¿Una catequesis imposible? Autismo y catequesis en diálogo

Pablo Vadillo Costa (1992), sacerdote della Diocesi di Zaragoza (Spagna), è dottore in teologia con specializzazione in catechetica presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma. Ha svolto la sua tesi di dottorato sull’autismo e l’iniziazione cristiana. Attualmente è docente presso il Centro Regionale di Studi Teologici dell’Aragona, dove insegna diverse discipline nel corso della Laurea in Teologia Catechistica e presso l’Università San Jorge, dove insegna Dottrina sociale della Chiesa. Accompagna i processi di iniziazione cristiana delle persone con disabilità.

PROFILO DELL’OPERA

Pablo Vadillo offre chiavi di lettura e di azione per una catechesi fruttuosa per una comunità inclusiva. La catechesi con le persone con autismo è una realtà plausibile nelle comunità cristiane e per questo vengono offerte alcuni orientamenti di visione e di percorsi formativi per i responsabili degli itinerari di fede. Mettere la catechesi in dialogo con l’autismo è una sfida perché possono far parte della “loro” comunità cristiana e della “nostra” Chiesa.

INDICE

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 10,25-27.34-35.44-48

 

   Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!». Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.

  Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

 

  • Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap. 10 degli Atti. Consigliamo di rileggere tutto il cap. 10 nella sua interezza. Siamo ad un momento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Cornelio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.

— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v. 25). Di fronte ai prodigi e ad un essere superiore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione. Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).

— «Alzati…» (v. 26). La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri. Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v. 27).

— «Dio non fa preferenze di persone» (vv. 34-35). È l’inizio del discorso di Pietro: non è soltanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,7; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che trova riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico. È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.

— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v. 35). Allargata a tutti i popoli, la misericordia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e rispetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.

— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv. 44-48). Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani». Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v. 47). Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v. 47). L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo estatico (v. 46). In entrambi gli aspetti è da vedere l’unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.

 

Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10

 

  Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

 

  • In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressoché parallelo a quello della II Lett. di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la

probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva. Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa. Il brano di oggi si colloca esattamente all’inizio di tale sviluppo.

Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura:

Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv. 7-8). Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore. Ne derivano due conseguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v. 7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio. Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comunione con Dio (v. 8). Per S. Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non avviene se non attraverso un movimento di amore.

Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della venuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v. 9). «Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, diletto, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandandolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).

Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, (v. 10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato. Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.

 

Vangelo: Giovanni 15,9-17

 

  In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

Esegesi

 

Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv. 1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici. Il brano è costituito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».

Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»:

amore (in gr. agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si applica a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura). La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v. 9), comunicandosi agli uomini nel tempo. Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzialmente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro. La comparazione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf. v. 10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione. Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario. Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è però più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli. Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v. 13);

amicizia, amico (in gr. philos). Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due persone che sono sullo stesso piano. Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici. La differenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v. 15). Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v. 15).

Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere. Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziativa gratuita e sovrana (v. 16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missione (portare frutto) stabile e duratura (v. 16).

 

Meditazione

 

«Amiamoci gli uni gli altri». È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un’esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l’ampiezza che giungeva sino all’amore per i nemici, anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natu­ra e indicarne la fonte: «Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv 4,7). L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il ter­mine greco «eros». L’apostolo usa, invece, la parola «agape» per con­notare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.

Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò par­tire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri senti­menti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infat­ti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgia­mo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant’Agostino applicava all’uomo: «Inquietum est cor nostrum…». Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del «cuore inquieto di Dio»: Egli è venuto sulla terra per cercare e salvare ciò che era per­duto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. È un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l’amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l’amato.

Sì, Dio è inquieto finché non trova l’uomo. E lo è a tal punto «da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). L’amore di Dio, potremmo dire, «è in discesa», si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, «sino a dare la vita per i propri amici, come Gesù stesso dice. Si legge ancora nella prima lettera di Giovanni: «In questo sta l’amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10). È Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. È, in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (1Cor 1, 28). Questo è il Dio dei Vangeli: un Dio che è mosso da un amore che non si fa indietro neppure davanti alla mancanza di vita, alla negazione dell’amore. Dio si fa piccolo pur di raggiungere il più disgraziato degli uomini e arricchirlo della sua amicizia. La storia stessa di Gesù è racchiusa in tale amore. Dio, infatti, non è l’Essere in sé, alla maniera del pensiero aristotelico, ma è l’Essere per noi, è apertura infinita, è amore appassionato per noi.

Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù. L’amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere per amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. Infatti «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito… Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori… Per questo per la Bibbia e per Gesù l’amore, l’agape, non è un sentimento in balia delle circostanze o dei sentimenti, ma un «comandamento», qualcosa a cui rispondere e che si deve costruire: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi». Forse è proprio quel «come» la novità dell’amore cristiano. Siamo chiamati ad amare nella stessa misura di Gesù.

Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomi­ni basati sull’attrazione «naturale» sono labili, basta poco per rovesciar­li e distruggerli. È diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire i rapporti definitivi e fedeli. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9).

Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore; possiamo però riceverlo da Dio; se accolto, ha una forza dirom­pente: fa crollare i muri, cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: «Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!». Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera dì razza, di cultura, di nazio­ne, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11).

 

L’immagine della domenica

Cammino di Santiago (Finisterre)     –     2018

 

 

«Se ti senti solo

quando sei da solo,

sei in cattiva compagnia».

(Jean-Paul Sartre)

 


Preghiere e racconti

 

Abitare nella casa dell’amore

Questa è una singolare metafora dell’amore. L’amore non è soltanto un sentimento passeggero. È uno spazio in cui si può rimanere. Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio. Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri. Altrimenti ristagna. E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.

L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà. È puro dono. A un amore del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.

Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore. Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo. Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più. E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso. Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile. Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.

(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).

 

La differenza cristiana: amarsi come ama il Signore

Una poesia dolcissima e profonda, ritmata sul lessico degli amanti: amare, amore, gioia, pienezza, frutti… È il canto della nostra fede. Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Di amore parliamo come di un nostro compito. Ma noi non possiamo far sgorgare amore se non ci viene donato. Siamo letti di fiume che Dio trasforma in sorgenti.

Rimanete nel mio amore. Nell’amore si entra e si dimora. Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. Spesso all’amore resistiamo, ci difendiamo. Abbiamo il ricordo di tante ferite e delusioni, ci aspettiamo tradimenti. Ma Gesù ti dice: “arrenditi all’amore”. Se non lo fai, vivrai sempre affamato. Gesù: il guaritore del tuo disamore. Il mondo sembra spesso la casa dell’odio, eppure l’amore c’è, reale come un luogo. È la casa in cui già siamo, come un bimbo nel grembo della madre: non la può vedere, ma ha mille segni della sua presenza: «Il nostro vero problema è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). L’amore è, esiste, circola, ed è cosa da Dio: amore unilaterale, a prescindere, asimmetrico, incondizionato. Questo vi ho detto perché la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, il Vangelo è da ascoltare con attenzione, ne va della nostra felicità, che sta in cima ai pensieri di Dio. Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. Non semplicemente: amate. Ma fatelo in un rapporto di comunione, un faccia a faccia, una reciprocità. E aggiunge la parola che fa la differenza cristiana: amatevi come io vi ho amato. Amare come Cristo, che lava i piedi ai suoi; che non giudica nessuno; che mentre lo ferisci, ti guarda e ti ama; in cerca degli ultimi. Chiunque ami così, qualsiasi sia il suo credo, è entrato nel flusso dell’amore di Cristo, dimora in lui che si è fatto canale dell’amore del Padre. Come lui ognuno può farsi vena non ostruita, canale non intasato, perché l’amore scenda e circoli nel corpo del mondo. Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, come quando si chiude una vena nel corpo.

Voi siete miei amici. Non più servi. Amico: parola dolce, musica per il cuore dell’uomo. Un Dio che da signore e re si fa amico, e teneramente appoggia la sua guancia a quella dell’amato. Nell’amicizia non c’è un superiore e un inferiore, ma l’incontro di due libertà che si liberano a vicenda. Perché portiate frutto e il vostro frutto rimanga. Quali frutti dà un tralcio innestato su una pianta d’amore? Pace, guarigione, un fervore di vita, liberazione, tenerezza, giustizia: questi nostri frutti continueranno a germogliare sulla terra anche quando noi l’avremo lasciata

(Ermes Ronchi)

 

La gioia degli amati che amano

  1. Il contesto del brano evangelico è il «libro degli addii» (Gv13-17), a tavola Gesù rivela se stesso e le cose che gli stanno a cuore ai «suoi», un vero lascito testamentario non solo ai presenti a quella cena ma agli amici di ogni luogo e di ogni tempo resi contemporanei al suo racconto tramite la «lectio», la lettura-ascolto. Contemporanei a un Tu che ci svela al contempo il suo nome e il suo compito, il nostro nome e il nostro compito e il nome di chi è all’origine del tutto.
  2. La narrazione inizia con un Gesù che si presenta in questi termini: io mi chiamo «amato dal Padre» (Gv 15,9), il quale a sua volta si chiama amore: «Dio è amore» (1Gv 4,18). Gesù comunica ciò che sa, introduce i suoi a segreti uditi dal Padre stesso (Gv 15,15), il segreto dell’ «incipit»: in principio vi è un Tu che ama, un Amante dal cui grembo è stato generato l’Amato, nome proprio di Gesù, inviato ad amare come amato, compito proprio di Gesù (Gv 15,9). Vi è dunque l’Amore all’origine di Gesù e alla intelligenza di sé come amato, un Amore a lui imperativo categorico: la fedeltà alla propria verità di amato inviato a travasare l’amore che lo ha generato, il solo in grado di generare figli e non schiavi, amici e non nemici. Gesù, a questa consapevolezza di sé di essere il sacramento storico, visibile e tangibile, di Dio amante dell’uomo, è «Si»: «Rimango nel suo amore» e il suo comando rimane in me (Gv 15,10). La mente è aperta a conoscenze inedite precluse all’indagine razionale e al calcolo scientifico, un sapere frutto di discorsi a tavola di un certo Gesù: in principio vi è un Amante, detto Padre, che in forza dell’Amore, detto Spirito, genera l’Amato, detto Figlio, l’inviato a inondare di amore sia il mondo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16), che i suoi non a caso definiti discepoli amati: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi» (Gv 15,9). Come? Con un amore elettivo: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16); oblativo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13); esigente: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,13),: «Questo vi comando: che riamiate gli uni gli altri» (Gv 15,17). Un amore infine amico: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), e «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» Gv15,14).
  3. Chi è il discepolo? Un incontrato e un invitato a tavola da un amico di nome Gesù che ha deciso di raccontargli «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35). Dio è amore e fonte sorgiva di ogni amore, Gesù è l’amato inviato a raccontare in parole e gesti l’amore di Dio per ogni creatura, il discepolo è l’amato da Dio in Gesù mandato ad amare come amato da Dio in Gesù. Ove al «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9) si risponde si lì è dato al discepolo, e in lui a ogni uomo, di conoscere finalmente il proprio ineffabile nome, il proprio ineffabile compito e il proprio ineffabile approdo: amati per amare per sempre facendo dell’amore il perno da cui tutto muove e a cui tutto rimanda. Visione urgente a livello personale, comunitario, ecclesiale e sociale nella lucida consapevolezza che «al di fuori dell’amore non c’è salvezza». E non c’è gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La gioia degli amati che amano.

(Giancarlo Bruni)

 

Rimanete nel mio amore

«Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10). In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (ibi). È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i comandamenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti. Dicendo: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova. Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete. Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore». Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi. E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p. 1248).

 

Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

 

Da’ gratuitamente

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

 

L’amore

Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi. Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione. Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell’amore un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sembra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce. Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione. Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita. Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa. I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli. Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci. E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare.

(Madeleine Delbrêl).

 

Parlami d’Amore

Amore supera l’amore, mio caro. L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito. Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali innamorate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce. L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo. Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abito da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde. L’amore è luce, per le strade umane. Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pennelli d seta che colorano i volti. L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare. Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti. L’amore è veliero che sulle acque fende le onde. Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina. …l’Amore supera l’amore. L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove. L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui. L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, perché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso… l’altro, e perché infine ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dall’uno sgorghi una nuova vita.

(Michel Quoist).

 

La mia vocazione

Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.

( Santa Teresa di Gesù Bambino).

 

Una luce splende alla mia anima

Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.

Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.

Ma che cosa amo amandoti?

Non una bellezza corporea né una grazia transitoria;

non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi;

non dolci melodie di svariate cantilene;

non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi;

non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.

Amando il mio Dio, non amo queste cose.

E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce,

una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso

che sono la luce, la voce, il profumo,

l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce

che nessun fluire di secoli può portar via,

dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere,

dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire,

dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.

Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.

(S. Agostino)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– H.J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA DI PASQUA (B)

V DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura: Atti 9,26-31

 

     In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

 

  • Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv. 1-19), l’inizio della sua predicazione (vv. 20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv. 32-43; e. 10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane. La nostra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.

Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.

— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v. 28: «andava e veniva in Gerusalemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf. il greco: parrēsia = zòmenos, v. 28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.

— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v. 29). È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.

— «La Chiesa era dunque in pace» (v. 31). Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pace interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo). La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.

 

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24

 

     Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

 

  • Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chiese dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche). La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).

Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».

  1. a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v. 18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a parole) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso. «Siamo dalla verità» (v. 19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.
  2. b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo. Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv. 20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza. Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»). Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.
  3. c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Gesù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati. Qui il «comandamento» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore generico o sentimentale. Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente. Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamento di Gesù.

 

Vangelo: Giovanni 15,1-8

 

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

 

Esegesi

 

Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35). In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, insistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.

Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio. Esso va collocato nell’insieme del cap. 15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv. 1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la testimonianza del Paraclito (vv. 18 ss.).

— «Io sono la vite vera» (vv. 1.5). Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivelazione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14). In riferimento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera». Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.

— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv. 1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rapporto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.

— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre:

  1. a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — come dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v. 2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita;
  2. b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppongono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v. 2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v. 6). Dietro queste immagini si intravede la cura estrema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.

Rimanete in me come io in voi (v. 4). Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano. In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).

— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v. 5). La salvezza non dipende soltanto dalla libera adesione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di portare frutti.

 

Meditazione

 

È la quinta domenica «di» Pasqua; ossia la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno di Pasqua. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, quasi segno della fedeltà di Dio; tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti; tornano perché possiamo resta­re nel giorno di Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano convinti questa affermazione: «non possiamo vivere senza la domenica», ossia «non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto». Potremmo, allora, applicare anche alla domenica e ai giorni della settimana la parabola odierna della vite e i tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni. Quest’ultimi restano senza frutto se non sono vivificati dallo Spirito che riceviamo nella santa litur­gia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni della settimana.

La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di «rimanere» in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio e Dio in lui». E nella parabola della vite e i tralci il termine «rimanere» ne è il cuore. Il verbo viene ripetuto ben sette volte nel nostro testo, e nei versetti seguenti altre due volte. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte!» invoca il salmista (80,15-16). E Isaia, nel mirabile «canto della vigna», descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’Israele: «Io ti avevo piantata come vite pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (2,21).

Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: «Io sono la vera vite». Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testa­mento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: «Io sono il buon pastore». Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agri­coltore». Gesù si identifica con la vite, specificando che è la «vera» vite; ovviamente per distinguersi dalla «falsa».

Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: «io sono la vite e voi i tral­ci». I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essen­ziale e forte. È un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologi­ci, le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirom­pente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto». Sono belle le paro­le di commento di Papia, uno dei Padri Apostolici, a questa pagina evangelica: «Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avrà diecimila tralci ed ogni tralcio avrà diecimila pampini e ogni pampino diecimila grappoli. Ogni grappolo avrà diecimila acini, ed ogni acino spremuto darà una misura abbondante di vino».

Il Vangelo prosegue: «Ogni tralcio che porta frutto, lo porta perché porti più frutto». Sì, proprio quelli che «portano frutto», conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere «senza macchia» (Ef 5,27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo senso che va intesa la potatura; il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i suoi figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scon­tata né naturale, e non è un progresso univoco. Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a senti­menti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È, qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.

Questi tagli, talora anche molto dolorosi, purificano la nostra vita e fanno scorrere con maggior freschezza la linfa dell’amore del Signore. Per sei volte, in otto righe, Gesù ripete: «rimanete in me», «rimanete nella vite». È la condizione per portare frutto, per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono; magari, si saranno chiesti: «ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?». In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le «sue parole rimangono in noi». È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale «conservava nel suo cuore tutte queste cose». È la via che scelse Maria, la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù e ascoltava la sua parola. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesù è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di «non amare a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità».

 

L’immagine della domenica

Castello Estense (Ferrara)          –        2024

 

«Se vuoi aiutare un uomo sprofondato nel fango, non pensare che basti tendergli la mano. Bisogna che tu scenda completamente nel fango. Quando sarai lì, afferralo con forza e innalzalo con te verso la luce».

(rav Shlomo di Karlin)

 

 


Preghiere e racconti

Naturale e artificiale

La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.

Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.

Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.

Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.

Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.

Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.

Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113)

 

Io sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti. Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».

E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

 

Curare la vigna è come curare la vita

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

 

Noi tralci, Lui la vite: siamo della stessa pianta di Cristo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio: io e lui la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Lui in me e io in lui, come figlio nella madre. E il mio padre è il vignaiolo: Dio raccontato con le parole semplici della vita e del lavoro. Un Dio che mi lavora, si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma le cesoie, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. Per farmi portare sempre più frutto.

E poi una novità assoluta: mentre nei profeti e nei salmi del Primo Testamento, Dio era descritto come il padrone della vigna, contadino operoso, vendemmiatore attento, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io sono la vite, voi siete i tralci. Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come una goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria. Con l’Incarnazione di Gesù, Dio che si innesta nell’umanità e in me, è accaduta una cosa straordinaria: il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio si è fatto argilla, il Creatore creatura. La vite-Gesù spinge la linfa in tutti i miei tralci e fa circolare forza divina per ogni mia fibra. Succhio da lui vita dolcissima e forte. Dio che mi sei intimo, che mi scorri dentro, tu mi vuoi sempre più vivo e più fecondo di gesti d’amore… Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte? Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, inviare mali o sofferenze, bensì dare forza, qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Questo vuole per me il Dio vignaiolo: «Portare frutto è simbolo del possedere la vita divina» (Brown).

Dio opera per l’incremento, per l’intensificazione di tutto ciò che di più bello e promettente abita in noi. Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima gemma. Noi portiamo un tesoro nei nostri vasi d’argilla, un tesoro divino: c’è un amore che sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tutte le esistenze, un amore che sale in me e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Se noi sapessimo quale energia c’è nella creatura umana! Abbiamo dentro una vita che viene da prima di noi e va oltre noi. Viene da Dio, radice del vivere, che ripete a ogni piccolo tralcio: Ho bisogno di te per grappoli profumati e dolci; di te per una vendemmia di sole e di miele.

(Ermes Ronchi)

 

La potatura

Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero…

I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore! La pagina odierna è tratta dai “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole – lo ripeto – del Risorto. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15). Proprio la vite era diventata l’immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4).

Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato come vite vera (alethiné)” (Ger 2,21) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare tutto il suo popolo. Egli è la vite vera e Dio, chiamato con audacia “Padre”, è il vignaiolo, colui che la coltiva. I profeti nella loro predicazione si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi peccati e le sue sofferenze. Gesù però è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta.

Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa aumentare la linfa e così produrre non fogliame, non tralci vuoti, ma grappoli grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati nel fuoco… Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vita che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite. È la parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)?

Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro. Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita.

Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante! Ma in questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite potare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona.

(Enzo Bianchi)

 

Senza di me non potete far nulla

Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). […] Chi si illude di poter portare frutto da se stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano. Ecco in quale profondo abisso siete precipitati. Ma considerate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla». Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. […] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp. 1240-1244).

 

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

 

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

 

Preghiera

O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.

Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.

Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI PASQUA (B)

Convegno nazionale SNPPD: “Noi, non loro”

Si è svolto nei giorni scorsi, a Napoli-Scampia, il 3° Convegno nazionale promosso dal Servizio Nazionale per la Pastorale delle persone con Disabilità (SNPPD) della CEI.

Del convegno hanno dato ampia informazione i quotidiani e le agenzie specializzate (Agensir). Un’ampia raccolta di commenti e immagini è presente nel sito del SNPPD (https://pastoraledisabili.chiesacattolica.it) che, a breve, renderà disponibile tutto il materiale presentato nel Convegno.

Noi offriamo qui il breve intervento del prof. Ubaldo Montisci, membro dell’Istituto di Catechetica dell’UPS, che ha affrontato in chiave pastorale il tema dell’accompagnamento delle persone in età minore.

Relazione Montisci – 2024-04-04

PROGRAMMA_3._CONVEGNO NAZIONALE_NOI NON LORO, IN OGNI STAGIONE DELLA VITA (agg.27.03.2024_h.14.00)

 

 

Disabilità: don Montisci (Università pontificia salesiana), “considerare le persone non un problema ma una risorsa”

“Accompagnare i percorsi che portano a costruire il proprio progetto di vita è un compito pastorale essenziale, che coinvolge tutti i battezzati”. A ricordarlo è don Ubaldo Montisci, docente di metodologia catechetica e formazione all’Università pontificia salesiana, durante la tavola rotonda dedicata all’età evolutiva, all’interno della prima giornata del Convegno “Noi, non loro”, promosso dal Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità Cei, aperto oggi a Scampia.

“Ritengo – ha aggiunto don Montisci – che ci sia bisogno urgente di un cambio di mentalità nel realizzare i percorsi di maturazione nella fede”. In un altro passaggio, l’esperto spiega come l’impegno educativo nelle comunità cristiane debba considerare “che la catechesi di iniziazione nelle età minori non ha il compito di generare il cosiddetto ‘adulto fedele’ ma pone le basi”. “Lo sguardo – ha suggerito – deve spingersi più in là, e cioè nell’adolescenza, una età in cui in fondo si determinano quei tratti del credente che normalmente diverranno permanenti”. In particolare, il docente ha spiegato come le “persone con disabilità vadano considerate come una risorsa e non un problema. Per fare ciò, ci vuole un soprassalto d’amore perché solo l’amore è creativo. Papa Francesco richiama spesso la necessità di essere creativi, di non fermarsi alle logiche del ‘si è sempre fatto così’. Le norme sono utili e talvolta necessarie ma, ordinariamente, stabiliscono il limite minimo di azione dovuta. Ciò – ha concluso – non è sufficiente quando si tratta di elaborare un progetto di vita: noi abbiamo la consapevolezza che quel “di più” può essere dato da un soprassalto d’amore ispirato ai valori evangelici”.

Elisabetta Gramolini 19 Aprile 2024 @ 18:11

 

 

Chi sono? A cosa sono chiamato? Perché le vocazioni ci riguardano tutti

«La Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita» (Francesco, Messaggio per la 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 21 aprile 2024).

In questi mesi, il Cammino sinodale delle Chiese d’Italia ci sta impegnando a riscoprire la bellezza e la fatica del camminare insieme e del costruire cantieri utili a ricercare elementi capaci di dischiudere il futuro. Alla sua radice, il metodo della conversazione spirituale, che stiamo imparando a utilizzare, ci insegna – considerando seriamente il contributo di ciascuno – a riconoscere la preziosità di ogni persona all’interno della storia comune. Con l’icona dei discepoli di Emmaus, spinge a riconoscere il passante che si fa prossimo nel cammino e ad invitarlo a casa perché là, nel tessuto delle proprie relazioni quotidiane, si manifesti nel suo volto di Signore Risorto (cf. Lc 24,29).

«La polifonia dei carismi e delle vocazioni che la comunità cristiana riconosce e accompagna – continua papa Francesco – ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili. Non siamo isole chiuse in se stessi ma parti del tutto» (Francesco, Messaggio per la 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 21 aprile 2024).

Proprio questo “tutto” è l’orizzonte della missione alla quale siamo chiamati e inviati, è la passione del cuore del Pastore che ha pecore di cui prendersi cura che provengono da diversi recinti – con la Porta sempre aperta (cf. Gv 10,7) – dell’unico ovile del mondo (cf. Gv 10,16). Questo “tutto” si declina in una dimensione universale che abbraccia ciascuno, uomini e donne del mondo intero ma anche traccia quei confini e quei limiti che coniugano l’universale nel particolare offrendo gli spazi e i volti che rendono concreto l’amore e la cura. Sono gli ambiti circoscritti – benché mai chiusi – dei nostri ambiti di vita: la casa, il lavoro, le amicizie, la scuola, la parrocchia, lo sport, il gruppo, la comunità. Tutti questi ambienti sono la materia nella quale costruire relazioni, tessere – attraverso gesti semplici e quotidiani – quella rete di legami che permette di fare casa, di fare famiglia (cf. Francesco, Christus vivit, 217). La vocazione – come la vita – non può crescere senza un contesto, senza un ambiente che la accolga e una rete di persone che se ne prenda cura; ogni vita – come ogni vocazione – ha bisogno di una casa nella quale circoli la vita di Dio; ne ha bisogno la Chiesa e ne hanno bisogno le nostre comunità perché sono le radici dalle quali trarre la linfa. «Prima che di un edificio – già insegnava il cardinale Carlo Maria Martini all’inizio del Millennio – ci sia un contesto, un luogo permanente di incontro [una domus ecclesiae] in cui si respiri uno stile di fraternità, di lavoro e di preghiera. Tutte le nostre comunità siano attente alle esigenze giovanili di vita comune, sapendo che i giovani, oggi più che mai, hanno bisogno di formazione intelligente e affettiva per appassionarsi al Signore, alla comunità cristiana e ai fermenti evangelici disseminati tra i loro coetanei nel mondo. La parola di Dio ha bisogno di un terreno buono e l’Eucaristia ha bisogno di una casa» (Carlo Maria Martini, Attraversava la città. Risposta al Sinodo dei Giovani, 23 marzo 2002).

La vocazione, nella sua radice, è riconoscere il Cristo che viene incontro a ciascuno e mette in movimento l’affetto del cuore, apre la mente all’intelligenza delle Scritture e dei fatti della propria vita perché si possa intuire la direzione – il luogo, le persone – nella quale spenderla nel servizio di Dio e degli altri. È per questo che oggi vogliamo pregare: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Padre, che sempre vieni a dimorare in mezzo a noi, facci vivere secondo i tuoi sentimenti affinché le nostre comunità e le nostre case siano capaci di un’accoglienza autentica e cordiale. I giovani che ci incontrano sentano di essere amati e si liberi in loro quel desiderio di cercare il senso della propria vita che si rivela nella loro vocazione. Infondi nel cuore di tutti i battezzati la volontà di spendere la propria vita nel ministero ordinato, nella vita consacrata, nel matrimonio e nel laicato vissuto nel mondo perché la Chiesa, che è la tua e la nostra casa, risplenda della bellezza di tutte le vocazioni».

Direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni

In occasione della Giornata di preghiera per le vocazioni l’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni offre, oltre a tutto il materiale per l’animazione della preghiera, anche quattro storie di vita, quattro racconti che testimoniano come oggi può nascere e crescere una vocazione che porta a una vita dedicata a Dio e agli altri. Lo fa con quattro video pubblicati nel canale Youtube dell’Ufficio stesso (gli stessi che si trovano anche qui sopra): vi si raccontano due sacerdoti e due religiose, volti di un Vangelo che ancora oggi continua a trovar casa nel cuore e nell’anima di tante persone, anche giovani. A parlare sono don Paolo Catinello, parroco ad Avola (Siracusa), nel video dal titolo «Non temere», la figlia della Carità, suor Raffaella Spezio, sul tema «Desideravo essere felice», suor Maria Chiara Ciccotelli, agostiniana, il cui racconto porta il titolo di «Alzare lo sguardo verso l’alto», e il salesiano don Francesco Andreoli, su «Qualcosa di eroico». In vista della giornata odierna, inoltre, da nord a sud in tutte le diocesi si sono tenute veglie di preghiera, animate grazie al sussidio e al materiale reso disponibile dall’Ufficio nazionale.

61ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 21 aprile 2024

 

Diario di una giornata missionaria felice e benedetta

IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE, Cardinale Ángel Fernández Artime

Diario di una giornata missionaria felice e benedetta.

Cari amici, vi scrivo da Meruri, nello stato del Mato Grosso do Sul, in Brasile. Scrivo questo saluto quasi come se fosse una cronaca giornalistica, perché sono passate 24 ore da quando sono arrivato in mezzo a questa città.

Ma i miei confratelli salesiani sono arrivati 122 anni fa e da allora siamo sempre stati in questa missione in mezzo alle foreste e ai campi, accompagnando la vita di questo popolo indigeno.

Nel 1976 un salesiano e un indio sono stati derubati della loro vita con due colpi di pistola (da parte di “facendeiros” o grandi proprietari terrieri), perché ritenevano che i salesiani della missione fossero un problema per potersi appropriare di altre proprietà in queste terre che appartengono al popolo Boi-Bororo. Si tratta del Servo di Dio don Rodolfo Lunkenbein, salesiano, e dell’indio Simão Bororo.

E qui abbiamo potuto vivere ieri molti momenti semplici: siamo stati accolti dalla comunità indigena al nostro arrivo, li abbiamo salutati – senza fretta – perché qui tutto è tranquillo. Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale, abbiamo condiviso riso e feijoada (stufato di fagioli), e abbiamo goduto di una conversazione amabile e calorosa.

Nel pomeriggio mi avevano preparato una riunione con i capi delle varie comunità; erano presenti alcune donne capo (in diversi villaggi è la donna ad avere l’autorità ultima). Abbiamo dialogato in modo sincero e profondo. Mi hanno esposto le loro riflessioni e mi hanno presentato alcune delle loro esigenze.

In uno di questi momenti, un giovane salesiano Boi Bororo ha preso la parola. È il primo Bororo a diventare salesiano dopo 122 anni di presenza salesiana. Questo ci invita a riflettere sulla necessità di dare tempo a tutto; le cose non sono come pensiamo e vogliamo che siano nel modo efficiente e impaziente di oggi.

E questo giovane salesiano ha parlato così davanti alla sua gente, alla sua gente e ai suoi capi o autorità: «Sono salesiano ma sono anche Bororo; sono Bororo ma sono anche salesiano, e la cosa più importante per me è che sono nato proprio in questo luogo, che ho incontrato i missionari, dove ho sentito parlare dei due martiri, don Rodolfo e Simão, e ho visto la mia gente e il mio popolo crescere, grazie al fatto che la mia gente ha camminato insieme alla missione salesiana e la missione ha camminato insieme alla mia gente. È ancora la cosa più importante per noi, camminare insieme».

Ho pensato per un attimo a quanto sarebbe stato orgoglioso e felice Don Bosco di sentire uno dei suoi figli salesiani appartenere a questo popolo (come altri salesiani che provengono dal popolo Xavante o dagli Yanomani).

Allo stesso tempo, nel mio discorso ho assicurato loro che vogliamo continuare a camminare al loro fianco, che vogliamo che facciano tutto il possibile per continuare a curare e salvare la loro cultura – e la loro lingua – con tutto il nostro aiuto. Ho detto loro che sono convinto che la nostra presenza li abbia aiutati, ma sono anche convinto di quanto ci faccia bene stare con loro.

«Avanti!» disse la Pastorella

Ho pensato all’ultimo sogno missionario di Don Bosco: e quella Pastorella, che si fermò accanto a Don Bosco e gli disse: «Ti ricordi del sogno che hai fatto a 9 anni?… Guarda ora, che cosa vedi?» «Vedo montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari».
«Bene — disse la Pastorella — Ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani». «Ma come fare tutto questo? — esclamò Don Bosco — Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi». «Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei loro figli». Lo stanno facendo.

Fin dall’inizio del nostro cammino come congregazione, guidato (e amabilmente “spinto”) da Maria Ausiliatrice, Don Bosco ha inviato i primi missionari in Argentina. Siamo una Congregazione riconosciuta con il carisma dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani, ma siamo anche una congregazione e una famiglia molto missionaria. Dall’inizio a oggi, ci sono stati più di undicimila missionari salesiani SDB e diverse migliaia di Figlie di Maria Ausiliatrice. E oggi, la nostra presenza tra questo popolo indigeno, che conta 1940 membri e che continua a crescere poco a poco, ha perfettamente senso dopo 122 anni, perché sono alla periferia del mondo, ma un mondo che a volte non capisce che deve rispettare ciò che sono.

Ho parlato anche con la matriarca, la più anziana di tutte, che è venuta a salutarmi e a raccontarmi del suo popolo. E dopo un bel temporale di pioggia torrenziale, nel luogo del martirio, con grande serenità, ci siamo seduti a recitare il rosario in una bella domenica sera (era già buio). Eravamo in tanti a rappresentare la realtà di questa missione: nonne, nonni, adulti, giovani madri, neonati, bambini piccoli, religiosi consacrati, laici… Una ricchezza nella semplicità di questa piccola parte di mondo che non ha potere ma che è anche scelta e prediletta dal Signore, come ci dice nel Vangelo.

E so che così continueremo, a Dio piacendo, per molti anni a venire, perché si può essere un Bororo e un figlio di Don Bosco, ed essere un figlio di Don Bosco e un Bororo che ama e si prende cura del suo popolo e della sua gente.

Nella semplicità di questo incontro, oggi è stato un grande giorno di vita condivisa con i popoli indigeni. Una grande giornata missionaria.

 

III DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura: Atti 3,13-15.17-19

 

           In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

 

  • Questo brano fa parte della catechesi su Gesù che Pietro rivolge ai suoi uditori di origine ebraica. L’autore degli Atti degli apostoli ha raccolto questa catechesi in una serie di «discorsi» e li ha collocati nella prima parte della sua opera (capitoli 2-4). È importante sottolineare gli elementi che caratterizzano questa catechesi.

Innanzitutto emerge la continuità tra l’agire di Dio nell’Antico Testamento e ora nella risurrezione di Gesù: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù». La risurrezione di Gesù non va considerata come un corpo estraneo nella Bibbia. Essa si inserisce pienamente nel progetto di salvezza che Dio ha pensato per l’uomo, un progetto che passa misteriosamente attraverso la croce e culmina nella gloria della Pasqua. Questo progetto era già anticipato nei «Canti del Servo sofferente del Signore» (vedi Is 42; 49; 52-53), nei quali si delineava chiaramente la «logica» di Dio: il Servo sofferente sarebbe divenuto il Messia glorificato, grazie all’intervento decisivo di JHWH. Ai suoi uditori, che conoscevano bene la Bibbia, Pietro propone questa «logica», ricorrendo alla stessa terminologia di Isaia: «Dio ha glorificato il suo Servo Gesù».

L’entrare in questa «logica» esige però un cambiamento di mentalità e una conversione nei confronti di Gesù. L’espressione «io so che voi avete agito per ignoranza» vuole sottolineare quanto sia difficile comprendere la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella «logica» che è propria di Dio. Il termine «ignoranza» (in greco, àghnoia) indica la difficoltà di comprendere in questo modo tutta la vicenda di Gesù. Questa «ignoranza» è da collocare alla base del processo condotto contro Gesù: «Voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato… avete rinnegato il Santo e il Giusto… Avete ucciso l’autore della vita». Infatti nessuno era stato in grado di comprendere il progetto di salvezza di Dio, che doveva passare attraverso la croce e la sofferenza. Solo dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli vengono illuminati e comprendono in pienezza l’agire di Dio. La predicazione di Pietro e degli altri apostoli, testimoni della misteriosa «logica» di Dio, offre la possibilità di convertirsi al progetto di Dio, portato a compimento da Gesù in un modo e in una forma che la mentalità degli uomini non è riuscita a comprendere.

 

Seconda lettura:: 1Giovanni 2,1-5

 

   Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.

 

  • Questo breve brano presenta una nuova esortazione per il cristiano, che è quella di osservare i comandamenti. Precedentemente l’autore aveva esortato i destinatari del suo scritto a pentirsi dei peccati e a riconoscerli davanti a Dio, per entrare nella pienezza della salvezza offerta da Gesù. A queste esortazioni seguiranno quelle di guardarsi dal «mondo» (inteso come tutto ciò che si oppone al vangelo) e dagli «anticristi» (il riferimento è ad alcune eresie che già hanno preso piede nella comunità cristiana a cui scrive Giovanni).

«Abbiamo un Paràclito presso il Padre»: il termine greco paràkletos («avvocato», «intercessore», «consolatore») è caratteristico di Giovanni, che lo riferisce allo Spirito Santo (vedi i seguenti testi del suo vangelo: 14,16.26; 15,26; 16,7) e, in questo passo della prima lettera, a Gesù. Esso designa una persona amica, che sta vicino a chi è accusato e condotto in tribunale (il verbo greco parakalèo significa anche: «chiamare accanto») e ne sostiene le ragioni o ne mitiga la sentenza, qualora questa risultasse sfavorevole.

«Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo»: il verbo «conoscere» va inteso nel suo significato globale, come è usato nella Bibbia. Questo è il verbo che significa sapere chi è Dio e ciò che egli vuole. Significa conoscere il modo di porsi di Dio nei confronti dell’uomo e significa l’imitazione di questo stesso comportamento di Dio da parte dell’uomo. Non è quindi un verbo puramente astratto, teorico, ma è un verbo con una forte accentuazione pratica ed etica.

Il richiamo all’osservanza dei comandamenti è motivato dal fatto che l’eresia gnostica — sviluppatasi all’epoca di questo scritto — sosteneva che la salvezza dell’uomo era possibile solo attraverso la conoscenza teorica di Dio (ma senza alcuna implicanza etica). Questa conoscenza — chiamata con il termine greco ghnòsis — portava a considerare il corpo dell’uomo, con le sue passioni e i suoi peccati, come irrilevante nel conseguimento della salvezza. Ciò significava un totale disinteresse per la morale, che per il cristiano non è tanto un insieme di leggi o di divieti, quanto piuttosto la conoscenza della volontà di Dio e il conformarsi ad essa, compiendola ogni giorno. Infatti per il cristiano non vi può essere separazione tra anima e corpo, tra conoscenza di Dio e pratica cristiana, tra religione e morale, tra vangelo e vita quotidiana.

 

Vangelo: Luca 24,35-48

 

   In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

 

Esegesi

 

Il brano proposto conclude l’episodio che ha come protagonisti i due discepoli di Emmaus, e contiene un nuovo racconto di apparizioni, che gli esegeti chiamano «apparizione di riconoscimento». Mediante alcuni segni/gesti che Gesù compie — come il mangiare, il lasciarsi toccare, il mostrare le mani e i piedi —, egli vuole eliminare negli apostoli il sospetto che si tratti della visione dello spirito di un morto («un fantasma»), vanificando così l’esperienza più vera della Pasqua.

Per i cristiani che provenivano dall’ambiente greco, infatti, era comune credenza che lo spirito vivesse separato dal corpo dopo la morte. Era perciò necessario precisare che Gesù risorto non è uno spirito senza corpo e che non appartiene più al regno dei morti, come gli spiriti. Per questo, nel racconto di apparizione, si insiste sul vedere, mangiare, toccare.

Ma anche l’ambiente ebraico incontrava grandi difficoltà nel comprendere e nell’accettare la risurrezione di Gesù. Accettarla significava, infatti, che ormai si era davanti all’intervento definitivo di JHWH nella storia, che erano iniziati gli ultimi tempi e che ormai erano giunti il mondo nuovo, il Regno di Dio e la risurrezione finale e definitiva, promessa dai profeti (vedi Ezechiele). Per questo l’evangelista colloca l’evento della Pasqua di Gesù nell’insieme delle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno».

«Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma»: lo spavento ha origine dal fatto che Gesù appare all’improvviso. Il termine «fantasma» traduce il greco pneuma («spirito»). Secondo la concezione greca, dopo la morte lo spirito era separato dal corpo e non si riuniva più ad esso. Nella concezione cristiana, invece, corpo e spirito costituiscono la persona, e la risurrezione fa di questo nostro corpo non un fantasma, ma un corpo «glorioso», «glorificato», come quello di Gesù.

«Lo prese e lo mangiò davanti a loro»: con questa frase, più che insistere sulla realtà inconfondibile del corpo di Gesù, l’evangelista vuole evidenziare la vittoria di Gesù sulla morte, simboleggiata dalla rinnovata partecipazione alla mensa con i suoi discepoli, come avveniva prima della morte. L’espressione «davanti a loro» (in greco, enòpion autòn) si potrebbe tradurre anche: «a mensa con loro». È un’espressione che ricorre anche in Lc 13,26: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza (in greco, enòpion sou, «alla tua mensa»)» e probabilmente con essa si vuole esprimere la continuità tra il Gesù prima della Pasqua e il Gesù risorto.

«Nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi »: è la suddivisione di tutta la Bibbia secondo il canone ebraico. È curioso, qui il rilievo dato ai Salmi, dal momento che la Bibbia ebraica chiama la terza parte della Scrittura, con il termine generico «Gli Scritti». Probabilmente i Salmi vengono nominati perché costituiscono la parte più abbondante degli «Scritti». Non

va neppure dimenticato che nel Nuovo Testamento i Salmi vengono citati con frequenza sia nei vangeli sia negli Atti degli apostoli come profezie della risurrezione di Gesù.

 

Meditazione

 

Il Vangelo di questa domenica ci narra ancora una volta i fatti del gior­no della resurrezione. L’insistenza non è casuale: la Chiesa continua a ricordarci che ogni domenica è Pasqua, il giorno in cui Gesù vince la morte e incontra nuovamente i discepoli. Gli incontri di Gesù con i suoi discepoli sono diversi. Quello che ci narra il Vangelo di questa Domenica capita nel cenacolo, dove sono radunati i discepoli. Gesù —racconta l’evangelista Luca — entra nel cenacolo mentre i due discepo­li, tornati in fretta da Emmaus, stanno ancora raccontando quello che è accaduto loro lungo la via. Gli apostoli al vedere Gesù, «in persona», venire in mezzo a loro sono presi da stupore e spavento. E, come già altre volte era accaduto, anche ora pensano sia un fantasma. Ancora una volta — domenica scorsa abbiamo constatato lo scetticismo di Tommaso — il Vangelo di Pasqua sottolinea l’incredulità degli apostoli. Vengono in mente le parole del prologo di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto». Gli amici più stretti stanno par­lando di lui, si riferiscono tra loro le varie apparizioni, potremmo dire che sono ormai quasi convinti della sua risurrezione, tanto che dicono: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24,34). Eppure, appena Gesù entra in mezzo a loro pensano sia un fantasma, una figura astratta, irreale. Si spaventano, persino. Eppure, Gesù glielo aveva detto e spiegato.

Ebbene, bisogna partire proprio da questa inaccoglienza, vestita di stolto realismo, per comprendere l’odierna pagina evangelica. Siamo anche noi assieme ai discepoli quella sera di Pasqua, stupiti e spaventa­ti. Anche noi pensiamo tante volte che il Vangelo sia una specie di fantasma, ossia che si tratti di parole astratte, lontane dalla vita, belle ma impossibili a vivere; e ne abbiamo anche paura perché pensiamo che siano troppo esigenti, che chiedano sacrifici, che propongano rinunce, che pretendano una vita poco felice. Ne consegue che con incredibile facilità le infiacchiamo nella loro radicalità perché non ci disturbino troppo. Ma Gesù torna; torna ogni domenica e dopo il saluto di pace dice a tutti noi: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa come vedete che io ho». Mentre parla in questo modo, mostra loro le mani e i piedi segnati ancora dalle ferite dei chiodi. Gesù mostra la realtà concreta del suo corpo risorto, ma ancora ferito. E forse l’ultima ferita — questa volta tocca l’anima — gliela stanno infliggendo proprio in quel momento i discepoli con la loro inaccoglienza.

L’evangelista sembra però indicare una via per superare questa distanza; una via non teorica e astratta, ma molto concreta. Potremmo chiamarla la via dell’incontro con le sue ferite. Gesù, per vincere i dubbi dei discepoli, dice loro: «Guardate le mie mani e i miei piedi; sono proprio io! Toccatemi e guardate». Poteva chiedere che toccasse­ro e guardassero qualsiasi altra parte del corpo. Ma perché ha voluto specificare quelle parti ancora segnate dalle ferite dei chiodi? Perché Gesù insiste che proprio quelle parti ferite debbano essere guardate e toccate? Le ferite sul corpo, senza dubbio, ci dicono che il Gesù di Pasqua è lo stesso Gesù del Venerdì Santo, ma la loro permanenza nel corpo del Signore risorto richiama anche la realtà del dolore e del male ancora presente in questo mondo. La resurrezione certo è avve­nuta, ma deve continuare ancora. È iniziata con Gesù, il capo del corpo che è la Chiesa e l’umanità intera, ma ci sono tante parti di que­sto unico corpo che hanno ancora ferite aperte: sono i poveri, i malati, i carcerati, i torturati, i condannati a morte, i paesi in guerra, i colpiti dalle disgrazie e dalla violenza. E l’elenco può continuare ancora più a lungo.

Queste ferite debbono entrare «di persona» in mezzo a noi, perché con esse entra realmente il Signore, e attraverso di esse continua a dirci: «Toccatemi e guardatemi… sono proprio io!». I poveri e i deboli non sono fantasmi di cui aver paura o da cui fuggire, sono il corpo ferito del Signore che chiede e attende di essere toccato per risorgere. «Toccatemi e guardate!». È la preghiera, spesso il grido, che oggi milio­ni di disperati rivolgono al mondo dei sani e dei ricchi: guardateci e toccateci! Essi infatti sono spesso totalmente dimenticati e ancor meno toccati. Dietro questo invito di Gesù ci sono oggi milioni e milioni di bambini, di vedove, di orfani, che continuano ad attendere aiuto e dav­vero pochi «guardano» e ancor meno si incamminano per «toccare». Sì, guardare e toccare! Questi sono i verbi della risurrezione: accorger­si di chi ci sta accanto e soffre e non passare oltre come fecero quel sacerdote e quel levita. La vittoria sulla nostra incredulità inizia da quest’incontro affettuoso con il corpo ancora ferito di Gesù.

Immediatamente dopo, nota l’evangelista, Gesù «aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture. Fu necessario che i discepoli ascoltassero nuovamente il Vangelo e si lasciassero toccare il cuore. Non basta ascoltare una volta o alcune volte le Sante Scritture. Il credente deve risco-prire la gioia di frequentare ogni giorno le Sante Scritture. Ogni volta che si apre una pagina della Bibbia è Dio stesso che parla a noi. I Santi Padri amavano dire che la Santa Scrittura è la Lettera di amore di Dio agli uomini. Come non leggere e rileggere questa lettera? Gesù con i due discepoli di Emmaus non fece altro che spiegare loro le Scritture e i due si sentirono scaldare il cuore nel petto. Ogni domenica Gesù torna e parla a ciascuno di noi, come fece con quelli di Emmaus. Dalla Pasqua perciò inizia un ascolto che non termina più: quella Parola proclamata e predicata è la linfa della vita di ogni discepolo e dell’intera comunità. Senza di essa saremmo senza nutrimento, senza pane. La carestia sarebbe tremenda; e non solo per i discepoli ma per il mondo intero. Ogni domenica perciò il Signore ci raccoglie, apre la nostra mente all’intelligenza delle Scritture e riscalda i nostri cuori. Di questo Vangelo — dice Gesù ai discepoli di ogni tempo — «voi siete testimoni».

 

 

L’immagine della domenica

PARCO DELLE VALLI (CONCA D’ORO-ROMA)   –   2024

 

 

«Nostro Signore ha scritto la promessa della risurrezione non solo nei libri, ma in ogni foglia della primavera».

 

(Martin Luther King)

 

 

Preghiere e racconti

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

È pace la prima parola pronunciata da Cristo Risorto

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho» (…). Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme(…)». Lo conoscevano bene, dopo tre anni di strade, di olivi, di pesci, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ed è altro. Perché la Risurrezione non è semplicemente un ritornare alla vita di prima: è andare avanti, è trasfigurazione, è acquisire un di più. Energia in movimento che Gesù non tiene per sé, ma che estende all’intera creazione, tutta presa, e da noi compresa, dentro il suo risorgere e trascinata in alto verso più luminose forme.

Pace, è la prima parola del Risorto. E la ripete ad ogni incontro: entro in chiesa, apro il Vangelo, scendo nel silenzio del cuore, spezzo il pane con l’affamato. Sono molte le strade che l’Incamminato percorre, ma ogni volta, sempre, ad ogni incontro ci accoglie come un amico sorridente, a braccia aperte, con parole che offrono benessere, pace, pienezza, armonia. Credere in lui fa bene alla vita. Vuole contagiarci di luce e contaminarci di pace. Lui sa bene che sono gli incontri che cambiano la vita degli esseri umani. Infatti viene dai suoi, maestro di incontri, con la sua pedagogia regale che non prevede richieste o ingiunzioni, ma comunione. Viene e condivide pane, sguardi, amicizia, parola, pace. Il ruolo dei discepoli è non difendersi, non vergognarsi, ma ridestare dal sonno dell’abitudine mani, occhi, orecchie, bocca: toccate, guardate, mangiamo insieme. Aprirsi con tutti «i sensi divine tastiere» (Turoldo), strumenti di una musica suonata da Dio.

«Toccatemi, guardate». Ma come toccarlo oggi, dove vederlo? Lui è nel grido vittorioso del bambino che nasce e nell’ultimo respiro del morente, che raccoglie con un bacio. È nella gioia improvvisa dentro una preghiera fatta di abitudini, nello stupore davanti all’alleluja pasquale del primo ciliegio in fiore. Quando in me riprende a scorrere amore; quando tocco, con emozione e venerazione, le piaghe della terra: «ecco io carezzo la vita perché profuma di Te» (Rumi)…

«Non sono un fantasma» è il lamento di Gesù, e vi risuona il desiderio di essere abbracciato forte come un amico che torna da lontano, di essere stretto con lo slancio di chi ti vuole bene. Non si ama un fantasma. «Mangiamo insieme». Questo piccolo segno del pesce arrostito, gli apostoli lo daranno come prova decisiva: abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41). Perché mangiare è il segno della vita; mangiare insieme è il segno più eloquente di una comunione ritrovata, il gesto che lega, custodisce e accresce le vite. Il cibo è una realtà santa. Santa perché fa vivere. E che l’uomo viva è la prima di tutte le leggi, della legge di Dio e delle leggi umane.

(Ermes Ronchi)

 

«Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48)

«Mentre essi parlavano di queste cose», essi gli apostoli riuniti insieme (Lc 24,33) a riflettere sul senso di una tomba vuota, del messaggio degli angeli alle donne, dell’apparizione ai due discepoli di Emmaus e a Pietro (Lc 24,1-35), conseguenze di un evento al quale nessuno aveva assistito e sul quale non restava e non resta che il silenzio.

Parliamo dell’atto della resurrezione di Gesù. Se la sua crocifissione è stata uno «spettacolo» (Lc 23,48) pubblico visto da molti, alla sua resurrezione non ha partecipato occhio umano alcuno. Parlavano dunque di cose successive passibili di più interpretazioni, la tomba vuota potrebbe anche voler dire cadavere trafugato e le apparizioni potrebbero voler dire allucinazioni, fantasie: «credevano di vedere un fantasma» (Lc 24,37), uno spirito. Luca con maestria ripercorre il cammino travagliato degli amici di Gesù alla fede nella resurrezione: dalla tristezza e dalla delusione per una presenza tolta e per sogni frustrati (Lc 24,17.21) a una mente ottusa tarda a capire i segni che le sono stati dati (Lc 24,25). Tomba vuota, messaggi di angeli, racconti di donne e apparizioni di fatto generano sconvolgimento e paura (Lc 24,22.37), stato confusionale. Una situazione tuttavia che pur non capendo non si arrende, se ne parla, si vorrebbe comprendere.

  1. E «mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro…e disse…perché sorgono dubbi…sono proprio io», egli il Risorto con i segni della passione e non un puro spirito o fantasma. Una apparizione dal di «fuori» resasi necessaria per fare uscire il «dentro» o cuore degli apostoli dalla incredulità introducendoli nel riconoscimento di lui come il vivente (Lc 24,36-43), e conseguentemente in una lettura diversa dei segni dati. Ad esempio la tomba vuota da sola non è stata in grado di liberare dalla prigione di ragionamenti senza sbocco, mentre diventa annuncio di resurrezione a chi è stata concessa la fede in essa attraverso il convincimento operato dal Risorto stesso. È ciò che è accaduto agli apostoli, dal Risorto che si impone ad essi come risorto alla tomba, alle donne, agli angeli e ai due di Emmaus come messaggeri del Risorto. Approccio singolare. Un convincimento, prosegue Gesù (Lc 24,44-47), a cui gli apostoli avrebbero potuto pervenire anche senza la sua apparizione costretta dalla costatazione di un eccesso di perdita di memoria e di mente chiusa. «Poi disse: Sono queste le parole che io vi dissi quando ancora ero con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei profeti e nei Salmi. Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno». Gesù ri-dice ai suoi ciò che in precedenza aveva loro pre-detto, risveglia la loro memoria e li reinizia a comprendere la sua morte-resurrezione alla luce di una lunga catena di citazioni scritturistiche, alla luce cioè della volontà del Padre contenuta nello «Sta scritto». In Luca via alla resurrezione o alla interpretazione secondo Dio della tomba vuota è tutta la Scrittura attraverso cui la Parola di Dio diventa il messaggero della Pasqua di Gesù il Cristo, l’inviato del Padre a mutare il cammino dell’uomo orientandolo verso i sentieri del perdono e della conversione (Lc 24,47): «Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,48).

(Giancarlo Bruni)

 

E’ il Signore!

E’ l’acclamazione pasquale, è una parola che contiene tutto.

Il Signore è Colui che possiede la tua vita e te la vuole far vivere al centuplo;

Colui che ha un progetto per te, che ti conduce a esprimere pienamente te stesso;

Colui che è la somma di tutte le cose desiderabili;

Colui che chiarisce, dipana, ordina, purifica, soddisfa tutti i tuoi desideri più profondi.

E’ il Signore della vita, della storia, della mia vicenda personale.

E’ il Signore della mia famiglia, della scuola, della società.

E’ Colui nel quale tutto trova il senso.

E’ Colui che è capace di dare a tutto un progetto ed una prospettiva.

(dagli Scritti del Card. C.M. Martini).

 

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

 

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

 

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

 

La pace sia con voi!

Di ritorno dagli inferi, Cristo per donare la pace al mondo esclama: «La pace sia con voi! I discepoli parlavano ancora, quando Gesù stette in mezzo a loro e disse loro: La pace sia con voi!». Giustamente dice: «con voi», perché la terra si era già consolidata, il giorno era ritornato, il sole aveva ripreso il suo splendore e il mondo aveva ritrovato il suo ordine e la coesione. Ma presso i discepoli la guerra infuriava ancora; fede e mancanza di fede si combattevano violentemente. Il turbamento della passione non aveva scosso il loro cuore quanto la terra; credulità e incredulità devastavano il loro animo con una guerra senza tregua; schiere di pensieri assediavano la loro mente e sotto i colpi della disperazione e della speranza il loro cuore si spezzava, nonostante la sua forza. I sentimenti e i pensieri dei discepoli erano divisi tra gli innumerevoli miracoli che rivelano Cristo e le molteplici umiliazioni della sua morte, tra i segni della sua divinità e le debolezze della carne, tra l’orrore della sua morte e le grazie della sua vita. Ora il loro spirito veniva portato in cielo, ora le loro anime ricadevano a terra; e nel loro cuore in cui infuriava la tempesta non trovavano alcun porto tranquillo, nessun luogo di pace. Al veder questo, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, governa le tempeste e con un semplice segno muta la tempesta in un cielo sereno, li conferma con la sua pace, dicendo: «La pace sia con voi! Sono io; non temete. Sono io, il morto e sepolto. Sono io. Per me Dio, per voi uomo. Sono io. Non uno spirito rivestito di un corpo, ma verità stessa fatta uomo. Sono io. Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi. Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto. Gli inferi mi hanno proclamato Dio, nel loro spavento. Non temere Pietro, che mi hai rinnegato, ne tu, Giovanni, che sei fuggito, ne tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vedete. Non temete, sono io. Sono io, vi ho chiamati per grazia, vi ho scelti perdonandovi, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore e oggi vi accolgo per mia sola bontà, perché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 81, PL 52, 428A-D).

 

Andremo alla casa del Signore

Mi rallegrai quando mi dissero:

«Andremo alla casa del Signore».

E ora i nostri piedi

sono nell’interno delle tue porte,

Gerusalemme!

Gerusalemme costruita come città,

in sé ben compatta!

Là salivano le tribù, le tribù del Signore,

secondo il precetto dato a Israele

di lodarvi il nome del Signore.

Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio,

i seggi della casa di Davide.

Augurate la pace a Gerusalemme:

vivano in prosperità quanti ti amano!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore, nostro Dio,

chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121).

 

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello).

 

Preghiera

O Signore, Signore risorto, luce del mondo, a te sia ogni onore e gloria! Questo giorno, così pieno della tua presenza, della tua gioia, della tua pace, è davvero il tuo giorno!

Sono appena rientrato da una passeggiata attraverso l’oscurità dei boschi. Era freddo e ventoso, ma tutto parlava di te. Ogni cosa: le nuvole, gli alberi, l’erba umida, la valle con le sue luci lontane, il rumore del vento. Parlavano tutti della tua risurrezione: tutti mi rendevano consapevole che ogni cosa è davvero buona. In te tutto è creato buono e da te tutta la creazione è rinnovata e portata a una gloria persino più grande di quella posseduta al principio.

Camminando nell’oscurità dei boschi alla fine di questa giornata piena di intima gioia, ti ho sentito chiamare Maria Maddalena per nome e dalla riva del lago ti ho sentito gridare ai tuoi amici di gettare le reti. Ti ho anche visto entrare nella sala con la porta serrata dove i tuoi discepoli erano radunati pieni di paura. Ti ho visto apparire sul monte così come nei dintorni del villaggio. Quanto sono veramente intimi questi eventi: sono come favori speciali fatti a cari amici. Non sono stati fatti per impressionare o sopraffare qualcuno, ma semplicemente per mostrare che il tuo amore è più forte della morte.

O Signore, ora so che è nel silenzio, in un momento tranquillo, in un angolo dimenticato che tu m’incontrerai, mi chiamerai per nome e mi dirai una parola di pace. E nell’ora della maggiore quiete che tu diventi per me il Signore risorto.

O Signore, sono così riconoscente per tutto quello che mi hai dato nella settimana trascorsa! Rimani con me nei giorni che verranno.

Benedici tutti quelli che soffrono in questo mondo e dona pace alla tua gente, che hai tanto amato da dare la vita per lei. Amen.

(J.M. NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 242-243).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA DI PASQUA (B)

PASSIONE DEL SIGNORE

 Prima lettura: Isaia 52,13-53,12

 

  Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito. Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.

Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

  • I carmi del «Servo di JHWH» segnano una svolta nel messianismo biblico.

L’affermazione monarchica aveva fatto pensare che la salvezza escatologica potesse venire da un eventuale discendente della famiglia regale (cf 2Sam 7,12-14). La figura del re davidico compare nei salmi e nei profeti e servirà ad accendere l’immaginazione popolare verso un grande futuro, che si rivelerà ben presto illusorio. Con l’esilio le speranza riposte nella dinastia e nel dinasta davidico vanno attenuandosi e al suo posto subentra la figura di un martire ideale che sopporta afflizioni e pene per l’intera nazione.

Una figura insolita che non farà mostra di potenza ma di umiltà e di mansuetudine; non trionferà sui nemici con la forza delle armi anzi sarà deriso umiliato, sconfitto. Egli ritrae in concreto le sofferenze del popolo d’Israele nella sua amara esperienza dell’esilio. Sulle rive del Chebar, in terra straniera nasce una nuova scuola di spiritualità, un nuovo modo di pensare e di impostare i rapporti con Dio e con i propri simili, i connazionali e gli altri, fatto di remissività, di abbandono e di perdono.

Occorreva farsi umili davanti a Dio come lo si era diventati davanti alle genti e con tale atteggiamento da poveri, mendichi alzare il volto verso l’alto con fiducia. Non era importante offrire a Dio doni, quanto semmai mostrargli le proprie mani vuote e, bisognose di essere riempite dalle sue elargizioni.

I «poveri in spirito» sono nati nell’esilio e fanno sentire la loro voce in molti salmi (I salmi dei poveri) e tra di essi vi sono anche i «Carmi del servo di JHWH», l’ideale che Gesù ritiene dovere incarnare nella sua vita più che quello del discendente davidico. Infatti respingerà le insinuazioni di grandezza, di potenze come istigazioni salamene (Mt 4,1-11), fuggirà quando vorranno farlo re (Gv 6,15), e respingerà come diabolico il suggerimento di Pietro di evitare a scansare la passione (Mt l6,23).

Perché umile e indifeso, sarà facilmente catturato e vinto, ma per questa sconfitta conseguirà la vittoria. «Non doveva il Cristo patire è così, cioè e per questo motivo, entrare nella gloria», ricorda il misterioso viandante ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26). Perché si è umiliato fino alla morte di croce Dio l’ha esaltato al di sopra di ogni potestà, ribadisce l’autore dell’inno presente nella lettera agli Efesini (2,1-11).

 

Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9

 

  Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno. [Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

 

  • Il testo di Ebr 5,7-9 riassume l’esperienza del Getsemani nei termini più drammatici di tutto il nuovo Testamento. L’autore chiama la passione di Gesù «i giorni della sua carne». Nel linguaggio biblico il termine basar (carne) denota l’aspetto maggiormente precario più vulnerabile dell’essere umano: uno stato di «debolezza» (5,2) più che di forza, simboleggiata quest’ultima dallo «spirito».

La «carne è debole» ricorda Gesù nel Getsemani (Mt 26,41) e intendeva far riferimento anche alla condizione di panico e di ansietà che stava attraversando nel suo animo. La passione metteva alla prova anche Gesù. La sconfitta imminente, l’abbandono degli amici e, sembrava, anche del Padre (Mc 15,34) provocavano uno stato di insicurezza interiore che lo facevano tremare. Per questo, l’autore parla di «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» per ridire il suo stato di vera, estrema angoscia. Le semplici parole dei sinottici «passi da me questo calice» lo esprimono con maggiore concretezza e forse obiettività. Davanti allo spettro della morte Gesù non rimane impavido, ma atterrito e non trova altro scampo che volgere il pensiero al Padre. L’autore non ricorda che cosa egli dice ma certamente parole di comprensione e di soccorso.

La frase «Dio che poteva salvarlo da morte» lascia capire quale possa essere stato l’oggetto della sua preghiera. La morte sopraggiungerà egualmente, ma l’autore afferma che ciò nonostante «venne esaudito». La vera vittoria non era quella di evitare la morte, ma di saperla accettare; l’importante non era sconfiggere i nemici, ma superare le reazioni che si annidavano nel suo animo: la volontà di fuga davanti al dolore e alla croce, la possibilità di cedere e di arrendersi. Era ciò che a Gesù stava a cuore; non di evitare ma di superare la dura prova che la missione profetica gli stava riservando.

E Gesù fu esaudito per la sua riverenza, pietà, fiducia in Dio. Pregare è un atto di fede, ma occorre anche essere pronti ad accogliere qualsiasi risposta, sapendo che tutto ciò che Dio dispone è tutto quello che egli può dare, quello che è più opportuno per la creatura, maggiormente rispondente al suo disegno.

Gesù è stato sempre un «figlio» ubbidiente, ma ha dovuto anche apprendere a quale prezzo a volte l’ubbidienza è subordinata.

 

Vangelo: Giovanni 18,1-19,42

 

 Catturarono Gesù e lo legarono

     In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli. Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».

 Lo condussero prima da Anna

Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».

Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono». Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.


Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono!

Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.


Il mio regno non è di questo mondo

Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?». E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.

Salve, re dei Giudei!

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».

Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».

All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».

Via! Via! Crocifiggilo!

Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?». Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare». Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.

Lo crocifissero e con lui altri due

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».


Si sono divisi tra loro le mie vesti

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati fecero così.

Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.


E subito ne uscì sangue e acqua

Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».


Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi

Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.

 

Esegesi

 

Il «racconto» della passione secondo Giovanni è totalmente diverso da quello dei sinottici (Mc-Mt-Lc).

Il quarto evangelista ricorda occasionalmente i patimenti di Gesù; di fatti descrive il suo cammino trionfale verso il trono della sua gloria. Il titolo è dato già in 12,32: «quando sarò esaltato da terra trarrò tutti a me». Nel Getsemani invece di essere prostrato dal dolore, sopraffatto dall’agonia (cf. Mc 14,33-34) Gesù si erge contro i suoi avversari prostrandoli a terra (18,6). In Marco è lui a cadere su se stesso sopraffatto dal dolore e dallo spavento; qui sono i suoi nemici folgorati dalla sua maestà. Un’intera corte e le guardie dei giudei indietreggiano e finiscono a terra quando dice: «Sono io». Gesù accetta sì il «calice» che il padre gli ha preparato ma da «Signore» più che da vittima.

Il processo davanti ad Anna (18,18-24) e a Pilato (18,28-40) è sostenuto da Gesù dignitosamente. Sembra egli il giudice più che il reo. Pur incatenato è sempre a testa alta di fronte agli accusatori e alle accuse. Non ha paura di rispondere al sommo sacerdote come il reagire contro il servo che l’ha ingiustamente schiaffeggiato mentre i sinottici riferiscono solo gli scherni e gli insulti che ha ricevuto e danno più rilievo al comportamento degli avversari che all’atteggiamento di Gesù.

L’interrogatorio da parte di Pilato serve a mettere in rilievo l’innocenza di Gesù e la sua supremazia sul giudice e sugli accusatori. Egli è la «verità» in persona e cerca di raggiungere persino lo stesso procuratore romano e quelli che l’attorniano dato che quelli a cui era prima di tutti destinata la rifiutano come rifiutano il loro re per sottostare a Cesare. Il «re dei giudei» di cui i soldati mettono in scena una sua simbolica intronizzazione è proposto a Barabba, un rivoltoso quindi un partigiano, ma per Giovanni è semplicemente un «ladro».

La scena centrale del racconto della passione di Giovanni è quando il funzionario romano fa uscire Gesù dall’interno del pretorio, lo fa sedere su uno sgabello alla vista di tutto il popolo e pronuncia le fatidiche parole: «Ecco l’uomo!» ( 19,14). L’evangelista nota il giorno (la «parasceve» ossia della preparazione alla Pasqua), l’ora «sesta», ossia verso le dodici) e il luogo (Lithostron). Pilato non si rende conto di ciò che sta facendo; senza volerlo egli sta compiendo un gesto altamente profetico: emette un pronunciamento che avrebbero dovuto emettere le autorità religiose d’Israele. In tutti i modi è un riconoscimento ufficiale della messianità di Gesù che viene più sicuramente da Dio quanto più è estraneo alle intenzioni di chi lo pronuncia. Quando Caifa aveva proclamato che era opportuna la morte di Gesù per salvare tutta la nazione, Giovanni commenta che pronunciò una profezia a sua insaputa (11,51); la stessa cosa pensa ora, anche se non lo dice espressamente, del gesto di Pilato. Solo così si spiega il rilievo che gli accorda.

La maggior parte degli esegeti interpretano il verbo ekathisen in senso intransitivo e quindi lo riferiscono a Pilato che si «siede» sul seggio del giudice; solo che il termine bêma (seggio) è senza articolo e sta più per «uno scanno» qualunque che per la sedia del tribuno. In tutti i modi con questo simbolico insediamento o senza di esso è indiscutibile per Giovanni che Gesù più che processato è riconosciuto persino dal procuratore il re messianico che gli israeliti attendevano. Non solo non c’è alcuna condanna sul suo conto, ma c’è il pubblico riconoscimento della sua reale dignità da parte della persona più impreparata a farlo, quindi è ancora più autentico.

Il viaggio di Gesù al luogo del supplizio è senza traumi; egli avanza «portandosi la croce» come uno stendardo. Non c’è alcun cireneo ad aiutarlo; come non ci sono segni di sofferenza o di stanchezza quando è sulla croce, non riceve alcuna droga («vino e mirra», non grida, non si raccomanda al Padre ma conserva il pieno dominio di sé e il controllo della situazione.

La croce non può essere né cancellata né dimenticata, ma è più un trono, un luogo regale che un luogo di tormenti. La scritta che Pilato ha fatto apporre al vertice lo conferma. Gesù è il re dei giudei e già fa sentire il peso della sua autorità; da le sue ultime disposizioni; consegna alla madre il discepolo prediletto e viceversa (19,26-27); dà compimento agli ultimi oracoli profetici (la spartizione delle vesti, il sorteggiamento della tunica, il dissetamento mediante l’aceto invece che con l’acqua, come aveva predetto il Sal 69,22) e quando aveva portato tutto a compimento, attuata quindi in pieno la sua missione, come un martire ma anche come un eroe vittorioso, lascia partire il suo spirito.

La frase giovannea «consegnò lo spirito» è volutamente ambivalente. Dietro il significato abituale, morire, ce n’è uno più recondito: trasmise lo Spirito sugli stanti, quindi dà corso alla sua attività salvifica. Poco dopo, in occasione della trafittura del costato, l’evangelista annota che ne «uscì sangue ed acqua». Se il sangue richiama la passione, la morte, l’acqua riporta alla promessa dello Spirito santo fatta nel giorno della festa dei tabernacoli (Gv 7,39). «Chi ha sete venga a me e beva. Disse questo dello Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui, ma lo Spirito non veniva ancora accordato perché Gesù non era stato ancora glorificato» (ivi). Ma ora dalla croce lo può già effondere, anche se la donazione piena, ufficiale comincia la sera di pasqua quando nel cenacolo si presenta ai suoi, alita su di loro e dice: «Ricevete lo Spirito santo» (20,22).

I corpi dei condannati a morte venivano gettati nella fossa comune dei malfattori, ma gli evangelisti si sono preoccupati di evitare a Gesù questa umiliazione e gli accordano una onorata sepoltura. Anzi Giovanni menziona la bende, gli aromi e prima ancora la mirra recata in abbondanza da Nicodemo; la sepoltura non è affrettata, ma secondo tutte le regole giudaiche.

I sinottici parlano del sepolcro nuovo (Mt 27,60) Giovanni aggiunge che era in un «giardino», traduzione dell’ebraico gan, il luogo dove Dio aveva collocato il primo uomo dopo la creazione avvenuta nell’adamah o terra arida.

Gesù non è entrato perciò nel regno della morte, ma della vera vita; il paradiso delle origini da cui l’uomo era stato espulso si è finalmente riaperto grazie alla sua opera. La storia stava riprendendo il corso impostale dal creatore.

 

Meditazione

Oggi tutto è adorazione e silenzio. La stessa liturgia è più silenziosa e tutti ci siamo prostrati, già all’inizio, intendendo una indicibile oppres­sione. Si sente solo un pianto: quello di Dio. Sì, Dio piange, con quel singhiozzo, con quella reiterata insistenza, con quella sconsolatezza che si abbatte su colui che vede suo Figlio nelle mani di uomini pieni di odio e di ingiustizia. Se ci lasceremo toccare, nella liturgia odierna, dal pianto divino, non dimenticheremo più il Padre che vive la morte del suo Figlio. E ascolteremo il pianto di colui che, sospeso sulla croce, si rivolge a noi con delle parole sconvolgenti: «Popolo mio, che male ti ho fatto, perché tu mi mettessi in croce? In che ti ho provocato? Dammi risposta!» E, sgomento, il Signore continua a non darsi pace: «Io ho aperto davanti a te il mare, e tu mi hai aperto con la lancia il costato. Io ti ho fatto una strada con la nube, e tu mi hai condotto al pretorio di Pilato. Io ti ho dissetato dalla rupe con acqua di salvezza, e tu mi hai dissetato con fiele e aceto. Io ti ho posto in mano uno scettro regale, e tu hai posto sul mio capo una corona di spine». Il Signore conclude: «Che altro avrei dovuto fare e non ti ho fatto?».

Questo pianto, tante volte è inascoltato. Presi come siamo da noi stessi non lo sentiamo più. Ecco perché la nostra vita è spesso così arida e sciocca, e le nostre città sono così crudeli, soprattutto con i più debo­li. Ognuno sembra come rinchiuso nel versare le lacrime solo su se stesso, sui propri guai, sul proprio destino. E versa lacrime di dolore, che però resta sterile, perché si rinchiude in se stesso. Sono lacrime che non permettono di guardare oltre i propri sentimenti e le proprie angosce, che non arrivano a scoprire la fonte di ogni beatitudine: l’amore che si dona.

Quel giorno, come oggi, Gesù, chinato il capo, spirò. Forse a Gerusalemme non si parlava d’altro; la morte di questo singolare pro­feta doveva essere senza dubbio una notizia in una città strapiena di pellegrini ebrei o proseliti convenuti per celebrare la Pasqua. Eppure chi troviamo presso la sua croce, a soffrire con lui e per lui, mentre Egli soffriva per noi e a causa nostra? Molti lo maledicevano o lo schernivano, lo insultavano e semplicemente se ne disinteressavano. Altri, si limitavano ad una commiserazione sterile. Moriva per gli uomini, e aveva accanto a se soltanto un piccolo gruppo di persone, che prende­vano atto del suo amore oppure restavano sgomentati di una fine così ingiusta come crudele.

Da quel primo Venerdì Santo, forse capitato il 7 aprile dell’anno 30, sono passati quasi duemila anni. E il dramma di questo giorno conti­nua: il Signore che ha dato la sua vita per noi, non è amato. «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?», ripete Gesù sulla croce. Questo lamento scende oggi dalla croce, per ognuno di noi. Chi di noi può dire di avere aiutato il Signore a portare la croce? Non quella nostra, s’intende, ma quella del Signore? Allora, per portare la croce di Gesù, requisirono un povero contadino, Simone, originario di Cirene, una regione dell’at­tuale Libia. È sempre il povero che porta la croce, allora come oggi. Essa finisce sulle spalle dei deboli. E, malgrado tutto, Gesù non l’abban­dona quando, arrivato sul Golgota, viene crocifisso. Non fugge, né la sfugge. Non ascolta gli inviti a salvare se stesso ed essere risparmiato da una tortura crudele, accompagnata da sofferenze e solitudine.

Orbene, Gesù non scende dalla croce, perché quella croce è il trono del re dell’universo, che si è incarnato in una umanità bisogno­sa dell’amore più straordinario, di un amore che potesse rompere le catene dell’orgoglio e della violenza. Gesù non scende dalla croce perché è venuto «per dare testimonianza della verità», come afferma davanti a Pilato (Gv 18, 37), e la verità e quella di un Dio che non si è dimenticato degli uomini ma ha voluto prendere su di sé il peccato del mondo. Gesù non scende dalla croce perché lui stesso è «la veri­tà» (Gv 14, 6), incorpora in sé, nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi gesti, la verità del Vangelo, che è salvezza per tutti. Gesù ha fatto della croce uno strumento di perdono e di alleanza definitiva tra Dio e l’umanità. Nella croce non c’è menzogna né furbizia, non c’è avarizia né invidia, non ci sono disprezzo dell’altro né della sua vita, piccola o grande, che arriva o che se ne va. La croce è misericordia. Perciò ci sono lacrime da versare, perché l’amore di Dio dilegua qualsiasi forma di amore per se stesso. Il Venerdì Santo è il giorno della con­templazione del Re che regna dalla croce, che è diventata la verità più nobile della storia umana.

Verso questa croce a cui è sospeso il Messia di Israele, si rivolge lo sguardo di colui «che ha visto» (Gv 19, 35). Costui è testimone di una morte che raccoglie ogni morte, pure quelle più terribili, e al contempo inghiottisce la Morte, il nemico più antico della vita. Questo Messia-re si dà senza risparmiare l’ultimo alito di vita — sangue e acqua scorrono dal suo costato — e perciò resta il trionfatore di quel duello con la Morte. I sacramenti della Chiesa, l’acqua del Battesimo e il sangue dell’Eucaristia, faranno rivivere il trionfo della donazione di Gesù, che distrugge il potere del male e la forza del peccato. Pasqua è pronta. L’Agnello sgozzato diventerà l’Agnello che vive per sempre.

E ora dunque di dimenticare le nostre mani fredde e di guardare altre mani, di sostituire le nostre mani impietose con quelle misericor­diose della donna che cosparge di olio i piedi di Gesù, con le mani di Maria, sua Madre, che accoglie il corpo senza vita del figlio, di Giuseppe d’Arimatea che toglie pietosamente il corpo dalla croce. Anche le mani del centurione che puntano su Gesù proclamandolo Figlio di Dio, o quelle della folla che si allontana battendosi il petto per la propria incredulità e la propria complicità per la morte dell’unico giusto. La salvezza inizia di qui, dal pentimento che nasce guardando la croce e dalla consapevolezza di essere perdonati da una misericordia infinita.

 

Preghiere e racconti

 

Nelle tue mani

«Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto!”. E, chinato il capo, rese lo spirito» (Gv 19,30). […] A ragione Gesù dice che tutto è compiuto. Ora, però, la sua ora lo chiama a proclamare la Parola agli spiriti che sono negli inferi. Vi si reca per mostrare la sua signoria sui vivi e sui morti. E per noi che si è immerso nella morte e che subisce questa passione comune a tutta la nostra natura, cioè la sofferenza della carne, mentre, essendo Dio, è per natura la vita. Dopo aver spogliato gli inferi, vuole ricondurre la natura umana alla vita, lui che le Scritture chiamano «la primizia» (1Cor l5,24) di quanti si sono addormentati e «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18).

Egli dunque, inclinò il capo, fatto normale nei morenti, perché lo spirito o l’anima che mantiene e governa il corpo lo lascia. Quanto a ciò che l’evangelista aggiunge: «rese lo spirito» (Gv 19,30) è un’espressione impiegata per parlare di qualcuno che si spegne e muore. Ma sembra che intenzionalmente, volutamente l’evangelista non abbia detto soltanto che Gesù era morto, ma che aveva consegnato il suo spirito nelle mani di Dio Padre, in accordo con quello che aveva detto di se stesso: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). La portata e il senso di queste parole sono per noi principio e fondamento di una gioiosa speranza.

Si deve credere, infatti, che le anime sante, dopo essersi liberate dal loro corpo terrestre, sono affidate, tra le mani del Padre pieno d’amore, alla bontà e alla misericordia di Dio. […] Esse si affrettano a consegnarsi nelle mani del Padre di tutti e in quelle del nostro Salvatore, il Cristo, che ci ha mostrato questo itinerario. Egli ha consegnato la propria anima nelle mani di suo Padre affinché anche noi, mettendoci su questo cammino, possediamo una gloriosa speranza, sapendo e credendo fermamente che, dopo aver subito la morte del corpo, saremo tra le mani di Dio e in una condizione di molto preferibile a quella in cui abbiamo vissuto nella carne. E per questo che san Paolo scrive per noi che è meglio essere sciolti dal corpo per essere con Cristo (cfr. Fil 71,23).

(GIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni 12,30, PG 74,667C-670B)

 

«Non sciunt quod faciunt»

Persino sulla Croce, mentre compiva nell’angoscia la perfezione della sua Santa Umanità, Nostro Signore non si afferma vittima dell’ingiustizia: Non sciunt quod faciunt. Parole intelligibili dai bambini più piccoli, parole che si potrebbero dire infantili, ma che i demòni debbono ripetersi, dopo d’allora, senza comprenderle, con spavento crescente. Mentre si aspettavano la folgore, è come se una mano innocente avesse chiuso su loro i pozzi dell’abisso.

(G. BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano, Mondadori, 1994, 238-239).

 

Coraggio, fratello che soffri

Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo. Coraggio. La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre «collocazione provvisoria». Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce. C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra». Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. C’è anche per te una deposizione dalla croce. C’è anche per te una pietà sovrumana. Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua. Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte febbricitante. Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza. Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.

Coraggio. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.

(Don Tonino Bello)

 

Il Cristo di Velázquez

A che pensi Tu, morto, Cristo mio?

Perché qual vel di tenebrosa notte

la ricca chioma tua di nazareno

ricade cupa giù su la tua fronte?

Entro di te Tu guardi ove sta il regno

di Dio; dentro di te, là dove albeggia,

l’eterno sol dell’anime viventi.

Bianco è il suo corpo, sì com’è la sfera

del sol, padre di luce, che dà vita;

bianco è il tuo corpo al modo della luna

che morta ruota intorno alla sua madre,

la nostra stanca vagabonda terra;

bianco è il tuo corpo, bianco come l’ostia

del cielo nella notte sovrumana,

di quel cielo ch’è nero come il velo

della chioma tua ricca e cupa e folta

di nazareno.

Ché sei, Cristo, il solo

Uomo che di sua scelta soccombesse,

trionfando della morte, che fu resa

da te verace vita. E sol da allora

per Te codesta morte tua dà vita;

per Te la morte è fatta madre nostra;

per Te la morte è il dolce nostro anelo

che placa l’amarezza della vita.

Per te, l’Uomo che è morto e che non muore,

bianco siccome luna nella notte…

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 28-29).

 

Venerdì Santo

Venerdì Santo: giorno della croce, giorno di sofferenza, giorno di speranza, giorno di abbandono, giorno di vittoria, giorno di mestizia, giorno di gioia, giorno di conclusione, giorno di inizio.

Durante la liturgia a Trosly, Père Thomas e Père Gilbert staccarono dalla parete l’enorme croce che sta appesa dietro l’altare e la tennero sollevata, così che tutta la comunità poté andare a baciare il corpo morto di Cristo. Vennero tutti, più di quattrocento persone – uomini e donne disabili con i loro assistenti e amici. Tutti apparivano consapevoli di quello stavano facendo: esprimere il loro amore e la loro gratitudine per colui che aveva dato la propria vita per loro. Mentre stavano tutti radunati attorno alla croce e baciavano i piedi e la testa di Gesù, chiusi gli occhi e vidi il suo sacro corpo disteso e crocifisso sul nostro pianeta terra. Vidi l’immensa sofferenza dell’umanità lungo i secoli: persone che si uccidono a vicenda, persone che muoiono di fame o di malattia; persone cacciate dalle proprie case; persone che dormono nelle strade delle grandi città; persone che si attaccano le une alle altre nella disperazione; persone flagellate, torturate, bruciate e mutilate; persone isolate in appartamenti chiusi, in prigioni sotterranee, nei campi di lavori forzati; persone che implorano una parola dolce, una lettera amichevole, un abbraccio consolante, persone… che gridano tutte con voce angosciata: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Immaginando il corpo di Gesù nudo e lacerato, disteso sul nostro globo, mi sentivo pieno di orrore. Ma non appena aprii gli occhi, vidi Jacques, che porta sul volto i segni della sua sofferenza, mentre baciava il corpo con passione e le lacrime gli scendevano dagli occhi. Vidi Ivan, trasportato a spalle da Michael. Vidi Edith che avanzava nella sua sedia a rotelle. Man mano che venivano – diritti o claudicanti, vedenti o ciechi, udenti o sordi – vedevo l’interminabile processione dell’umanità che si radunava attorno al sacro corpo di Gesù coprendolo di lacrime e di baci, per poi allontanarsene lentamente, confortata e consolata da un così grande amore… Con gli occhi della mia mente vidi l’immensa folla di isolati, di individui angosciati che si allontanavano insieme dalla croce, uniti dall’amore che essi avevano visto con i loro stessi occhi e toccato con le loro stesse labbra. La croce dell’orrore divenne la croce della speranza, il corpo torturato divenne il corpo che da nuova vita; le ferite aperte diventarono fonte di perdono, di guarigione e di riconciliazione.

O mio Signore, che cosa ti posso dire?

Ci sono forse parole

che possono uscire dalla mia bocca?

Qualche pensiero? Qualche frase?

Tu sei morto per me

hai dato tutto a causa dei miei peccati,

non solo sei diventato uomo per me

ma hai anche sofferto

la più crudele delle morti per me.

C’è forse una risposta?

Mi piacerebbe trovare una risposta adatta.

Ma contemplando la tua santa passione e morte

posso soltanto confessare umilmente davanti a te,

che l’immensità del tuo amore divino

fa apparire del tutto inadeguata qualsiasi risposta.

Che io semplicemente stia davanti a te e ti guardi.

Il tuo corpo è lacerato, il tuo capo ferito,

le tue mani e i tuoi piedi

perforati dai chiodi

il tuo fianco aperto,

il tuo corpo morto

ora riposa tra le braccia di tua Madre.

Ora tutto è finito.

È terminato. È compiuto. È consumato.

Dolce Signore, grazioso Signore,

generoso Signore, Signore pronto al perdono,

ti adoro, ti lodo, ti rendo grazie.

Tu hai fatto nuove tutte le cose

Mediante la tua passione e la tua morte

La tua croce è stata piantata su questo mondo

come nuovo segno di speranza.

Che io viva sempre sotto la tua croce, o Signore, e proclami la speranza della tua croce senza stancarmi.

(H.J.M. NOUWEN, Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003).

 

Undicesima stazione

II panno umido sul viso mi ha dato un breve sollievo.

Sono caduto per la terza volta, qualche braccio soccorrevole mi ha sostenuto nel

rialzarmi, ma il peso per le membra che ho è troppo grave.

L’onta e il castigo della carne, questo alla loro ferocia piace molto.

Il supplizio della misconoscenza e del tradimento

alla loro perfidia è un piacere più sottile,

lo delibano i sommi sacerdoti.

Ma ora, Padre, sono ingiusto:

ci sono anime innocenti,

creature pietose che si angosciano,

non si danno pace. E questi, ti prego, prediligili.

Tra loro c’è mia madre,

ci sono uomini e donne di cuore che la

accompagnano,

e molti altri addolorati e increduli.

Sempre, dal principio fino all’avvento del tuo regno,

il bene e il male si affrontano.

Oggi va al male, secondo appare a noi, la palma.

Tra gente come loro ho seminato le beatitudini,

erano meravigliati – alcuni un giorno capiranno,

ma io sarò morto e risorto

per tutti quelli che capito avranno

e per coloro che saranno rimasti chiusi nell’ottusità.

Tutti potranno essere salvi, così vuole l’Alleanza.

Ma dove andiamo, dove va questa trista processione?

Mi conducono a un’altura.

(M. LUZI, Via crucis, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1999, 47-49).

 

Orazione finale

In piedi e con le braccia appena aperte,

tesa, perché non secchi, la man destra,

fa che la via sassosa della vita,

ascesa del Calvario, percorriamo

dai chiodi del dovere sostenuti,

e in piedi come Te, le braccia aperte

ansiosamente, noi moriamo; e dopo

alla gloria saliamo ancora in piedi

come Te, perché in piedi Iddio ci parli

e con le braccia aperte. Dammi, Cristo,

che quando alfine vagherò sperduto

uscendo dalla notte tenebrosa

ove sognando il cuore si impaura,

entri nel chiaro giorno sconfinato,

con gli occhi fissi sul tuo bianco corpo,

Figlio dell’uomo, Umanità perfetta,

nell’increata luce che non muore;

gli occhi, Signore, fissi nei tuoi occhi,

e in te, Cristo, perduto il guardo mio!

(M. DE UNAMUNO, II Cristo di Velázquez, Brescia, Morcelliana, 1948, 138-139)

 

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sett santa VENERDÌ SANTO (B)

CENA DEL SIGNORE

Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14

 

Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.

 

  • La Pasqua è la grande solennità del calendario giudaico. Indipendentemente dal suo significato originario si ricollegava con la liberazione egiziana, il soggiorno sinaitico, l’alleanza. Soprattutto era il ricordo della partenza miracolosa dalla terra della schiavitù verso la libertà. «Pasqua» significa infatti «passaggio» (Es 12,11), sia dell’angelo di JHWH nella notte dell’esodo, sia del popolo di Dio dalla servitù dei faraoni al servizio del vero Dio, sia l’ingresso d’Israele nell’alleanza con il Signore del cielo e della terra.

Ritualmente la celebrazione era legata all’immolazione dell’agnello e al banchetto conviviale dei membri della comunità che si raccoglieva per rivivere l’esperienza dei padri e riassorbirne i benefici. Ognuno si doveva sentire come liberato personalmente dall’antica e da qualsiasi altra forma di schiavitù presente. E tutti erano invitati a sentire la gioia della liberazione. Il banchetto a cui tutti i gruppi di dodici persone sedevano, i cibi simbolici che venivano apprestati (l’agnello di un anno, intatto e senza macchia perché rappresentava tutto intero Israele, le erbe amare per ricordare le sofferenze sopportate, il dolce color mattone per rievocare i lavori forzati a cui furono costretti) commemorava la fine dell’esilio e la gioia della conseguita liberazione.

Un «trapasso» che doveva quasi inorgoglire tutti i membri del popolo eletto fino agli ultimi discendenti e rallegrarli dal profondo del cuore. Essi avevano sperimentato la presenza di Dio in modo tangibile e spettacolare, una presenza e assistenza che non era venuta mai meno e costituiva il vanto e l’esultanza di ogni israelita. Non c’è altra «grande nazione che abbia la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi», sottolinea il deuteronomista (4,7).

Israele è un popolo missionario chiamato a segnalare alle genti l’unico vero Dio creatore di tutte le cose e ad attendere la piena manifestazione della sua benevolenza (salvezza) in mezzo agli uomini, ma è caduto in un grave abbaglio quando si è ritenuto destinatario esclusivo delle «benedizioni» divine che oltre ad Abramo erano destinate a «tutte le nazioni» (Gn 12,3).

 

Seconda lettura: 1 Corinzi 11,23-26

 

    Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

 

  • L’apostolo Paolo è un testimone della tradizione primitiva della Chiesa, in questo caso della «cena del Signore» che è il momento culminante della convocazione assembleare.

I cristiani (di Gerusalemme) si radunano per pregare (At 1,14), per ascoltare l’istruzione degli apostoli, prender parte all’agape e alla frazione del pane (At 2,42; 20,7,11; 27,35). Frequentavano la liturgia del tempio e poi nelle case «spezzavano il pane prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (ivi). È quanto fanno i cristiani di Corinto. Anche se con certi gravi abusi anch’essi si ritrovano insieme per la condivisione del cibo con i più poveri e per la frazione del pane, solo che alcuni consumavano quello che avevano portato prima che arrivassero gli altri, gli ultimi, in genere servi o operai che non potevano lasciare il lavoro a piacimento. Quindi oltre che eran più stanchi di tutti trovano poco o nulla per rifocillarsi.

Questa prima refezione ordinata al nutrimento del corpo era il contesto in cui si ripeteva, si commemorava l’ultima cena di Gesù con i suoi, nella stessa notte in cui stava per essere tradito, consegnato cioè nelle mani dei nemici ed essere ucciso. Gesù compì un rito che doveva tenere desta nella memoria, quindi nella mente e nel cuore dei suoi, quello che egli aveva sopportato per il loro bene e il bene di tutti gli uomini. Aveva costituito un «memoriale», voluto cioè ritualizzare l’atto della sua morte affinché i suoi seguaci potessero più agevolmente tenerlo presente e assumersi tutto l’onere che un tale «ricordo» comportava.

Ogni volta infatti che il cristiano si apprestava a ricevere gli alimenti, il pane e il vino, sui quali erano state ripetute le formule di benedizione: «Questo è il mio corpo (spezzato) per voi», «Questo è il calice del mio sangue (versato per voi)» intendeva compiere una commemorazione (anamnesis) e quindi un «”annunzio” della morte e risurrezione del Signore».

Alla vigilia della sua morte Gesù ha voluto lasciare ai suoi un segno permanente del suo amore. Egli da lì a poco avrebbe finito i suoi giorni sul patibolo, ma quella morte era il prezzo della sua dedizione al volere del Padre e del suo bene ai fratelli. Si lascerà spezzare, verserà fino alla sua ultima goccia il suo sangue ma non si arrenderà alle pressioni e angherie delle potestà terrene, ossia del potere ingiustamente costituito.

Gesù moriva martire di ubbidienza e di carità e lasciava ricapitolato il suo sacrificio nel simbolico rito dello spezzamento del pane e nel versamento del vino nel calice. Chiunque avesse preso parte a tale banchetto commemorativo e avesse assunto gli alimenti offerti dichiarava agli astanti e più ancora a se stesso che anche lui era pronto come Gesù ad accogliere la proposta del Padre mettendo la propria vita a servizio dei fratelli fino a perderla per il loro bene.

 

Vangelo: Giovanni 13,1-15

 

     Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri». Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».  

 

Esegesi

 

La lavanda dei piedi è la testimonianza estrema che Gesù lascia del suo amore ai discepoli e in essi a tutti gli uomini.

L’evangelista Giovanni non parla dell’autorità intesa come puro servizio, della scelta dell’ultimo posto per chi desidera porsi al primo (cf. Mc 10,41-45; Mt 20,24-28; Lc 22,22-27), ma è l’unico a ricordare questa alta prova di umiltà che Gesù lascia ai suoi nelle ore precedenti al suo commiato. È un gesto che vale più per il suo significato che per se stesso, per il beneficio cioè che apporta a coloro che lo ricevono.

La lavanda dei piedi era un’operazione che compiva non un comune domestico ma solo lo schiavo. Era addirittura indegna da parte di un uomo libero. Gesù pur definendosi «signore e maestro», anche se verosimilmente è dubbio che una tale dichiarazione sia uscita dalle sue labbra, non trova impossibile o irriverente compiere un tale atto. Lo stupore di Pietro e dei suoi colleghi è più che plausibile. Anche se gli altri discepoli non parlano, sentono dentro di sé lo stesso disagio. Ma Gesù è irremovibile, non perché i dodici hanno bisogno di una particolare mondezza fisica prima della cena, ma perché debbono imparare ad assumere un particolare atteggiamento interiore davanti a Dio e ai propri fratelli.

Gesù lavando i piedi ai discepoli segnala una sua scelta e collocazione sociale, una chiara opzione messianica. Tutti attendevano il prestigioso, potente discendente davidico, egli invece opta per l’ideale del «Servo sofferente» (Is 53) pronto agli scherni, alle derisioni, alle sofferenze al martirio. È quanto Pietro e i suoi colleghi debbono capire e accettare. O al seguito di un salvatore senza titolature e aureole, anzi disprezzato e vilipeso come uno schiavo o ritirarsi dalla sua sequela. Le due strade erano inconciliabili: quella della liberazione degli uomini poveri e affranti e quella della propria esaltazione. Se si doveva scegliere la prima era impraticabile la seconda, poiché le moltitudini fatte di gente senza dignità e onore avevano bisogno di un salvatore del loro rango, non di un altro oppressore.

Gesù sarà un messia mite ed umile di cuore (Mt 11,29), passerà senza spezzare la canna incrinata e spegnere il lucignolo fumigante, senza gridare sulle piazze (Mt 12,18-19), andrà incontro a una fine ignominiosa per difendere la causa dei peccatori, ma anche dei poveri e oppressi. Cingersi i fianchi con un grembiule, prendere in mano un catino e mettersi a lavare i piedi dei suoi discepoli era una conferma delle scelte, dei comportamenti assunti sino allora, per questo diventava un gesto altamente significativo. Essenziale come la morte sul legno della croce; che era oggetto di sofferenza e insieme di maledizione.

Gesù non ha assunto atteggiamenti guerrieri, né trionfalistici; è fuggito quando volevano farlo re (Gv 6,15) ed entra a Gerusalemme su un giumento invece che su un destriere e ha esortato i suoi a portare la croce più che lo scettro. E Luca aggiunge quotidianamente (9.13). Egli era venuto per servire e non per essere servito (Mt 20.28) per questo non trova inopportuno il gesto che compie.

Le parole conclusive esplicitano il significato e tutta la portata che l’operazione compiuta ha nella vita cristiana. Non è una scelta e un atteggiamento che riguarda la sua persona, ma indistintamente tutti coloro che desiderano essere suoi discepoli. «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (v. 15). Anche per loro valeva l’alternativa posta a Pietro o accettare un messia servo e assumere un comportamento dimesso e umile o rinunciare a proclamarsi cristiani. Bisognava sentirsi pronti a lavare i piedi degli altri, degli amici e persino dei nemici, aggiungeranno Matteo (5,48) e Luca (6,35) senza tirarsi indietro.

La lavanda dei piedi è un gesto reale ed emblematico poiché in pratica abbraccia qualsiasi tipo di servizio, persino spiacevole e ripugnante se qualcuno ne ha bisogno.

Lavare i piedi è il sacramento fondamentale del cristiano poiché è la prova inconfondibile della sua identità e della sua conformità a Cristo. È il segno di quella carità che rende l’uomo «figlio di Dio», «perfetto» come lui (cf. Mt 5,48; Lc 6,35).

 

Meditazione

«Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22,15), dice Gesù ai suoi discepoli all’inizio della sua ultima cena prima di morire. In verità, per Gesù, è un desiderio maturato a lungo: quella sera vuole stare con i suoi; quelli di ieri e quelli di oggi, noi compresi. È il suo ultimo giorno di vita terrena, la sua ultima sera, l’ultima volta che sta con coloro che ha chiamato a camminare con lui: se li era scelti, li aveva curati, amati, difesi. Gesù sta nel pieno della vita. Eppure, tra meno di ventiquattrore ore giacerà nel sepolcro. Questa sera il Signore desidera ardentemente stare con noi. E noi? Desideriamo stargli vicino, almeno un poco? Sappiamo offrirgli quel poco di compagnia e di affetto di cui è capace il nostro cuore? Se guardiamo in faccia la realtà, c’è da dire che è stato sempre lui a fare di tutto per starci vicino, per legarci al Vangelo. Quante volte — come canta un antico inno — «quaerens me, sedisti lassus?» («Quante volte Signore ti sei seduto stanco, per la fatica di rincorrermi?»). Questa sera, l’ultima della sua vita, Gesù continua, in un supremo slancio di amore, a legarsi definitivamente ai discepoli.

Abbiamo ascoltato dalle Sante Scritture che si mise a tavola con i Dodici, prese il pane e lo distribuì loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è per voi». La stessa cosa fece con il calice del vino: «Questo è il mio sangue, sparso per voi». Sono le stesse parole che ripeteremo tra poco sull’altare, e sarà lo stesso Signore ad invitare ciascuno di noi a nutrirsi del pane e del vino consacrati. Potremmo dire che Gesù ha ‘inventato’ l’impossibile (del resto l’amore vero non sa creare cose impossibili?) per restarci accanto, per continuare ad essere vicino ai discepoli di ogni tempo. Non solo vicino, addirittura dentro i discepoli: diviene cibo per noi, carne della nostra carne. Quel pane e quel vino sono il nutrimento disceso dal cielo per noi, uomini e donne pellegrini per le vie di questo mondo. Quel pane e quel vino sono medicina e sostegno per la nostra povera vita: curano le malattie, ci liberano dai peccati, ci sollevano dall’angoscia e dalla tristezza. Non solo. Ci rendono più simili a Gesù, ci aiutano a vivere come lui viveva, a desiderare le cose che lui desiderava. Quel pane e quel vino fanno sorgere in noi sentimenti di bontà, di servizio, di affetto, di tenerezza, di amore, di perdono. Appunto, i sentimenti di Gesù.

La scena evangelica della lavanda dei piedi che questa sera ci è stata annunciata, continua a mostrare che cosa significa per Gesù essere pane spezzato e vino versato per noi e per tutti. A cena inoltrata, subito Gesù si alza da tavola, depone le vesti e si cinge i fianchi con un asciugamano, poi prende un catino con dell’acqua e si dirige verso uno dei dodici, si inginocchia davanti a ognuno di loro e gli lava i piedi. Fa così con ogni discepolo, anche con Giuda che stava per tradirlo; Gesù sa che Giuda lo tradirà, ma si inginocchia ugualmente davanti a lui. Pietro — forse l’ultimo, poiché siede accanto a lui — appena vede giungere Gesù, subito reagisce: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Povero Pietro, non ha ancora capito nulla! Non ha compreso che a Gesù non interessa quella dignità che il mondo desidera e cerca in un modo faticoso. Gesù, ancora una volta, glielo spiega: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 27).

Gesù ama i suoi discepoli e ognuno di noi con un amore sconfinato, cioè, senza confini. La sua dignità non risiede nel restare seduto, come Maestro che è, davanti ai suoi. La dignità di Gesù sgorga dall’amare i discepoli sino alla fine, dall’inginocchiarsi sino ai loro piedi. È la sua ultima grande lezione da vivo: «Capite quello che ho fatto per voi? — dice alla fine della lavanda — Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13, 12-15). D’ora in poi, colui che segna la sua vita col grande dono del ministero sacerdotale, saprà che deve fare come Gesù: praticare il servizio umile dei fratelli.

Il Vangelo del Giovedì Santo esorta i discepoli a chinarsi e lavarsi i piedi gli uni gli altri. È un comando nuovo. Non lo troviamo tra gli uomini. Non nasce dalle nostre tradizioni, tutte ben solidamente contrarie. Tale comando viene da Dio; ed è un grande dono che questa sera riceviamo. Gesù l’ha applicato per primo. Beati noi se lo comprendiamo! Nella santa Eucaristia la lavanda dei piedi è un segno, una indicazione preziosa della via da seguire: lavarci i piedi gli uni gli altri, a partire dai più deboli, dai malati, dagli anziani, dai più poveri, dai più indifesi. Il Giovedì Santo ci insegna come vivere e da dove iniziare a vivere: la vita vera non è quella di stare fermi nel proprio orgoglio; la vita secondo il Vangelo è piegarsi verso i fratelli e le sorelle, iniziando dai più deboli. L’amore fraterno e verso i poveri, la carità gratuita e senza compenso è la vita che possiamo desiderare: viene dal cielo e approda sulla terra. Tutti, infatti, abbiamo bisogno di amicizia, di affet­to, di comprensione, di accoglienza, di aiuto. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che si chini verso di noi, come anche noi di chinarci verso i fratelli e le sorelle. Nel Giovedì Santo si svela davvero la grande umani­tà di Dio: il giorno dell’amore di Gesù che scende in basso, sino ai piedi dei suoi amici. E tutti sono suoi amici, anche chi lo sta per tradire. Da parte di Gesù nessuno è nemico, tutto per lui è amore. Lavare i piedi non è un gesto, è un modo di vivere.

Terminata la cena, Gesù si incammina verso l’orto degli ulivi. Da questo momento non solo si inginocchia sino ai piedi dei discepoli, scende ancora più in basso, se è possibile, per dimostrare il suo amore. Nell’orto degli ulivi si inginocchia ancora, anzi si stende a terra ed è preso dal dolore e dall’angoscia. Lasciamoci coinvolgere almeno un poco da quest’uomo che ci ama di un amore mai visto sulla terra. E mentre restiamo in quell’orto, diciamogli il nostro affetto e la nostra amicizia. Quanto sono amare quelle parole che disse ai tre che ha volu­to accanto a se ma si sono addormentati: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me un’ora sola? (Mt 26, 40). Oggi, più che noi, è il Signore ad aver bisogno di compagnia e di affetto. Ascoltiamo la sua implora­zione: «La mia anima è triste sino alla morte; restate qui e vegliate con me» (Mt 26, 38) . Chiniamoci su di lui e non facciamogli mancare la consolazione della nostra vicinanza, mentre lui sta per entrare in una via di croce che guarisce le nostre infermità con la forza dell’amore.

 

Preghiere e racconti

 

Il pane di ieri

Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uo­mo, della natura e della cultura, il pane esprime il biso­gno, ciò che davvero è necessario per vivere. Non a ca­so la parola «pane» indica cibo essenziale e non super­fluo: quando diciamo che «non c’è pane», evochiamo fame e carestia, cosi come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’eviden­za che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame. Una corsa, quella cui assistiamo oggi – dalle sponde meridionali a quelle set­tentrionali del Mediterraneo – che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinque­mila anni fa. Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o me­no a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo  quan­do è spezzato e condiviso.

E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino. Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il do­no accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritem­pra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche. Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici ali­menti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadi­no e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei gra­nai, il rumore della mola e il pigiare nei tini … E ora so­no lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.

Forse anche per questo, come ha giustamente osser­vato Predrag Matvejevié, «la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o si­mili». Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua.

Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristia­ne si riuniscono per celebrare il grande mistero della lo­ro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore». È cosi che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tut­to l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, del­la scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spi­rito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di que­sto mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 42-44)

 

Vi ho dato un esempio

«Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12). È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7). […] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi». […] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15). Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi. Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi. […] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo. Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà. […] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io». Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.

Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16). È questo l’esempio che ci ha dato il Signore. Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp. 1094.1098-1100)

Pane della condivisione

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

 

Un giorno unico

Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino. Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta. Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta. Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima. Quella volta che facesti il primo sacrificio. Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia. La prima vittima.

(Ch. PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).

 

Giovedì Santo

Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto. Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15). Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.

Questi due gesti sono intimamente uniti. Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore. Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15). Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo. Ci chiama a una totale autodonazione.

Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi. Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.

Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate. E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me». Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.

(H.J.M. NOUWEN, In cammino verso la luce).

 

O Signore, dove mai potrei andare?

Io volgo il mio sguardo a te, o Signore. Tu hai pronunciato parole così piene di amore. Il tuo cuore ha parlato così chiaro. Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami. Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…

Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me. Voglio che tu condivida in pieno la mia vita. Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre. Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».

Ti sto di nuovo guardando, o Signore. Tu ti alzi e mi inviti alla mensa. Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me. «Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te». Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te». Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine. Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei. Mi doni il tuo stesso io. Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto. Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.

O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto?

(H.J.M. NOUWEN, Da cuore a cuore).

 

Ogni volta

Ogni volta che celebriamo l’eucaristia e riceviamo il pane e il vino, il corpo e il sangue di Gesù, la sua sofferenza e la sua morte diventano sofferenza e morte per noi. Siamo incorporati in Gesù. La passione diventa compassione, per noi. Veniamo incorporati a Gesù. Diventiamo parte del suo ‘corpo’ e in questa via quanto mai compassionevole, veniamo liberati dalla nostra più profonda solitudine. Per mezzo dell’eucaristia riusciamo ad appartenere a Gesù nella maniera più intima a lui che ha sofferto per noi, è morto per noi ed è di nuovo risorto, così che possiamo soffrire, morire e di nuovo risorgere con lui.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane).

 

Preghiera

Dio onnipotente ed eterno

la sera prima di soffrire,

il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa

il sacrifico della nuova ed eterna alleanza

e istituì il convito del suo amore.

Fa’ che da questo mistero

possiamo ricevere

la pienezza di vita e di amore.

Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sett santa GIOVEDI SANTO (B)

DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Isaia 50,4-7

 

    Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.

 

  • Il brano apre il terzo dei «Canti del Servo». Il personaggio che parla non è nominato, e non viene usata la parola «servo»; si esprime come un profeta, e presenta le caratteristiche del discepolo, docilità e fedeltà. Alcuni commentatori lo identificano con Zorobabele, il discendente di Davide che aveva acceso le speranze messianiche nel post-esilio. Le difficoltà

che si oppongono alla sua missione, già presenti nel secondo canto (49,1-9), si fanno qui più concrete: gli insulti e gli oltraggi di cui il Servo è fatto segno rientrano in ciò che ci si aspettava dalla vocazione profetica (cf. le Confessioni di Geremia).

Il testo del v. 4, è molto tormentato, alcuni vocaboli dell’ebraico sono di difficile interpretazione, la «lingua da discepolo» (o «discepoli», limûdîm: parola rara nell’AT) potrebbe alludere a una scuola di discepoli che accoglie una tradizione di cui il Secondo e il terzo Isaia sarebbero i continuatori. Enigmatico anche il termine lacût, tradotto con «indirizzare (una parola)», «sostenere», o anche «rispondere» (sulla base del testo greco della Settanta), allo «sfiduciato», o «stanco» (jacef). Il senso può essere «indirizzare una parola allo sfiduciato», o anche «sostenere colui che non ha più parole». L’orecchio (v. 4 e v. 5) è anche la facoltà di intendere. Il Servo è quindi un maestro di sapienza, fedele ascoltatore della Parola, che trasmette l’insegnamento divino ai discepoli.

I vv. 6-7 mostrano la persecuzione, conseguenza di questa docilità alla Parola. È la condizione degli Israeliti, anche dopo il ritorno dall’esilio. Il Servo oppone alla persecuzione la sua fermezza, o anche ostinazione: la «faccia dura come pietra». La sua sicurezza viene dall’aiuto del Signore Dio d’Israele (nominato ben tre volte in questi quattro versetti).

 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11

 

   Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio  l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

  • In un contesto parenetico, introdotto dal v. 5 — «abbiate fra voi gli stessi sentimenti che in Cristo Gesù» —, Paolo inserisce un inno di alto contenuto cristologico. Si tratta di un testo prepaolino nella sostanza, che si può far risalire agli anni 50, e che ripercorre l’intero cammino di Gesù: pre-esistenza, incarnazione, vita terrena, croce, esaltazione. Seguendo lo

schema abbassamento/esaltazione, risponde alla domanda «chi è Gesù»?.

Due strofe consequenziali (vv. 6-8; 9-11, la seconda introdotta da «Per questo») espongono la storia di Gesù in cinque tappe, scandite da cinque verbi: tre con soggetto Gesù nella prima strofa, due con soggetto Dio nella seconda.

1a  strofa – I tre verbi all’indicativo aoristo dicono le azioni e si riferiscono a fatti circoscritti, accompagnati da participi che ne esprimono le modalità:

  1. a) non ritenne (ouk egesato, v. 6) bottino l’essere simile a Dio, pur essendo radicato di diritto (yparchon) nella forma (morfè) divina: il ragionamento che prelude all’incarnazione è fatto nella condizione di Dio, all’interno della Trinità: la decisione di donarsi è la legge stessa dell’esistenza di Dio.
  2. b) ma svuotò (ekénosen, v. 7) se stesso… La rinuncia globale è scandita da una serie di participi che sottolineano la normalità dell’essere uomo: prendendo la condizione (morfe) di servo, divenuto simile all’uomo, comportandosi alla maniera degli uomini.
  3. c) Umiliò (etapeinosen, v. 8) se stesso, sottoponendosi alle modalità del vivere terreno e divenendo obbediente (ypèkoos = colui che ascolta dal basso) fino a condividere l’esperienza dell’uomo di fronte alla morte.

2a strofa – A queste tre tappe fa riscontro la risposta del Padre: la logica divina della donazione incondizionata è confermata, la croce manifesta il suo carattere rivelativo.

  1. a) Per questo (diò kai) Dio lo esaltò (yperypsosen, v. 9). La via dell’amore si mostra vittoriosa nella sconfitta.
  2. b) L’esaltazione è la conseguenza, il frutto dell’amore, e tuttavia è dono: gli ha donato (echarìsato) un Nome al di sopra di ogni altro nome.

La storia di Gesù si risolve a gloria universale di Dio Padre: ogni ginocchio si pieghi (v. 10) e ogni lingua proclami (v. 11) Gesù Cristo Signore, a gloria (dòxa) di Dio Padre.

Alcune corrispondenze sottolineano l’antitesi: isa theò (v. 6) contrapposto a homoiòmati anthròpon (v. 7), servo (v. 7) contrapposto a Signore (v.11), svuotare-umiliare (vv. 7-8) contrapposti a esaltare (v. 9).

 

Vangelo: Marco 14,1-15,47

 

 Cercavano il modo di impadronirsi di lui per ucciderlo

 Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

 Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura

Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Promisero a Giuda Iscariota di dargli denaro

Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà

Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».

Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue dell’alleanza

E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

 Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai

Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.

Cominciò a sentire paura e angoscia

Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

Arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta

E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!». Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?

Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte. Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.

Non conosco quest’uomo di cui parlate

Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.

Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?

E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito. A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.


Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo

Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.


Condussero Gesù al luogo del Gòlgota

Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.


Con lui crocifissero anche due ladroni

Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra.


Ha salvato altri e non può salvare se stesso!

Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.


Gesù, dando un forte grido, spirò

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.

Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.


Giuseppe fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro

Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.

 

Esegesi

Introdotto da due versetti che svelano l’intenzione omicida di scribi e sacerdoti, tenuta nascosta per timore della folla (è un primo accenno alla Passione), la lunga lettura evangelica di oggi è racchiusa tra due momenti — anticipo e conclusione del dramma — che vedono protagoniste le donne: l’unzione di Betania (14,3-9) e la presenza delle donne ai piedi della croce e al sepolcro (15,40-41.47).

Unzione di Betania (14,3-9)

A differenza del testo di Giovanni la donna qui (come in Matteo) è anonima, mentre è nominato il padrone di casa, un certo Simone, e il luogo, Betania, il villaggio presso Gerusalemme dove Gesù si ritirava la notte per non essere catturato. Comuni gli elementi essenziali del racconto: la sottolineatura dello spreco, con l’indicazione del prezioso alabastro e del costosissimo profumo, oggetti di lusso che sembrano contrastare con lo stile di vita di Gesù; lo scandalo, più o meno sincero, dei discepoli, con l’accenno (forse strumentale?) ai poveri; la sorprendente reazione di Gesù, che accetta l’omaggio e rimprovera i discepoli: la donna ha compiuto una buona opera (kalòn ergon, v. 6); i poveri sono una scusa,

infatti ci sarà sempre tempo per far loro del bene (v. 7); il gesto della donna ha soprattutto significato profetico, annuncia la sepoltura di Gesù (secondo accenno alla Passione, v. 8). Il valore perenne del gesto è sancito dalla consegna alla memoria («sarà narrato in memoria di lei»: presente in Matteo, non in Giovanni).

Al terzo accenno della Passione (racconto del tradimento di Giuda, vv. 10-11) seguono i preparativi della Cena pasquale (vv. 12-16); tutto appare già predisposto, come in un disegno dall’alto, fin nei minimi particolari, e questa Pasqua si preannuncia già con un carattere di unicità.

Ultima Cena (14,17-31)

Il grande quadro della Cena racchiude il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia (vv. 22-25) fra due annunci di Gesù che si corrispondono: il tradimento di Giuda (vv. 17-21), indicato senza nominarlo come «colui che mangia con me», e il rinnegamento di Pietro (vv. 26-31). Quarto e quinto accenno alla Passione, quest’ultimo contiene anche un primo accenno alla resurrezione (v. 28) che passa quasi inosservato, non compreso dai discepoli.

L’istituzione dell’Eucaristia corrisponde sostanzialmente al testo di Matteo, manca però la motivazione «in remissione dei peccati» (Mt 26,28). Diversa, com’è noto, la relazione di Luca (22,15-20) e di Paolo (1Cor 11,23-25): in Marco e Matteo l’alleanza non è chiamata «nuova». Come in Matteo e in Luca, in Marco si parla del compimento escatologico nel Regno, e questo è detto «nuovo»: «non berrò mai più del frutto della vite…».

Getsemani e arresto (14,32-52)

Il racconto appare molto tormentato quanto alla formazione. Si possono riconoscere due tradizioni intrecciate: una cristologica, in risposta alla domanda «chi è Gesù»?; una moraleggiante, che propone un modello di comportamento per i discepoli.

Intorno a un nucleo antichissimo — «il Figlio dell’uomo viene consegnato» (v. 41) — si sviluppa una lettura in profondità, un racconto in cui Gesù manifesta il suo sentimento, e che fa inclusione con il culmine della Passione («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», 15,34). Si susseguono cinque brevi discorsi di Gesù (quattro ai discepoli, quello centrale al Padre). L’azione ha una struttura ternaria: tre volte Gesù prega, tre volte i discepoli dormono, tre volte Gesù va e viene. Anche i verbi si ripetono: pregare (4x), dormire (4x), vegliare (3x). Protagonista è Gesù, il Padre è presente nell’ombra. Gli altri personaggi, poco più che comparse, sono in concentrazione successiva: i discepoli, i tre, Pietro; più tardi il quadro si allarga: Giuda, i Dodici, la folla.

Gesù sceglie i tre, come altre volte prima di compiere un gesto importante (cf. 5,37; 9.2). È rappresentato totalmente dalla parte dell’uomo: si prostra (v. 35), la sua preghiera (v. 36) ha lo svolgimento classico dei salmi (invocazione, professione di fede, supplica, accettazione della volontà di Dio; manca il ringraziamento). La sua tristezza è scandita da due immagini: l’ora e il calice. L’insistenza sul sonno dei discepoli mette in luce la loro lontananza e debolezza. L’invito a pregare per non soccombere alla tentazione, rivolto non solo a Pietro, contrappone la carne e lo spirito non come due sostanze, ma come due tendenze che coinvolgono l’uomo intero: la lacerazione tra volontà e debolezza è interna al cuore dell’uomo (v. 38). Infine, l’accettazione, con una espressione curiosa e rara: apéchei (v. 41), «basta», si trova in calce alle fatture nei papiri, con il senso di «saldato, pagato». L’ora è venuta: il Figlio è consegnato, agli uomini e al compimento del disegno di Dio. Tra i due imperativi: «restate qui» (v. 32) e «andiamo» (v. 42), gli altri personaggi sono immobili e passivi, solo Gesù è in piena luce.

Gesù è protagonista assoluto anche nella scena dell’arresto (vv. 43-52). Giuda crede di condurre l’azione, in realtà è una pedina, come i soldati e lo stesso discepolo che ferisce il servo del sommo sacerdote. È Gesù che domina, mostrando di conoscere tutto da principio e che tutto si svolge secondo il progetto annunciato dalle Scritture (v. 49). Rimane a conclusione l’immagine del giovinetto che fugge nudo (51-52): secondo la tradizione lo stesso evangelista Marco, in realtà figura di tutti noi, nudi come Adamo ed Eva di fronte al momentaneo trionfo del peccato (Gn 3,7), inermi e affidati solo alla gratuita misericordia di Dio.

Gesù davanti al sinedrio (14,53-65)

Due racconti si annunciano nel primo versetto, con uno svolgimento parallelo: Gesù è portato davanti al sinedrio, Pietro si scalda al fuoco in cortile.

La prima scena si apre con l’affannosa ricerca dei falsi testimoni, confusi e contraddittori (vv. 55-59). Segue l’interrogatorio, cui Gesù oppone prima il silenzio (v. 61), poi la citazione di Dan 7,13. La testimonianza di Gesù, a differenza di quella dei suoi avversari, è chiara e inequivocabile, e la sentenza di condanna — del resto già decisa — è immediata.

La seconda scena, contemporanea, vede snodarsi il dramma di Pietro: la prima negazione, il primo canto del gallo (v. 68), la seconda e la terza negazione, ancor più decisa (vv. 70-71). Infine, il secondo canto del gallo e il pianto liberatorio di Pietro, ormai consapevole e convertito (v. 72).

Gesù davanti a Pilato (15,1 -20a)

Mentre davanti al sommo sacerdote Gesù passa dal silenzio alla parola, davanti a Pilato, dopo una prima lapidaria risposta — «Tu lo dici» (v. 2) — sceglie il silenzio. Rimane tuttavia protagonista della storia, colui che, contro le apparenze, conduce il gioco. Pilato si affanna a cercare una via d’uscita non troppo disonorevole da quella che per lui è solo una seccatura; Barabba è un fantoccio nelle mani dei potenti; la folla, manovrata dai capi, grida senza comprendere ciò che dice. Da tutta questa pericope (vv. 6-15) Gesù è assente, altri decidono di lui; e tuttavia si intuisce che tutto avviene secondo la sua consonanza con la volontà del Padre.

La scena seguente (vv. 16-20) lo mostra paradossalmente vincitore proprio nella massima umiliazione. Rivestito di porpora, incoronato di spine (v. 17), salutato re dei Giudei (v. 18), omaggiato per scherno (v. 19): con un procedimento di ironia tragica, appare qui oltraggiato e torturato, e proprio così, secondo la logica della croce (sub contraria specie), manifesta la sua regalità.

Crocifissione, morte, sepoltura (15,20b- 47)

Il racconto si snoda sempre più drammatico, allineando con precisione i particolari. Per aiutare il condannato viene chiamato un contadino, individuato con nome, provenienza, parentado; il luogo della crocifissione è segnalato con la denominazione aramaica e greca (vv. 21-22). Il seguito è registrato con una preoccupazione quasi cronachistica: Gesù rifiuta il vino drogato che si dava ai condannati per renderli incoscienti; i soldati sorteggiano le sue vesti; si indicano l’ora — la terza —, l’iscrizione con il motivo della condanna, i briganti compagni di sventura (vv. 23-27).

Da questo primo livello di cronaca il racconto passa a uno stile narrativo più ricco, e riporta i commenti sarcastici dei passanti e degli avversari. Per l’ultima volta, si chiede inutilmente a Gesù un segno straordinario che renda obbligata, e quindi inutile, la fede: «scenda ora dalla croce»! (v. 32). Ancora una precisazione temporale: l’ora sesta, quando la terra si oscura fino all’ora nona (v. 33). Ed ecco il grido di Gesù, riportato anche in ebraico: è l’incipit del salmo 22, il lamento del giusto perseguitato, che si conclude con la lode e il ringraziamento al Dio d’Israele. In bocca a Gesù, il grido ha probabilmente una duplice valenza: è il lamento profondamente umano e autentico di chi appare veramente abbandonato e vede il fallimento della sua missione, nella fuga dei suoi; ma è difficile negare che ci sia l’eco del salmo, e quindi la conferma della speranza in Dio.

Infine, con un grido, Gesù muore (v. 37), uomo fino all’ultimo: proprio qui si rivela in lui una potenza riconosciuta proprio dal testimone che sembrerebbe più lontano, il centurione pagano cui si deve la più alta professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Dei seguaci di Gesù sono presenti qui solamente, ma in disparte, le donne, fra cui non è nemmeno nominata la madre (vv. 40-41). Tolto dalla croce, il corpo viene avvolto in un lenzuolo e deposto in un sepolcro nuovo, in fretta perché il sabato sta per iniziare. Le donne che osservano da lontano chiudono il racconto, e lo riapriranno, tornando alla tomba vuota, all’alba del primo giorno dopo il sabato (16,1).

 

L’immagine della domenica

 

 

«L’uomo abita

sulla riva del mare infinito

del mistero».

(K. Rahner)

 

Meditazione

Con la celebrazione delle Palme si apre la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione del Signore. La settimana santa non è semplicemente un momento importante dell’anno liturgico, è la sorgente di tutte le altre celebrazioni dell’anno. Tutte, infatti, si riferi­scono al mistero della Pasqua da cui scaturisce la salvezza nostra e del mondo. Durante tutta la Quaresima abbiamo compiuto uno spirituale pellegrinaggio, che ci ha portato fino a questa domenica delle Palme. La nostra meta era Gerusalemme, e così la liturgia della Chiesa ci ha accompagnato perché fossimo pronti ad accogliere il mistero della morte e risurrezione di Gesù, che celebriamo nel Triduo Santo. Nei giorni prossimi siamo chiamati a intensificare la presenza della Parola di Dio in mezzo a noi. Vogliamo infatti seguire Gesù da vicino. Non si stacchino i nostri occhi da lui perché dai suoi gesti apprendiamo il suo grande amore per tutti. Sì, dobbiamo tener fissi i nostri occhi sul volto di Gesù che accetta anche la morte, pur di salvarci. Gli occhi del Signore, affranti dal dolore ma sempre pieni di misericordia e di affet­to, ci guarderanno come guardarono Pietro che pure lo aveva negato; e sentiremo nel profondo del nostro cuore un nodo di dolore e insie­me di tenerezza. Possa ognuno di noi, in questi giorni, accogliere il dono delle lacrime come l’ebbe il primo degli apostoli quella notte nel Getzemani perché, assieme a lui, anche noi ci accostiamo nuovamente al Signore e iniziamo a seguirlo con un cuore nuovo.

Questi santi giorni si aprono con la memoria dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. L’ultima tappa sono Betfage e Betania, paesi sul monte degli Ulivi, menzionati nel Vangelo di Marco (11, 1). Gesù manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Vuole entrare in Gerusalemme come mai aveva fatto prima. Fino a quel momento, infatti, tutte le volte che era venuto a Gerusalemme, si era tenuto nella discrezione di una predicazione non sempre riuscita: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Mt 23, 37). Ora, invece, entra nella città santa e nel Tempio per l’ultima volta e vuole rivelare con chiarezza la sua missione di vero e nuovo pastore d’Israele, anche se pesavano su di lui minacce di morte da parte delle autorità del popolo. Era dunque il momento decisivo per la sua missione e per la sua stessa vita. Era la sua ora; quell’ora per la quale era venuto in mezzo agli uomini.

Gesù non entra, però, a Gerusalemme su un carro a cavalli come farebbe il capo di un potente esercito, ma su un asino come un re di pace. Scrive il profeta Zaccaria: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (9, 9). Gesù entra nella città santa come re, ossia come il salvatore che Dio ha inviato per la liberazione del suo popolo. E la gente sembra intuirlo. Infatti, gli corrono incontro perché il suo ingresso sia una festa regale: tutti si mettono a stendere i mantelli lungo la strada ove lui passa e con le mani agitano verdi rami di ulivo cantando: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore». È il canto di gioia che esprimiamo anche noi in ogni santa liturgia, dopo il prefazio, assieme agli angeli mentre entriamo nella memoria della cena del Signore. E la gioia che avvolge i discepoli e la folla ogni volta che il Signore si fa presente in mezzo a noi. E la stessa gioia che ebbe quella donna di Betania, Maria, mentre era prostrata ai piedi di Gesù. E una gioia eccessiva? Qualcuno forse potrebbe pensarlo. I farisei sono indi­spettiti della festa che si crea attorno a Gesù. Sono loro, infatti, che chiedono a Gesù di far tacere i discepoli. Ma Gesù benedice la gioia di coloro che lo accolgono a Gerusalemme: «Io vi dico che, se questi tace­ranno, grideranno le pietre». Pure le pietre avrebbero voce per cantare la gloria del re che viene nel nome di Dio.

Gesù entra nelle città di questo nostro mondo mentre la vita degli uomini è tragicamente segnata da conflitti e da violenze di ogni gene­re. È un inizio di millennio davvero buio: le ombre tragiche della guerra sembrano estendersi invece che diminuire, come del resto la violenza diffusa nella vita quotidiana. Abbiamo bisogno di un libera­tore. Gesù è il solo che può liberare gli uomini dalla guerra, dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla schiavitù; è l’unico che può far allonta­nare gli uomini dell’amore solo per se stessi e renderli operatori di una vita più umana e più solidale. Può farlo perché lo mostra anzitut­to con la sua stessa vita, con il suo modo di vivere e di camminare tra gli uomini. Il suo volto non è quello di un potente o di un forte, bensì di un mite e umile di cuore. Gesù non è venuto per salvare se stesso, ma per salvare gli uomini. Non è venuto a distruggere ma a salvare. Non è venuto a condannare ma a redimere. E di questo ha fatto lo scopo unico della sua vita.

Passano pochi giorni da quell’ingresso trionfale in Gerusalemme e subito Gesù diviene il crocifisso, il vinto. Egli, che aveva fatto bene ogni cosa, viene portato fuori dalla città e ucciso. Ormai sembra tutto finito per lui: non può più né parlare né guarire. Quella morte agli occhi dei più sembrò una sconfitta. In realtà era una vittoria: era la logica conclu­sione di una vita spesa per il Padre, per il Vangelo, per i discepoli, per i poveri. Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. E se ne accorse un militare pagano. L’evangelista Marco scrive: «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15, 39). E Dio, Padre buono, risuscitò il suo Figlio. Non permise alla morte di vincere il Suo amore. La vittoria dell’amore di Dio sulla morte continua a guidare ancora oggi quel piccolo corteo di discepoli che si raccolgono sotto le tante croci di oggi e avvolgono i corpi crocifissi con il lenzuolo della misericordia e dell’amore. Il male e la morte non sono l’ultima parola. I discepoli di Gesù continuano ad amare i poveri, i vinti, i malati, i sof­ferenti, gli anziani, quelli che non hanno nulla da dare in cambio, perché l’amore vince il male e la morte. Questa santa liturgia che ci introduce nei giorni santi ci aiuti a comprendere che il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita e su quella del mondo: la nostra salvez­za sta nel restare accanto a Gesù che dona la sua vita per tutti e per tutte. A ognuno di noi la scelta di non abbandonare quel crocifisso, di non tradirlo per paura o per interesse, perché la possiamo trovarci tra coloro che gusteranno la gioia della vita senza fine.

 

Preghiere e racconti

 

La processione e la passione

Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato. […] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra. La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Passione mostra la punizione riservata al ladrone. Qui lo circondano gloria e onore, là «non ha né  forma né bellezza» (Is 53,2). Qui è la gioia degli uomini e il vanto del popolo, «là l’obbrobrio degli uomini, l’oggetto di disprezzo del popolo» (Sal 21 [22], 7). Qui lo si acclama: «Osanna al figlio di David! Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore» (Mc 11,10); là lo si proclama degno di morte e lo si deride perché si è fatto re di Israele. Qui gli si va incontro con rami di palma; là con le loro mani lo percuotono sul volto e gli colpiscono la testa con una canna. Qui è colmo di lodi; là è saziato di insulti. Qui, a gara, si ricopre la sua via con vesti altrui; là è spogliato delle proprie vesti. Qui è accolto a Gerusalemme come il re giusto e il Salvatore (cfr. Zc 9,9) ; là è scacciato da Gerusalemme come un criminale e un impostore. Qui siede sopra un asino, avvolto di onore; là è appeso al legno della croce, straziato dalle verghe, coperto di piaghe, abbandonato dai suoi. […] Fratelli, se vogliamo seguire la nostra guida senza vacillare tanto nei momenti felici che in quelli avversi, contempliamolo avvolto di onore nella processione delle Palme, sottoposto agli oltraggi e alle sofferenze nella passione, ma in tale mutamento di circostanze non mutò i suoi pensieri. […] Signore Gesù, tutti ti benedicano, tu gioia e salvezza di tutti, sia che ti vedano seduto sull’asino, sia che ti vedano sospeso al legno della croce. Vedendoti regnare sul trono ti lodino nei secoli dei secoli. A te lode e onore per tutti i secoli dei secoli.

(GUERRICO D’IGNY, Terzo discorso sulle Palme 2.5, SC 202, pp. 188-192.198-200)

 

L’esempio di Gesù nel Getsèmani

«Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: “Sedetevi qui, mentre io prego”. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: “L’anima mia è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”. Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora» (Mc 14,32-35).

[…] Che cosa significano questi sentimenti di angoscia che hanno il culmine nella tristezza “fino alla morte”?. […] Come Gesù reagisce in questa lotta per l’obbedienza della mente, il cui esito, per molti, è di fuggire, di ritirarsi, di abbandonare tutto?

Reagisce restando. Chiede ai discepoli di restare, di non fuggire, di non cambiare situazione, ma di affrontare la lotta. Poi, andato un poco innanzi, si getta a terra e prega perché, se è possibile, passi da lui quell’ora. È molto bello che Gesù affronti direttamente il male ma, a partire dalla propria debolezza, «che passasse da lui quell’ora» (Mc 14,35).

La sua è una lotta col Padre, ed egli vuole ad ogni costo che sia vittoriosa la volontà del Padre. Infatti «diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).

Egli sa di volere altro, di volere che si allontani da lui quel calice, ma la parola decisiva è «ciò che vuoi tu». È la parola ultima della fede, dell’obbedienza della mente, parola che interpreta Abramo, Giobbe, tutti i santi della via della fede nell’Antico Testamento.

Possiamo restare in contemplazione affettiva di Gesù nel Getsèmani e chiedergli: Che cosa dici tu a me? Come vivo io queste realtà?

Suggerisco tre riflessioni conclusive.

  1. Se c’è una lotta per l’obbedienza della mente, il modello è Gesù nell’orto, Gesù orante; lui è il modello ultimo che riassume tutto il combattimento di Giobbe nella sua violenza e nella sua vittoria, il luogo migliore per rileggere l’insieme del Libro di Giobbe e coglierne lo sbocco nel disegno divino.
  2. Chi prega per non entrare in tentazione ha già vinto per metà. Difatti Gesù supplica i suoi apostoli: «Pregate per non entrare in tentazione» e obbliga noi a ripetere questa incessante domanda nella preghiera domenicale: domanda di cui non sempre comprendiamo l’importanza e che spesso formuliamo a fior di labbra. Con essa si chiede al Padre di cogliere il carattere di lotta e di prova di tante situazioni, di non entrarci a capofitto senza capire che sono una prova, ma di affrontarle nella preghiera. Quando ci si accorge che una certa realtà, un evento, sono una prova in cui Dio ci pone abbiamo già superato per metà la difficoltà; quando invece li si legge come destino cattivo, come malvagità della gente, della società, come ignoranza dei superiori o pigrizia di quanti ci sono affidati, è assai difficile uscirne se non con discorsi razionali o con provvedimenti di tipo programmatico, che però solo in parte risolvono il problema. Se colgo l’aspetto di prova emerge il grido:

«Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto vivendo un momento importante della mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e il mio amore».

  1. La vera vittoria è – come insegnano Abramo, Giobbe e soprattutto Gesù – l’abbandono al mistero inesauribile, creativo, sorprendente di Dio che ha risorse al di là di quanto noi possiamo pensare e capire. Non dobbiamo mai credere di essere in un vicolo cieco, perché anche quando ne abbiamo l’impressione la Trinità è talmente capace di creatività da accoglierci; quindi il muro del resistenza, il vicolo cieco in cui ci si sente, viene scavalcato e superato da un abbandono che è l’atto supremo di libertà dell’uomo, l’atto in cui l’uomo per-

viene a essere maggiormente se stesso, cioè creatura fatta per il dialogo con Dio e che si salva nell’affidamento totale a lui come Padre pieno di amore e di misericordia.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 99-102).

 

“Mai più”

Madame Michel è morta stamattina. È stata investita dal camioncino di una tintoria, vicino a rue du Bac. […] E io? Io che cosa provo? Chiacchiero dei piccoli eventi del 7 di rue de Grenelle ma non sono molto coraggiosa. Ho paura di guardare dentro me stessa e vedere cosa sta succedendo. Mi vergogno anche un po’. Credo che in fondo io volessi             morire e far soffrire Colombe, la mamma e papa solo perché ancora non avevo mai sofferto davvero. O meglio: soffrivo senza provare dolore, e tutti i miei bei progetti erano un lusso da ragazzina senza problemi. La lucidità di una bambina ricca che vuole rendersi interessante.

Ma ora, per la prima volta, sono stata male, tanto male. Un pugno nello stomaco, senza respiro, il cuore in poltiglia, lo stomaco completamente spappolato. Un dolore fisico insopportabile. Mi sono chiesta se mai un giorno potrò rimettermi da dolore. Volevo urlare dal dolore. Ma non ho urlato. Adesso la sofferenza c’è ancora, ma non mi impedisce più di camminare o di parlare, mentre provo una sensazione di impotenza e assurdità totali. Allora è proprio così? Di colpo svaniscono tutte le possibilità? Una vita piena di progetti, di discussioni appena abbozzate, di desideri ancora non esauditi si spegne in un secondo, e non rimane più niente, non c’è più niente da fare, non si può più tornare indietro?

Per la prima volta in vita mia ho sperimentato il senso delle parole mai più. Beh, è una cosa terribile. Le pronunciamo cento volte al giorno, ma non sappiamo cosa stiamo dicendo se non ci siamo ancora confrontati con un vero “mai più“. In fondo ci illudiamo sempre di poter controllare ciò che accade; nulla ci sembra definitivo. Anche se in queste ultime settimane dicevo che presto mi sarei suicidata, non so se ci credessi veramente. Ma questa decisione mi faceva davvero provare il senso della parola “mai“? Niente affatto. Mi faceva provare il mio potere di decidere. E penso che, qualche istante prima di mettere fine alla mia vita, “finito per sempre” sarebbe rimasta ancora un’espressione vuota. Ma quando qualcuno a cui vuoi bene muore… allora posso dire che capisci cosa significa, ed è una cosa che fa molto molto male. È come un fuoco d’artificio che si spegne di colpo e tutto diventa nero. Mi sento sola, malata, ho la nausea e ogni movimento mi costa uno sforzo immane. […] Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita è così: molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come se le note musicali creassero un specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai. Sì, è proprio un sempre nel mai. Non preoccuparti, Renée, non mi suiciderò e non darò fuoco proprio a un bel niente. Perché d’ora in poi, per te, andrò alla ricerca dei sempre nel mai. La bellezza, qui, in questo mondo.

(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 315-319).

Come vivere la settimana Santa

La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.

Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare. L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino. Questa scena infatti, che vorrebbe essere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme degli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù. Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.

Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”. Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato. In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».

Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusalemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.

La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore. L’entrata in Gerusalemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo. Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23). Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sett santa DOMENICA DELLE PALME (B)

Sett. santa vangelo PALME (B)