Colpa delle stelle sembra voler raddoppiare l’effetto: non uno, ma entrambi gli innamorati sono malati di cancro (lei ai polmoni, lui alle ossa)  e fin dall’inizio ci domandiamo chi dei due morirà per primo. Anche per vedere questo film è opportuno portarsi un’ampia scorta di fazzoletti ma nonostante questo inevitabile “difetto”, la grande abilità narrativa del  regista e la contagiosa simpatia dei due protagonisti rendono il racconto interessante  e gradevole.

Hazel e Gus sono giovani e come tali si mostrano sempre pronti a sorridere e scherzare ma la sceneggiatura (ricavata dal best seller omonimo di John Greene) li rende attraenti perché ce li mostra dotati  di alcune insolite virtù: solidarietà e altruismo.

“La cosa peggiore di morire di cancro è avere una figlia che muore di cancro” pensa Hazel che si preoccupa  più di quello che provano i suoi genitori che di se stessa. Ciò che la rattrista è il pensare a cosa faranno quando lei, figlia unica, non ci sarà più e quando scopre che stanno frequentando un corso di assitenti sociali per poter aiutare in seguito altre famiglie che si trovano nella loro stessa situazione, Hazel li abbraccia felice.

Anche Gus non lascia da solo un istante il suo amico Isaac; a causa del cancro diventerà presto cieco e Gus cerca di confortarlo e distrarlo durante i momenti di sconforto. “Parlami” è la frase che ricorre più volte fra questi ragazzi dalla vita breve: il chiudersi in se stessi è la cosa peggiore che possa capitare all’interno del loro piccolo  circuito di solidarietà.
Verso metà del film la visita di Hazel e Gus alla casa di Anna Frank  attiva in modo manifesto un  parallelo del loro atteggiamento con quello di quella ragazza che serenamente affrontò il suo dramma non dimenticando mai che “nonostante tutto la gente ha un cuore buono” .

Un altro aspetto che caratterizza questo originale lavoro è il fatto che i due ragazzi non evitano di soffermarsi sulla loro condizione ma ne parlano apertamente. Entrambi cercano di dare un senso alla loro vita: partono da posizioni diverse ma poi l’uno finisce per comprendere e assimilare le rispettive posizioni, realizzando quella intesa profonda che finirà per sfociare in amore.

Quando Hazel si allontana da Gus perché la sua malattia sta peggiorando e vuole evitargli ulteriori sofferenze,  lui risponde che per lui “sarebbe un privilegio avere un cuore a pezzi per te”. Quando sarà poi lui a sentirsi triste perché si accorge che nella sua vita non è riuscito a diventare famoso e il suo destino sarà il completo oblio, sarà lei ad arrabbiarsi facendogli notare che  lui è importante per lei e ciò gli deve bastare.

In due hanno modo di aiutarsi a vicenda anche quando cercano di approfondire il  tema della vita dopo la morte.
Se lei preferisce restare scettica, lui rigetta questa prospettiva: Gus si sente innamorato e non può sopportare che il suo amore sia “un grido nel vuoto”.  In un altro confronto fra loro due sarà lei a riconoscere che il loro amore ha un sapore di infinito: “mi hai regalato un per sempre in un numero finito di giorni”.

Il tema dela fede non è mai affrontato in modo esplicito ma è presente nel film solo come allusione discreta:   nella figura del  moderatore del gruppo di sostegno che cerca di parlare di Gesù ai suoi malati, nei funerali religiosi.
Il film non riesce sempre ad evitare di sfociare nel patetico (Gus, prima di morire, vuole ascoltare i discorsi funebri che i suoi amici hanno preparato per lui), qualche zuccherosa romanticheria (“abbiamo imbottigliato tutte le stelle per voi” dice il cameriere ai due innamorati nel versare dello champagne) o insostenibili “americanate” , come quando il loro bacio in un luogo pubblico scatena l’applauso di tutti i presenti.

Alla fine un incasso in U.S.A. di 124 milioni di $ su un budget di 12 milioni sta a dimostrare come anche temi difficili come quello delle  malattie incurabili riesca a far breccia nel pubblico, grazie a due attori perfettamente nella parte, un bravo regista e un libro di riferimento scritto da chi è stato capace di scavare in profondità sul tema. 

di Franco Olearo

100 Metri dal Paradiso

Monsignor Angelo Paolini (Domenico Fortunato) è uno spirito illuminato, profondamente convinto che la Chiesa debba ‘aggiornare’ il suo linguaggio per poter continuare a testimoniare la parola di Dio al mondo. Mario Guarrazzi (Jordi Mollà), suo caro amico d’infanzia, è invece un ex centometrista che, nella sua carriera, ha vinto tutto tranne la cosa più importante: le Olimpiadi. Un cruccio che ha segnato la sua vita e dal quale cerca riscatto attraverso suo figlio Tommaso (Lorenzo Richelmy), anch’egli ottimo velocista. La sua speranza si spegne, però, quando Tommaso gli rivela di non poter andare ai Giochi perché intende farsi frate.

Per Mario è il tracollo! A ridargli speranza, paradossalmente, è proprio un’idea di Angelo che pensa di poter risolvere le proprie necessità e quelle dell’amico attraverso un progetto a dir poco sconcertante: mettere su la Nazionale Olimpica del Vaticano e partecipare alle Olimpiadi di Londra 2012. L’idea, apprezzata dal Segretario di Stato (Mariano Rigillo), viene però bocciata dal diretto superiore di Paolini, Sua Eminenza Higgins (Ralph Palka), espressione dell’ala più tradizionalista della Chiesa. L’unico modo per andare avanti è quello di ‘aggirare’ l’ostacolo e organizzare una stangata ai danni delle gerarchie ecclesiastiche. Inizia così la seconda fase del folle progetto. Reperire tra i religiosi di tutto il mondo ex sportivi da affiancare a Tommaso per costruire la squadra del Vaticano. 
E’ il 27 Luglio 2012. All’apertura della XXX Olimpiade c’è, straordinariamente, anche la Nazionale del Vaticano..

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La mafia uccide solo d’estate

Le stragi di mafia? Ve le racconto io!

di Ermanno Giuca

Pif, conduttore di Mtv, approda al cinema con “La mafia uccide solo d’estate”. Gli anni dello stragismo raccontati attraverso gli occhi di un bambino palermitano, che da grande vuole fare il giornalista.

Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, è noto al pubblico televisivo (in particolare quello giovanile) per il Testimone, programma televisivo in onda su Mtv, che lui stesso conduce. Con una semplice telecamera ed una massiccia dose di irriverenza, Pif realizza inchieste giornalistiche, intervistando personaggi celebri, intrufolandosi in eventi ufficiali o raccontando semplicemente storie che non sempre trovano spazio nelle prime pagine dei quotidiani.

Stavolta, però, il salto è stato decisamente ambizioso. Il conduttore siciliano decide di scrivere, dirigere e interpretare un film tutto suo perché, come racconta lui, «era necessario raccontare una mafia che non si identificasse solo nella figura tarchiata di Totò Riina, ma una mafia che abita nel nostro stesso condominio! Una mafia che frequentava anche la Palermo per bene».

“La mafia uccide solo d’estate“, è una sorta di autobiografia, dove Pif prova a raccontarsi con gli occhi del piccolo Arturo che vive la sua giovinezza nella Palermo degli anni ottanta, la stagione delle stragi di mafia. Mentre lui cerca di farsi notare da Flora, la compagna di classe di cui è innamorato, attorno a sé saltano in aria le vite del generale Dalla Chiesa, di Boris Giuliano, di Pio La Torre fino alle bombe di Capaci e di via d’Amelio del 1992.
Dopo l’incontro con un giornalista, affittuario della casa del nonno, decide che da grande vuole fare proprio quel mestiere. Chiede, cerca, indaga, ma l’unica risposta che riceve da chi lo circonda è che quelle morti sono solo “questione di femmine”. Ben presto, però, riuscirà a conquistare Flora e a baciarla, mentre attorno a loro si celebrano i funerali di Falcone e Borsellino.

Ironizzare sui mafiosi e umanizzare i giudici è stato uno dei primi obiettivi che il regista si è posto, perché «Paolo Borsellino non era un santo ma era uno come noi». E su questa scìa, carta vincente del film sono le crude scene degli attentati corredate da una colonna sonora rilassata, divertente, quasi da commedia. Una forma di racconto che rende ancora più drammatico tutto ciò a cui lo spettatore assiste.

Riuscire a trasmettere alle nuove generazioni la tragicità di quegli anni e farlo nel modo più leggero possibile: Pif c’è riuscito raccontando agli italiani parte della sua storia di palermitano. La storia di un bambino che non fa altro che guardarsi attorno. Per fortuna, però, è ancora inverno.

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La mafia uccide solo d’estate

One Day after Peace

È “One Day after Peace” di Erez Laufer e Miri Lauferil film che ha vinto il Gran Premio “Nello Spirito della Fede” della XVI edizione delReligion Today Filmfestival. Il docufilm, coprodotto da Israele e Sudafrica, ha ricevuto anche il Premio Signis assegnato dalla World Catholic Association for Communication.

Si tratta di un documentario che parte dalla ipotetica possibilità di applicare i mezzi utilizzati per risolvere il conflitto in Sudafrica al conflitto israelo-palestinese. Narra di Robi, nata nella nazione africana all’epoca dell’apartheid. Suo figlio viene ucciso durante il servizio nell’esercito israeliano. Mentre cerca di avviare un dialogo con il palestinese che lo ha ucciso, Robi torna in Sudafrica per approfondire l’esperienza dellaCommissione per la Verità e la Riconciliazione. Un viaggio da un profondo dolore personale alla convinzione che un futuro migliore è possibile
La Giuria ha inoltre assegnato il premio di Miglior film a “Mar-Snake” di Caner Erzincan (Turchia). Menzione speciale all’iraniano “Queen” di Mohammad Ali Basheh Ahangar. Il Premio per il miglior cortometraggio è stato assegnato a “The Fall” diKristof Hoornaert (Belgio). Come miglior documentario è stato scelto “Numbered” diUriel Sinai e Dana Doron (Israele); menzione speciale per “Au nom du frère” di Youssef Ait Mansour (Marocco). La Giuria che ha assegnato i premi era composta da Sergio BottaAbeer HaddadOren Tirosh e Marian Tutui.
La cerimonia di premiazione si è svolta ieri, sabato 19, alle ore 20.30, presso il Teatro San Marco di Trento.
Il film vincitore sarà proiettato lunedì 21 aprile, alle ore 17.30, nell’Aula C1 dellaFacoltà di Scienze della Comunicazione sociale dell’UPS, di seguito al Seminario internazionale che si svolge in mattinata. Il prof. Sergio Botta, docente de La Sapienza di Roma e membro della Giuria del RTFf, ne farà l’introduzione.

L’anima attesa

 L’anima attesa, lo sguardo di Don Tonino Bello. Immaginando il viaggio di un uomo d’affari nel Salento, si parla del pensiero del vescovo di Molfetta, Don Tonino, su due temi di grande attualità: la critica a un modello economico ingiusto e fuori controllo che produce dipendenza, fame, miseria nel Sud del mondo e la richiesta di un nuovo ordine di giustizia e di pace.

LA TRAMA

Carlo, uomo d’affari che non crede più in niente, subisce le conseguenze della crisi finanziaria innescata da un’ingorda attività speculativa. Colpito nell’anima e negli affari, decide di prendersi un fine settimana di pausa e raggiungere la sorella che vive ad Alessano, centro del Salento dove è sepolto don Tonino Bello, vescovo di Molfetta. Durante il viaggio, Carlo avrà modo di sperimentare attraverso una serie di eccezionali segni il vero messaggio tramandato da don Tonino, riscoprendo prima di tutto se stesso.