I banchi si svuotano

 

 

nel 2010 aumenta ulteriormente la popolazione complessiva

ma si abbassa l’indice di natalità

 

 

 

Nell’annuale bilancio dell’andamento demografico del nostro Paese che l’Istat pubblica a maggio per la situazione relativa all’anno precedente, si confermano due tendenze che hanno riflessi anche sulla scuola: nel 2010 aumenta ulteriormente la popolazione complessiva, superando i 60 milioni e 600 mila unità (60.626.442), grazie anche alla consistente presenza di stranieri, ma contestualmente si abbassa l’indice di natalità, scendendo a 9,27 nati ogni mille abitanti presenti, grazie, anche qui, al minor apporto delle famiglie straniere (che in questi anni ha fornito un sensibile contributo all’incremento di alunni, soprattutto nelle aree settentrionali e centrali).

Oltre all’abbassamento dell’indice (era stato del 9,43 nel 2009 e del 9,60 nel 2008) in parte dovuto anche all’aumento complessivo della popolazione, sono calate anche in valori assoluti le nascite (circa 562 mila, cioè 7 mila meno dell’anno precedente che già aveva fatto registrare un decremento di altre 8 mila unità rispetto al 2008).

Se si abbassa l’indice di natalità, mentre cresce il numero complessivo delle persone presenti nel Paese, è segno che l’Italia sta invecchiando e avrà meno giovani da seguire e formare e più anziani da assistere. L’Italia del futuro dovrà occuparsi più di anziani che di giovani. Nelle recenti previsioni che il Mef ha fatto sull’evoluzione della spesa pubblica, sulla base di studi e proiezioni della Ragioneria Generale dello Stato, è emerso che tra alcuni decenni l’investimento della ricchezza prodotta dal Paese (PIL) per la scuola tenderà a diminuire. Si tratta di proiezioni che, a invarianza di scelte politiche e legislative, considera soltanto la previsione di sviluppo demografico del Paese: meno nati, quindi meno classi, meno docenti, meno spesa per la scuola.

Anziché subire questa depressione demografica con effetti di contrazione delle risorse umane per l’istruzione e la formazione, è necessario trasformare questa difficoltà in opportunità di crescita per il Paese, reinvestendo sulla scuola i risparmi di sistema.

Come insegnare ai ragazzi il desiderio di nuovi mondi

Il lavoro degli insegnanti è diventato oggi un lavoro di frontiera: supplire a famiglie inesistenti o angosciate, rompere la tendenza all’isolamento e all’adattamento inebetito di molti giovani, contrastare il mondo morto degli oggetti tecnologici e il potere seduttivo della televisione, riabilitare l’importanza della cultura relegata al rango di pura comparsa sulla scena del mondo, riattivare le dimensioni dell’ascolto e della parola che sembrano totalmente inesistenti, rianimare desideri, progetti, slanci, visioni in una generazione cresciuta attraverso modelli identificatori iperedonisti, conformistici o apaticamente pragmatici. Gli insegnanti consapevoli ce lo dicono in tutti i modi: “Non ascoltano più!”, “Non parlano più!”, “Non studiano più!”, “Non desiderano più!”. Cosa può dunque tenere ancora vivo il motore del desiderio? Non è forse questa la missione che unisce tutte le figure (a partire dai genitori) impegnate nel discorso educativo? Mestiere impossibile decretava Freud. Aggiungendo però a questa profezia pessimistica una buona notizia: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità, quelli che non si prendono per davvero come padri o insegnanti educatori. I migliori sono quelli che hanno contattato la loro insufficienza. Sono quelli che hanno preso coscienza dell’impossibilità e del danno che provocherebbe porsi come gli educatori migliori.
Proviamo ora a fare un esperimento mentale: chi sono gli insegnanti che non abbiamo mai dimenticato? Sono quelli che hanno saputo incarnare un sapere, sono quelli che ricordiamo non tanto per ciò che ci hanno insegnato ma per come ce lo hanno insegnato. Ciò che conta nella formazione di un bambino o di un giovane non è tanto il contenuto del sapere, ma la trasmissione
dell’amore per il sapere. Gli insegnanti che non abbiamo dimenticato sono quelli che ci hanno insegnato che non si può sapere senza amore per il sapere. Sono quelli che sono stati per noi uno “stile”. I bravi insegnanti sono quelli che hanno saputo fare esistere dei mondi nuovi con il loro stile. Sono quelli che non ci hanno riempito le teste con un sapere già morto, ma quelli che vi hanno fatto dei buchi. Sono quelli che hanno fatto nascere domande senza offrire risposte già fatte. Il bravo insegnante non è solo colui che sa ma colui che, per usare una bella immagine del padre sopravvissuto celebrato da Cormac McCarthy ne La strada, “sa portare il fuoco”. Portare il fuoco significa che un insegnante non è qualcuno che istruisce, che riempie le teste di contenuti, ma innanzitutto colui che sa portare e dare la parola, sa coltivare la possibilità di stare insieme, sa fare esistere la cultura come possibilità della comunità, sa valorizzare le differenze, la singolarità, animando la curiosità di ciascuno senza però inseguire alcuna immagine di “allievo ideale”, ma
esaltando piuttosto i difetti, persino i sintomi, di ciascuno dei suoi allievi, uno per uno. È, insomma, come scrisse un grande pedagogista italiano quale fu Riccardo Massa, qualcuno che “sa amare chi impara”. Tutti ne abbiamo conosciuto almeno uno. Questa è la vera prevenzione primaria che servirebbe ai nostri figli: incontrarne almeno uno così. Dobbiamo, invece che ironici, essere riconoscenti all’esercito civile di chi ha scelto di vivere nella Scuola, a coloro che hanno autenticamente e appassionatamente scelto di amare chi impara.
Mi è capitato di voler continuare ad insegnare mentre venivo interrotto in aula dagli studenti che protestavano per la Legge Gelmini. Avevano ragione, ma ho insistito nel difendere le mie ragioni.
La democrazia è fatta di queste divergenze, di questi conflitti tra prese di posizione diverse che possono convivere mantenendosi tali. Volevo proseguire nella lezione perché un’ora di lezione non è un automatismo svuotato di senso, non è routine senza desiderio come invece sembrava pensassero i miei interlocutori. Certo questo è il morbo della Scuola, è la patologia propria del discorso dell’Università che ricicla un sapere che tende anonimamente alla ripetizione annullando la sorpresa, l’imprevisto, il non ancora sentito e il non ancora conosciuto. Il vero nemico
dell’insegnante è la tendenza al riciclo e alla riproduzione di un sapere sempre uguale a se stesso. È lo spettro che sovrasta e può condizionare mortalmente questo mestiere: adagiarsi sul già fatto, sul già detto, sul già visto. Ridurre l’amore per il sapere a pura routine. A quel punto non c’è più trasmissione di una conoscenza viva ma burocrazia intellettuale, parassitismo, noia, plagio, conformismo. Un sapere di questo genere non può essere assimilato senza generare un effetto di soffocamento, una vera e propria anoressia intellettuale. Eppure la Scuola continua ad essere fatta di ore di lezione che possono essere avventure, esperienze intellettuali ed emotive profonde. Di fronte ai giovani che protestavano ho voluto continuare ad insegnare e l’ho fatto per tutti i maestri che mi hanno insegnato che un’ora di lezione può sempre aprire un mondo.
Il nostro tempo segnala una crisi senza precedenti del discorso educativo. Le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito il significato virtuoso e paziente della formazione rimpiazzandolo con l’illusione di carriere prive di sacrificio, rapide e, soprattutto, economicamente gratificanti. Come può una famiglia dare senso alla rinuncia se tutto fuori dai suoi confini sospinge verso il rifiuto di ogni forma di rinuncia? Per questa ragione di fondo la Scuola viene invocata dalle famiglie come un’istituzione “paterna” che può separare i nostri figli dall’ipnosi telematica o televisiva in cui sono immersi, dal torpore di un godimento “incestuoso”, per risvegliarli al mondo. Ma anche come una istituzione capace di preservare l’importanza dei libri come oggetti irriducibili alle merci, come oggetti capaci di fare esistere nuovi mondi. Capissero almeno questo i suoi censori implacabili. Capissero che sono innanzitutto i libri – i mondi che essi ci aprono – ad ostacolare la via di quel godimento mortale che sospinge i nostri giovani verso la
dissipazione della vita (tossicomania, bulimia, anoressia, depressione, violenza, alcoolismo, ecc).
Lo sapeva bene Freud quando riteneva che solo la cultura poteva difendere la Civiltà dalla spinta alla distruzione. La Scuola contribuisce a fare esistere il mondo perché un insegnamento, in particolare quello che accompagna la crescita (la cosiddetta scuola dell’obbligo), non si misura certo dalla somma nozionistica delle informazioni che dispensa, ma dalla sua capacità di rendere disponibile la cultura come un nuovo mondo, come un altro mondo rispetto a quello di cui si nutre il legame familiare. Quando questo mondo, il nuovo mondo della cultura, non esiste o il suo accesso viene sbarrato, come faceva notare il Pasolini luterano, c’è solo cultura senza mondo, dunque cultura di morte, cultura della droga. Se tutto sospinge i nostri giovani verso l’assenza di mondo, verso il ritiro autistico, verso la coltivazione di mondi isolati (tecnologici, virtuali, sintomatici), la Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali. Un bravo insegnante non è forse quello che sa fare esistere nuovi mondi?

(L’autore ha scritto “Cosa resta del padre?” per Raffaello Cortina)

in “la Repubblica” del 29 aprile 2011

 

Vivere con la complessità

 

 

NORMAN DONALD A.,  Vivere la complessità, Pearson 2011, ISBN: 9788871926469, pp. 266, Euro 16,00

titolo originale: Living with complexity, Traduzione di Virginio B. Sala

 

Recensione del testo

La complessità è nel mondo e si riflette anche nelle nostre tecnologie. Ma i prodotti che ne derivano non devono essere fonte di confusione, perché allora si tratta di “complicazione” inutile, non di complessità. Tuttavia, anche il sistema meglio progettato richiede uno sforzo – nostro – di apprendimento, per dominare la struttura e i modelli concettuali. La comprensione rende i sistemi complessi semplici e dotati di significato. Donald Norman torna a farci riflettere sulle sfide della tecnologia e del design a partire da casi comprensibilissimi (quando non addirittura divertenti), ma illuminanti e rivelatori.

La biografia di Norman Donald A.

 

PRESENTAZIONE

Vivere con la complessità, di Donald A. Norman

La semplicità è uno stato mentale, fortemente legato alla comprensione. Una cosa viene percepita come semplice quando le sue azioni, le sue opzioni e il suo aspetto corrispondono al modello concettuale della persona.

La caffettiera del masochista, titolo del libro più celebre di Norman, è diventata negli anni un’immagine proverbiale: una cuccuma con il beccuccio rivolto dalla stessa parte dell’impugnatura, cosi che l’avido consumatore di caffè abbia le braccia ustionate ogni volta che cerca di riempirsi la tazzina.
Donald Norman è un designer che da anni scava negli angoli ciechi del design e dei codici di comunicazione propri della nostra era, caratterizzata senz’altro dalla complessità.
E proprio alla complessità, alle forme che assume nella vita di tutti i giorni, è dedicata questa sua ultima fatica, un libro che sin dal titolo cerca di fare chiarezza sul compito che ci attende, volenti o nolenti.
Non c’è modo di sottrarsi, infatti, a una certa dose di complessità nella vita di tutti i giorni: a casa, per l’utilizzo di elettrodomestici e la gestione di sistemi complessi; al lavoro, per la quantità di operazioni complesse e coordinate che dobbiamo sapere padroneggiare e mettere in atto continuamente; nel tempo libero e in ogni occasione in cui usciamo di casa per interagire con un mondo che alla complessità affida la propria efficienza.
Di più: la propria sopravvivenza.
Innanzitutto, naturalmente, occorre definire con precisione cos’è la complessità in sé.
Nelle prime pagine del suo saggio appassionante, Norman usa la scrivania di Al Gore, già vicepresidente degli Stati Uniti e Premio Nobel, come esempio adatto a tracciare un distinguo fra complicazione e complessità.
In mezzo a pile e pile di carta, tre monitor perennemente accesi e una apparentemente incontrollabile entropia, spiega il designer, sembrerebbe impossibile orientarsi rapidamente e trovare ciò di cui si ha bisogno.
Ma la questione è posta in modo sbagliato, ci viene spiegato, perché dietro quel modello complesso c’è una logica ferrea, per quanto questa sia conosciuta solo da chi su quella scrivania dovrà lavorare.
Come sa bene chiunque lavori in mezzo ad un ordine che è stato lui stesso a disporre e organizzare, anche secondo criteri che al resto del mondo risultano irrazionali, il disordine in cui viviamo e lavoriamo sarà tale solo se qualcun altro vi metterà mano.
Quindi il distinguo è fra “complessità” e “complicazione”: una complessità supportata da un modello concettuale appropriato – cioè dalla conoscenza della logica che sottende a quel sistema di relazioni fra cose – sarà una complessità “buona”.
L’esempio della scrivania è comprensibile a chiunque, ma Norman ha un fiuto particolare per riuscire a spiegare le sue teorie con l’ausilio di esempi sempre nuovi, stimolanti e accessibili.
Così potrà accadere, mentre leggiamo questo libro, di riconoscere aspetti della propria quotidianità nella descrizione fatta di tutti i preparativi necessari ad approntare una cena per gli amici, tipico esempio di raggruppamento di operazioni semplici in insiemi complessi per il conseguimento di un fine sociale.
Il “carico cognitivo” cui ci sottopongono tutte le interruzioni che occorrono mentre – ad esempio – affettiamo le verdure in vista della preparazione di un piatto, è oggetto degli studi di questo brillantissimo designer, che ha offerto le sue competenze a molte aziende informatiche (su tutte, Apple, del cui reparto Tecnologie avanzate Norman è stato vicepresidente per lungo tempo) e di telecomunicazioni.
Norman osserva le strutture semantiche del mondo in cui vive con un’attenzione continua e affilata: ogni evento è degno di essere preso in considerazione e affrontato, dalla semplice gestione delle attese (la coda) in una filiale bancaria, ai messaggi che i software ci danno a proposito delle operazioni che stanno compiendo.
C’è molto da imparare, e come ogni buon docente, Norman sa tenere viva la nostra attenzione, mostrandoci come si possa cercare di decifrare questo intricato mondo, e migliorarne la qualità, ad ogni passo: partendo dalla segnaletica stradale o concentrandosi sugli interruttori posti su di un quadro elettrico; interagendo con una macchina del caffè o osservando con attenzione l’interruttore che spegnerà (o accenderà) la luce in camera nostra. È illuminante.


 

 

UNA INTERESSANTE LEZIONE SULL’APPRENDIMENTO

 

L’INTERVISTA

 

«Lo predissi oltre dieci anni fa. E avevo ragione: i computer stanno diventando invisibili». Donald A. Norman, ingegnere e psicologo, studioso di Scienze cognitive, tra i nomi più illustri nel campo del design, aggiorna la tesi enunciata nel 1998 nel suo The Invisible Computer (Apogeo). Lo anticipa al «Corriere» in occasione dell’uscita in Italia del nuovo libro, Vivere con la complessità (Pearson) e della partecipazione, questa sera, al ciclo di incontri Meet the media guru a Milano (ore 19, Mediateca Santa Teresa).

La copertina di «Vivere con la complessità» (Pearson)
La copertina di «Vivere con la complessità» (Pearson)

Il computer però è ancora molto diffuso…
«Non dappertutto: in Cina e Giappone, ad esempio, si usano già oggi più smartphone che pc. Le funzioni del computer verranno sempre più inglobate dentro altri dispositivi, come le cosiddette “tavolette”. Userà il pc in senso classico solo chi, come gli scrittori o gli ingegneri, non potrà fare a meno dello schermo e della tastiera. Per tutti gli altri, non sarà più così necessario».

Anche i libri e i giornali saranno letti sui supporti elettronici?
«Il futuro è digitale. Io uso il Kindle, dove posso raccogliere tantissimi saggi e romanzi dentro un unico strumento. Anche il giornale non ha più bisogno di essere stampato: scaricando un’applicazione su un dispositivo elettronico si hanno le notizie del giorno e delle settimane precedenti, con più foto, filmati e mappe interattive».

Fin da «La caffettiera del masochista» (1988, edito in Italia da Giunti), si è battuto contro le tecnologie troppo elaborate che non consentono la facilità d’uso. In «Vivere con la complessità» sostiene che quest’ultima è inevitabile. Ha cambiato idea?
«Il mio messaggio è solo diventato più sofisticato. Ho capito che la complessità è necessaria in un mondo sempre più articolato e interconnesso. Per questo agli utenti non bisogna offrire semplicità ma comprensibilità: oggetti, cioè, con molte funzioni ma intellegibili già dopo la prima lettura delle istruzioni. A questo scopo, designer e ingegneri devono praticare l’empatia e studiare le scienze sociali. I singoli individui devono applicarsi nell’apprendimento, come fecero in passato con il telefono o la televisione».

È stato vicepresidente del settore Tecnologie avanzate alla Apple. Nel suo libro racconta il passaggio dell’azienda dal mouse a un tasto a quello a due tasti: è stata una buona scelta?
«Suggerii la soluzione a più tasti già negli anni 90. Il mouse con un pulsante infatti era una proposta corretta negli anni 80, per favorire la facilità d’uso. Una volta che gli utenti avevano capito il funzionamento del nuovo strumento, però, non serviva aspettare il 2005 per il design a più tasti».

Da sempre sostiene le nuove iniziative imprenditoriali. Si può rischiare nell’attuale situazione economica?
«Dipende dai luoghi. Sì negli Stati Uniti, dove anche un fallimento è giudicato positivamente, perché segue un’idea e un tentativo. No in Italia: i vostri migliori designer sono costretti ad andare all’estero; i vostri prodotti sono belli ma non sempre funzionali».

L’emergenza nucleare in Giappone, le rivolte in Nord Africa e la guerra in Libia. Quali saranno le conseguenze, dal punto di vista cognitivo e tecnologico, nel mondo interconnesso?
«La catastrofe di Fukushima comprometterà per qualche tempo la fiducia degli individui nelle macchine, ma il genere umano è abbastanza arrogante per superare lo choc. Ciò che tutti questi eventi dovrebbero infondere, invece, è l’umiltà: la natura trionfa sulla tecnologia; le esigenze politiche e culturali possono vincere sulla logica e la razionalità».

Alessia Rastelli
arastelli@corriere.it

LE ULTIME PUBBLICAZIONI

 

2011

Norman Donald A.
Vivere con la complessità
Pearson, € 16,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 15,20
2009

Norman Donald A.
La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani
Giunti Editore, € 14,50

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 10,88
2008

Norman Donald A.
Il design del futuro
Apogeo, € 15,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 13,65
2005

Norman Donald A.
Il computer invisibile. La tecnologia migliore è quella che non si vede
Apogeo, € 18,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 14,40
2004

Norman Donald A.
Emotional design. Perchè amiamo (o odiamo) gli oggetti di tutti i giorni
Apogeo, € 18,00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 16,38
1995

Norman Donald A.
Lo sguardo delle macchine
Giunti Editore, € 14,50

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

su
€ 13,20

 

Scuola: come cambia con Lim e e-book

Lavagne elettroniche e libri digitali. Il futuro è già fra i banchi e sta cambiando rapidamente le modalità di insegnamento.

 

 

È la riflessione che compare sul sito dell’Ansas, Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, principale promotrice, per conto del ministero, delle aule 2.0 e dell’innovazione digitale a scuola. In un approfondimento che compare sul sito dell’Agenzia (e ripreso dall’agenzia di stampa Dire) si affronta la seguente domanda: Lim (Lavagne interattive multimediali) ed e-book, perché portarli in classe?

Innanzitutto, si spiega nell’articolo di approfondimento, gli ambienti digitali in classe sono qualcosa di più semplice rispetto a quanto viene evocato dall’immaginario collettivo quando se ne parla. Niente realtà virtuale o scene da Second life, insomma. L’aula digitale è costituita da un insieme di strumenti digitali che vengono utilizzati, anziché in solitudine, da una comunità di persone. Ma grazie alle tecnologie la scuola si ‘dilata’, supera i propri confini e tocca il mondo portandolo fra le sue pareti. Tuttavia, perché la scuola digitale funzioni “è necessaria un’adeguata cultura dei media, ovvero un approccio che consenta al docente di appropriarsi della tecnologia, dei linguaggi multimediali, per farli propri e individuarne il valore aggiunto“.

Occorre prevedere nuovi modi d’uso – è l’auspicio dell’Ansas –, consapevoli delle potenzialità e specificità del singolo medium per non incorrere nella tentazione di utilizzare, ad esempio, la Lim come la lavagna d’ardesia sprecando tempo e vanificando l’investimento“. La Lim (lavagna interattiva multimediale), infatti, “può rappresentare oggi una svolta per l’insegnamento. Entra in classe, va al cuore del sistema di apprendimento e della pratica didattica quotidiana, rompe la configurazione tradizionale dell’ambiente“.

La classe, estesa e potenziata, può accedere a diversi aspetti della realtà esterna, estrapolarne particolari e dettagli, analizzare, scomporre, manipolare informazioni e contenuti, con il supporto di efficaci applicazioni software appositamente progettate e sviluppate. Di fronte alla tecnologia il docente e lo studente possono essere “passivi consumatori” o, a loro volta, produttori. E questa è la differenza fra un buono e un cattivo uso delle tecnologie in aula. Quanto al libro digitale, Alberto Manzi, storico maestro che negli anni del dopoguerra commosse l’Italia con il suo carisma e la dolcezza con cui insegnava agli adulti analfabeti a scrivere nel famoso programma televisivo ‘Non è mai troppo tardi’, sosteneva che “per il ragazzo il libro deve essere qualcosa di piacevole, dove si può non solo leggere, ma colorare, trasformare, fare, disfare, ampliare, ridere, inventare, riflettere. Il libro si trasforma così in qualcosa di personale, perciò vivo“.

Queste affermazioni sono oggi più che mai attuali e potranno forse trovare un alleato nella tecnologia digitale. E se, di fatto, l’e-book non nasce per il target scuola, in essa trova applicazione e naturale collocazione.


tuttoscuola.com

I nuovi padri: intervista a Massimo Recalcati

Massimo Recalcati, Cosa resta del padre?,  Cortina Editore, pag. 190, euro 14.


“Papi”: è così che gli adolescenti di oggi chiamano il proprio genitore, con un nomignolo che suona come un sinonimo dello svuotamento di autorità della figura paterna. Per dirla meglio, con Massimo Recalcati: «La figura del padre ridotta a “papi”, invece di sostenere il valore virtuoso del limite, ne autorizza la sua più totale dissoluzione. E riflette la tendenza di fondo della famiglia ipermoderna: entrambi i genitori sono più preoccupati di farsi amare dai loro figli che di educarli. Più ansiosi di proteggerli dai fallimenti che di sopportarne il conflitto, e dunque meno capaci di rappresentare ancora la differenza generazionale». Recalcati è uno psicoanalista, e lacaniano per giunta, eppure il suo Uomo senza inconscio ha venduto più di diecimila copie. Un successo dovuto alla capacità di raccontare i disagi della nostra civiltà senza un eccesso di tecnicismi scolastici.
Oggi esce il suo nuovo libro sulla paternità nell’epoca ipermoderna, sull’evaporazione del padre, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta. È un tema che incide sui cambiamenti della cultura occidentale, venendo a mancare il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale – oltre a investire profondamente la condizione esistenziale di ciascuno. Già l’interrogativo del titolo allude a un vuoto difficilmente colmabile: Cosa resta del padre? (Cortina, pagg. 190, euro 14).

Cosa resta dell’uomo che assicurava l’ordine del mondo e della vita dei suoi figli?
«Certamente non l’ideale del Padre, il pater familias, il padre come erede in terra della potenza trascendente di Dio, e nemmeno il padre edipico celebrato da Freud come perno della realtà psichica. Non possiamo più ricorrere all’autorità simbolica del padre, che ormai si è dissolta: lo dicono gli psicoanalisti, i sociologi, i filosofi della politica… Si tratta allora di pensare al padre come “resto”, non più Ideale normativo ma atto singolare e irripetibile, antagonista all’insegnamento esemplare, all’intenzione pedagogica. Quel che resta del padre ha la dimensione di una testimonianza etica, è l’incarnazione della possibilità di vivere ancora animati da passioni, vocazioni, progetti creativi. Seppure senza il ricorso alla fede nella parola dogmatica o attraverso sermoni morali».

 

Il padre è un uomo che sa ancora trasmettere il sentimento della speranza?
«È un uomo che dice “sì!” a ciò che esiste, senza sprofondare nell’abisso di un puro godimento distruttivo, senza rendere la vita equivalente alla volontà di morire o impazzire. La verità che può trasmettere è necessariamente indebolita, perché non vanta modelli esemplari o universali: la sua testimonianza infatti buca ogni esemplarità e ogni universalità, risultando eccentrica e anarchica nei confronti di qualunque retorica educativa. Quel che conta – e resta a un figlio – è come, nella buia notte di un mondo senza Dio, un padre mantenga acceso il fuoco della vita, non la manifestazione di una pura negazione repressiva, ma piuttosto la donazione della fiducia nell’avvenire».

 

In un rapporto che rimane del tutto asimmetrico?
«Assolutamente. Le farò un esempio molto semplice: l’insulto di un padre rivolto a un figlio può avere un effetto indelebile che il contrario non comporta in alcun modo… Quando Freud gli attribuiva il saper “tenere gli occhi chiusi”, intendeva sottolineare il carattere “umanizzato” della Legge che rappresenta. Non ascoltare una parola insolente o non vedere un gesto osceno, a volte può essere la condizione per proseguire la partita… È il doppio compito della funzione paterna: introdurre un “no!” che sia davvero un “no!”, e al tempo stesso saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione».

 

Famiglie monoparentali, ultracinquantenni che diventano mamme senza un compagno, coppie gay con figli, single con diritto all’adozione… C’era una volta lo schema edipico – sintetizzando: il padre “interdice” il godimento incestuoso e “separa” la madre dal figlio. Ma il mondo non sarà davvero “nuovo” e certi modelli ormai inservibili?
«Lo schema edipico continua ad avere il suo valore, se però si abbandona il teatrino familiare.
Intesa come legame “naturale”, la famiglia composta da una coppia eterosessuale e dai loro figli non è più il nucleo immobile dei legami sociali. Esistono organizzazioni sociali e culturali sempre più complesse, l’importante è che non venga meno la funzione educativa del legame familiare che vuol dire umanizzare la vita, iscriverla in un’appartenenza, farla partecipare a una cultura di gruppo, darle una casa e cioè una radice, una disponibilità alla cura e alla presenza… Se non si può più trasmettere il vero senso della vita, è però ancora possibile mostrare di dare un senso alla vita».

 

Oltre a Freud e soprattutto Lacan, lei ricorre alla letteratura con Philip Roth (Patrimonio) e Cormac McCharty (La strada). E poi a quel cinema di Clint Eastwood che rompe appunto “l’ordine del sangue”. Prendiamo Million Dollar Baby…
«Intanto ogni paternità, come amava ripetere Françoise Dolto, è sempre adottiva, è sempre un’adozione simbolica che trascende il sangue e la biologia… “Io voglio lei!”. “Sarò il tuo allenatore!”: Frankie riconosce il desiderio di Maggie di diventare un pugile professionista, di avere lui e non altri come allenatore, risponde alla sua domanda facendo  eccezione alla propria etica (“Io non alleno ragazze!”) e al funzionamento della sua palestra, frequentata solo da uomini. In questo modo l’atto della paternità si produce come rottura di un ordine universale: l’ordine della morale normativa, del sangue e della genealogia, l’ordine dei dogmi. Frankie accoglie Maggie, non l’abbandona come “una causa persa”, alla fine sarà il suo infermiere, la sua luce, il suo padre amato».

Ma a cosa è legata oggi la funzione del padre?
«Se non può più essere legata al sangue, al sesso, alla biologia, alla discendenza genealogica, allora aveva forse ragione papa Luciani a sconvolgere secoli di teologia dicendo che Dio è anche madre».

 

in “la Repubblica” del 9 marzo 2011

La suola privata non è peggiore delle scuole statali

Nei giorni scorsi, dopo la pubblicazione dei dati Ocse-Pisa sulle competenze dei quindicenni in italiano, matematica e scienze, la stampa nazionale ha stilato graduatorie di merito tra le scuole, affermando, tra l’altro, che il mediocre livello complessivo degli studenti italiani, anche se in via di miglioramento, era dovuto in buona parte ai bassi risultati delle scuole non statali.
Contro questa tesi è già intervenuto con alcuni articoli il sussidiario.net che ha sostenuto come i  dati siano stati utilizzati in modo parziale e strumentale.
Sulla questione interviene ora don Guglielmo Malizia, direttore del Centro studi per la scuola cattolica, il quale, dopo aver ricordato che è sbagliato identificare le scuole private con le scuole cattoliche (CSSC), in una lettera inviata al Corriere della Sera, ritiene opportune alcune puntualizzazioni per evitare possibili strumentalizzazioni.
In primo luogo – afferma don Malizia – va ricordato che “il Rapporto Ocse-Pisa classifica tra le scuole private i centri di formazione professionale, che propriamente in Italia non sono scuole e che raccolgono un’utenza piuttosto disagiata”, il che spiega i risultati meno brillanti dei ragazzi che li frequentano.
In secondo luogo – continua il direttore del CSSC – “il campione utilizzato dall’Ocse non può essere ritenuto statisticamente rappresentativo dell’universo delle scuole non statali, come è già stato puntualmente argomentato dai professori Luisa Ribolzi e Giorgio Vittadini su “il sussidiario.net”.
Presentate a Londra due pubblicazioni del Cesew  Londra, 12.
La qualità dell’istruzione impartita nelle scuole cattoliche d’Inghilterra e del Galles è costantemente superiore alla media nazionale:  questo è quanto risulta da due nuove pubblicazioni presentate lunedì nel corso della riunione d’inizio anno dei membri del Catholic Education Service for England and Wales (Cesew) presso la sede dell’organizzazione a Londra.
I due nuovi studi sulla qualità dell’insegnamento nelle scuole cattoliche – intitolati “Value Added:  the Distinctive Contribution of Catholic Schools and Colleges in England” e “Cesew Digest of 2009, Census Data for Schools and Colleges” – sono stati presentati lunedì da monsignor Malcolm Patrick McMahon, vescovo di Nottingham, che ha svolto il suo intervento in qualità di presidente del Cesew.
“Queste due pubblicazioni – ha sottolineato il presule – dimostrano chiaramente che l’educazione cattolica continua a fornire un contributo molto importante al futuro della nostra società.
Inoltre, esse provano che i soldi dei contribuenti sono veramente ben spesi quando queste risorse sono gestite dagli istituti scolastici cattolici”.
I dati tratti dalla pubblicazione “Value Added” danno pienamente ragione al vescovo McMahon.
Secondo le valutazioni espresse nel corso delle ispezioni scolastiche condotte dal personale dall’agenzia di valutazione Ofsted, gli istituti cattolici sono risultati costantemente al di sopra della media nazionale in tutti gli aspetti della loro attività.
Per gli ispettori scolastici, nel 70 per cento delle scuole secondarie gestite dai cattolici la qualità dell’insegnamento e la preparazione degli alunni è superiore alla media nazionale rispetto la percentuale del 63 per cento degli altri istituti.
Nei corsi primari, l’eccellenza dell’insegnamento per le scuole cattoliche sale al 74 per cento invece della media 66 per cento degli altri istituti.
Nel corso della riunione di lunedì nella sede del Cesew, è intervenuta anche Oona Stannard, presidente esecutivo e direttore del Cesew.
Durante la presentazione dei volumi, Stannard ha affermato che “queste due pubblicazioni dimostrano che i nostri alti livelli di qualità dell’istruzione non sono da considerarsi come un fuoco di paglia ma sono costantemente sostenuti e migliorati.
Sono orgogliosa di sottolineare che i nostri traguardi educativi sono anche affiancati da un alto grado di gradimento e di soddisfazione di quanti fanno parte del nostro mondo scolastico.
Questo gradimento non va solo a vantaggio dei nostri giovani studenti, il 30 per cento dei quali appartiene a famiglie non cattoliche, ma è anche la prova che la Chiesa cattolica, per mezzo delle sue scuole, continua ad investire tutta la sua grande saggezza nel futuro e nel bene della società del nostro Paese”.
Tra i dati raccolti nel “Census Digest”, si sottolinea che gli studenti delle scuole cattoliche appartengono a gruppi sociali diversi.
Quello che è più evidente riguarda l’origine delle famiglie degli studenti.
Nelle scuole cattoliche la varietà delle etnie è molto più marcata rispetto agli altri istituti.
Per quanto riguarda la classe sociale, nelle scuole cattoliche gli studenti delle famiglie povere sono nella stessa percentuale di quelli che frequentano gli altri istituti.
(©L’Osservatore Romano – 13 gennaio 2011)   Centro Studi per la Scuola Cattolica (CSSC) Circonvallazione Aurelia 50 – 00165 Roma Tel.
0666398450 – Fax 0666398451 e-mail: csscuola@chiesacattolica.it sito: http://www.scuolacattolica.it         Gentile Direttore, in relazione all’articolo apparso sul Suo giornale sabato 18 dicembre a pagina 32 dal titolo «Efficienza e qualità».
La scuola statale batte quella privata, ritengo necessarie alcune precisazioni.
Già con il Rapporto Ocse-Pisa del 2007 si era posto il problema della presunta superiorità delle scuole statali italiane sulle private, ma anche allora si trattava di una scorretta lettura dei dati.
Poiché in genere si tende a identificare superficialmente le scuole private con le scuole cattoliche, sembra opportuno fare qualche puntualizzazione per evitare possibili strumentalizzazioni.
  1.      In primo luogo, come correttamente nota anche l’articolo del Corriere, la ricerca Ocse-Pisa classifica tra le scuole private i centri di formazione professionale, che propriamente in Italia non sono scuole e che raccolgono un’utenza piuttosto disagiata, in grado di spiegare i risultati meno brillanti dei suoi allievi.
2.      Non solo per questo motivo, il campione utilizzato dall’Ocse non può essere ritenuto statisticamente rappresentativo dell’universo delle scuole non statali, come già è stato puntualmente argomentato dai proff.
Luisa Ribolzi e Giorgio Vittadini su “ilsussidiario.net”.
3.      Inoltre, come abbiamo documentato nel XII Rapporto del Centro Studi per la Scuola Cattolica, appena pubblicato dall’Editrice La Scuola (A dieci anni dalla legge sulla parità), solo il 34,6% delle scuole paritarie secondarie superiori sono scuole cattoliche e non è dato sapere quali scuole paritarie siano rientrate nel campione Ocse.
Pertanto, non è possibile attribuire sbrigativamente gli esiti scadenti alle scuole cattoliche.
4.      Per ciò che riguarda i risultati, il mondo della scuola cattolica è impegnato da circa un decennio nella promozione della sua qualità e contiamo di rendere prossimamente noti i dati di un monitoraggio che stiamo effettuando proprio durante questo anno scolastico su un campione realmente rappresentativo delle sole scuole paritarie cattoliche.
5.      A prescindere da queste distinzioni, ci rallegriamo del miglioramento complessivo dei risultati degli studenti italiani, perché ci sta a cuore l’intero sistema nazionale di istruzione che – come dovrebbe essere noto – fin dalla legge 62/2000 è costituito da scuole statali e paritarie (tra le quali figurano scuole cattoliche, scuole gestite da altri privati e scuole gestite da enti locali).
  Ringraziando per l’attenzione e per lo spazio che ci vorrà dedicare, rimango a disposizione per qualsiasi ulteriore approfondimento e chiarimento.
                                                                                             Prof.
Don Guglielmo Malizia                                                                            Direttore del Centro Studi per la Scuola Cattolica                                                                                                                                                         

Indagine Ocse-Pisa sulle competenze di base dei nostri quindicenni

I primi dati dell’indagine Ocse-Pisa sulle competenze di base dei nostri quindicenni, pubblicati dall’Invalsi (www.invalsi.it), sembrano essere piuttosto confortanti.
La rilevazione presentata questa mattina dall’Invalsi, l’Istituto per la valutazione che ha curato per l’Italia la raccolta dei dati dell’indagine internazionale Pisa 2009 sulle competenze di lettura, matematica e scienze, mette in evidenza, rispetto alle precedenti edizioni, un generale miglioramento in tutti e tre gli ambiti disciplinari.
Per l’edizione 2009 hanno partecipato al Pisa (Programme for international student assessment, il programma che valuta gli apprendimenti) 74 Paesi (erano stati 35 nella prima edizione del 2000).
L’indagine ha coinvolto 30.905 studenti italiani e 1.097 scuole.
  A livello nazionale, un’importante novità di PISA 2009 per l’Italia è costituita dal campione di scuole che, oltre ad essere stratificato per tipo di scuola, come nei precedenti cicli, per la prima volta è rappresentativo di tutte le regioni italiane e delle due province autonome di Trento e Bolzano.
Nelle precedenti edizioni, infatti, il coinvolgimento aveva riguardato soltanto 12 regioni.
Il Pisa 2009 ha incentrato la sua indagine particolarmente sulla lettura (oltre che su matematica e scienze), come era avvenuto nella prima edizione del 2000.
Il confronto su questa competenza ha evidenziato un sostanziale recupero rispetto alle indagini 2003 e 2006, quanto si era registrata una preoccupante regressione dei livelli di competenza dei nostri quindicenni.
Recupero che ha riguardato soprattutto le regioni meridionali.
In classifica i ragazzi italiani sono 29esimi; nel 2006 erano 33esimi.
Il nuovo livello raggiunto in lettura riporta l’Italia pressoché ai valori del 2000, quando il punteggio medio finale si era attestato a 487; ora il valore medio è risalito a 486 che resta comunque sotto la media Ocse di 493 (era 500 nel 2000).
  Dal punto di vista dell’equità del sistema – osservano gli esperti dell’Invalsi – a livello internazionale si rileva generalmente una associazione positiva tra risultati in PISA e livello socioeconomico e culturale delle famiglie.
In altre parole, gli studenti che provengono da famiglie avvantaggiate da un punto di vista culturale e sociale tendono a conseguire risultati migliori degli studenti più svantaggiati.
Anche in Italia l’indice di status socioeconomico e culturale ha un impatto significativo sui risultati in lettura, ma risulta più contenuto che in altri Paesi.
tuttoscuola.com

intervista a Jacques Arnould*: “Il racconto degli scienziati assomiglia alla Genesi”

L’intervista I credenti, come hanno percepito e come percepiscono i progressi dell’astronomia? I credenti condividono con gli astronomi lo stesso fascino per il cielo.
Non stupisce, allora, se i primi hanno sempre manifestato una certa preoccupazione per ciò che potevano scoprire i secondi.
Ponendo l’essere umano al centro della creazione, le credenze ereditate dalla Bibbia non allontanano forse qualsiasi possibilità di altri pianeti abitati? È vero che il cardinale Nicolas de Cue, nel XV secolo, ha potuto parlare di abitanti della Luna senza che Roma si occupasse in qualche modo di lui, ma Giordano Bruno, invece, nel 1600 è stato bruciato per aver affermato, tra le altre cose, che l’universo era infinito ed aver presupposto quindi l’esistenza di innumerevoli mondi.
Dalla rivoluzione copernicana, si è stabilita una sorta di accordo: gli studiosi si sarebbero interessati al “come” delle cose; i teologi al “perché”.
A quel punto, non c’era più ragione di accendere roghi.
Con l’elaborazione, negli anni ’30 del secolo scorso, della teoria del Big Bang da parte di Georges Lemaître, astrofisico e canonico, c’è perfino la grande tentazione di arrivare ad una sorta di “concordismo”; il racconto degli scienziati assomiglia estremamente a quello del libro della Genesi! Nella seconda metà del XX secolo si accelera la conquista spaziale.
La preoccupazione dei credenti diminuisce? Anche loro sono presi dall’entusiasmo collettivo.
I cristiani, papa in testa, applaudono allo Sputnik, il primo satellite messo in orbita, nel 1957, poi a Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio, nel 1961, a Neil Armstrong e Buzz Aldrin, sulla Luna, nel 1969…
Oggi, con la diffusione delle attività spaziali, i credenti non mostrano più grande interesse per le poste in gioco sociali ed etiche che ne possono derivare.
È proprio un peccato.
La scoperta di un’altra Terra rimetterebbe in discussione la credenza secondo la quale il nostro pianete e l’universo sono stati creati da Dio? Mi piace ricordare che questo problema è stato risolto…
nel 1277, da Étienne Tempier, allora vescovo di Parigi.
Aveva messo fine ai dibattiti che, alla Sorbona, opponevano i sostenitori di Aristotele, difensori del carattere unico del mondo, a coloro che vedevano la possibilità di un altro universo, dando ragione a questi ultimi! Il suo argomento era: se Dio vuole creare altri mondi, con esseri extraterrestri, può farlo senza chiedere il nostro parere.
Trovo questo approccio pieno di buon senso teologico…
anche se non risolve tutti i problemi.
L’astronomia è una scuola di modestia, anche per i credenti.Indipendentemente dal fatto che siano cristiani, ebrei o musulmani, i credenti sono sempre più diffidenti nei confronti dell’astronomia? Le scoperte astronomiche, come quelle della paleoantropologia e della biologia dell’evoluzione, hanno dato un duro colpo alle concezioni dell’Universo e dell’umanità su cui i credenti fondavano una parte delle loro convinzioni.
Non è una cosa nuova – penso evidentemente a Copernico o a Darwin -, ma l’impatto delle scienze e delle tecnologie sulle nostre società è diventato tale che esse paiono imporsi a detrimento delle nostre credenze più antiche.
I movimenti creazionisti, che estendono oggi la loro influenza ben al di là degli Stati Uniti, dove sono apparsi alla fine del XIX secolo, mostrano questo disagio.
Ciò detto, evidentemente non tutti i cristiani, non tutti i musulmani, non tutti gli ebrei sono contrari alle scienze.
E non tutti sono creazionisti! Sono convinto che accettando il dialogo, credenti e ricercatori possono trarre profitto da queste scoperte che rivoluzionano la nostra conoscenza dell’Universo, del vivente, dell’umano.
*Jacques Arnould, storico delle scienze, teologo, ricercatore al CNES.
Suoi libri più recenti: “La Terre en un clic.
Du bon usage des satellites”, Odile Jacob, pp.
208, € 21,90, 2010, e “Une fenêtre sur le ciel.
Dialoghes d’un astrophysicien e d’un théologien”, con Marc Lachièze, Bayard, p.
276, € 18, 2010.
in “Le Monde” del 4 dicembre 2010 (tra duzione: www.finesettimana.org)

La crisi del modello multiculturale in Germania

In Germania da alcuni mesi è vivissimo il dibattito sull’immigrazione, con punte di asprezza polemica dopo la pubblicazione del libro di Thilo Sarrazin della Bundesbank che senza mezzi termini ha affermato che i musulmani non si integrano e non imparano la lingua: arriverebbero a istupidire la Germania.
Esponenti del governo che hanno fortemente criticato quelle tesi sono stati a loro volta oggetti di critica, mentre si parla di un ipotetico nuovo partito di destra che potrebbe arrivare a raccogliere fino al 10% dei consensi, strappandoli proprio alla coalizione di governo.
In discussione è il multiculturalismo, la pari dignità tra culture diverse.
In Germania i governi democratici hanno adottato il multiculturalismo fin dagli anni settanta a sostegno del miracolo economico.
Un multiculturalismo che ha significato integrazione dei nuovi stranieri arrivati e rispetto della loro religione e cultura.
Ma l’integrazione è stata scarsa o quasi nulla, tanto che intere comunità straniere vivono chiuse in se stesse e isolate nei quartieri delle città tedesche, continuando a parlare la loro lingua e ignorando quasi del tutto il tedesco nonostante da anni vivano in Germania.
Il libro di Sarrazin ha tolto il coperchio ad un sentimento popolare diffuso che, a quanto sembra, sta creando problemi di consenso al governo della Merkel, tanto che il cancelliere, parlando ai giovani dell’Unione tra CDU e CSU, ha dichiarato tra gli applausi: “Questo approccio ha fallito, fallito del tutto.
Non si deve solo dare ma anche chiedere”.
Gli immigrati, ha detto la Merkel, devono imparare il tedesco per potere trovare lavoro.
Chiunque non parli immediatamente tedesco non è benvenuto.
“Chi vuole essere parte della società tedesca non deve solo obbedire alle nostre leggi ma deve anche padroneggiare la lingua”.
Le parole della Merkel potrebbero avere echi favorevoli in Italia dove una proposta di legge prevede l’obbligo per gli stranieri di conoscere la lingua italiana con una sufficiente padronanza (livello A2) per acquisire il permesso di soggiorno; obbligo che, essendo la legge a costo zero, non comporterebbe alcun aiuto per gli stranieri per conseguire i livelli linguistici richiesti se non la possibilità di frequentare corsi scolastici per adulti, laddove esistono…  

Al Sud si leggono meno libri che al Nord

Nel 2009 meno della metà degli italiani (45,1%) di età di 6 anni e più dichiara di aver letto almeno un libro.
La quota più alta di lettori si riscontra tra la popolazione di 11-17 anni (oltre il 58%), con un picco tra gli 11 e i 14 anni (64,7%), e decresce con l’aumentare dell’età.
Infatti, già a partire dai 35 anni, la quota di lettori scende sotto il 50%, per diminuire drasticamente dai 65 anni in poi e raggiungere il valore più basso tra la popolazione di 75 anni e più (22,8%).
Sono questi i primi elementi introduttivi della recente indagine campionaria dell’Istat sulla lettura dei libri i Italia nel 2009 e pubblicata sul sito dell’Istituto nei giorni scorsi.
L’indagine ha rilevato che le donne leggono più degli uomini: le lettrici, infatti, sono il 51,6% rispetto al 38,2% dei lettori.
Le differenze di genere sono presenti in tutte le fasce di età e risultano molto forti tra i 20 e i 24 anni, dove la quota di lettrici supera il 66%, mentre quella dei lettori si attesta al 39,2%.
Le differenze di genere si annullano solo per le persone con 75 anni e più, fascia di età in cui dichiarano di leggere nel tempo libero il 23,3% degli uomini e il 22,5% delle donne.
A livello territoriale, le quote più alte di lettori di libri si registrano al Nord, dove quasi il 52% della popolazione di 6 anni e più ha letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista, e al Centro (48%).
Nel Sud e nelle Isole, invece, la quota di lettori scende rispettivamente al 34,2% e al 35,4%.
Esiste, inoltre, una significativa variabilità regionale – dice l’Istat – nei livelli di lettura: se Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia fanno registrare livelli di lettura superiori al 56%, Marche, Umbria e tutte le regioni del Mezzogiorno si attestano al di sotto della media nazionale.
Agli ultimi posti si collocano Calabria (34,3%), Puglia (33,1%), Campania (32,9%) e Sicilia (31,5%).
Si nota una maggiore diffusione di lettori nei centri e nelle aree di grande urbanizzazione, con una progressiva riduzione nella quota dei lettori nei centri più piccoli.
Il che fa ritenere che l’abitudine alla lettura dipenda anche dalle disponibilità di servizi e di biblioteche pubbliche.
Considerata la coincidenza di divari territoriali è legittimo chiedersi se esista un rapporto tra il consumo dei libri e livelli di apprendimento della popolazione scolastica.