Il 6 febbraio 2025 è venuto a mancare il professore Józef Stala, Vicerettore per il potenziale scientifico e la cooperazione internazionale della Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia nel 2014-2020.
È con grande tristezza che abbiamo appreso la notizia della morte di P. Józef Stal, sacerdote della diocesi di Tarnów, professore di scienze teologiche, docente di catechesi presso la Facoltà di Teologia, sezione di Tarnów della Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia, vicepreside per la scienza, lo sviluppo e la cooperazione internazionale negli anni 2010-2014, capo del dipartimento di scienze pedagogiche e catechistiche (attualmente: dipartimento di teologia pratica, diritto canonico e pedagogia) presso la Facoltà di Teologia, sezione di Tarnów (WTST), vicerettore per il potenziale scientifico e la cooperazione internazionale dell’UPJPII negli anni 2014-2020.
Il reverendo professor Józef Stala da diversi anni lottava contro una malattia insidiosa che, nonostante ripetute guarigioni, non era riuscito a sconfiggere. Non si è arreso fino alla fine e non ha smesso di lavorare per la Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia.
Tutta la comunità accademica, con il Rettore e il Senato, chiede a Dio misericordioso la luce e il riposo eterno per il defunto Reverendo professor Józef Stal.
Dal 2013 Stala, sacerdote della diocesi di Tarnów, è stato professore associato di Catechesi e vicepreside per la ricerca, lo sviluppo e la cooperazione e direttore della Sezione di ricerca di studi pedagogici e catechetici presso la Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia (UPJPII), Facoltà di Teologia, Sezione di Tarnów (WTST), coordinatore del programma Erasmus presso la WTST e caporedattore della rivista scientifica internazionale The Person and the Challenges .
Stala è stato eletto nel senato accademico come prorettore per la scienza e la cooperazione internazionale della Pontificia Università di Cracovia per il periodo dal 2014 al 2018.
Libri E. Osewska, J. Stala: Die katholische Schule zu Beginn des XXI. Jahrhunderts am Beispiel Polens und Englands UKSW, Warszawa 2015, ISBN 978-83-65224-83-5 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN(stampato), ISBN 978-83-65224-84-2 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN(online) J. Stala, E. Osewska. Anders erziehen in Polonia. Der Erziehungs- und Bildungsbegriff im Contest eines sich ständig verändernden Europas des XXI. Jahrhunderts. Polihymnia, Tarnów 2009, ISBN 978-83-7270-765-9 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN. J.Stala. Familienkatechese in Polen um die Jahrhundertwende. Probleme und Herausforderungen. Biblos, Tarnów 2008, ISBN 978-83-7332-674-3 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN. J.Stala. Dzisiejsza młodzież powiedziała, że… : problemy i wyzwania , Kielce 2006, wyd. Jedność, ISBN 8374423552 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN. J.Stala. Katecheza o małżeństwie i rodzinie w Polsce po Soborze Watykańskim II: próba oceny , Wydawnictwo Diecezji Tarnowskiej Biblos. Tarnów: “Biblos”, poliziotto. 2004. ISBN 8373322248 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J.Stala. Katecheza rodzinna w nauczaniu Kościoła od Soboru Watykańskiego II , Tarnów; Lublino: Wydawnictwo Polihymnia, 2009. ISBN 9.788.372,707703Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J. Stala, Weronika Dryl. Kocham Cię, Jezu: propozycje katechez przedszkolnych dla pięciolatków Tarnów: “Biblos”, 2001. ISBN 8373320032 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J. Stala, Anna Kawa. Miłuję Chrystusa: pomoce do katechez i homilii: ewangelie roku B Kraków: Wydaw. Księży Sercanów, poliziotto. 2002. ISBN 8388465686 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J. Stala, Anna Kawa. Naśladuję Chrystusa : pomoce do katechez i homilii – Ewangelie roku C Kraków : Wydaw. Księży Sercanów, 2003. ISBN 838846597X Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J. Stala, Anna Kawa. Poznaję Chrystusa: pomoce do katechez i homilii – Ewangelie roku A Kraków: “SCJ”, 2001. ISBN 8388465368 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J.Stala. Ręce mego ojca i usta mojej matki powiedziały mi najwięcej o Bogu : biskupa Piotra Bednarczyka ujęcie katechezy rodzinnej Tarnów ; Lublino: Wydawnictwo Polihymnia, 2011. ISBN 9.788.372,709523Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J.Stala. W kierunku integralnej edukacji religijnej w rodzinie : (próba refleksji nad nauczaniem Jana Pawła II w kontekście polskich uwarunkowań) Tarnów ; Lublino: Wydawnictwo Polihymnia, 2010. ISBN 9.788.372,708014Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J.Stala. Z Ewangelią w trzecie tysiąclecie: Piesza Pielgrzymka Tarnowska, Tarnów – 2001 Tarnów: “Biblos”, cop. 2001. ISBN 8387952664 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J. Stala, Anna Kawa. Z Jezusem szczęśliwi codziennie : Ewangelie dni powszednich. T. 2, Wielki Post i Wielkanoc Kraków: Dom Wydawniczy “Rafael”, poliziotto. 2004. ISBN 8389431351 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J. Stala, Anna Kawa. Z Jezusem szczęśliwi codziennie : Ewangelie dni powszednich. T. 4, Wielki Post i Wielkanoc Kraków: Dom Wydawniczy “Rafael”, poliziotto. 2004. ISBN 8389431564 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN J. Stala, Anna Kawa. Z Jezusem szczęśliwi codziennie : Ewangelie dni powszednich. T. 5, Wielki Post i Wielkanoc Kraków: Dom Wydawniczy “Rafael”, poliziotto. 2004. ISBN 8389431599 Importa titolo nel progetto Citavi in base a questo ISBN
Articoli in inglese J. Stala. Alla scoperta di Dio con i bambini con l’aiuto dei libri di religione in un contesto polacco. in Comunicazione simmetrica? Filosofia e teologia nelle aule di tutta Europa, red. F. Kraft, H. Roose, G. Büttner, Rehburg-Loccum 2011, p. 49-59. E. Osewska, J. Stala. Esigenza etica di un’autentica fraternità radicata nella Bibbia. in Biblia a etika: etické dimenzie správania, rosso. D. Hanesová, Banská Bystrica 2011, gmg. Pedagogická fakulta Univerzity Mateja Bela w Banská Bystrica, p. 134-139. J. Stala. Educazione religiosa / Catechesi in famiglia: una prospettiva psicologica ed ecclesiale di base. in Educazione religiosa / Catechesi in famiglia. Una prospettiva europea, red. E. Osewska, J. Stala, Warszawa 2010, wyd. UKSW, p. 49-57. J. Stala, E. Osewska. Aspetti sociologici dell’educazione religiosa familiare in Polonia. in Educazione religiosa / Catechesi in famiglia. Una prospettiva europea, red. E. Osewska, J. Stala, Warszawa 2010, wyd. UKSW, p. 167-177. E. Osewska, J. Stala: Educazione religiosa / Catechesi nella famiglia. Una prospettiva europea. UKSW, Warszawa 2010.
Lezioni di J. Stala in inglese Charles University di Praga / Univerzita Karlova v Praze, Katolická teologická fakulta, Katedra pastorálních oborů, Praga, 12 settembre 2012, conferenza scientifica internazionale The Powerful Learning Environments: Religious Education in the post-modern reality and Modern Family Catechesi Facoltà di Pedagogia Università Mateja Bela w Banská Bystrica, 1 marzo 2011, Conferenza Internazionale: Bibbia ed Etica: Dimensioni Etiche del Comportamento: Bisogno Etico di una Fraternità Autentica radicata nella Bibbia L’ Università Cattolica di Ružomberok /Katolícka Univerzita v Rużomberku, 28 febbraio 2011: Modelli di educazione moderna Università Carlo di Praga/ Univerzita Karlova v Praze, 10 aprile 2010: Come possiamo trovare Dio con l’aiuto dei libri di educazione religiosa? Charles University di Praga/ Univerzita Karlova v Praze, 8 aprile 2010: Formazione cristiana moderna Univerza v Ljubljani / Università di Lubiana , 25 marzo 2010: Problemi selezionati della gioventù moderna: con particolare attenzione alla formazione del gruppo Univerza v Ljubljani / Università di Lubiana, 25 marzo 2010, Conferenza internazionale: Educazione religiosa e catechesi in Europa con particolare attenzione a Polonia, Inghilterra e Slovenia: Educazione religiosa e catechesi in Polonia L’Università Cattolica di Ružomberok/Katolícka Univerzita v Rużomberku, 23 marzo 2010: Accompagnare i giovani nel processo della loro formazione L’Università Cattolica di Ružomberok/Katolícka Univerzita v Rużomberku, 22 marzo 2010: Modelli di educazione moderna Rehburg – Loccum (nei pressi di Hannover), Germania, 6-9 settembre 2009, Conferenza internazionale: Teologizzare con i bambini: come troviamo Dio con i bambini con l’aiuto del programma di educazione religiosa?
Articoli in tedesco J.Stala. Der Mensch als Person: Die bestimmende Grundlage für Johannes Paul II. in seinem Bild von der Familie in “La persona e le sfide” 2 (2012) n. 2, p. 41-59. J.Stala. Die Transzendenz als bestimmendes Merkmal der Person in der Anthropologie und der Pädagogik Johannes Pauls II. in “La persona e le sfide” 2 (2012) n. 1, p. 61-75. J.Stala. Die personalistische Grundlage für Erziehung und Bildung in der katholischen Schule in “Angelicum” 88 (2011), p. 997-1007. J.Stala. Ausgewählte Aspekte von Erziehung und Bildung an der katholischen Schule in “Angelicum” 88 (2011), p. 751-761. J.Stala. Impulso Giovanni Paolo II. zur Religionserziehung in der Familie in „Studia Bobolanum“ 4 (2011), p. 153-163. J.Stala. Die Religionserziehung in der Familie im Kontext der Gegebenheiten in Polen in „Biuletyn Edukacji Medialnej” (2011) No. 1, p. 173-183. J.Stala. Wie schön ist es, in der Reichweite des Wortes Gottes und der Eucaristia zu leben. Eine Betrachtung zur eucharistischen Bildung der jungen Menschen in „Theologica” 46 (2011) 2, p. 311-322. J. Stala. Internet – Chiesa – Comunicazione in „Studia Pastoralne” (2011) n. 7, p. 566-574. J.Stala. Aspekte der Aktivitäten der akademischen Mitarbeiter an der Theologischen Fakultät, Sektion Tarnów, im Dienst der Wissenschaft. in “La persona e le sfide” 1 (2011) n. 2, p. 11-19. J.Stala. Die Person und die Herausforderungen der Gegenwart im Licht der Nachfolge und der Lehre des Heiligen Vaters Johannes Pauls II “La persona e le sfide” – ein internationales wissenschaftliches Periodikum. in “La persona e le sfide” 1 (2011) n. 1, p. 13-23. J.Stala. Grundlagen der Religionserziehung in der Familie im Kontext zu den Gegebenheiten der heutigen Zeit. “Studia Teologiczno-Historyczne Śląska Opolskiego” (2010) n. 30, p. 263-272. J.Stala. Implicazioni pedagogiche-catechetiche aus den Anregungen Johannes Pauls II. per la formazione sacrale. Riforma del ginnasio Zehn Jahre in Polonia. “Studia Bobolanum” (2010) n. 4, p. 155-167. J.Stala. Lehrpläne und Schulbücher für den Religionsunterricht an den Staatlichen Grundschulen in Polen. “Bogoslovni vestnik” 70 (2010) n. 3, pag. 405-414. J.Stala. Last uns voller Hoffnung vorwärts gehen. Pädagogisch-katechetische Aspekte, wie der Christ die Zeichen der Zeit in der gegenwärtigen Welt aufnimmt. „Roczniki liturgiczne“ 1 (56) (2009), p. 435-447.
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Riferimenti Wikipedia di Józef Stala (Testo) CC BY-SA
in allegato il nuovo numero di ERENews, ricco di nuovi contenuti e di approfondimenti. Con piacere, vi invitiamo a visitare il nostro nuovo sito internet: https://erenews.uniroma3.it/. Vi preghiamo di diffondere il bollettino tra i vostri contatti e vi ricordiamo che per consigli, suggerimenti e correzioni è possibile scriverci al nostro indirizzo e- mail: erenews@uniroma3.it o alle nostre pagine social.
Greshake Gisbert, Chiesa dove vai? Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica, Queriniana, Brescia 2023, pp. 301, euro 34.
CHIESA, DOVE VAI? È questo titolodi un recente libro del noto teologo tedesco cattolico, Gilbert Greshake che merita un breve approfondimento per capire l’originalità dell’opera. L’Autore ha costantemente mostrato nella sua visione e riflessione teologica una sensibilità pastorale squisita. Le sue opere, tradotte anche in italiano, hanno ricevuto unanime consenso. Tra le più note ricordiamo: il Dio unitrino (2000); La vita più forte della morte. La speranza cristiana (2009); Maria è la Chiesa (2020).
Nel presente volume Greshake riflette sulla Chiesa nell’ attuale situazione allarmante bene espressa dall’interrogativo del titolo Chiesa, dove vai? Badando al resto del titolo, è possibile cogliere anche il taglio originale della risposta espressa nel sottotitolo: Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica.
Il volume ne tratta in quattro parti, ciascuna articolata in diversi punti.
Nell prima parte intitolata Prolegomeni, l’A. presenta la sua visuale globale sintetizzabile così: la Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione. Invece, è necessario chiedersi di ricominciare da capo, guidati da una “real-utopia” ecclesiale in cui la riforma sia orientata “non a preservare il passato tramandatoci, ma immaginare il futuro promesso”. In quest’ottica, l’A. sviluppa un’analisi non superficiale, ma approfondita e aperta alla speranza.
La seconda parte espone I fattori determinanti l’odierna situazione della Chiesa. Sono proposte tre ragioni a loro volta bene articolate. La prima ragione viene espressa come La fine della cosiddetta “chiesa di popolo”, soffocata tra l’altro da una invadente “clericalizzazione”. Come si può notare, si segnala, come dato negativo, una concezione agli antipodi della “chiesa di popolo” di Papa Francesco. La seconda ragione deprimente è vista nelle Sfide della società secolare e post-secolare che spinge alla dittatura del relativismo circa la verità e i valori della vita. Dall’insieme scaturisce la terza pericolosa ragione affermata come Una concezione ristretta della fede, carente di fondazione biblica ed esposta a “processi di riduzione”. Un breve riepilogo esprime con chiarezza i motivi che fanno pensare al problematico e negativo futuro della Chiesa.
Nella terza parte sono proposte Le linee fondamentali di una forma di chiesa futura. Non sono poche né automaticamente realizzabili. Possiamo parlare di una visione di speranza motivata da una serie di riforme anche radicali (in prospettiva real-utopistica). È interessante conoscere i cinque punti della riforma che l’A. propone come i lineamenti-base della Chiesa del futuro. Eccoli in breve, secondo le parole dell’A.:
– “Essere sacramento” sarà il centro permanente della chiesa futura.
– La Chiesa del futuro sarà una piccola minoranza in rappresentanza di tutte le altre.
– La Chiesa del futuro assumerà un aspetto più “spirituale”, non come “gruppo industriale”, connotando così meglio il futuro della vita consacrata.
– La Chiesa del futuro sarà una chiesa dei laici, riconoscendo il sacerdozio comune di tutti i battezzati e la specificità del ministero sacerdotale.
– La Chiesa del futuro assumerà un’altra forma sociale, con nuove forme comunitarie e parrocchiali e con una diversa incidenza nelle nomine vescovili.
Fa da conclusione una citazione biblica presa dall’ avvenimento dell’esodo: Levate l’accampamento e dirigetevi (Dt 1,19s.). Si vuole così esprimere il “futuro della Chiesa” in una visuale per nulla facile, automatica, ma certamente positiva. Merita, infatti, notare che la parte dedicata alla Chiesa del futuro è due volte tanto la parte precedente dedicata all’odierna situazione della chiesa. Non è un caso che l’A. non usi mai la parola “crisi”, semmai fa risuonare la parola “speranza”. Appare così adombrata la figura del cammino sinodale oggi proposto, che esprime bene il desiderio non tanto nascosto dell’Autore.
«Qui non mi occupo di “leggere il futuro nei fondi di caffè”, di indovinare le condizioni e prevedere la forma ventura della chiesa, di fanstasticare su come essa dovrebbe apparire. L’oggetto a cui mirano le mie riflessioni è, in fondo, il presente della chiesa».
Descrizione
La Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione. Greshake chiede, invece, di ricominciare da capo, attuando un rinnovamento assolutamente più profondo, radicale, sostanziale. Il teologo tedesco rivendica con fermezza una «real-utopia» ecclesiale, in cui l’agire sia orientato non a preservare il passato tramandatoci, ma a immaginare il futuro promessoci. Egli scopre e fa emergere quelle tendenze che già oggi sono proiettate sul domani, prefigurandolo, ed elabora alcune linee guida di una Chiesa a venire che sia capace di reinventarsi. È la visione di una Chiesa che, in quanto minoranza, prende di nuovo coscienza del suo mandato e della sua forma vitale, una Chiesa dei laici, una Chiesa spirituale con una mutata forma sociale. Proposte pertinenti, coraggiose, efficaci per affrontare la crisi odierna, senza cedere al pessimismo, ma adottando sempre uno sguardo positivo.
Dicembre, 2024. Il nuovo numero della rivista online dell’Istituto di Catechetica
Editoriale
L’Insegnamento della religione cattolica (IRC) è per definizione, per statuto e per convinzione dei docenti una disciplina scolastica. Senza negare la necessità di un aggiornamento continuo delle abilità metodologico-didattiche degli Insegnanti di religione (IdR), l’attenzione dei contributi raccolti nel presente numero di “Catechetica ed Educazione” è volutamente spostata sulla dimensione epistemologica dell’IRC, recuperando una vecchia tradizione dell’Istituto di Catechetica (ICa) che già nel secolo scorso ha promosso un ampio dibattitto sull’identità dell’IRC e sulle modalità della sua attuazione didattica.
L’intenzione è di calarsi nell’area fondativa della disciplina, in quel territorio di retrovia, in quei punti di appoggio che, sebbene celati alla vista, sono determinanti per reggere il peso dell’intera struttura. Fuor di metafora, si vuole analizzare quel tessuto connettivo che a ben vedere permette di collocare in un orizzonte di significato, costruire motivazioni, sorreggere e purificare intenzioni, dare garanzia di radici affondate in un terreno solido e condiviso, da cui muovere per affrontare la quotidianità del presente e immaginare un futuro appropriato e significativo. Si parla di prove di epistemologia e non di itinerari o percorsi, proprio per lasciare il campo aperto e non indicare un tragitto definito. In effetti, viviamo un momento storico-culturale che ci chiama a riconsiderare le certezze, magari a metterle in discussione, a vagliare le auctoritates del nostro ambito di studio e di lavoro e riformulare, aggiornandole, le convinzioni di base. Per questo non è un caso che i due poli della riflessione proposta siano precisamente religione e cultura, considerati non come nuclei tematici assoluti bensì come energie sorgive dal cui intreccio scaturisce l’IRC che – in quanto disciplina scolastica – è una mediazione didattica di approccio a un aspetto della realtà e a una dimensione della cultura, la religione per l’appunto. Sia da un punto di vista istituzionale che da un punto di vista pratico, l’IRC è di fatto l’unico presidio di cultura religiosa negli ambienti scolastici italiani. Ne deriva una grande responsabilità sia per rispettare i parametri concordatari che per assicurare una legittimità scientifica e pedagogica. Pensiamo perciò a una epistemologia non solo astrattamente teorica ma messa a confronto con l’attuale ordinamento ministeriale in Italia, per verificare quanto sia presente o quanto sia assente un taglio culturale nell’IRC concretamente vissuto nelle aule scolastiche. Su questa tematica si è svolto un seminario di studio nel gennaio 2024, i cui interventi (Cicatelli, Montagnini, Zini, Padula e Carnevale), revisionati e ampliati, sono riprodotti in questo fascicolo.
Un ulteriore contributo di riflessione è offerto dall’articolo di Giuliana Migliorini e dalla presentazione di un’indagine sugli IdR di Anna Peron, entrambe partecipanti al Seminario. Il saggio di Sergio Cicatelli introduce e fonda la riflessione sull’epistemologia dell’IRC, volendo riaprire una discussione che ha conosciuto una stagione di confronto assai ricco e vivace negli scorsi anni Settanta e Ottanta. L’Autore propone che l’IRC possa essere inteso principalmente come cultura religiosa, perché la dimensione religiosa della cultura è oggetto di attenzione e mediazione scolastica accanto e a prescindere dalle singole appartenenze confessionali. Dai concetti di cultura (come mondo vitale) e di religione (come costruzione umana) può scaturire una rivisitazione della natura dell’IRC (capace di parlare alla coscienza di ogni alunno proprio perché culturale e capace di rimanere fedele al religioso perché fedele all’umano), che lo colloca tra gli strumenti privilegiati di conoscenza scolastica trasversale e di alfabetizzazione dei cittadini. L’intervento di Flavia Montagnini rilegge il rapporto Vangelo-educazione culturale, legandolo a questioni specifiche che possono interessare l’IdR (risonanza pedagogica e antropologico-esistenziale della cultura religiosa cristiana a scuola). La riflessione sull’epistemologia di una disciplina corre sempre il rischio di essere relegata nell’ambito accademico, se l’insegnante non è capace di immaginare che diventi pratica quotidiana nelle aule. La domanda se l’IRC possa realmente essere offerto agli alunni come cultura religiosa secondo i principi della didattica disciplinare trova risposta affermativa ancorandosi alla professionalità dell’IdR. Il rispetto per l’epistemologia dell’IRC implica un’azione di insegnamento che fa propri alcuni assunti pedagogici e li traduce in un’azione didattica coerente, che vive come risorsa la diversità dei singoli docenti nella gestione dell’aula, dal punto di vista relazionale, didattico ed organizzativo. La sezione dedicata agli Approfondimenti prende corpo grazie a diversi contributi, che mettono in evidenza aspetti filosofici, sociologici e didattici della cultura religiosa calata nella mediazione didattica dell’IRC. Paolo Zini considera possibilità e ambivalenze della cultura come via alla religione e inserisce l’IRC in tale analisi. Il mediatore di senso del quale la religione sembra aver bisogno per rendersi accostabile nello spazio pubblico è la cultura. E la formalità culturale è necessaria per fondare, giustificare, accreditare la legittimità curricolare dell’Insegnamento della Religione perché, a prescindere dalla logica che attraversa ciascuna espressione religiosa ad intra, l’Occidente è ancora vincolato alle prescrizioni illuministiche. Sotto questa luce, l’IRC forse vivrebbe l’imbarazzante situazione di una disciplina dall’oggetto formale che contrasta quello materiale e viceversa, perché la pretesa religiosa del Cristianesimo collide con i parametri dell’Occidente contemporaneo, che decidono cosa sia cultura e quale sia la sua legittima espressione. L’IRC sembra qualificarsi come evento didattico indispensabile non solo per il rilievo storico del suo oggetto, ma come istanza critica di tutto il sapere che abita e anima in forme diverse ogni perimetro didattico. La domanda religiosa illumina la parzialità del materiale rispetto agli aneliti più profondi dell’animo umano. Davanti alle possibilità culturali la domanda religiosa svela il desiderio escatologico della persona, che azzarda l’approdo alla sfera dell’ultramondano. E considerare la via della speranza – nella sua inaudita incarnazione cristiana – è forse, prima di un’opportunità, un diritto della coscienza di chi più o meno consapevolmente frequenta la scuola per imparare la vita. La presa di coscienza che cultura e religione si muovono tra incertezza e complessità è l’assunto su cui si basa l’argomentazione del sociologo Massimiliano Padula. La religione si configura come un fatto sociale e il suo insegnamento rientrerebbe nel novero delle prassi, peraltro garantito e protetto da una struttura giuridica definita dal Concordato. L’abbinamento dell’IRC alla categoria di “cultura religiosa”, mantenendo il discorso nei termini avalutativi della visione sociologica, riesce a garantire all’insegnamento la prospettiva epistemologica necessaria per consentirgli di posizionarsi efficacemente in uno scenario non solo secolarizzato e plurale, ma oramai di “neo-cristianesimo” o “cristianesimo di ritorno”, per cui l’Europa tende a diventare terreno di sviluppo di pratiche e format ecclesiali d’intonazione evangelico pentecostale. E dunque, l’IRC può fare cultura religiosa? Cristina Carnevale cerca di mettere a confronto la prospettiva epistemologica proposta con la prassi didattica, con particolare riferimento alla scuola primaria e a quella dell’infanzia, proponendo una serie di esempi desunti dalla pratica didattica pensata in chiave di cultura religiosa. Ma il punto di partenza è la scelta di considerare la cultura religiosa come incontro col patrimonio letterario-artistico cristiano; come scoperta del patrimonio immateriale legato al Cristianesimo; come condizione personale e religiosa in un contesto di immersione nel digitale; come insieme di conoscenze religiose all’interno di un sapere unitario legato alla vita.
Il metodo ermeneuticoesistenziale e la didattica simbolica risultano traiettorie efficaci non solo in termini di apprendimento ma anche di definizione di identità, scelta di comportamenti e nascita di atteggiamenti, quindi in termini di configurazione culturale legata al tema religioso. Quali sono le ragioni educative e culturali, che fanno dell’IRC una disciplina scolastica a pieno titolo? Se il rapporto della religione con la cultura presenta interessanti risvolti sotto il profilo pedagogico e didattico, il Cristianesimo gioca un ruolo decisivo nella configurazione della cultura italiana ed europea. Giuliana Migliorini, soffermandosi sull’arte come veicolo di espressione dell’esperienza umana e religiosa e come momento qualificante della cultura, evidenzia come proprio il confronto tra produzioni artistiche di differenti ambienti religiosi possa avviare un dialogo costruttivo e aperto con altre esperienze di fede senza pregiudizi o perdita delle proprie specificità anche per chi non ha alcun legame con la vita religiosa. È altresì importante valorizzare l’accesso artistico alla cultura religiosa, sapendo che la scuola tende ormai a connettersi in modo dinamico all’extrascolastico e a rafforzare le competenze disciplinari in prospettiva interdisciplinare. Le prove di epistemologia proposte in questo numero di “Catechetica ed Educazione” si completano con un sondaggio, costruito e realizzato da Anna Peron. Il focus dell’argomentazione circa il rapporto tra religione e cultura si sposta decisamente verso l’IRC, centrando l’attenzione sullo strumento per eccellenza di orientamento della pratica didattica e in cui si evidenziano le scelte culturali e scolastiche in tema di religione, ovvero le Indicazioni Nazionali. Il sondaggio ha voluto mettere in evidenza il livello di conoscenza delle linee-guida da parte di un campione sufficientemente significativo di IdR italiani; trovarne i punti di forza e di debolezza; individuare particolari esigenze formative degli IdR rispetto alla conoscenza e applicazione delle Indicazioni. Interessanti i suggerimenti per un perfezionamento del documento e l’emergere di un bisogno di formazione, che riguarda non solo la conoscenza delle Indicazioni Nazionali, ma aspetti metodologici, docimologici, pedagogici e il tema biblico in particolare, tra i nuclei tematici. Certamente emerge la necessità di revisionare una pedagogia condivisa in chiave di progettazione per competenze e un adeguamento ai tempi attuali della visione del fenomeno religioso.
“La dimensione educativa della catechesi”. Le relazioni di fondo del Simposio Si è voluto dedicare una seconda parte del fascicolo all’evento che ha concluso l’anno dedicato a celebrare i settant’anni di vita dell’ICa (1953-54/2023-24): il Simposio internazionale di catechetica “La dimensione educativa della catechesi”. L’incontro si è svolto nella sala J.E. Vecchi dell’Università Pontificia Salesiana (Roma) l’8-9 novembre 2024 e ha visto la partecipazione in presenza di un centinaio di catecheti, pastoralisti e pedagogisti, mentre diversi altri studiosi erano collegati online dalle loro sedi nei vari continenti. Dopo aver portato l’attenzione sulla dimensione comunicativa della catechesi, in occasione del 60° anniversario della sua fondazione, l’ICa ha scelto in questa circostanza di concentrare la riflessione sulla dimensione educativa di questa disciplina, cioè la prospettiva che da sempre ne ha caratterizzato l’approccio. Del denso programma si riportano qui esclusivamente le relazioni principali che hanno introdotto ciascuno dei tre “sguardi” con cui si è voluto esaminare il rapporto tra catechesi ed educazione: quello storico retrospettivo, quello che si posa sulla situazione attuale e quello che si spinge verso il futuro. Le tre relazioni hanno avuto ciascuna la reazione di diversi discussant e hanno dato vita a un confronto appassionato e stimolante tra gli esperti. Si spera di raccogliere in un unico volume di prossima pubblicazione l’insieme di contributi scritti e di riflessioni emerse durante il Simposio. La relazione del catecheta francese Joël Molinario ha approfondito la relazione tra la catechesi e l’educazione così come si è sviluppata nel passato. La ricognizione ha permesso di constatare la differenza tra le epoche storiche in riferimento all’educazione alla fede dei battezzati. L’Autore ha concentrato la sua riflessione sull’epoca moderna e si è soffermato, in particolare, su tre momenti determinanti: l’affermarsi dello strumento “catechismo” nel XVI secolo, fatto che non può essere compreso appieno se non lo si colloca nel contesto dell’Umanesimo rinascimentale e della sua preoccupazione per l’educazione; la nascita e lo sviluppo del “movimento catechistico” che prende le mosse dalla riflessione sull’insegnamento catechistico nel XIX secolo con il bisogno sentito di rinnovare i metodi e che deve confrontarsi, al contempo, con l’esigenza in qualche modo contrapposta di precisare i contenuti, anche attraverso la pubblicazione di un catechismo universale; il rinomato intervento del card. Ratzinger a Parigi e Lione del 1983, con le accese polemiche che ne sono seguite. L’Autore conclude ribadendo l’impossibile separazione tra contenuto e metodo della catechesi e vede nel catecumenato una forma paradigmatica di autentica realizzazione dei processi di educazione nella fede. L’intervento di Luciano Meddi rivolge lo sguardo sul presente e passa in rassegna le principali “provocazioni” culturali che la catechesi deve oggi fronteggiare sul versante educativo. Il catecheta romano ritiene che il rapporto tra catechesi ed educazione non trovi sufficiente sviluppo nella riflessione catechetica contemporanea. Ciò impedisce la piena valorizzazione di una dimensione che, invece, è connaturale alla catechesi, il cui compito primario è la risposta di fede e la maturazione umano-cristiana del battezzato. Per andare oltre, si impongono dei chiarimenti terminologici, che riguardano soprattutto il significato delle parole socializzazione, educazione e formazione, e vanno operate delle scelte decise: tra queste ultime la più rilevante e urgente è la necessità di concentrare l’attenzione sulle modalità con cui il battezzato interiorizza il messaggio cristiano e lo testimonia esistenzialmente in maniera consapevole e responsabile. In tutto ciò svolge un ruolo determinante la formazione in vista della maturazione delle competenze per la vita cristiana, che è il compito specifico della catechesi ecclesiale. Sulla base di tali considerazioni, è possibile riqualificare il curricolo di catechetica. Il terzo articolo offre una riflessione in chiave prospettica per la catechesi del futuro. Thomas Groome vede nella fedeltà e nella creatività i dinamismi ecclesiali che possono/devono guidare il rinnovamento della catechesi. In particolare, c’è bisogno di una “pratica della sinodalità”, in modo che questa non rimanga una pia intenzione, e la catechesi deve porsi al servizio di questa causa, favorendo la maturazione nei battezzati di una fede viva e di una sensibilità comunionale. Il compito educativo essenziale della catechesi sarà quello di accompagnare i percorsi di crescita nella fede. Il movimento che ne scaturisce va “dalla vita alla fede alla vita”, dinamismo che è ampiamente illustrato nel contributo e che si basa, sostanzialmente, su una pedagogia partecipativa e conversazionale.
I membri dell’Istituto di Catechetica catechetica@unisal.it
CATECHETICA ED EDUCAZIONE Rivista «online» dell’«Istituto di Catechetica» della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma «Catechetica ed Educazione» è una testata telematica, iscritta al Tribunale di Roma (registrazione n. 151/16 dicembre 2020), che persegue finalità culturali in ambito pedagogico-catechetico Anno IX Numero 2 – Agosto 2024
Recensione del volume a cura di don Cesare Bissoli
Tomáš Halík, Il sogno di un nuovo mattino. Lettere al papa, Vita e Pensiero, Milano 2024, pp. 159, Euro 16.
Il libro ha un titolo suggestivo, ed insieme suona strano, eppure esprime un contenuto degno di attenzione, significativo, apprezzato da tanti lettori. Per questo lo presentiamo in questa nostra rubrica, con alcune indicazioni previe sulla persona dell’autore, diventato ormai noto nell’ambito teologico-ecclesiale in Italia ed oltre.
Tomáš Halík è un teologo, filosofo e sacerdote cattolico ceco di Praga, noto per il suo approccio dialogico e per l’integrazione di fede e cultura. Halík ha scritto molto su temi di spiritualità. Va ricordato – in relazione diretta al nostro volume- il suo libro Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di affrontare un’epoca di cambiamento, pubblicato da Vita e Pensiero, Milano 2022. È apprezzato per la sua profonda analisi critica del cristianesimo contemporaneo, ma anche per la speranza e l’incoraggiamento ad una fede matura e impegnata, capace di dialogare con un modo culturale in cambiamento continuo.
In continuità con questa tematica, Halík pubblica una riflessione sulla fede cristiana nella Chiesa di oggi, immaginando, e scrivendone, una raccolta di lettere rivolte ad un futuro Papa, quale capo al servizio della Chiesa. Per rafforzare il suo pensiero, l’A. usa un linguaggio singolare, intitola le sue lettere “sogno di un nuovo mattino”, con chiaro riferimento alternativo a Il pomeriggio del cristianesimo dell’opera precedente. Due altri dati da precisare sono: l’uso del termine sogno, attinto dall’esperienza biblica che secondo l’A. nella prima lettera spiega così: «Isogni come linguaggio dei desideri di Dio», per cui il sogno fissato in ogni lettera indica una realtà di cambio della Chiesa tanto fattibile, quanto impegnativo che sarà opera di Dio nella sua Chiesa, non senza l’impegno della Chiesa stessa. Per questa certezza del futuro – e non per l’abituale senso fantasioso – si chiama sogno. In tale ottica Halik, come abbiamo detto sopra, indirizza le sue lettere al Papa che verrà di nome Raffaele, come l’arcangelo che nella Bibbia è presentato quale guaritore delle ferite di Tobia, esprimendo così simbolicamente l’opera di Dio che vuol sanare i mali nella Chiesa oggi, richiamando per questo la responsabilità e l’intervento del Papa come servitore primario della Chiesa.
Queste ferite della Chiesa da guarire e che fanno sognare l’A. sono 12 (come gli apostoli, richiamati quali testimoni genuini della fede cristiana). Dopo avere dunque indicato i sogni come linguaggio dei desideri di Dio (1), nel nostro tempo Dio fa sognare la ricerca dell’ identità (quasi smarrita) della Chiesa (2), il che richiama quella che Halik prefigura la missione dei profeti (3)come fattore di autentico, radicale rinnovamento. Una esigenza primaria è di sognare la realtà di Dio come futuro (4), libero dai condizionamenti interessati del puro pensiero umano. Ciò richiede di fare posto a La dimenticata forza interiore della religione (5) intesa come intrinseca, necessaria comprensione spirituale della realtà. Un tratto, purtroppo oggi confuso, riguarda La cattolicità come responsabilità universale (6) in modo da avere una chiesa capace di dialogo interreligioso e interculturale. Ciò richiede la necessità, espressa da Papa Francesco con le parole: Madre Chiesa, esci da te stessa (7). È a quanto mira il Sinodo in atto, cioè alla liberazione da tante ristrettezze storiche mentali ed operative (tradizionalismo) che l’appesantiscono gravemente. Segue una serie di esigenze. La prima riguarda la fede. Perché sia genuina l’A. propone si riassume nel binomio amore e libertà: Ama e liberamente credi (8), Non può mancare l’attenzione vigile ed attiva alle risorse della tecnologia digitale a cui l’A. dà un titolo piuttosto enigmatico: L’aleph sulla fronte del Golem (9). È laleggenda ebraica che racconta la creazione dell’uomoartificiale, divenuto forza distruttiva incontrollabile. Con il titolo di Lettera di Natale (10), l’A. denuncia il senso sovente vuoto dell’avvenimento del Natale e ne precisa il vero significato: riguarda l’origine storica, umana di Gesù come salvatore dell’uomo e del mondo. Andando verso la fine del dialogo con Papa Raffaele, l’A. richiama l’attenzione delle conseguenze indicibili del male, invocando la necessità di Svuotare l’inferno (11). Il ragionamento si sviluppa invitando a porre una domanda netta e chiara all’ uomo di oggi, anzitutto a Papa Raffaele: Credi nell’inferno? Secondo la fede vera della Chiesa, Gesù ha «svuotato» l’inferno affermando la misericordia del Signore sempre e ovunque, ma non negando le conseguenze voraci del male che fa del male inesorabile a chi lo compie! L’ultima lettera si oppone alla precedente con l’affermazione, che è una invocazione ed un incoraggiamento nella speranza, di Riempire i cieli (12), di dare al Paradiso il diritto di esserci, affermando il valore dell’Ultima Cena, l’Eucaristia che è il panis viatorum per il viaggio della Chiesa nella storia verso il cielo. L’A. conclude i “sogni” scritti al papa, con una personale, commossa affermazione: «Quando arriverò a quella porta celeste non mi verrà chiesto di quantificare i risultati pastorali o il numero e la qualità delle mie conferenze e dei miei libri, ma se ho resistito all’orgoglio e ho mantenuto un cuore umile . Intercedi per me, papa Raffaele».
Carissimi Allievi e Allieve, da alcuni anni, il GGC ha proposto un sussidio per il Vostro percorso di studio e di specializzazione, un Vademecum che possa risultare utile soprattutto per i lavori scritti e le tesi. Grazie anche all’apporto dei Docenti e di alcuni di voi, si è potuto migliorare questo breve e lineare quadro di riferimento generale (con i profili professionali relativi ai curricula di catechetica ed educazione religiosa) insieme a delle indicazioni pratiche per lo studio, la ricerca e la redazione degli elaborati. Sono sempre validi e imprescindibili l’accompagnamento dei Docenti e la disponibilità durante le lezioni e nell’orario di appunta-mento, come si ritiene da voi acquisita la competenza metodologica della ricerca e del lavoro scientifico. Rimane comunque un punto di riferimento, per alcune scelte e dubbi da chiarire, il testo di José Manuel PRELLEZO – Jesús Manuel GARCÍA, Invito alla ricerca. Metodologia e tecniche del lavoro scientifico, LAS, Roma 42007. La metodicità, la rigorosità, la linearità argomentativa e la coerenza richieste nell’applicazione della metodologia scientifica, oltre a essere una forma di disciplina e di “ascesi”, sono delle virtù essenziali da acquisire e incrementare nel I e II ciclo fino alla completa autonomia degli allievi dai docenti e dai manuali di metodologia del lavoro scientifico. È vero che nei vari ambiti accademici e universitari vi sono differenti sistemi e modelli di ricerca scientifica e si potrebbero fare altre opzioni, ma la scelta operata dall’ICa è quella di convergere verso uno specifico, ispirato al manuale sopracitato, ufficiale e proposto ai nostri docenti e studenti. Si potrà trovare un riscontro concreto, con qualche variazione, nella rivista “Catechetica ed Educazione” per la quale è applicato il sistema scelto, indicato nelle norme per i Collaboratori e ripreso in questo fascicolo. Chiedo in anticipo scusa se troverete qualche imprecisione che comunicheremo in qualche modo come “errata corrige”. Rimane sempre la possibilità da parte vostra di dare suggerimenti per il miglioramento del presente sussidio. Ringrazio quanti tra docenti e allievi hanno fatto 4│Vademecum ICa pervenire osservazioni e correzioni. In questa riedizione del Vademecum rispetto alle precedenti, troverete in più: a p.20, una breve descrizione dei metodi analitici; e a p.37, un modo di citare le risorse dell’IA (Intelligenza Artificiale). Il Vademecum è un segno del nostro “esservi” accanto, facendoci compagni di viaggio del Vostro percorso di studio, per il consegui-mento di competenze e ai fini di un servizio appassionato e qualificato alla Chiesa e al Mondo.
Buon Anno Accademico 2024-2025! Roma, 30 ottobre 2024
Prof. Don Giuseppe Ruta Coordinatore del GGC e Direttore dell’ICa
In prossimità del Simposio Internazionale di Catechetica dell’8-9 novembre 2024, a Roma, sul tema “La dimensione educativa della catechesi”, l’Istituto di Catechetica (ICa) della Facoltà di Scienze dell’Educazione, Università Pontificia Salesiana (FSE, UPS) di Roma, ha pensato bene di “preparare il terreno” e di iniziare a “riscaldare il motori”, inviando a catecheti dei cinque continenti un questionario con sette domande, attinenti alla “catechesi”, con una sottolineatura particolare alla dimensione educativa, in sintonia con il tema del Simposio.
In qualche modo, questa iniziativa si affianca alla ricerca La competenza riconsiderata2 che ha coinvolto gli Exallievi dell’ICa (2000-2020). Sia la ricerca, sia l’intervista sono due modalità che consentono di mantenere il contatto con la realtà e verificare la qualità del servizio accademico di insegnamento e di ricerca che l’ICa ha offerto e continua a proporre alle comunità ecclesiali sparse nel mondo, da poco più di settant’anni. Sono pervenute alla Direzione dell’ICa 40 interviste in tutto (una condivisa da due catecheti operanti in Tanzania). Un’intervista è frutto di condivisione degli Uffici catechistici a livello nazionale (Australia). Hanno risposto all’invito 41 catecheti, di cui 15 F e 26 M, provenienti dall’Africa (3/4 = 7), dall’America (3/4 = 7), dall’Asia (2/5 = 7), dall’Oceania (2/1 = 3) e dall’Europa (3/5 = 8) a cui vanno aggiunti 9 italiani (2/7 = 9).3 Si tratta di un forum aperto a tutti senza preclusione e casualmente rappresentativo, senza alcuna pretesa di rappresentatività statistica e di ricerca empirica. Non di meno le risposte pervenute offrono un ampio panorama e uno spaccato della situazione e delle prospettive della catechesi oggi.
Alcuni studiosi e studiose di catechetica sono conosciuti a livello internazionale, altri ed altre lo sono di meno: tutti comunque hanno espresso, a partire dalla pro-pria esperienza e competenza, risposte degne di considerazione e di riflessione, alcune più sul versante della teorizzazione, altre su quello della prassi. Il livello minimo richiesto per la partecipazione all’intervista è stato quello di essere in possesso almeno di una licenza o laurea in campo catechetico o di avere almeno una consolidata esperienza catechistica. La differenziazione maschile e femminile, con una prevalenza numerica dei maschi (26) sulle femmine (15), non va colta in modo discriminante ma complementare, necessaria per un confronto autentico che metta insieme intuizioni della “genialità femminile” (non si dimentichi la preponderanza delle catechiste nella comunità ecclesiale: cf. DC 127-128) e l’apporto che si spera aumenti ma (senza predomini) da parte della “genialità maschile”, che appare preponderante nel campo della scienza catechetica, ma nettamente inferiore nel servizio della catechesi ecclesiale (cf. DC 129).
La provenienza “mondiale” permette, seppur nella immediatezza propria di un’intervista, di cogliere elementi comuni a livello globale, ma anche elementi più localizzati e caratterizzanti in spazi geografici differenti, in questo tempo di ricerca e di forte bisogno di riorientamento. Le sette domande cercano di cogliere tratti specifici spazio-temporali del trinomio catechesi-educazione-catechetica e sono state inviate, in italiano e in-glese, in due ondate, ai catecheti, exallievi dell’ICa e non, perché rispondessero entro le due scadenze indicate: febbraio e maggio del 2024 (solamente una di esse è pervenuta nel mese di giugno). Il materiale raccolto è il risultato di un’adesione libera, aperta a quanti volessero aderire.
Presentiamo le sette domande dell’intervista, inviate ai catecheti in italiano e inglese, con alcune brevi considerazioni di commento che ne esplicitano l’intenzionalità e la concatenazione. Una breve premessa dava questa breve avvertenza: Tenendo presente il proprio contesto geografico e culturale, chiediamo di rispondere alle seguenti domande con risposte sintetiche massimo 10 righe (totale caratteri 1.000 – mille – spazi inclusi) per ognuna delle seguenti domande: 1) Quale “memoria” ed “eredità” di catechesi rimane ancora viva e valida per la Chiesa di oggi? Quali gli aspetti propositivi, quali i pesi o gli eventuali intralci o impedimenti? La prima domanda mira ad una retro-visione della catechesi di oggi, cer-cando di cogliere le immancabili risorse, ma anche le controindicazioni ad un suo sviluppo lineare e promettente nel presente e nel futuro. 2) Come appare oggi la situazione della catechesi nel mondo odierno, in particolare nel vostro contesto di appartenenza? Quale attenzione o disattenzione da parte di pastori e delle comunità cristiane? Il secondo quesito pone l’attenzione sul momento storico attuale e sul con-testo geografico in cui si vive, cercando di fotografare in poche battute la situa-zione della catechesi e la responsabilità da parte delle comunità cristiane e, a vari livelli, dei loro responsabili. 3) Quale profilo per la catechesi del futuro? Quali sono i rischi da evitare assolutamente e quali risorse da valorizzare come priorità per dare “futuro” alla catechesi? A partire dai precedenti interrogativi, il terzo mira a valorizzare il patri-monio del passato e del presente, ma soprattutto a guardare avanti, ipotizzando una “nuova” o “rinnovata” catechesi all’altezza del suo compito e delle sfide cul-turali di oggi. 4) Credete che vi siano possibilità di nuovi linguaggi per un’efficace inculturazione della fede nell’antico continente europeo e nel vostro continente di appartenenza? Quali sono le principali risorse e le differenze tra il mondo occidentale e gli altri “mondi”? Il quarto quesito mira ad approfondire il precedente, guardando ai lin-guaggi antichi e nuovi, confrontando i vari e differenti contesti continentali, co-gliendone sia le potenzialità, sia le limitazioni e diseguaglianze. 5) Si è parlato recentemente di “emergenza educativa” e addirittura di “catastrofe educa-tiva”. Come considerate la dimensione educativa della catechesi e quale contributo può essere dato dalla catechesi ecclesiale alla situazione attuale di “crisi”? La quinta domanda punta sulla tematica propria del Simposio internazio-nale, chiedendo di mettere in evidenza la considerazione educativa della cate-chesi nel proprio contesto, non solo a livello ecclesiale, ma anche a livello socio-culturale e umanitario. 6) Quali sono le principali tendenze per dare oggi qualità all’identità e alla formazione dei catechisti in particolare e degli operatori pastorali in generale? L’interrogativo intende mettere a fuoco l’interesse per l’identità e la for-mazione dei catechisti, considerando le principali istanze e tendenze per il mi-glioramento di questo “antico” e prezioso “ministero” per la Chiesa e il mondo. 7) C’è futuro per la catechetica nella comunità scientifica ed ecclesiale? È possibile deli-neare in prospettiva l’identità del catecheta nella Chiesa, nella comunità scientifica e nella società di domani? Quali i tratti caratterizzanti? L’ultima questione tocca l’aspetto di studio e di ricerca a servizio della fe-deltà creativa e innovativa della catechesi in un’epoca in continuo cambiamento. Si focalizza, infine, sulla figura del “catecheta”, sui tratti di competenza che lo devono caratterizzare nel momento attuale. Le risposte pervenute sono riportate in “Quaderni di Catechetica ed Educazione» No. 2, in lingua italiana, seguendo l’ordine alfabetico per continente e per autore/autrice. Le 40 interviste possono essere lette di seguito, in verticale, rilevando la originalità di ciascuna, ma, secondo l’utilità, possono essere considerate in orizzontale, leggendo le risposte date dagli intervistati a ciascuna delle sette domande.
Come si potrà notare, le risposte sono differenti per lunghezza e sinteticità, come anche si distinguono per genericità o per la puntigliosa indicazione di alcuni aspetti particolari, rispetto ad altri, ma tutte prendono le mosse dall’esperienza e dalla competenza degli intervistati che si cercherà di non lasciar cadere a vuoto ma di prendere in seria considerazione e mettere in rilievo. Si rinvia alla conclusione, a fine Quaderno, per alcune osservazioni complessive e generali. Un grazie sentito va a Nicolò Suffi per la revisione dell’intero quaderno nell’edizione in italiano, mentre per la revisione delle risposte in madrelingua e le traduzioni dall’inglese a Benny Joseph, dal portoghese a José Anibal Men-donça, dallo spagnolo a Francisco Énriquez Zulaica e dal francese a Morand Wirth.
Cogliamo soprattutto l’occasione per ringraziare i quarantuno partecipanti all’intervista e quanti hanno collaborato per la realizzazione di questo dossier che speriamo possa risultare utile per la riflessione presente e per il rilancio futuro della catechesi nelle varie parti del mondo.
I membri dell’Istituto di Catechetica catechetica@unisal.it
Autore: Équipe Europea di Catechesi A cura di: Giuseppe Biancardi e Salvatore Currò
Il testo raccoglie gli Atti del Congresso che l’Équipe Europea di Catechesi ha tenuto dall’1 al 6 giugno 2022 a Bruxelles. L’associazione è nata dalla spontanea iniziativa di un gruppo di catecheti europei in margine al I Congresso catechistico internazionale tenutosi a Roma nel 1950, in occasione dell’Anno Santo. I membri si incontrano con cadenza biennale per riflettere su tematiche attinenti alla catechesi con particolare riferimento al Vecchio continente. Tema dell’incontro è stato L’inserimento profetico della fede nella cultura europea postmoderna, in dialogo con il Direttorio per la catechesi del 2020. Gli interventi pongono in luce, di volta in volta, i punti-forza su cui la Chiesa dovrebbe concentrare la sua attenzione per far risuonare efficacemente, anche oggi, il Vangelo.
Data di pubblicazione: 09/02/2024 Lingua: Italian Pagine: 192 Editore: ELLEDICI
Così dice il Signore: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamarisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere. Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti».
Geremia è un profeta perseguitato. Chiamandolo il Signore gli aveva promesso di renderlo un muro inespugnabile (1,5-10); di fatto è oggetto di ire e di attacchi da parte di tutti, i familiari (12,6), i concittadini (12,1-5), gli abitanti di Gerusalemme, il re, la corte (36,21-26) e finisce in una prigione (38,6).
La sua salvezza è la sua fede in un Dio giusto giudice (12,1), che punisce il male e premia il bene. È l’assioma che si trova alla base della teologia deuteronomistica (cioè presente nel libro del Deuteronomio) di cui Geremia è un esponente. Tuttavia l’«uomo che confida nell’uomo» non è chiunque fa ricorso all’aiuto del proprio simile, ma l’israelita che vuole risolvere i suoi problemi nazionali e militari appoggiandosi agli stranieri invece che a JHWH.
Le alleanze con i popoli vicini, assiri, babilonesi, egiziani, non sono mai state ben viste dai profeti, quindi neanche da Geremia, perché sottindendevano una carenza di fede nel Dio dei padri, colui che li aveva sottratti, con braccio potente, dalla schiavitù egiziana e aveva messi nelle loro mani i cananei.
Il discorso si fa più ampio nella contrapposizione tra l’agire secondo la carne e l’agire secondo lo spirito. La «carne» nella tradizione biblica designa la fragilità creaturale dell’uomo. Vivere o agire secondo la carne significa seguire gli istinti dell’egoismo o dell’orgoglio più che la voce di Dio e la sua volontà. In altre parole è dare spazio alle scelte più facili, di comodo, che soddisfano più la passione che la ragione.
Se l’«uomo» non sa lasciarsi guidare dallo Spirito di Dio, sono le conseguenze del suo agire carnale che dovrebbero portarlo al ravvedimento, i castighi che l’hanno colpito o stanno per colpirlo. I buoni suggerimenti, le riflessioni sapienziali non valgono sempre a cambiare l’uomo, ma il bene e il male che consegue il suo agire dovrebbero portarlo a resipiscenza. È quanto il profeta si augura.
Il richiamo alle conseguenze del ricordo e della dimenticanza di Dio può essere opportuno ma non gli si può dare un peso sicuro, poiché molte volte la «maledizione» non cade sempre sugl’iniqui, né la «benedizione» raggiunge solo i buoni. La fede non è un calcolo matematico.
Seconda lettura: 1Corinzi 15,12.16-20
Fratelli, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.
La risurrezione è una proposta cristiana che non ha avuto sempre facile accoglienza (cf. At 17,32;26,24). Sono le difficoltà che Paolo incontra tra i convertiti di Corinto.
L’apostolo si è appellato alle prove storiche, ai testimoni cioè della risurrezione di Gesù (vv. 3-11), ora fa ricorso anche alle ragioni teologiche. La risurrezione è la garanzia unica ed esclusiva non tanto della credibilità di Gesù Cristo, quanto della validità della sua missione ovvero della sua azione redentiva. Se egli non fosse risorto non solo non avrebbe dato la giusta prova di quello che aveva predicato, ma non avrebbe dimostrato e avviato il processo di rigenerazione e di rinascita di quelli che muoiono. Se ciò fosse vero non c’è futuro, non c’è speranza di una vita nuova in quelli che hanno chiuso l’esperienza terrestre.
L’argomentazione di Paolo è tuttavia più complessa poiché concepisce la morte di Cristo come un sacrificio di espiazione per i peccati dell’umanità. Egli è il capro che porta su di sé i peccati di tutti (cf. Rm 3,21-28) come Giovanni dice che è l’agnello che toglie i peccati del mondo (1,29).
La risurrezione prova che Gesù è entrato nel mondo di Dio, quindi ha offerto al Padre il risarcimento che aspettava dagli uomini e da lì ora attende quelli che hanno creduto in lui. È evidente che se non fosse risorto, né lui né i suoi seguaci sarebbero mai entrati nel regno della vita, non sarebbero quindi salvi.
La risurrezione è, si può dire, un termine convenzionale, equivalente a continuità nell’esistenza. Gesù risorto significa che egli vive, non è nel regno dei morti, ma dei vivi. Solo che è un trapasso senza prove, senza verifiche; si può accettare affidandosi alla parola di Dio trasmessa da Gesù Cristo.
Gesù è la primizia dei dormienti (v. 20), il primogenito tra molti fratelli (Rom 8,29), ma se non si è verificato in lui il trapasso nella nuova vita, non si verificherà in nessuno, nemmeno in quelli che vivono con tale fede in lui. Anzi questi che coltivano tali illusioni, accanto a privazioni e sacrifici di ogni genere, sono alla fine da compiangere più degli altri. L’apostolo nemmeno accetta queste supposizioni e chiude ogni possibile riserva riaffermando categoricamente la sua fede nella risurrezione (v. 20).
Vangelo: Luca 6,17.20-26
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne. Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione. Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
Esegesi
Il brano di Lc 6,20-26 è parallelo a Mt 5,1-12. Si tratta in entrambi i casi di un grande discorso programmatico di Gesù, solo che nel primo caso esso è tenuto «in un luogo pianeggiante», nel secondo «su un monte». In Matteo Gesù apre la sua predicazione, per Luca invece l’ha aperta nella sinagoga di Nazaret (4,18-22), ma con un annunzio che è identico a quello del discorso della montagna o in pianura. Anzi è più esplicito e forse più genuino.
«Lo Spirito di Dio è su di me» per questo mi ha inviato ad evangelizzare i poveri, a liberare i carcerati, gli oppressi, a guarire i ciechi, a proclamare l’anno di grazia del Signore (cf. Is 61,1-2; Lc 4,18-22).
La «buona notizia» che i poveri attendono è che la loro infelice condizione abbia a finire, non in un giorno che nessuno sa quale, ma presto, subito, si può aggiungere. «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che avete udito», dichiara Gesù ai suoi concittadini che l’ascoltano sbigottiti e offesi (4,20,28).
La povertà non è un bene che Dio ha contemplato nel suo disegno creativo; è addirittura un male, una carenza, come tale è la malattia e qualsiasi altro ostacolo che intralcia il cammino dell’uomo, destinata a scomparire. L’era messianica doveva segnare l’avvio di una siffatta realizzazione, insieme a un rinnovamento dei rapporti dell’uomo con Dio.
Il giardino delle origini (Gen 2) era per Gesù il regno dei cieli o di Dio di cui era arrivata la realizzazione.
Il programma di Gesù guarda a tutto l’uomo, al suo corpo come al suo spirito, ai rapporti con Dio ma anche con i propri simili; abbraccia tutto e tutti senza escludere nessuno, ma le sue attenzioni, quasi le sue preferenze, vanno agli umili, ai piccoli, agli indigenti, ai malati, in una parola ai «poveri», perché ne hanno più bisogno.
Anche i messi del Battista gli chiedono di qualificarsi: «Sei tu colui che deve venire o un altro?». Egli non fa che rispondere appellandosi alle stesse parole del profeta Isaia (61,1-2;26,19;29,18;35,5) e anche qui la risposta è: «I poveri sono evangelizzati» e accanto ad essi sono i ciechi, i lebbrosi, gli storpi, i sordi. In questo senso Gesù si proclama il salvatore degli uomini più che dei propri connazionali. I figli di Abramo attendono prima di tutto l’affrancamento dal giogo straniero che pesa sulle loro spalle da circa sei secoli (dal 587 a. C.), ma Gesù guarda alle aspirazioni e aspettative di tutti gli uomini: tutti egualmente figli dello stesso comune padre.
Egli è un israelita, ma la sua missione supera i confini d’Israele, come materialmente li sta superando nel corso della sua predicazione. Il suo sogno è arrivare a una convivenza tra ebrei, samaritani, fenici, greci e romani, in un regno di piena, perfetta giustizia e pace.
Il «primato» d’Israele o di qualsiasi altro popolo, come di un uomo sull’altro, è sempre satanico perché nasce dal desiderio di sopraffazione non dallo Spirito di Dio di cui egli si sente ricolmo (Lc 4,18; 1,35:3,22).
Gesù è un profeta non un dottore della legge e meno ancora uno stratega; egli cerca di aiutare gli uomini a scoprire i disegni di Dio nascosti nelle profondità del loro cuore o che si esplicano nel corso della storia.
Il messaggio che ha lasciato ai suoi ascoltatori è troppo insolito, ardito per essere subito capito ed accettato dai suoi stessi seguaci, per questo con il passare del tempo ne tentano una loro reinterpretazione. I vangeli registrano quella delle chiese di Marco e Matteo, di Luca e Giovanni.
I «poveri» da evangelizzare per Matteo sono i poveri in spirito». Essi non sono da beatificare, ma sono già beati. Nella comunità cristiana per vivere in pace, felici, occorre essere umili, spogliare «lo spirito», ossia il proprio io, da eventuali rivendicazioni, dagli stessi personali diritti. Bisogna saper tacere, anche subire; è questa la miglior medicina per risol-vere le conflittualità comunitarie, per convivere con gli altri, soprattutto con i prepotenti, i facinorosi, gli ottusi: i ricchi di spirito.
Luca invece rilegge il messaggio dell’evangelizzazione dei poveri in chiave, più che ecclesiale, cristiana. Gesù ha aperto il discorso in pianura davanti a una «gran moltitudine di gente» (v. 17), ma quando deve cominciare il proclama inaugurale restringe la sua prospettiva. «Alzati gli occhi verso i suoi discepoli» (v. 20) e «diceva» (ivi). L’imperfetto («diceva») non è casuale; vuol sottolineare che si tratta di un discorso ripetuto più di una volta, con una certa intenzionalità e insistenza. Si trattava di una proposta di Luca più che di Gesù che ai suoi ascoltatori non appariva troppo evidente.
Il messaggio originario di Gesù ha subito in Luca due gravi modifiche. I «poveri», senza distinzione, a cui si riferiva Isaia e di cui si parlava nel programma di Nazaret (4,18-22) e nella risposta ai messi del Battista, sono diventati i poveri discepoli di Gesù, in una parola i cristiani che sono oggetto di persecuzioni, confisca di beni, esilio; per questo hanno fame, soffrono, piangono.
Le promesse di Gesù non solo non si erano attuate, ma avevano provocato ai fedeli disagi e sofferenze. A questi credenti che sono in crisi per la loro fede Luca offre una rilettura del messaggio delle beatitudini spostandone la realizzazione.
Gesù nella sinagoga di Nazaret parlava di «oggi»; Luca crede forse ancora a questa perentorietà, ma preferisce spostare l’obiettivo in un tempo successivo e, alla fine, nel mondo dell’al di là.
Nella mente di Gesù il «regno dei cieli» era la realizzazione delle promesse messianiche e, come il progetto originario, prendeva avvio fin da questa terra. L’evangelista sembra saltare la fase terrestre, come farà Matteo nel discorso escatologico (25,31-46) e si porta senz’altro a quella del cielo.
Il contrasto non è tra il ieri e l’oggi, il passato e il presente, ma tra l’oggi e il domani, tra il presente e il futuro, tra il mondo attuale e quello avvenire. «Ora» avete fame, ora piangete, siete messi al bando, ma un giorno o in quel giorno, in definitiva «nei cieli», sarete saziati, riderete, vi rallegrerete, esulterete.
La vita terrestre, anche quella del cristiano, soprattutto quella del cristiano, è segnata, oltre che dalla povertà, da ingiustizie, persecuzioni, sofferenze, e la risposta che l’evangelista propone è la pazienza, la rassegnazione, nell’attesa di vedere rivalutati i diritti conculcati, in un giorno che nessuno sa qual è e nessuno sa quando verrà, ma la fede assicura che
verrà certamente.
Se poi potesse essere di conforto ai perseguitati, l’evangelista Luca, solo lui, si affretta a delineare il rovesciamento che subirà la sorte dei persecutori. E riporta quattro «Vae» (guai) o maledizioni, poste in bocca a Gesù, contro i ricchi, i sazi, quelli che ridono, che sono beati.
La storia si rovescerà; gli infelici saranno felici e i gaudenti saranno afflitti. È il mutamento che prevede il Magnificat, anch’esso un brano del Vangelo di Luca (1,46-56). La stessa cosa avverrà secondo Matteo, nel «giudizio universale»: i «benedetti» finiranno nel regno del padre, i «maledetti» nel fuoco eterno (25,34,42).
La legge del taglione vale anche nel mondo di Dio e ad applicarla è lo stesso Padre che, secondo le parole di Gesù, è capace di perdonare somme spropositate (Mt 18,27) ed è sulla soglia di casa ad aspettare ansioso il ritorno del figlio che si era smarrito (Lc 15,20).
Meditazione
La Liturgia della parola ci introduce in questa domenica nel capitolo sesto di Luca, dove incontriamo il cosiddetto Discorso della pianura, che nel terzo evangelo corrisponde, sia pure in un gioco di somiglianze e differenze, a quello che in Matteo è il Discorso della montagna. L’ambientazione è infatti diversa. Matteo fa parlare Gesù dall’alto di un monte, anzi del monte, perché non è un luogo generico, ma ben determinato, che simbolicamente evoca il Sinai, il monte su cui Mosè riceve le Dieci parole dell’Alleanza. Luca, invece, introduce il discorso precisando che Gesù, disceso con i Dodici, «si fermò in un luogo pianeggiante» (v. 17). I versetti precedenti di questo capitolo sesto, che il lezionario liturgico omette, narrano infatti che Gesù si era recato sul monte a pregare, e dopo aver passato tutta la notte in preghiera chiama a sé i discepoli scegliendone dodici, «ai quali diede anche il nome di apostoli» (v. 13). Il primo frutto della preghiera di Gesù sembra dunque essere la cosiddetta istituzione dei Dodici. Anche il Discorso della pianura pare, nella trama narrativa che l’evangelista intesse, affondare le sue radici in questa notte di preghiera solitaria. Gesù scende dal monte e inizia a parlare, aprendo il suo discorso con la grande proclamazione delle quattro beatitudini, alle quali rispondono i quattro guai.
Con questo simbolo spaziale della ‘discesa’, Luca sembra suggerirci che la pagina delle beatitudini che oggi ascoltiamo sono una parola che discende verso di noi, ci raggiunge e ci consola nei molti luoghi delle nostre povertà e delle nostre afflizioni, consentendoci di gustare quella gioia e quella pienezza di vita che provengono dall’alto, da Dio, che in Gesù è disceso verso di noi. Val la pena sottolinearlo: la proclamazione delle beatitudini germina e matura nell’intimità della relazione con il Padre che Gesù vive nella sua preghiera. Rimanendo in questo rapporto con il Padre, Gesù può comprendere più profondamente il suo modo di agire verso gli uomini, e specialmente verso i poveri, gli affamati, gli afflitti, i perseguitati.
È bene precisarlo subito: nella visione di Gesù, che tanto Matteo quanto Luca ci tramandano sia pure con accenti differenti, le beatitudini, prima ancora che essere una descrizione di come gli uomini debbano agire, verso Dio e verso gli altri, sono una rivelazione del modo di essere e di agire del Padre che è nei cieli. La struttura stessa delle beatitudini ce lo ricorda. È nel terzo elemento di ciascuna beatitudine, introdotto dal ‘perché’, che la gioia trova il suo fondamento e la sua ragion d’essere, e questo ‘perché’ fa sempre riferimento a un’azione di Dio, espressa con un verbo coniugato al passivo, che allude all’agire del Padre senza nominarlo esplicitamente. Ma è lui che dona il suo regno ai poveri, che sazia chi ha fame, che consente di ridere a chi piange, che offre nella gioia e nell’esultanza una ricompensa a chi ora è odiato, insultato, disprezzato a motivo della sua fede nel Figlio dell’uomo.
Quando Dio scende verso di noi, entra nella nostra storia, non rimane neutrale, prende posizione, e se certo il suo amore è universale, conosce comunque una predilezione, quella per i poveri e per tutti coloro che non hanno nessuno che si prenda cura della loro vita e del loro bisogno, che assuma la difesa del loro diritto ingiustamente conculcato, che offra consolazione alla loro afflizione. Se nessun altro lo fa, ecco Dio che si schiera dalla loro parte e dona una gioia che altrimenti sarebbe loro negata. Al contrario, coloro che cercano da soli, in modo autonomo e autosufficiente, una forma compiuta e felice per la propria vita, confidando nell’opera delle proprie mani, si espongono al rischio di rimanere delusi, di ritrovarsi a mani vuote. Ora ridono, confidando in se stessi, ma piangeranno, ora sono sazi, ma patiranno la fame. È questo il senso dei ‘guai’ che in Luca seguono immediatamente la proclamazione dei ‘beati’. Non vanno intesi alla stregua di una minaccia, di un giudizio o peggio di un castigo. Sono piuttosto un avvertimento profetico, attraverso il quale Gesù mette in guardia coloro ripongono la propria fiducia in se stessi. Geremia descrive questo loro atteggiamento nella prima lettura:
Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore (Ger 17,5).
Al contrario,
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia (v. 7).
Come ricorda anche il Salmo 1, cantato quale responsorio, siamo posti di fronte a due vie, a due modi contrapposti di orientare la nostra esistenza: la possiamo fondare nell’attesa confidente di ciò che Dio farà per noi, realizzando la sua promessa; oppure possiamo fondarla su noi stessi e sulle nostre ricchezze. Questa è la differenza fondamentale tra i poveri, proclamati beati, e i ricchi, ai quali è indirizzato il primo ‘guai’. Più che giudicare o punire il loro atteggiamento, Gesù intende metterli in guardia circa il pericolo della ricchezza, che nella visione di Luca è sempre iniqua, disonesta. Lo è perché non mantiene la parola data; ci fa balenare davanti agli occhi una promessa di felicità che non riuscirà a realizzare. La fame che colpirà chi ora è sazio, o il pianto che affliggerà chi ora ride, non sono da intendersi alla stregua di una sorta di castigo divino, che piomberebbe su di loro dall’alto, improvvisamente; sono piuttosto l’esito del venir meno di una promessa infondata, illusoria, come accade all’uomo che costruisce la sua casa sulla terra, senza fondamenta, anziché fondarla sulla roccia (cfr. Lc 6,48-49): la casa crolla, e chi aveva riposto in essa tutta la propria gioia si ritroverà nel pianto, nell’afflizione, senza ricompensa e senza consolazione. È significativo che tanto in Matteo il Discorso della montagna, quanto in Luca il Discorso della pianura, si aprano con le beatitudini e si concludano con la parabola dei due costruttori. La beatitudine appartiene a chi costruisce la sua vita sulla roccia della confidenza nel Signore; i guai ammoniscono invece circa il pericolo che si corre costruendo la propria vita
sulla sabbia. Costruisce sulla sabbia di chi ripone in se stesso la propria fiducia e il proprio sostegno, «allontanando il suo cuore dal Signore» (cfr. Ger 17,5-7).
Don Bosco commenta il Vangelo
Sesta domenica del tempo ordinario
Don Bosco ammonisce i ricchi
Le parole del Vangelo contro i ricchi egoisti non hanno lasciato don Bosco indifferente. Le ha citato parecchie volte, specialmente quando parla del dovere dell’elemosina.
Nel racconto intitolato Angelina o l’orfanella degli Appennini, don Bosco riporta la domanda che Angela fece al padre amante della ricchezza: “Gli domandai come intendesse quelle altre parole del Vangelo: Guai ai ricchi”. Il padre rispose per giustificarsi: “Queste cose, egli disse, bisogna che si studino, si sappiano, ma non fermarcisi troppo sopra, altrimenti fanno perdere la pace del cuore, anzi farebbero dare la volta al cervello se uno di troppo se ne desse pensiero”.
Agitata dal pensiero delle difficoltà che ha un ricco per potersi salvare, Angelina si reca poi da un sacerdote che le spiega le parole di Gesù in questo modo:
Le ricchezze sono vere spine e sorgente infausta di pericoli nella via della salvezza, e ciò pel grande abuso che per lo più se ne fa: spese inutili, viaggi inopportuni, intemperanze, balli, giuochi, oppressione dei deboli, fraudazioni della mercede agli operai, appagamenti di passioni indegne, liti ingiuste, odio, rabbia e vendette, ecco il frutto che molti raccolgono dalle loro ricchezze. Per costoro le sostanze temporali sono un gran rischio di perversione spirituale, e di costoro appunto disse il Salvatore: Guai ai ricchi. […] Ma coloro che fanno buon uso delle ricchezze […] hanno un mezzo di salvezza nella loro sostanza temporale, e sanno cangiar le ricchezze, che sono vere spine, in fiori per l’eternità (OE22 44ss).
Quando don Bosco chiedeva l’elemosina, “più che le argomentazioni teologiche potevano in tema di elemosina gl’imperativi e le minacce del Vangelo contro i ricchi”. Diceva:
Vissi tra i poveri ed ebbi pure da frequentare i ricchi. In generale io ho visto che si fa poca elemosina, e che molti signori fanno poco buon uso delle loro ricchezze. Nessuno può immaginarsi come il Signore chiederà stretto conto di quanto ha loro dato, perché si adoperasse a benefizio dei poveri.
A queste parole il suo biografo annota che don Bosco “sapeva pure come in ogni caso l’aver il cuore attaccato ai beni della terra sia di per sé un gran male, che impedisce tanti favori celesti, a cui potrebbero essere connesse la preservazione dal peccato, la grazia del pentimento e la perseveranza finale. Onde quel suo amore per le anime, che gl’ispirava eroici sacrifizi a pro della gioventù materialmente e spiritualmente bisognosa, gl’infondeva anche il non sempre piacevole coraggio d’ammonire i ricchi che dessero con larghezza” (MB15 528).
Secondo il suo biografo don Bosco “non mai adulava i ricchi o quelli posti in dignità; anzi dava loro, a tempo e luogo, ammonizioni e consigli” (MB5 324). In un discorso ai cooperatori salesiani don Bosco denunciava con forza le conseguenze della mancanza di carità da parte di chi poteva aiutare i poveri:
Coll’avarizia, coll’interesse, colla spilorceria, colla durezza di cuore, mentre lasciano crescere tanti malfattori in mezzo alle vie, mentre lasciano languire tante famiglie nel fondo della miseria e le mettono come nella dura necessità di provvedersi per forza ciò, che vien loro negato per carità, si fanno eziandio mal volere e odiare e in un subbuglio saranno essi i primi a pagarla. E poi che avverrà? In un giorno, forse non lontano, si avvereranno anche quaggiù i guai pronunziati da Gesù Cristo […] contro i ricchi senza cuore: Guai a voi, o ricchi (MB15 792).
Nel suo Cattolico provveduto leggiamo questa preghiera di un ricco pubblico impiegato che cerca altrove la vera felicità:
Voi avete voluto nascere povero sulla terra, e vivere fra ogni sorta di umiliazioni, e se a voi non piacque che in questo io vi rassomigliassi, deh! fate almeno che io nutra al pari di voi sentimenti di disprezzo per le grandezze di quaggiù, e non sia pure contro di me pronunziata quella terribile sentenza: Infelici i ricchi! infelici quelli che hanno le loro gioie su questa terra! (OE19 649).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
L’immagine della domenica
«Risuoni in voi
la causa dell’umano come causa di Dio».
(Papa Francesco)
Preghiere e Racconti
Beatitudini dell’oggi
BEATI quelli che sanno ridere di se stessi:
non finiranno mai di divertirsi.
BEATI quelli che sanno distinguere
un ciottolo da una montagna:
eviteranno tanti fastidi.
BEATI quelli che sanno ascoltare e tacere:
impareranno molte cose nuove.
BEATI quelli che sono attenti
alle richieste degli altri:
saranno dispensatori di gioia.
BEATI sarete voi se saprete
guardare con attenzione le cose piccole
e serenamente quelle importanti:
andrete lontano nella vita.
BEATI voi se saprete apprezzare un sorriso
e dimenticare uno sgarbo:
il vostro cammino sarà sempre pieno di sole.
BEATI voi se saprete interpretare
con benevolenza gli atteggiamenti degli altri
anche contro le apparenze:
sarete giudicati ingenui,
ma questo è il prezzo dell’amore.
BEATI quelli che pensano prima di agire
e che pregano prima di pensare:
eviteranno certe stupidaggini.
BEATI soprattutto voi che sapete riconoscere
il Signore in tutti coloro che incontrate:
avete trovato la vera luce e la vera pace.
Beati i miti
Il nostro campo è invaso dall’ingiustizia. Tutte le risposte del mondo all’ingiustizia sono violenza attiva o consentita. Opporvi la dolcezza del Cristo è scandalo.
Chi può misurare il coraggio richiesto a coloro che accettassero questo scandalo della mitezza? Ma c’è scandalo più grande – ed autentico, questo – dello scandalo dei cristiani che hanno lasciato a un Gandhi la responsabilità di levare nel mondo una massa di uomini che si affidavano alla forza incoercibile di quella mitezza?
E tuttavia, ancora una volta, non c’è scelta. Il Cristo “mite ed umile di cuore” è un fatto. Non possiamo né rettificarlo né adattarlo.
(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 123).
Gli infelici
Non si deve contrarre la misericordia secondo la moda del giorno. Bisogna che la presa di coscienza della infelicità economica delle masse non ci trascini a sprezzare altre forme di infelicità, a disinteressarci di queste.
La misericordia del Cristo per i poveri si inserisce in una misericordia tanto vasta quanto tutte le infelicità umane. È misericordia verso i peccatori, misericordia verso gli ammalati, misericordia verso tutti coloro che piangono i loro morti, misericordia verso i prigionieri, misericordia verso tutto ciò che è piccolo.
A motivo di una nozione materializzata della povertà si rischia assai spesso di dimenticare che vi sono altri poveri che non gli economicamente poveri, altri piccoli che non il proletariato. Vi sono ammalati morali o psicologici. Poveri di doni, di attrattive, di amore. Accanto alle classi oppresse vi sono gli “inclassificabili”.
I poveri e i piccoli non sono soltanto nel proletariato. Ed il proletariato stesso non è composto esclusivamente di militanti, quei militanti ricchi già di una speranza, di una ricchezza di cuore, di una formazione spirituale.
Il cuore del Cristo, neppure lui può essere rettificato: è di tutti, ed è a tutti che dobbiamo darlo.
Questo amore personale del Cristo “chiama ciascuno con il suo nome”, non chiama una categoria. Conosce ciascuno “come il Padre conosce il Figlio”.
Dobbiamo ritrovare quest’amore personale di qualcuno verso qualcuno. Quest’amore è mutilato dalle definizioni “sociali” che attacchiamo sui nostri fratelli ed in base a quella che diamo di noi stessi. Noi non sappiamo più incontrarci come un uomo incontra un uomo nella sua semplicità individuale. Non sappiamo più chiamarci per nome.
(Madeleine DELBRỆL, Noi delle strade, Milano, Gribaudi, 2008, 125-126).
L’insegnamento di un Maestro ebreo?
«Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il “discorso della montagna”, diceva che gli era andato dritto al cuore: “The Sermon on the Mount went straight to my heart…”. E aggiungeva: “È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù”. Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio. Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo».
(Mons. Bruno FORTE, Il discorso della montagna e il dialogo ebraico-cristiano, dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner, 18 GENNAIO 2010).
Le Beatitudini
Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.
Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.
Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).
Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.
(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato 1992,542s.).
Beati voi!
«Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.
“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.
Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.
(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella GMG 2002).
Le beatitudini e la felicità
Le beatitudini indicano il cammino della felicità. E, tuttavia, il loro messaggio suscita spesso perplessità. Gli Atti degli apostoli (20,35) riferiscono una frase di Gesù che non si trova nei vangeli. Agli anziani di Efeso Paolo raccomanda di «ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”». Da ciò si deve concludere che l’abnegazione sarebbe il segreto della felicità? Quando Gesù evoca ‘la felicità del dare’, parla in base a ciò che lui stesso fa. È proprio questa gioia – questa felicità sentita con esultanza – che Cristo offre di sperimentare a quelli che lo seguono. Il segreto della felicità dell’uomo sta dunque nel prender parte alla gioia di Dio. È associandosi alla sua ‘misericordia’, dando senza nulla aspettarsi in cambio, dimenticando se stessi, fino a perdersi, che si viene associali alla ‘gioia del cielo’. L’uomo non ‘trova se stesso’ se non perdendosi ‘per causa di Cristo’. Questo dono senza ritorno è la chiave di tutte le beatitudini. Cristo le vive in pienezza per consentirci di viverle a nostra volta e di ricevere da esse la felicità.
Resta tuttavia il fatto, per chi ascolta queste beatitudini, che deve fare i conti con una esitazione: quale felicità reale, concreta, tangibile viene offerta? Già gli apostoli chiedevano a Gesù: « E noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che ricompensa avremo?» (Mt 19,27). Il regno dei cieli, la terra promessa, la consolazione, la pienezza della giustizia, la misericordia, vedere Dio, essere figli di Dio. In tutti questi doni promessi, e che costituiscono la nostra felicità, brilla una luce abbagliante, quella di Cristo risorto, nel quale risusciteremo. Se già fin d’ora, infatti, siamo figli di Dio, ciò che saremo non è stato ancora manifestato. Sappiamo che quando questa manifestazione avverrà, noi saremo simili a lui «perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2).
9.(B. Eusebia Palomino Yenes)– “Signor mio Gesù Cristo, per quelle cinque piaghe, che l’amore verso di noi vi fece in Croce, soccorrete ai vostri servi redenti col vostro preziosissimo Sangue” (OE2 319).
10.(S. Scolastica)– Una cugina di Don Bosco era “religiosa benedettina nella Badia di Pradines (Loire)” in Francia (MB17 893).
11.(B. Vergine Maria di Lourdes)– “In quest’anno [1858] un portentoso avvenimento aveva in tutto il mondo fatto risuonare la gloria e la bontà della celeste Madre e don Bosco l’aveva narrato più volte ai suoi giovani e più tardi ne consegnava alle stampe la relazione” (MB6 90).
12. “Vi sono, è vero, molte spine, ma tu con tante chiacchiere non sei buono a prendere il martello della pazienza e confidenza e romperne la punta?” (E5 235).
13. “Chi non si cura di acquistare questa eguaglianza e questa tranquillità di spirito non avrà mai con sé lo spirito del Signore” (OE3 325).
14.(Ss. Cirillo e Metodio)– “Abbiamo pranzato […] in compagnia di un vescovo slavo. […] Oh la carità cristiana lega in un sol vincolo le anime di tutto il mondo!” (MB8 699).
15. “Il cristiano deve trattare col suo prossimo, siccome trattava Gesù Cristo coi suoi seguaci: perciò i suoi trattenimenti devono essere edificanti, caritatevoli, pieni di gravità, di dolcezza e di semplicità” (OE8 21).
(Morand Wirth)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».
Vocazione e mandato, ovvero affidamento di un compito da svolgere, nell’Antico Testamento sono sempre strettamente congiunti. Talvolta tuttavia la chiamata è semplicemente supposta ed è indicato solo il mandato di Dio all’uomo: è questo ciò che accade ad Abramo (Gn 12,1). Nel caso di Mosè, la chiamata e il mandato vengono ampiamente e di-stintamente descritti, nella lunga e drammatica cornice di una teofania (Es 3,2-4,17). Altre volte la vocazione non è affatto descritta, ma è soltanto ricordata dall’interessato (Amos 7,14-15) oppure dallo stesso Dio, p. es., nella scena che descrive ampiamente il mandato affidato al profeta Geremia (1,4-5: «La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto…»).
La chiamata di Isaia al ministero profetico richiama in qualche modo la chiamata e il mandato di Mosè descritti nel libro dell’Esodo, ma con un ritmo e un linguaggio molto più concentrati ed essenziali. Nell’uno e nell’altro caso, tutto comincia con una teofania, che sorprende gli interessati. Essi si dichiarano profondamente turbati dalla manifestazione di Dio e consapevoli della loro personale indegnità. Da questo punto in poi, le due situazioni hanno però un diverso sviluppo: Mosè continua a protestare la sua incapacità di assolvere il mandato, mentre Isaia, purificato dai carboni ardenti dell’altare, si offre con slancio come
inviato del Signore. Diverso anche, nei due casi, è il contenuto del mandato: in quello di Mosè sta in primo piano l’annunzio della vicina liberazione dalla schiavitù, in quello di Isaia sta in primo piano un annunzio di sventura, mentre è solo appena intravista la fine della sventura medesima.
Nel v. 1, il profeta ci dice che il suo ministero profetico ebbe inizio «Nell’anno in cui morì il re Ozìa (nelle traduzioni dato talvolta come Uzzia e nel libro dei Re è chiamato Azaria), cioè probabilmente tra il 740-739. Subito dopo è descritta la teofania, fino al v. 4. Emerge in questa descrizione la santità di Dio, cioè la sua trascendenza, sperimentata come incommensurabilità (i lembi del suo manto riempivano il tempio), maestà reale (seduto su un trono) e santità proclamata a cori alterni dai misteriosi serafini. Il termine «santità», oltre l’idea della trascendenza, include anche l’idea della suprema rettitudine. Ciò è indicato esplicitamente dal v. 5, nel quale è descritta la reazione del profeta, il quale dalla stessa visione di Dio è indotto a riconoscere la sua indegnità di peccatore, partecipe dei peccati del suo popolo.
Se la teofania si chiudesse con la confessione del peccato, suo effetto sarebbe la disperazione. Essa invece prosegue, nei vv. 5-7, con la descrizione di una purificazione, che è anche una santificazione aperta alla speranza.
Nel v. 8, è detto come è bastato al profeta purificato sentire che Dio cercava qualcuno da inviare come suo portavoce, perché egli si offrisse con slancio per quel compito.
Non sono poche le analogie tra questo testo del profeta Isaia e la nostra lettura evangelica.
Seconda lettura: 1Corinzi 15,1-11
Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.
Il brano della prima lettera ai Corinzi che costituisce la nostra seconda lettura contiene l’inizio della risposta di Paolo a quello che probabilmente era l’ultimo quesito postogli da quella comunità, riguardante il problema della risurrezione dei morti.
Nei vv. 1-2 c’è un moderato elogio dei Corinzi, per avere essi accolto il vangelo che egli stesso aveva loro presentato e per avere resistito a quelli che avrebbero voluto corromperlo o deformarlo. Essi hanno anche sperimentato la forza salvifica che c’è in quel vangelo.
Nei vv. 3-7, l’apostolo riassume l’insegnamento centrale del Vangelo, che egli predica, in piena concordia con la predicazione della Chiesa: che Gesù Cristo è morto per la remissione dei peccati, che fu sepolto e fu risuscitato, conformemente alle affermazioni delle Scritture, che finalmente è apparso a quelli che poi hanno testimoniato quella risurrezione: rispettando l’ordine gerarchico, vengono nominati Cefa, i Dodici, più di cinquecento fratelli e Giacomo (rappresentante dei «fratelli del Signore»). Per questo condensato del kèrigma primitivo, sono adoperati i termini tecnici ricevere e trasmettere. A questo patrimonio comune, nei vv. 8-10, Paolo aggiunge la sua personale testimonianza: anch’egli, ultimo (quasi un aborto, avendo egli prima perseguitato la Chiesa), ha visto il Signore risorto e questa apparizione ha radicalmente cambiato la sua vita, facendolo diventare un apostolo infaticabile.
La conclusione del brano, nel v. 11, è brevissima e solenne: questa e non altra è la fede di tutta la Chiesa, la fede che ha reso cristiani i destinatari della lettera di Paolo. Solo partendo da questa fede egli potrà affrontare e discutere il problema della risurrezione dei morti.
Vangelo: Luca 5,1-11
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
Esegesi
Questo testo di Luca utilizza certamente il racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che si trova in Mc 16-20 e Mt 18-22, ma non è semplicemente lo stesso racconto con qualche variazione. Direttamente, il tema del nostro brano è preannunzio del ministero apostolico di Pietro, che egli avrebbe poi svolto insieme agli altri apostoli, qui rappresentati da Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. In tal modo, il terzo vangelo ci assicura che il ministero apostolico, guidato dal gruppo dei dodici, è stato voluto e preordinato da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica e non è scaturito solo dall’entusiasmo del tempo post-pasquale. Si può pensare che sia questo il motivo per cui nel terzo vangelo non si trova il mandato con cui il Signore risorto affida agli undici la diffusione del vangelo nel mondo (Mt 28,19-20; cf. Mc 16,15) e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,21-23).
Le parole con cui Gesù esprime la sua volontà e preannunzia il ministero apostolico di Pietro e dei suoi collaboratori sono preparate da una scena d’insegnamento dello stesso Gesù e dal racconto di un miracolo.
Nella scena di insegnamento (vv. 1-3), Gesù è presentato circondato dalla folla, che vuole ascoltare da lui «la parola di Dio». Perché a tutti più facilmente arrivi quella «parola», Gesù chiede a Simone di poter utilizzare la sua barca.
Nei vv. 4-7 è raccontato il miracolo di una pesca straordinaria ottenuta su indicazione di Gesù. Il fatto appare come prodigioso, perché avvenuto su semplice segnalazione di Gesù, in condizioni normalmente sfavorevoli, cioè in pieno giorno (mentre di solito la pesca si fa di notte) e in quantità del tutto inusuale: in tal modo Gesù dimostra di avere autorità sul mare e sui pesci. Non pare che l’evangelista abbia voluto dare un valore simbolico all’avvenimento della pesca, quasi per assicurare in anticipo la fecondità dell’attività apostolica della Chiesa. Il prodigio sembra avere soltanto lo scopo di dare autorevolezza a Gesù e alle parole che egli, subito dopo, dice a Pietro. Nei vv. 8-10a, è descritto l’effetto che il prodigio produce su Pietro e i suoi collaboratori: tutti avvertono in Gesù il potere misterioso di Dio e prendono coscienza della loro fragilità peccatrice.
Nel v. l0b il racconto evangelico tocca il suo culmine, nelle parole di Gesù: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Qui propriamente non è espresso un comando o una chiamata: piuttosto, è pronunziata una profezia. È detto però che essa comincia già a realizzarsi subito, a partire da quel preciso momento. La chiamata appare così inclusa nella profezia, estendendosi anche ai collaboratori di Pietro. Si può anche notare che il termine greco adoperato per pescatore è zogròn, a cui talvolta viene dato il senso di salvare dalla morte: ciò vorrebbe dire che la profezia annunzia per Pietro e i suoi compagni una attività misteriosa al servizio della vita degli uomini.
Il v. 11 col minimo di parole, descrive l’effetto delle parole sovrane di Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».
Non si può evitare di confrontare questo testo di Luca con il racconto della apparizione di Gesù risorto presso il lago di Tiberiade, con relativa pesca prodigiosa e conclusivo mandato pastorale affidato a Pietro, che si trova nel c. 21 di Giovanni. Sono tali e tanti gli elementi di somiglianza tra i due racconti, che si è costretti a pensare di avere davanti due trasmissioni indipendenti dello stesso avvenimento. Pur con persistenti esitazioni, si può pensare che il testo di Giovanni conservi la formulazione più antica del fatto e che sia stato Luca a spostarlo dai racconti di apparizione all’inizio del ministero pubblico di Gesù. Per l’appunto nel testo di Giovanni, alla fine, appare assai chiaramente che il culmine della storia sta nel mandato affidato a Pietro di pascere, cioè curare e custodire i credenti in Cristo.
Meditazione
Sempre nella storia Dio ha chiamato uomini fragili e peccatori per affidar loro la sua parola da annunciare e per renderli partecipi del suo progetto sull’umanità. I contesti di una chiamata possono essere molto differenti e, in un certo senso, anche le modalità con cui Dio chiama sanno adattarsi all’uomo. Tuttavia nella dinamica di una vocazione ci sono delle costanti e nel narrare una chiamata la Scrittura sembra quasi seguire uno schema. C’è sempre un’esperienza di Dio da parte del chiamato che passa attraverso l’incontro con il suo volto e la sua parola. Questa esperienza, questo ‘contatto’ con Dio coinvolge totalmente colui che è chiamato, il quale sente la sua radicale lontananza da Colui che è il ‘totalmente altro’. Ma Dio quando chiama ha la potenza di cambiare radicalmente il cammino e la vita di una persona: ogni vocazione è sempre una conversione. E questo cambiamento è in vista di una missione. Possiamo scorgere questi elementi, che caratterizzano, secondo la Scrittura, la dinamica di una chiamata, nei due testi che la liturgia della Parola di questa domenica accosta e che ci fa leggere in parallelo. Si tratta del testo di Is 6,1-8, la vocazione profetica di Isaia e il suo invio al popolo di Israele, e del racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, secondo la narrazione di Lc 5,1-11. In due contesti molto diversi, la stessa parola di Dio entra nella vita dell’uomo, con essa inizia un dialogo che si trasforma in chiamata e in missione. Isaia vede qualcosa allo stesso tempo affascinate e tremendo: «vidi il Signore seduto su un trono alto… i lembi del suo manto riempivano il tempio… Santo, santo, santo il Signore degli eserciti…» (Is 6,1-3). Gesù, tra la folla che «fa ressa attorno a lui per ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,l), vede due barche e dei pescatori. Isaia sperimenta smarrimento e lontananza da questo Dio così al di là di ogni possibilità umana: «io sono perduto, perché uomo dalle labbra impure» (Is 6,5). Di fronte alla potenza della parola di Gesù, in Pietro avviene una presa di coscienza della propria povertà, del peccato che abita in lui: «Signore, allontanati da me perché sono un peccatore» (Lc 5,8). L’incontro con Dio cambia in profondità Isaia: è chiamato ad essere profeta e le sue labbra vengono purificate per una missione che Dio stesso gli affida (cfr. 6,6-8). Proprio Pietro, il peccatore, e i suoi compagni sono chiamati a diventare discepoli di Gesù e annunciatori del Regno in mezzo agli uomini: da pescatori di pesci diventano «pescatori di uomini» (Lc 5,10). Di fronte alla potenza e alla gratuità di Dio, Isaia si arrende: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). I quattro pescatori «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e seguirono Gesù» (Lc 5,11). Tenendo con-to di questa lettura parallela, ci soffermiamo ora su alcuni elementi del racconto di Luca. Luca inquadra la scena focalizzando l’attenzione su Gesù che insegna, che annuncia la parola di Dio, mentre molta folla si accalca attorno a lui per ascoltarlo. Due barche sulla riva, accanto alle quali ci sono quattro pescatori, attirano l’attenzione di Gesù: possono diventare il mezzo per rendergli più agevole la predicazione. E così sale su una barca e invita il proprietario, Simone, a scostarsi un po’ dalla riva (cfr. Lc 5,1-3). In questa descrizione emergono alcuni elementi che inquadrano la successiva scena, e soprattutto orientano la dinamica della chiamata. Tutto sembra occasionale, ma lo sguardo di Gesù guida invece ogni momento. È lui che vede le barche e i quattro pescatori. Così in mezzo a questa folla anonima, grazie allo sguardo di Gesù emergono quattro volti che entrano in relazione più diretta con lui. E tra questi volti, uno in particolare sembra catturare l’attenzione di Gesù: quello di Simon Pietro. Ma fin da questa prima scena c’è un altro elemento che farà poi da legame a vari momenti dell’episodio: è la parola di Gesù. Gesù infatti sta annunciando la parola di Dio (cfr. v. 1); è sulla parola di Gesù che Simon Pietro getterà le reti al largo (cfr. v. 5); e infine, ancora sulla parola di Gesù i quattro pescatori lasceranno tutto per seguirlo (cfr. vv. 10-11).
L’incontro diretto di Gesù con questi pescatori è caratterizzato da un ordine perentorio e apparentemente assurdo: «Prendete il largo e gettate le vostre reti per la pesca… Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (vv. 4-5). Sembra quasi che Gesù voglia fare sperimentare a questi uomini un paradosso, il quale può diventare esperienza e incontro con Dio: ciò che all’uomo è impossibile è invece possibile a Dio. Per entrare in questo ‘paradosso’, all’uomo è richiesta fede radicale e obbedienza. Infatti ciò che viene richiesto a Simon Pietro può avvenire solo sulla parola di Gesù. E il pescatore accetta questa sfida: «sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci» (v. 5-6).
Questo passaggio dall’impossibile al possibile e, più concretamente, da una pesca senza risultati alla vista di una pesca così abbondante e impensata, provoca una reazione in Simon Pietro: la presa di coscienza della distanza tra lui, peccatore, e Gesù. È il timore di fronte alla santità e alla potenza di Dio che costringe Simone a inginocchiarsi di fronte a Gesù e a riconoscere una sorta di impossibilità a stargli vicino: «si gettò alle ginocchia… allontanati da me; perché sono un peccatore» (v. 8).
Ma proprio una nuova parola di Gesù supera questa distanza, altrimenti incolmabile per l’uomo. Gesù non solo non si allontana da Simon Pietro, ma si avvicina e con la sua parola lo chiama a stare con lui: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). La parola di Gesù opera una conversione di Simon Pietro e dei suoi compagni, cambiandone l’identità (‘pescatori di uomini’) e il cammino (‘d’ora in poi sarai’). Anche qui a Pietro e agli altri viene richiesta obbedienza e fede (‘non temere…’) che passano attraverso un radicale distacco da ogni certezza, da un passato conosciuto, per camminare dietro a Gesù fidandosi solo di lui e della sua parola: «e, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».
Ma forse uno dei cambiamenti più paradossali sta proprio nella missione che Gesù affida a questi pescatori: «d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). Simon Pietro e gli altri restano ancora pescatori; ma non cattureranno più pesci ma «prenderanno uomini per la vita» (questo è il significato letterale dell’espressione usata da Luca). Come Gesù e con Gesù, saranno chiamati a incontrare uomini e a comunicare loro la vita mediante l’annuncio dell’evangelo. «A voi infatti ho trasmesso – dirà Paolo ai Corinzi – quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che è apparso a Cefa e quindi ai dodici» (1Cor 15,3-5).
Questi ‘pescatori di uomini’ dovranno andare sempre di più al largo (e Luca narra questo straordinario viaggio al largo nel libro degli Atti) e continuare a gettare le reti ‘sulla parola di Gesù’. In questo simbolico viaggio in mare aperto, tanti altri uomini e donne si uniranno a questo piccolo gruppo. E questa comunità senza confini non è altro che la Chiesa di ogni tempo che continua a prendere nelle reti della parola l’umanità per consegnarla alla vita.
Don Bosco commenta il Vangelo
Quinta domenica del tempo ordinario
Don Bosco ci parla di Pietro
Gesù sceglie la barca di Pietro per parlare alle folle, nota don Bosco con compiacenza: “Gesù vide due barche accostate alla sponda. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca”. Nella sua Vita di san Pietro, don Bosco racconta che “per dare a Pietro un novello attestato della stima che aveva per la sua persona scelse la barca di lui e non quella di Zebedeo” (OE8 308). Poi continua ricordando che “i santi Padri nella nave di Pietro ravvisano la Chiesa di cui è capo Gesù Cristo, in luogo del quale Pietro doveva essere il primo a farne le veci, e dopo lui tutti i papi suoi successori” (OE8 311).
Spetta al solo Pietro di condurre la nave in alto mare. Infatti, dopo aver insegnato alle folle dalla barca, Gesù disse a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Gesù si rivolge prima a Pietro e poi a tutti. Su questa distinzione si basa questo piccolo commento offerto da don Bosco sempre nella sua Vita di san Pietro:
Le parole dette a Pietro “conduci la nave in alto mare”, e le altre dette a lui e a tutta la comitiva “spiegate le vostre reti per prendere pesci”, contengono pure un nobile significato. A tutti gli apostoli, dice sant’Ambrogio, comanda di gettare nelle onde le reti, perciocché tutti gli apostoli e tutti i pastori sono tenuti a predicare la divina parola, e a custodire nella nave, ovvero nella Chiesa, quelle anime che avrebbero guadagnato colla loro predicazione. Al solo Pietro poi si ordina di condurre la nave in alto mare, perché egli solo a preferenza di tutti vien fatto partecipe della profondità dei divini misteri; solo riceve da Cristo l’autorità di sciogliere le difficoltà che possono insorgere in cose di fede. Onde è che nella venuta degli altri pescatori alla nave di lui viene riconosciuto il concorso degli altri pastori, i quali unendosi a Pietro lo aiutano a propagare e conservare la fede nel mondo, e guadagnare anime a Cristo (OE8 311s).
Pietro ebbe fiducia nella parola di Gesù, rileva don Bosco nel capitolo secondo della Vita di san Pietro prima di raccontare la storia della pesca miracolosa:
Dopo la predica ordinò a Pietro di condurre la nave in alto mare, di gettare la rete e pescare. Pietro aveva passata tutta la notte precedente a pescare in quel medesimo luogo, e non aveva preso niente, e quasi pieno di stupore voltosi a Gesù: “Maestro, gli disse, noi ci siamo affaticati tutta la notte pescando e non abbiamo preso neppure un pesce; contuttociò sulla vostra parola getterò in mare la rete”. Così egli fece, e contro ad ogni aspettazione la pesca fu tanto copiosa e la rete così piena di grossi pesci che tentando di trarla fuori dalle acque stava per lacerarsi. Tanto è vero che coloro i quali confidano in Dio non sono mai confusi (OE8 308s).
La pesca miracolosa fatta da Pietro è diventata uno dei simboli della Chiesa. Nel primo capitolo della Vita de’ sommi pontefici S. Lino, S. Cleto, S. Clemente intitolato “Della Chiesa e dei suoi vari nomi”, don Bosco cita infatti “la pesca copiosa che il Salvatore fece fare ai suoi apostoli”, per significare “la grande estensione della Chiesa, la sua unità, la moltitudine e la differenza dei membri che la compongono, cioè i buoni ed i cattivi” (OE9 343).
In seguito alla reazione di Pietro dopo la pesca miracolosa, don Bosco sottolinea le qualità di quest’uomo apprezzate da Gesù stesso:
Gesù gradì la semplicità di Pietro e l’umiltà dei suoi sentimenti, e volendo che egli aprisse il cuore a più grandi speranze, per confortarlo gli disse: “Deponi ogni timore, da qui innanzi non sarai più pescatore di pesci, ma sarai pescatore di uomini”. A questo parlare Pietro riprese animo e quasi cambiato in un altro uomo condusse la nave al lido, abbandonò ogni cosa, e si pose perfettamente alla sequela del Redentore (OE8 310).
A ciascuno di noi don Bosco sembra voler dire di imitare i sentimenti di Pietro, di seguire Gesù come lui e di aver fiducia nei suoi successori a capo della Chiesa.
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
L’immagine della domenica
PARCO DELLE VALLI (CONCA D’ORO-ROMA) – 2021
«Amami quando meno lo merito, perché sarà quando ne avrò più bisogno».
(Gaio Valerio Catullo)
Preghiere e racconti
Chiamati a qualcosa di più
L’insuccesso mostra all’uomo lo scarto tra l’infinità dei suoi desideri e la possibilità di realizzarli. La pesca infruttuosa suscita nei discepoli l’amara sensazione che non basta dire di andare a pescare per riuscire a pescare. C’è uno scarto tra la potenza dei desideri e la loro realizzazione effettiva. Quanti sogni di gioventù restano castelli in aria proprio per lo scarto tra ciò che noi vorremmo essere nella vita e ciò che poi si realizza! Vorremmo essere come il tale o il tal’altro, il nostro “io ideale” si proietta e alla fine vediamo che c’è una differenza enorme; l’insuccesso mostra la distanza tra l’infinità dei desideri e la possibilità di realizzarli.
La pesca infruttuosa diventa il simbolo di questo scarto, ed è una delusione salutare perché ci permette di riappropriarci con ordine dei nostri desideri. Ma può essere anche molto pericolosa: scatena reazioni negative e drammatiche.
Ricordo il caso di un uomo molto per bene che non riuscì ad accettare l’umiliazione di essere retrocesso nella carriera e per questo giunse a uccidere. L’insuccesso aveva provocato in lui lo scatenamento di desideri, che c’erano ma che prima riusciva a dominare perfettamente. È un’immagine di ciò che l’insuccesso provoca, per la violenza delle forze che si agitano dentro di noi, e che gli antichi chiamavano le passioni dell’uomo. Le passioni non sono soltanto la sensualità; sono anche l’invidia, l’ambizione, l’orgoglio e i risentimenti più forti; come pure sono passioni l’amore, la fedeltà, l’impegno, il coraggio, l’entusiasmo e la perseveranza. Queste sono le forze dell’uomo che dobbiamo imparare a conoscere e a dominare.
Anche se non arriviamo a casi drammatici, dobbiamo però dire che la pesca infruttuosa si ripete spesso nella nostra vita. Viene ad esempio, magari in giovanissima età, una malattia che immobilizza ed ecco tutta una serie di sogni che crollano. E uno passa due, tre, quattro anni prima di riuscire, se riesce, a ricomporre la profondità dei suoi desideri con la realtà che sta vivendo. Conosco situazioni in cui da questa ricomposizione è venuta fuori una forza speculare formidabile. Ma quanta fatica per arrivare a questa ricomposizione! Anche un’amicizia che sfuma è spesso fonte di grande delusione; un posto non ottenuto, un posto di lavoro sul quale avevamo puntato, soprattutto in situazioni in cui c’è una carriera quasi obbligata. È la notte sul lago di Tiberiade. E il Vangelo non dice tutto; ma quando cominciavano a tirar su la rete vuota, sarà cominciata la litania delle colpe: «È colpa tua, quanto mai siamo venuti, chi ci ha fatto uscire, chi ha avuto questa idea». Cioè vengono fuori tutti i sentimenti negativi.
Dobbiamo riflettere per capire, come gli apostoli, che in fondo l’importante non è “andare a pescare”, che si è chiamati a qualcosa di più grande e che il Signore può farci conoscere quel “qualcosa di più” attraverso l’insuccesso.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 42-43).
Da peccatore a pescatore (Lc 5,1-11)
Quando finisce di parlare, Gesù da un ordine a Simone: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca » (Lc 5, 4). E Simone risponde: «Signore, avendo faticato tutta la notte nulla abbiamo preso» (Lc 5,5): il verbo usato da Luca è kopiasantes (part. aor. di kopiao), che in Atti si riferisce alla fatica apostolica, la fatica di annunciare il Vangelo. È la fatica di chi, pur avendo speso molte energie, pur avendo messo in opera tutte le proprie forze, non ottiene alcun risultato. E Simone decide di rischiare ancora una volta, di ignorare la fatica che lo opprime, di rischiare il ridicolo: «ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5). È l’immagine dell’Apostolo che supera la prova di fiducia, che non cade nella delusione e nella disperazione, ma trova la forza di provarci ancora una volta… «sulla tua parola».
Simone diventa immagine dell’uomo che rischia se stesso anche in situazioni piccole ma che esigono decisione e coraggio. Santo è colui che sa rischiare, che si butta fuori, che non agisce in base a ragionamenti soltanto di convenienza. Non sarà la sola fatica umana, neanche il calcolo o gli interessi ma l’amore che permetterà a Pietro di buttarsi, di andare fuori, di saper rischiare con e per Gesù. E Gesù ripaga la fatica di Simone: «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano» (Lc 5,6).
Giunti a riva, Simone davanti a tutta la folla «si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”» (Lc 5,8). La potenza della parola di Gesù gli ha aperto gli occhi sulla propria condizione di peccatore. Posto dinanzi alla potenza di Gesù, Simone riconosce la propria fragilità e trova la sua autorealizzazione. E Gesù, accogliendo il peccatore, lo trasfigura in… pescatore di uomini!
La chiamata dei primi discepoli
Nella liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca presenta il racconto della chiamata dei primi discepoli, con una versione originale rispetto agli altri due Sinottici, Matteo e Marco (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20). La chiamata, infatti, è preceduta dall’insegnamento di Gesù alla folla e da una pesca miracolosa, compiuta per volontà del Signore (Lc 5,1-6). Mentre infatti la folla si accalca sulla riva del lago di Gennèsaret per ascoltare Gesù, Egli vede Simone sfiduciato per non aver pescato nulla tutta la notte. Dapprima gli chiede di poter salire sulla sua barca per predicare alla gente stando a poca distanza dalla riva; poi, finita la predicazione, gli comanda di uscire al largo con i suoi compagni e di gettare le reti (cfr v. 5). Simone obbedisce, ed essi pescano una quantità incredibile di pesci. In questo modo, l’evangelista fa vedere come i primi discepoli seguirono Gesù fidandosi di Lui, fondandosi sulla sua Parola, accompagnata anche da segni prodigiosi. Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo «Maestro» (v. 5), mentre dopo lo chiama «Signore» (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (v. 5).
L’immagine della pesca rimanda alla missione della Chiesa. Commenta al riguardo sant’Agostino: «Due volte i discepoli si misero a pescare dietro comando del Signore: una volta prima della passione e un’altra dopo la risurrezione. Nelle due pesche è raffigurata l’intera Chiesa: la Chiesa come è adesso e come sarà dopo la risurrezione dei morti. Adesso accoglie una moltitudine impossibile a enumerarsi, comprendente i buoni e i cattivi; dopo la risurrezione comprenderà solo i buoni» (Discorso 248,1). L’esperienza di Pietro, certamente singolare, è anche rappresentativa della chiamata di ogni apostolo del Vangelo, che non deve mai scoraggiarsi nell’annunciare Cristo a tutti gli uomini, fino ai confini del mondo. Tuttavia, il testo odierno fa riflettere sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Essa è opera di Dio. L’uomo non è autore della propria vocazione, ma dà risposta alla proposta divina; e la debolezza umana non deve far paura se Dio chiama. Bisogna avere fiducia nella sua forza che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova.
Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto. Confidiamo anche nell’intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli. Alla chiamata del Signore, Ella, ben consapevole della sua piccolezza, rispose con totale affidamento: «Eccomi». Col suo materno aiuto, rinnoviamo la nostra disponibilità a seguire Gesù, Maestro e Signore.
(Benedetto XVI, Prima dell’Angelus,10.02.2013).
Come Pietro i cristiani credono nell’amore del Signore
Un gruppetto di pescatori delusi da una notte intera di inutile fatica, ma proprio da là dove si erano fermati il Signore li fa ripartire. E così fa con ogni vita: propone a ciascuno una vocazione, con delicatezza e sapienza, come nelle tre parole a Simone:
– lo pregò di scostarsi da riva: Gesù prega Simone, chiede un favore, lui non si impone mai;- non temere: Dio viene come coraggio di vita; libera dalla paura che paralizza il cuore;- tu sarai: lo sguardo di Gesù si dirige subito al futuro, intuisce in me fioriture di domani; per lui nessun uomo coincide con i suoi limiti ma con le sue potenzialità.
Sono parole con le quali Gesù, maestro di umanità, rimette in moto la vita ed è per questo che è legittimato a proporsi all’uomo, perché parla il linguaggio della tenerezza, del coraggio, del futuro. Simone è stanco dopo una notte di inutile fatica, forse vorrebbe solo ritornare a riva e riposare, ma qualcosa gli fa dire: Va bene, sulla tua parola getterò le reti.
Che cosa spinge Pietro a fidarsi? Non ci sono discorsi sulla barca, solo sguardi. Per Gesù guardare una persona e amarla erano la stessa cosa. Pietro in quegli occhi ha visto l’amore per lui. Si è sentito amato, sente che la sua vita è al sicuro accanto a Gesù, che il suo nome è al sicuro su quelle labbra. I cristiani sono quelli che, come Simone, credono nell’amore di Dio (1Gv 4,16). E le reti si riempiono. Simone davanti al prodigio si sente stordito, inadeguato: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore.
Gesù risponde con una reazione bellissima, una meraviglia che m’incanta. Trasporta Simone su di un piano totalmente diverso, sovranamente indifferente al suo passato e ai suoi peccati, lui non si lascia impressionare dai difetti di nessuno, pronuncia e crea futuro: Non temere. Sarai pescatore di uomini. Li raccoglierai da quel fondo dove credono di vivere e non vivono; mostrerai loro che sono fatti per un altro respiro, un altro cielo, un’altra vita! Li raccoglierai per la vita.
Quando si pescano dei pesci è per la morte. Ma per gli uomini no: pescare significa catturare vivi, è il verbo usato nella Bibbia per indicare coloro che in una battaglia sono salvati dalla morte e lasciati in vita (Gs 2,13; 6,25; 2Sam 8,2… ). Nella battaglia per la vita l’uomo sarà salvato, protetto dall’abisso dove rischia di cadere, portato alla luce.
E abbandonate le barche cariche del loro piccolo tesoro, proprio nel momento in cui avrebbe senso restare, seguono il Maestro verso un altro mare. Senza neppure chiedersi dove li condurrà. Sono i «futuri di cuore». Vanno dietro a lui e vanno verso l’uomo, quella doppia direzione che sola conduce al cuore della vita.
(Ermes Ronchi)
“Duc in altum!”
Siamo sempre agli inizi della predicazione e dell’attività di Gesù e anche Luca colloca in questo esordio del ministero pubblico del profeta di Galilea la chiamata dei primi discepoli. Rispetto però al vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,16-20), ripreso negli stessi termini da Matteo (cf. Mt 4,18-22), Luca dà una lettura più teologica della vocazione. Il racconto si arricchisce di particolari, è espresso con un’ottica diversa, sicché già qui vi è un messaggio che riguarda la teologia della chiesa.
Gesù svolgeva il suo ministero soprattutto nelle città e nelle campagne attorno al lago di Tiberiade (o di Gennesaret), quale profeta continuava a dispensare la parola di Dio ad ascoltatori che aumentavano ogni giorno, fino a diventare una vera e propria folla che faceva ressa, premendo per stargli vicino e raccogliere le sue parole. In quella calca, Gesù vede due barche ormeggiate sulla spiaggia, perché i pescatori erano scesi e stavano pulendo le reti dai detriti risaliti dalle acque del lago insieme ai pesci.
Pensa allora di salire su una delle due barche, quella appartenente a Simone, e lo prega di allontanare un po’ la barca da riva, così da farne una sorta di ambone da cui proclamare la parola di Dio. La scena è di per sé eloquente: Gesù “parla la Parola” e come seme la getta verso terra (la spiaggia) nel cuore degli ascoltatori lì radunati (cf. Lc 8,4-15); ciò che nella sinagoga è un ambone solenne, una cattedra, qui è la barca di Simone…
Non appena ha terminato quell’omelia, quell’insegnamento, Gesù passa dalle parole all’evento: chiede a Simone di “prendere il largo” (“Duc in altum!”, nella Vulgata) – cioè di abbandonare con coraggio e speranza le acque quiete dell’insenatura per inoltrarsi in mare aperto – e di gettare le reti in mare. Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha tentato la pesca senza ottenere risultati.
Tuttavia quel Gesù che ha parlato lo ha impressionato per la sua exousía; è un uomo affidabile – pensa –, che merita obbedienza, dunque gli risponde: “Maestro, … sulla tua parola getterò le reti”. Eccolo dunque avanzare verso le acque profonde, verso l’abisso (eis tò báthos), senza timore, munito solo della fiducia nella parola di quel profeta.
Il risultato è immediato, sbalorditivo: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”. Da dove viene questo successo, se per tutta la notte questi uomini hanno faticato invano? Dalla fede-fiducia nella parola di Gesù!
C’è qui una profezia per ogni “uscita”, per ogni missione della chiesa: deve essere sempre fatta su indicazione di Gesù, va eseguita con fede piena nelle sua parola, altrimenti risulterà sterile e inutile. Non era bastata la loro competenza di pescatori, non era risultata feconda la loro fatica, ma tutto muta se è Gesù a chiedere, a guidare, ad accompagnare la missione.
Questo segno stupisce Simone, che subito cade ai piedi di Gesù in atto di adorazione; nello stesso tempo, percependosi nella condizione di uomo peccatore, chiede a Gesù di stare lontano da lui. Accade cioè nel cuore di Pietro la rivelazione che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Kýrios, il Signore, mentre egli è solo un misero, un peccatore, indegno di tale relazione con Gesù.
È la stessa reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” (cf. Is 6,1) e si sente costretto a gridare: “Guai a me, uomo dalle labbra impure!” (Is 6,8; Is 6,1-2a.3-8 è la prima lettura di questa domenica); è la reazione di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso.
Qui c’è Gesù, un uomo, un profeta su una barca, eppure Pietro ha compreso la sua identità: Gesù è “il Santo di Dio” – come Pietro stesso confessa esplicitamente altrove (Gv 6,69) –, mentre egli è un peccatore e dovrà sentirsi tale per tutta la vita, in tante occasioni. E quando dimenticherà di essere peccatore, il canto del gallo glielo ricorderà: il gallo canterà tre volte, così come lui tre volte aveva gravemente peccato, dicendo di non avere mai conosciuto né avuto rapporti con l’uomo (cf. Lc 22,54-62) di cui qui riconosce la santità e che più tardi confesserà “Messia di Dio” (Lc 9,20).
Stupore e tremore per Pietro, dunque, ma anche per i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Si intravede già quel gruppetto di tre che saranno i più vicini a Gesù: erano discepoli amati, non prediletti, non amati più degli altri, perché l’amore, quando è vivo ed è in azione, non è mai uguale nel manifestarsi.
Certo, amati da Gesù come gli altri, ma partecipi all’intimità della sua vita in modo diverso, poiché muniti di doni diversi rispetto agli altri: non a caso saranno scelti da Gesù quali testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,51-55), testimoni della gloriosa trasfigurazione dell’aspetto di Gesù sull’altro monte (cf. Lc 9,28-29), testimone della sua de-figurante passione nel giardino degli Ulivi (secondo Mc 14,33 e Mt 26,37).
Saranno coinvolti con Gesù nella sua gloria e nella sua miseria, dunque sempre in ansia, sempre chiamati alla vigilanza, di cui non sono capaci (cf. Lc 22,45-46 e par.), sempre chiamati a una fedeltà che però viene meno, a causa del rinnegamento (cf. Lc 22,54-62) o della fuga (cf. Mc 14,50; Mt 26,56).
Secondo Luca qui Gesù consegna a Pietro la vocazione: “Non temere, d’ora in poi tu prenderai, catturerai vivi degli uomini”. Ovvero, “d’ora in poi è tuo compito andare negli abissi, al largo, per salvare uomini preda del male, per salvarli da abissi infernali, da strade perdute. I pesci muoiono, gli uomini sono invece destinati alla vita eterna!”.
Non si pensi subito alla missione come a un causare la conversione, ma a un annuncio di salvezza, quello che Gesù aveva illustrato di sé nella sinagoga di Nazaret, leggendo un brano del profeta Isaia e dichiarando realizzata quella profezia: liberare i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, redimere gli oppressi, annunciare ai poveri la buna notizia del Vangelo (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2).
La chiesa, quando va in missione, non va innanzitutto per fare cristiani, per aumentare il numero dei suoi membri, per battezzare, ma in primis per un’azione di liberazione dei bisognosi. Se fa questo, annuncerà il Signore Gesù e, se Dio vorrà, ci saranno conversioni e partecipazione ecclesiale. Attenzione però a non capovolgere la realtà determinata dal Signore, cercando risultati, opere visibili delle nostre mani. Ecco allora avvenire il mutamento decisivo:
“Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.
Ormai non sono più addetti alla barca, alla pesca, al loro mestiere, ma tutte queste cose sono abbandonate per sempre sulla riva del lago. Ora è avvenuto il “sì”, l’“amen” al profeta Gesù, affidabile e dunque autorevole: vale la pena seguirlo e fondare la propria vita sulla sua parola. Luca ha utilizzato la metafora della pesca – come accade altre volte nei vangeli – per dirci una cosa semplice: quando Gesù chiama, trasforma quello che facciamo, e questa trasformazione richiede un abbandono di ciò che eravamo e una novità di vita, di forma di vita, nel futuro che si apre davanti a noi.
(Enzo Bianchi)
Sono pronta a partire
«Sono pronta a partire,
e il mio desiderio con vele spiegate aspetta il vento.
Solo un altro respiro respirerò in quest’aria calma,
solo un altro sguardo d’amore
volgerò all’indietro,
e poi sarò tra voi, un navigante tra naviganti.
E tu vasto mare, madre insonne,
unica pace e libertà per fiumi e rivi
solo un’altra svolta farà questa corrente,
solo un altro mormorio in questa radura,
e poi io verrò da te,
una goccia sconfinata in uno sconfinato oceano»
Tuffati profondo!
La perla di gran prezzo
giace nascosta giù nel profondo.
Come un pescatore di perle,
anima mia, tuffati,
tuffati profondo,
tuffati ancora più profondo e cerca!
Può darsi che non trovi nulla
la prima volta,
Come un pescatore di perle, anima mia,
senza stancarti, persisti e persisti ancora,
tuffati profondo, sempre più profondo,
e cerca!
Quelli che non conoscono il segreto
si prenderanno gioco di te
e tu ne sarai rattristata.
Ma non perderti di coraggio,
pescatore di perle, anima mia!
La perla di gran prezzo
è proprio nascosta là
nascosta proprio in fondo.
E’ la tua fede
che ti aiuterà a trovare il tesoro,
è essa che permetterà
che ciò che era nascosto
sia finalmente rivelato.
Tuffati profondo,
tuffati ancora più profondo,
come un pescatore di perle, anima mia,
e cerca, cerca senza stancarti.
(Swami Parmánanda).
«Amore»
Il Signore ha bisbigliato una parola all’orecchio di un fiore e questo si è aperto in tanti petali colorati.
Il Signore ha bisbigliato una parola ad una pietra, e questa ha assunto i colori iridescenti e le sfumature del diamante.
Il Signore ha bisbigliato una parola al ruscello, ed esso è sgorgato con la freschezza di una sorgente d’acqua viva e perenne.
Il Signore, alla fine, si è chinato all’orecchio dell’uomo e gli ha sussurrato dolcemente una sola parola: amore.
(Gilal Ed-Din Rumi, monaco sufita del XIII secolo).
Solo Gesù può liberarmi totalmente
Nel Nuovo Testamento
la presenza di Gesù
con le sue parole e i suoi gesti
diviene una fonte inesauribile
d’ispirazione per la preghiera:
è Gesù che mi si accosta e m’interpella.
Gesù è il Buon Pastore
alla ricerca della pecora smarrita,
e io lo seguo.
Gesù è la vigna;
Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati
perché io possa dare buoni frutti.
Alla moltiplicazione dei pani,
è Gesù che m’invita
a offrirgli la mia povertà
– cinque pani e due pesci –
perché egli se ne serva
per compiere meraviglie.
Alla pesca miracolosa,
è Gesù che mi chiede
una fiducia assoluta nella sua parola
più che nei miei mezzi umani.
In occasione di numerose guarigioni,
Gesù mi rammenta
che lui solo può liberarmi totalmente.
(Jean -Jacques Gareau).
Preghiera
Signore Gesù,
Tu ci chiami a seguirTi,
nel Tuo cammino di croce;
Tu sconvolgi i nostri sogni
e i nostri progetti:
eppure, Tu sei la nostra pace…
Accettaci con le nostre paure
e le esitazioni del cuore;
accogli il nostro umile amore,
capace di darTi soltanto
il poco che siamo.
ConvertiTi a noi, Signore,
e noi ci convertiremo a Te,
lasciandoci condurre
dove forse non avremmo voluto,
ma dove Tu ci precedi
e ci attendi,
perforo delle povere storie
della nostra vita
e del nostro dolore
la Tua storia con noi.
Amen. Alleluia.
(Bruno Forte)
La Settimana con don Bosco
2.(Presentazione del Signore)– La festa della Candelara “si celebra il due febbraio in onore della presentazione di Gesù Cristo al tempio; così detta dalle candele che in quel giorno si benedicono e si portano in processione” (OE24 396).
3.(S. Ansgario)– (S. Biagio)– “Pregate san Biagio che vi liberi da tutti i mali di gola materiali e spirituali” (MB8 32).
4. “Recitiamo cinque Pater alle piaghe di Gesù Cristo, affine di ottenere che niuno di quelli che muoiono in questo giorno vada all’inferno” (OE3 467).
5.(S. Agata)– Questa santa vergine “confessò con gran coraggio la fede di Gesù Cristo, e protestò di non conoscere nobiltà più gloriosa, né libertà più vera di quella di essere serva di Gesù Cristo” (OE12 25).
6.(S. Paolo Miki e comp.)– “Sarà sempre caro alla memoria dei fedeli il giorno 8 giugno 1862, nel quale 26 eroi della fede, martirizzati nel Giappone, furono innalzati agli onori degli altari” (OE24 358).
7.(B. Pio IX)– “Oh Pio IX! Sublime e cara figura di Pontefice! Chi è di noi che dopo essere stato rapito per lo spazio di quasi trentadue anni allo splendore di tue angeliche virtù, possa ora ripetere il venerato tuo nome senza sentirsi tutto commosso nel più profondo del cuore?” (OE30 434).
8.(S. Giuseppina Bakhita)–(S. Girolamo Emiliani) “Chi fu che cominciasse a radunare fanciulli poveri ed abbandonati, a dar loro col pane del corpo il pane dell’intelligenza e dell’anima se non un prete cattolico, san Gerolamo Emiliani?” (OE15 450).
(Morand Wirth)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
Così dice il Signore Dio: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia.Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani».
Malachia, che in ebraico significa «messaggero del Signore», è il profeta che annuncia «il giorno del Signore» (cioè della sua venuta e del suo giudizio di salvezza o di condanna) e che ravviva la speranza messianica. Il Messia va atteso con le migliori disposizioni. Il suo avvento e l’incontro con lui vanno preparati. Malachia esprime tutto ciò attraverso le immagini del «preparare la via», del «fuoco» che purifica e «dell’oro e dell’argento affinati».
«Preparare la via» è un tema caro ai profeti. Il secondo Isaia (cc. 40-55) esorta il popolo biblico ad avere fiducia in JHWH, perché egli aprirà a Israele una strada nel deserto per facilitarne il ritorno nella terra promessa dopo l’esilio babilonese. E anche un tema caro ai Vangeli sinottici, che vedono nel Battista colui che «prepara» (con la sua predicazione e il suo severo stile di vita) la strada al Messia che viene. Il messaggio di questa immagine è chiaro: per incontrare il Messia occorre convertirsi, cambiare stile di vita, assumere comportamenti e atteggiamenti ispirati alla Parola del Signore, che orienta tutta la vita del credente.
L’immagine del «fuoco» esprime un duplice significato: da una parte esso è il simbolo della presenza di Dio, che illumina e riscalda l’uomo e il suo mondo; dall’altra esprime, con la forza intensa del suo calore, l’incapacità dell’uomo di stare davanti a Dio, quasi venisse respinto dal suo fulgore a motivo della propria indegnità («Chi resisterà al suo apparire?»).
L’affinamento dell’oro e dell’argento indica, nel suo simbolismo, il processo di purificazione e di conversione che la Parola di Dio sa operare nel cuore dell’uomo. I peccati, i vizi, le incorrispondenze, le chiusure dell’uomo sono tanti, ma la Parola di Dio come ha la forza di denunciarli, così sa anche eliminarli e annientare come scorie, per far apparire la luminosità dell’uomo che sa vivere secondo Dio.
Il brano si conclude con il richiamo all’«oblazione secondo giustizia». Questo è un richiamo frequente nei Profeti. L’uomo che si converte, che prepara la via al Signore, che accoglie il programma di vita a lui offerto dalla Parola di Dio, che agisce per amore e respinge ogni egoismo è veramente in grado di offrire un culto e una preghiera graditi a Dio.
Seconda lettura: Ebrei 2,14-18
Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.
La lettera agli Ebrei è una intensa omelia che intende rafforzare nei credenti la fiducia verso il Signore Gesù che, nella sua umanità, è stato in tutto solidale con noi, e, nella sua divinità, ha il potere di vincere tutto il male e tutte le angosce del credente. Secondo l’autore di questo scritto il culmine della solidarietà con la condizione dell’uomo si ha nell’accettazione, da parte di Gesù, della morte stessa. Ciò lo ha reso «in tutto simile ai fratelli». È con la sua morte, infatti, che Gesù libera anche noi dalla paura della morte, dalla schiavitù di dover morire, perché con la Pasqua essa non è più un non senso o un qualcosa di fatale e ineludibile, ma è superata e trasformata dalla risurrezione.
Secondo l’autore, inoltre, Gesù incarna l’ideale del «sommo sacerdote». Questa figura, centrale in Israele, trova la sua pienezza in Gesù, perché la sua morte ha espiato il peccato del mondo definitivamente (mentre in Israele l’espiazione con il sangue degli animali e con i loro sacrifici non era in grado di espiare definitivamente) e perché nella sua sola persona di Sacerdote-Crocifisso-Risorto avviene il vero culto gradito a Dio.
I credenti, perciò, devono dare piena fiducia a Cristo Gesù: egli è in tutto solidale con loro e, solamente sapendosi inserire nella sua persona glorificata, è possibile rendere a Dio il culto più gradito e perfetto.
Vangelo: Luca 2,22-40
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
Esegesi
Nel suo contesto storico il brano evangelico è da collocare nella tradizione religiosa della famiglia ebraica. Come tutte le madri, anche Maria obbedisce alla prescrizione biblica che imponeva un rito di purificazione, dopo 40 giorni dal parto. Infatti si legge in Lv 12,2-5: «Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatrè giorni a purificarsi del suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma se partorisce una femmina sarà immonda due settimane… resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue».
Questo rito è da collegare alla mentalità degli antichi, i quali vedevano nel parto qualcosa che produceva un impedimento (non morale, ma rituale) al culto.
Al rito della purificazione seguiva il riscatto del primogenito. Secondo la fede biblica il figlio primogenito era ritenuto proprietà di Dio; i genitori lo «riscattavano» con un sacrificio di un agnello o con l’offerta di una coppia di tortore o giovani colombi, se poveri (Lv 12,6.8: «Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote, all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio di espiazione. Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espiatorio»). Così potevano considerare il figlio come loro proprietà (Es 13,12- 13: «Tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore… Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i suoi figli»).
Applicato a Gesù il termine «primogenito» (protòtokos in greco; mentre Giovanni usa l’inequivocabile monoghenés, «unigenito») non deve far pensare che Maria abbia avuto altri figli, ma rimanda alla grande considerazione che la tradizione ebraica ha per il figlio che avrebbe continuato il nome dei genitori e garantito l’inserimento della famiglia nella linea delle promesse e delle benedizioni messianiche.
Nel contesto del Vangelo di Luca, questo brano è da leggere alla luce di alcuni temi che caratterizzano il terzo evangelista.
Innanzitutto il tempio. Gesù viene offerto da piccolo nel tempio, anticipando così la sua continua offerta al Padre, compiendone sempre la volontà. Poi Gerusalemme, intesa non tanto come luogo geografico, ma come «luogo» della salvezza definitiva, punto di arrivo del nuovo esodo compiuto da Gesù. Vi è inoltre il tema dello Spirito Santo che, nel Vangelo di Luca e negli Atti, è la guida della storia della salvezza e il vero protagonista dei momenti che più la caratterizzano (come i gesti e le parole di Simeone e Anna). E infine il tema della croce. Il Bambino che entra nel tempio è già il Crocifisso e il Risorto, che addita ai discepoli e a Maria per prima la via della croce, del sacrificio e della rinuncia, per entrare nella vita che nasce dalla Pasqua.
Meditazione
La prima lettura dà uno spunto molto importante per leggere in profondità il mistero della Presentazione al tempio di Gerusalemme del Bambino Gesù, da parte di Maria e Giuseppe, in ossequio ai canoni della Legge di Mosè. Il testo, preso dal libro di Malachia, dice: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate». Dall’insieme dei Vangeli, noi sappiamo bene chi è il Precursore che Dio ha inviato davanti a Sé per preparare la via: è san Giovanni Battista, del quale sappiamo anche che nacque sei mesi prima di Gesù. Mettendo insieme questi dati evangelici, noi comprendiamo le parole di Malachia in questo modo: il Signore Dio preannuncia che verrà tra noi e che, prima di ciò, manderà un Precursore che gli prepari la via. Siccome tra la nascita di Giovanni e di Gesù trascorrono solo sei mesi, è chiaro che nell’oracolo profetico si dica che subito dopo il Precursore, verrà il Signore stesso. Così, subito dopo la venuta del Battista, Dio è entrato nel suo tempio. Ecco quanto è avvenuto nel giorno della Presentazione al tempio di Gesù. Il Dio fatto uomo entra nel tempio, si rende disponibile a coloro che proprio in quel tempio lo cercavano.
Il Vangelo del giorno ci mette davanti diversi personaggi ed avvenimenti e, con ciò stesso, fornisce numerosi insegnamenti e propone temi per l’ulteriore riflessione. Innanzitutto appaiono Maria e Giuseppe, che rispettano i doveri legali prescritti da Mosè. Il loro sacrificio è quello previsto per i poveri: due tortore o due colombi.
Appaiono anche Simeone ed Anna, due venerandi anziani, dediti alla preghiera ed al digiuno, i quali proprio per questo loro spirito fortemente religioso sono capaci di riconoscere il Messia. In questo senso, possiamo vedere nella Presentazione di Gesù al tempio quasi un prolungamento della Giornata pro orantibus, che si celebra nel giorno della Presentazione di Maria (21 novembre), Giornata in cui la Chiesa manifesta la propria gratitudine a tutti coloro che nella Comunità si dedicano in maniera privilegiata al ministero della preghiera, con particolare distinzione per le vocazioni religiose e di vita contemplativa. Anche la Presentazione di Gesù al tempio ci ricorda, nelle figure dei due pii vegliardi, che la preghiera e la contemplazione non sono affatto una perdita di tempo, un ostacolo alla carità. Al contrario, non c’è tempo speso meglio di quello trascorso in preghiera, come non c’è una vera carità cristiana che non sia conseguenza di una solida vita interiore. Solo chi prega e fa penitenza, come Simeone ed Anna, è aperto al soffio dello Spirito: sa riconoscere perciò il Signore in qualunque circostanza Egli si manifesti, perché possiede un più ampio sguardo interiore e impara ad amare con il cuore di Colui il cui nome è Carità!
Infine, il Vangelo valorizza la profezia di Simeone sulla sofferenza di Maria. San Giovanni Paolo II insegna a questo proposito che «quello di Simeone appare come un secondo annuncio a Maria, poiché le indica la concreta dimensione storica nella quale il Figlio compirà la sua missione, cioè nell’incomprensione e nel dolore» (Redemptoris Mater, n. 16). L’annuncio dell’arcangelo era stato fonte di indicibile gioia, perché riguardava la regalità messianica di Gesù e il carattere sovrannaturale del suo concepimento verginale. L’annuncio dell’anziano nel tempio, invece, parla dell’opera della redenzione, che il Signore compirà associando a Sé, nel suo dolore come già nella sua nascita umana, la Madre sua. La dimensione mariana di questa festa è dunque molto forte, motivo per cui nel calendario liturgico della «forma straordinaria» del Rito Romano essa viene indicata come Purificazione della Beata Vergine Maria, dicitura che mette in evidenza l’altro aspetto della Presentazione, consistente nella purificazione rituale delle donne ebree dopo il parto. Nel caso di Maria, tale purificazione, per Lei non necessaria, indica il rinnovamento della sua offerta totale al piano di Dio.
Simeone, nel suo oracolo profetico, annuncia anche che Cristo sarà segno di contraddizione. In una sua omelia (cf. PG 77, 1044-1049), san Cirillo di Alessandria interpreta le parole del santo anziano in questo modo: «Per “segno di contraddizione” intende la nobile croce, come scrive il sapientissimo Paolo: “Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23) […] Ed è segno di contraddizione nel senso che in quelli che si perdono appare come follia, mentre in quelli che riconoscono la sua potenza si rivela salvezza e vita».
La festa della Presentazione nella liturgia attuale
Secondo le indicazioni del Vangelo, allo scadere del quarantesimo giorno dopo Natale, la Chiesa celebra oggi la Festa della Presentazione di Gesù al Tempio. Per molti secoli essa era dedicata alla Purificazione di Maria. Ma la riforma liturgica l’ha ricondotta al suo significato originario, sottolineando l’aspetto cristologico.
Luca racconta: «Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione, portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore» (Lc 2,22). La legge prescriveva, insieme, la purificazione della donna, che aveva dato alla luce un bambino, e l’offerta del bambino, introducendolo nel Tempio del Signore. Quando si trattava del primogenito, era prescritto anche un riscatto, con il versamento di cinque sicli d’argento. In tale circostanza era d’obbligo anche un sacrificio a Dio con l’offerta di un agnello di un anno e di una colomba o una tortora, ovvero, per i più poveri, di due colombe, come fece Maria.
La legge non prescriveva la presenza del Bambino. Nel racconto di Luca, invece, Gesù e sua Madre appaiono strettamente congiunti. Egli unisce ambedue nel rito. Tuttavia, invece di descrivere il rito della purificazione, Luca parla della Presentazione del Bambino Gesù e del gesto compiuto per il suo riscatto.
Questa Presentazione ha un significato liturgico e comporta una offerta sacrificale, che aveva il significato di una consacrazione attraverso uno spogliamento. Dunque con il rito del riscatto e dell’offerta per il sacrificio, Maria presenta Gesù al Tempio in quanto lo offre e lo consacra a Dio, spogliandosi dei suoi diritti di proprietà materna sul Figlio (Thurian).
Perciò la purificazione, di cui parla Luca e che interessava non solo Maria, ma anche il Figlio, voleva esprimere non tanto la purificazione da una impurità — di cui Maria non aveva bisogno — ma la donazione a Dio, che assumeva l’aspetto di una offerta sacrificale di Gesù tramite la Madre, e coinvolgeva anche Lei.
Il significato profetico svelato nell’incontro con Simeone
Gli incontri, che Luca descrive in questa circostanza all’interno del Tempio, vogliono proiettare una luce su tutto l’evento. I personaggi introdotti nella scena sono Simeone, giusto e timorato ad Dio, a Anna fedele nella sua lunga vedovanza alla memoria del marito e dedita alla preghiera e al digiuno.
Questi due spiriti eletti sono in attesa della «consolazione di Israele e della «redenzione di Gerusalemme», cioè del Messia Salvatore. L’attesa o appuntamento era nel Tempio del Signore. Di lui, infatti, Malachia aveva presagito l’ingresso nel Tempio per purificare i sacrifici dei sacerdoti e rendere gradite le loro offerte «secondo giustizia» (cf. Mal 3,1-4; I Lett.). Simeone ed Anna, benché carichi d’anni, sono anime intatte nella fede e colme di speranza.
Simeone aveva avuto assicurazione «che non avrebbe varcato la morte senza prima avere visto li Messia del Signore». Essi erano dotati del carisma profetico, cioè possedevano lo Spirito in sovrabbondanza, quasi a coronamento di una esistenza intensa e sovrabbondante di pietà.
Proprio nel momento in cui Maria e Giuseppe presentano il Bambino Gesù nel Tempio, lo Spirito Santo muoveva loro incontro nella persona del santo Simeone. Egli prende in braccio il Bambino e, grato al Signore, esprime i suoi sentimenti in un breve Cantico per dare un sereno addio alla vita, nella esultanza della meta raggiunta.
Saluta il Sole che sorge all’orizzonte del mondo, pago di vederlo spuntare. Questo Sole era Gesù. Il Bambino, che stringe tra le braccia, è la luce di tutti i popoli e la gloria di Israele che gli ha dato i natali. Egli delinea l’identità di quel Bambino e fa intravvedere la sua missione. Le sue parole sono rivelative di un mistero nascosto. Perciò Maria e Giuseppe restano impressionati e stupiti.
La meraviglia cresce quando Simeone si rivolge in particolare alla Madre per predirgli la sorte del Figlio. Dice: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).
Gesù è pietra di contraddizione, al cui urto «i pensieri di molti cuori saranno rivelati». Dinanzi a Cristo, cioè, gli uomini dovranno prendere posizione, con Lui o contro di Lui: per chi lo respinge, diventa pietra di inciampo e di rovinosa caduta; per chi lo accoglie, diventa sostegno e principio di salvezza e di vita.
Le parole del profeta, a questo punto, diventano significative e ammonitrici anche per noi. La presenza di Cristo impegna l’uomo in maniera decisiva. Non si può rimanere indifferenti o neutrali. Il dono viene offerto, ma non imposto. Ognuno deve decidersi, andando incontro alle inevitabili conseguenze di tale accoglienza o rifiuto. Gesù è segno di contraddizione in quanto oggetto di contraddizione, cioè infinitamente amato, ovvero infinitamente odiato. Simeone annuncia profeticamente un futuro di opposizione e quindi di sofferenza e di morte. In ciò è coinvolta anche la Madre «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35).
Così, fin dagli inizi della sua esistenza, è delineato il dramma salvifico del futuro doloroso e glorioso di Cristo. Maria è presente e ne partecipa.
Il nostro coinvolgimento al dramma salvifico di Cristo
La festa odierna si pone tra il Natale e la Pasqua, e vuole farci comprendere il senso della sua venuta tra noi. Egli viene ed è riconosciuto e accolto. A riconoscerlo sono Simeone e Anna, e i loro cuori esultano di gioia. In questi due personaggi ci siamo tutti noi e la gioia di tutta la Chiesa. Ma l’incontro con Cristo non è ancora definitivo. La vita del cristiano è un itinerario salvifico in cui si operano continuamente altri incontri. Essi avvengono nella nostra storia e vicenda umana, nella quale la presenza del peccato non è mai completamente superata. Perciò la venuta del Signore fa esplodere le contraddizioni della nostra esistenza cristiana.
Il Signore è luce e rivela in profondità le nostre situazioni, facendo emergere le nostre concessioni al male e svelando i nostri continui compromessi e ambiguità. Perciò le contraddizioni si nascondono nella nostra vita e noi rimaniamo delusi e spesso irritati. Le cose non vanno come noi ci attendiamo e gli uomini ci deludono. Siamo, quindi, portati a formulare giudizi di condanna contro la vita; diciamo che essa non è giusta e ci rammarichiamo di tutto. Questo giudizio coinvolge Dio, la religione, la fede, Cristo. Vi proiettiamo le contraddizioni e le incoerenze nella vita cristiana di cui facciamo esperienza.
Difronte alla confusione, alle difficoltà e alle ambiguità del nostro esistere, si svelano allora i nostri segreti pensieri. In effetti, se noi ci lasciassimo portare da Cristo, la fede rimarrebbe una forza che ci consentirebbe di accettare e di sperare oltre le nostre vedute umane. Ci accorgeremmo, allora, che il torto risiede in noi; e questo perché siamo miopi, interessati, egoisti … Ci manca lo Spirito del Signore e la decisione necessaria per dire un sì totale a Cristo e consegnarci a Lui nell’atteggiamento di fiducia incondizionata che salva e rinnova.
La giornata delle anime consacrate
La festa della Presentazione è la giornata delle anime consacrate, cioè di coloro che hanno avuta una vocazione particolare nella sequela del Signore. Affascinate dalla sua luce, sono andate incontro a Lui tenendo in mano la fiaccola vibrante della fede, e hanno varcato la soglia del Tempio, accompagnando Gesù a distanza ravvicinata per vivere identificati a Lui, in un totale e irrevocabile consacrazione. Esse si sono impegnate, in maniera originale, a donarsi al suo amore e all’amore dei fratelli.
Don Bosco commenta il Vangelo
Presentazione di Gesù al tempio
Don Bosco raccomanda di offrire i figli a Dio
Nel quarto mistero gaudioso del rosario, insegna il Giovane provveduto, “si contempla come la Vergine Santa presentò Cristo Nostro Signore nel tempio nelle braccia del vecchio Simeone” (OE2 289). Con più dettagli e spiegazioni l’evento della Presentazione viene narrato nella Vita di S. Giuseppe:
Avvicinavasi il quarantesimo giorno dalla nascita del Santo Bambino. La legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito venisse portato al tempio per essere offerto a Dio e quindi consacrato, e per essere purificata la madre. Giuseppe in compagnia di Gesù e di Maria moveva verso Gerusalemme per compiere la prescritta cerimonia. Offrì due tortorelle in sacrificio e pagò cinque sicli d’argento (OE17 324s).
Accettando di consegnare il Bambino nelle braccia di Simeone, Maria manifesta la sua intenzione di offrirlo a Colui a cui il Bambino appartiene. È quella l’interpretazione che don Bosco suggerisce quando scrive nella Storia ecclesiastica: “Toccando Gesù i quaranta giorni, fu da Maria presentato nel tempio fra le braccia del vecchio Simeone” (OE1 181). Simeone lo accolse e benedisse Dio.
Nella Storia sacra, don Bosco mette in evidenza l’immensa gioia di Simeone nel ricevere Gesù tra le braccia: “Come lo ebbe tra le braccia provò tale piena di gioia che esclamò: Ora lascia, o Signore, che il tuo servo se ne muora in pace, poiché i miei occhi hanno veduto il Salvatore da te inviato” (OE3 161).
Giuseppe e Maria sono un modello per i genitori che vogliono offrire i loro figli a Dio. Nel Cattolico provveduto troviamo questa “preghiera di un padre e di una madre pei loro figlioli”:
Io vi ringrazio, Dio mio, di avermi concesso dei figliuoli, affinché siano l’appoggio e la consolazione della mia vecchiaia. Santificate, o Signore, l’amore che loro io porto, concedendomi la grazia di non amarli che in Voi e per Voi, cioè unicamente in riguardo all’eterna loro salute.
Io ve li presento adunque e ve li offro come la santa Vergine già offrì nel tempio il suo amatissimo Figlio Gesù, sottomettendosi interamente alla vostra volontà adorabile a riguardo di lui.
Come lei sottometto io pure il cuor mio a tutti gli ordini della divina Provvidenza sopra di loro, pregandovi di benedirli, di versare sopra del loro capo ogni più squisito favore.
Disponeteli, o Signore, secondo lo stato, a cui nella vostra sapienza e misericordia infinita li avete destinati per la loro salute. Voi siete il loro primo principio, voi l’ultimo loro fine; ordinate di loro come vi piace.
Io mi sottopongo ad ogni sacrificio, a qualsiasi pena, purché si procacci il loro bene. Io non vi domando per essi grandi beni di fortuna; solamente se osassi chiedervi qualche cosa per loro vita temporale, vi domanderei ad esempio di Salomone una modesta facoltà, che li preservasse dai pericoli della ricchezza, e da quelli della miseria.
Quello poi che per essi specialmente vi chiedo, o Dio mio, è il vostro regno, la vostra giustizia.
Conservate la loro anima in tutta la bellezza di cui l’avete adorna nel santo battesimo; vegliate sopra di essi a fine di preservarli dai pericoli, ai quali viene esposta la loro innocenza; proteggeteli contro i funesti esempi e massime del mondo; conservateli sempre nella vostra grazia, nella vostra amicizia.
Non permettete, o mio Signore, che le mie azioni smentiscano questa mia preghiera (OE19 623s).
Anche Margherita, la madre di Giovanni Bosco, ha compiuto un gesto simile. Prima della sua partenza per il seminario fece al figlio un “memorando discorso” nel quale disse al figlio: “Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine” (MO 103).
Dopo aver raccontato il sogno che aveva avuto verso le nove anni, Margherita sembrava aver già intuito il futuro del figlio che aveva consacrato alla nascita. Infatti, mentre gli altri membri della famiglia davano la loro interpretazione, ella disse quasi con tono profetico: “Chi sa che non abbi a diventar prete” (MO 63). Per don Bosco, essere sacerdote voleva dire essere al servizio di Dio e della Chiesa, nuovo tempio di Dio.
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
Immagine della domenica
COLONNATO DI SAN PIETRO (ROMA) – 2020
«Dobbiamo stare disinteressatamente tra gli uomini,
per poter accendere per essi una luce.
Dobbiamo diventare ancora molto più silenziosi
in mezzo al frastuono generale, per poter scoprire
coloro che sono disposti ad ascoltare».
(J. Wanke, Communio un Missio, 23)
Preghiere e racconti
La Presentazione del Signore e la Giornata mondiale della vita consacrata
Teniamo davanti agli occhi della mente l’icona della Madre Maria che cammina col Bambino Gesù in braccio. Lo introduce nel tempio, lo introduce nel popolo, lo porta ad incontrare il suo popolo. Le braccia della Madre sono come la “scala” sulla quale il Figlio di Dio scende verso di noi, la scala dell’accondiscendenza di Dio. Lo abbiamo ascoltato nella prima Lettura, dalla Lettera agli Ebrei: Cristo si è reso «in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (2,17). E’ la duplice via di Gesù: Egli è sceso, si è fatto come noi, per ascendere al Padre insieme con noi, facendoci come Lui.
Possiamo contemplare nel cuore questo movimento immaginando la scena evangelica di Maria che entra nel tempio con il Bambino in braccio. La Madonna cammina, ma è il Figlio che cammina prima di Lei. Lei lo porta, ma è Lui che porta Lei in questo cammino di Dio che viene a noi affinché noi possiamo andare a Lui.
Gesù ha fatto la nostra stessa strada per indicare a noi il cammino nuovo, cioè la “via nuova e vivente” (cfr Eb 10,20) che è Lui stesso. E per noi, consacrati, questa è l’unica strada che, in concreto e senza alternative, dobbiamo percorrere con gioia e perseveranza.
Il Vangelo insiste ben cinque volte sull’obbedienza di Maria e Giuseppe alla “Legge del Signore” (cfr Lc 2,22. 23. 24. 27. 39). Gesù non è venuto a fare la sua volontà, ma la volontà del Padre; e questo – ha detto – era il suo “cibo” (cfr Gv 4, 34). Così chi segue Gesù si mette nella via dell’obbedienza, imitando l’“accondiscendenza” del Signore; abbassandosi e facendo propria la volontà del Padre, anche fino all’annientamento e all’umiliazione di sé stesso (cfr Fil 2,7-8). Per un religioso, progredire significa abbassarsi nel servizio, cioè fare lo stesso cammino di Gesù, che «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2,6). Abbassarsi facendosi servo per servire.
E questa via prende la forma della regola, improntata al carisma del fondatore, senza dimenticare che la regola insostituibile, per tutti, è sempre il Vangelo. Lo Spirito Santo, poi, nella sua creatività infinita, lo traduce anche nelle diverse regole di vita consacrata che nascono tutte dalla sequela Christi, e cioè da questo cammino di abbassarsi servendo.
Attraverso questa “legge” i consacrati possono raggiungere la sapienza, che non è un’attitudine astratta ma è opera e dono dello Spirito Santo. E segno evidente di tale sapienza è la gioia. Sì, la letizia evangelica del religioso è conseguenza del cammino di abbassamento con Gesù… E, quando siamo tristi, ci farà bene domandarci: “Come stiamo vivendo questa dimensione kenotica?”.
Nel racconto della Presentazione di Gesù al Tempio la sapienza è rappresentata dai due anziani, Simeone e Anna: persone docili allo Spirito Santo (lo si nomina 3 volte), guidati da Lui, animati da Lui. Il Signore ha dato loro la sapienza attraverso un lungo cammino nella via dell’obbedienza alla sua legge. Obbedienza che, da una parte, umilia e annienta, però, dall’altra accende e custodisce la speranza, facendoli creativi, perché erano pieni di Spirito Santo. Essi celebrano anche una sorta di liturgia attorno al Bambino che entra nel Tempio: Simeone loda il Signore e Anna “predica” la salvezza (cfr Lc 2,28-32.38).
Come nel caso di Maria, anche l’anziano Simeone prende il bambino tra le sue braccia, ma, in realtà, è il bambino che lo afferra e lo conduce. La liturgia dei primi Vespri della Festa odierna lo esprime in modo chiaro e bello: «senex puerum portabat, puer autem senem regebat». Tanto Maria, giovane madre, quanto Simeone, anziano “nonno”, portano il bambino in braccio, ma è il bambino stesso che li conduce entrambi.
È curioso notare che in questa vicenda i creativi non sono i giovani, ma gli anziani. I giovani, come Maria e Giuseppe, seguono la legge del Signore sulla via dell’obbedienza; gli anziani, come Simeone e Anna, vedono nel bambino il compimento della Legge e delle promesse di Dio. E sono capaci di fare festa: sono creativi nella gioia, nella saggezza. Tuttavia, il Signore trasforma l’obbedienza in sapienza, con l’azione del suo Santo Spirito.
A volte Dio può elargire il dono della sapienza anche a un giovane inesperto, basta che sia disponibile a percorrere la via dell’obbedienza e della docilità allo Spirito. Questa obbedienza e questa docilità non sono un fatto teorico, ma sottostanno alla logica dell’incarnazione del Verbo: docilità e obbedienza a un fondatore, docilità e obbedienza a una regola concreta, docilità e obbedienza a un superiore, docilità e obbedienza alla Chiesa. Si tratta di docilità e obbedienza concrete.
Attraverso il cammino perseverante nell’obbedienza, matura la sapienza personale e comunitaria, e così diventa possibile anche rapportare le regole ai tempi: il vero “aggiornamento”, infatti, è opera della sapienza, forgiata nella docilità e obbedienza. Il rinvigorimento e il rinnovamento della vita consacrata avvengono attraverso un amore grande alla regola, e anche attraverso la capacità di contemplare e ascoltare gli anziani della Congregazione. Così il “deposito”, il carisma di ogni famiglia religiosa viene custodito insieme dall’obbedienza e dalla saggezza.
E, attraverso questo cammino, siamo preservati dal vivere la nostra consacrazione in maniera light, in maniera disincarnata, come fosse una gnosi, che ridurrebbe la vita religiosa ad una “caricatura”, una caricatura nella quale si attua una sequela senza rinuncia, una preghiera senza incontro, una vita fraterna senza comunione, un’obbedienza senza fiducia e una carità senza trascendenza.
Anche noi, oggi, come Maria e come Simeone, vogliamo prendere in braccio Gesù perché Egli incontri il suo popolo, e certamente lo otterremo soltanto se ci lasciamo afferrare dal mistero di Cristo. Guidiamo il popolo a Gesù lasciandoci a nostra volta guidare da Lui. Questo è ciò che dobbiamo essere: guide guidate.
Il Signore, per intercessione di Maria nostra Madre, di San Giuseppe e dei Santi Simeone e Anna, ci conceda quanto gli abbiamo domandato nell’Orazione di Colletta: di «essere presentati [a Lui] pienamente rinnovati nello spirito». Così sia.
(Papa Francesco, Omelia, 2015).
Presentazione del Signore
Quaranta giorni dopo Natale celebriamo il Signore che, entrando nel tempio, va incontro al suo popolo. Nell’Oriente cristiano questa festa è detta proprio “Festa dell’incontro”: è l’incontro tra il Dio bambino, che porta novità, e l’umanità in attesa, rappresentata dagli anziani nel tempio. Nel tempio avviene anche un altro incontro, quello tra due coppie: da una parte i giovani Maria e Giuseppe, dall’altra gli anziani Simeone e Anna.
Gli anziani ricevono dai giovani, i giovani attingono dagli anziani. Maria e Giuseppe trovano infatti nel tempio le radici del popolo, ed è importante, perché la promessa di Dio non si realizza individualmente e in un colpo solo, ma insieme e lungo la storia. E trovano pure le radici della fede, perché la fede non è una nozione da imparare su un libro, ma l’arte di vivere con Dio, che si apprende dall’esperienza di chi ci ha preceduto nel cammino.
Così i due giovani, incontrando gli anziani, trovano sé stessi. E i due anziani, verso la fine dei loro giorni, ricevono Gesù, senso della loro vita. Questo episodio compie così la profezia di Gioele: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). In quell’incontro i giovani vedono la loro missione e gli anziani realizzano i loro sogni. Tutto questo perché al centro dell’incontro c’è Gesù.
Guardiamo a noi, cari fratelli e sorelle consacrati. Tutto è cominciato dall’incontro col Signore. Da un incontro e da una chiamata è nato il cammino di consacrazione. Bisogna farne memoria. E se faremo bene memoria vedremo che in quell’incontro non eravamo soli con Gesù: c’era anche il popolo di Dio, la Chiesa, giovani e anziani, come nel Vangelo.
Lì c’è un particolare interessante: mentre i giovani Maria e Giuseppe osservano fedelmente le prescrizioni della Legge – il Vangelo lo dice quattro volte – e non parlano mai, gli anziani Simeone e Anna accorrono e profetizzano. Sembrerebbe dover essere il contrario: in genere sono i giovani a parlare con slancio del futuro, mentre gli anziani custodiscono il passato.
Nel Vangelo accade l’inverso, perché quando ci si incontra nel Signore arrivano puntuali le sorprese di Dio. Per lasciare che accadano nella vita consacrata è bene ricordare che non si può rinnovare l’incontro col Signore senza l’altro: mai lasciare indietro, mai fare scarti generazionali, ma accompagnarsi ogni giorno, col Signore al centro. Perché se i giovani sono chiamati ad aprire nuove porte, gli anziani hanno le chiavi.
E la giovinezza di un istituto sta nell’andare alle radici, ascoltando gli anziani. Non c’è avvenire senza questo incontro tra anziani e giovani; non c’è crescita senza radici e non c’è fioritura senza germogli nuovi. Mai profezia senza memoria, mai memoria senza profezia; e sempre incontrarsi. La vita frenetica di oggi induce a chiudere tante porte all’incontro, spesso per paura dell’altro – sempre aperte rimangono le porte dei centri commerciali e le connessioni di rete –; ma nella vita consacrata non sia così: il fratello e la sorella che Dio mi dà sono parte della mia storia, sono doni da custodire.
Non accada di guardare lo schermo del cellulare più degli occhi del fratello, o di fissarci sui nostri programmi più che nel Signore. Perché quando si mettono al centro i progetti, le tecniche e le strutture, la vita consacrata smette di attrarre e non comunica più; non fiorisce perché dimentica “quello che ha di sotterrato”, cioè le radici.
La vita consacrata nasce e rinasce dall’incontro con Gesù così com’è: povero, casto e obbediente. C’è un doppio binario su cui viaggia: da una parte l’iniziativa d’amore di Dio, da cui tutto parte e a cui dobbiamo sempre tornare; dall’altra la nostra risposta, che è di vero amore quando è senza se e senza ma, quando imita Gesù povero, casto e obbediente. Così, mentre la vita del mondo cerca di accaparrare, la vita consacrata lascia le ricchezze che passano per abbracciare Colui che resta.
La vita del mondo insegue i piaceri e le voglie dell’io, la vita consacrata libera l’affetto da ogni possesso per amare pienamente Dio e gli altri. La vita del mondo s’impunta per fare ciò che vuole, la vita consacrata sceglie l’obbedienza umile come libertà più grande. E mentre la vita del mondo lascia presto vuote le mani e il cuore, la vita secondo Gesù riempie di pace fino alla fine, come nel Vangelo, dove gli anziani arrivano felici al tramonto della vita, con il Signore tra le mani e la gioia nel cuore.
Quanto ci fa bene, come Simeone, tenere il Signore «tra le braccia» (Lc 2,28)! Non solo nella testa e nel cuore, ma tra le mani, in ogni cosa che facciamo: nella preghiera, al lavoro, a tavola, al telefono, a scuola, coi poveri, ovunque. Avere il Signore tra le mani è l’antidoto al misticismo isolato e all’attivismo sfrenato, perché l’incontro reale con Gesù raddrizza sia i sentimentalisti devoti che i faccendieri frenetici.
Vivere l’incontro con Gesù è anche il rimedio alla paralisi della normalità, è aprirsi al quotidiano scompiglio della grazia. Lasciarsi incontrare da Gesù, far incontrare Gesù: è il segreto per mantenere viva la fiamma della vita spirituale. È il modo per non farsi risucchiare in una vita asfittica, dove le lamentele, l’amarezza e le inevitabili delusioni hanno la meglio.
Incontrarsi in Gesù come fratelli e sorelle, giovani e anziani, per superare la sterile retorica dei “bei tempi passati” – quella nostalgia che uccide l’anima –, per mettere a tacere il “qui non va più bene niente”. Se si incontrano ogni giorno Gesù e i fratelli, il cuore non si polarizza verso il passato o verso il futuro, ma vive l’oggi di Dio in pace con tutti.
Alla fine dei Vangeli c’è un altro incontro con Gesù che può ispirare la vita consacrata: quello delle donne al sepolcro. Erano andate a incontrare un morto, il loro cammino sembrava inutile. Anche voi andate nel mondo controcorrente: la vita del mondo facilmente rigetta la povertà, la castità e l’obbedienza. Ma, come quelle donne, andate avanti, nonostante le preoccupazioni per le pesanti pietre da rimuovere (cfr Mc 16,3).
E come quelle donne, per primi incontrate il Signore risorto e vivo, lo stringete a voi (cfr Mt 28,9) e lo annunciate subito ai fratelli, con gli occhi che brillano di gioia grande (cfr v. 8). Siete così l’alba perenne della Chiesa: voi, consacrati e consacrate, siete l’alba perenne della Chiesa! Vi auguro di ravvivare oggi stesso l’incontro con Gesù, camminando insieme verso di Lui: e questo darà luce ai vostri occhi e vigore ai vostri passi.
(Omelia di Papa Francesco per la Festa della presentazione del signore nella XXII Giornata mondiale della vita consacrata, tenutasi presso la Basilica Vaticana, venerdì 2 febbraio 2018).
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace»
Spiegando il senso della presentazione del Signore al tempio, S. Ambrogio (t 397) intende mettere in risalto il coinvolgimento universale dell’umanità agli eventi dell’infanzia, per affermare che nessuno è escluso dai disegni salvifici di Dio. La figura dell’anziano Simeone e le parole che egli dice esprimono, per Ambrogio, il carattere decisivo che assume, per ogni uomo, il suo incontro col Cristo.
«La nascita del Signore non è attestata soltanto dagli angeli e dai profeti, dai pastori e dai familiari, ma anche dagli anziani e dai giusti. Tutte le età, tutt’e due i sessi, e i prodigi avvenuti ne fanno fede: una vergine diventa feconda, una sterile partorisce, un muto si mette a parlare, Elisabetta profetizza, i magi si prostrano in adorazione, un bimbo esulta benché chiuso nel grembo, una vedova loda Dio, un giusto attende. A ragione è chiamato giusto, perché desiderava non la propria, bensì la salvezza del popolo, e, pur anelando di esser liberato dai vincoli del suo fragile corpo, aspettava di vedere il Promesso; sapeva infatti che beati sarebbero stati gli occhi, che l’avrebbero visto.
Ed esclama: «Ora lascia pure andare il tuo servo» (Lc 2,29).
Guarda questo giusto, che vedendosi rinchiuso nel carcere della terrena gravezza, desidera di partire per cominciare a essere con Cristo; «è assai meglio», infatti, «partire e essere con Cristo» (Fil 1,23). Ma chi desidera di essere lasciato andare, venga al tempio, venga in Gerusalemme, attenda l’Unto del Signore, prenda tra le sue mani il Verbo di Dio, lo stringa con le braccia della sua fede. Allora sarà lasciato andare, affinché, avendo veduto la vita, non veda mai più la morte.
Osserva che alla nascita del Signore si diffonde una grazia copiosa su ogni persona, mentre il dono della profezia è negato non ai giusti, ma solo a chi non ha fede. E anche Simeone profetizza che il Signore Gesù Cristo è venuto a caduta e a risurrezione di molti (cf. Lc 2,34), per vagliare i meriti dei giusti e degli iniqui, e, in qualità di giudice giusto verace, decretate la punizione o il premio, a seconda delle nostre azioni».
(Expositio in Lucam, L. II, 58-60; trad. it. di G. COPPA, Opere di Sant’Ambrogio, «Classici delle Religioni», Torino, Utet, 1969, 469-70).
La presentazione al Tempio
Certo le porte al vostro incedere
si sono aperte vibrando da sole
e strana luce si accese sugli archi:
il tempio stesso pareva più grande!
Quando si mise a cantare il vegliardo,
a salutare felice la vita,
la lunga vita che ardeva in attesa;
e anche la donna più annosa cantava!
Erano l’anima stessa di Sion
del giusto Israele mai stanco di attendere.
E lui beato che ha visto la luce
se pure in lotta già contro le tenebre.
Oh, le parole che disse, o Madre,
solo a te il profeta le disse!
Così ti chiese il cielo impaziente
pure la gioia di essergli madre.
Nemmeno tu puoi svelare, Maria,
cosa portavi nel puro tuo grembo:
or la Scrittura comincia a svelarsi
e a prender forma la storia del mondo.
(David Maria Turoldo)
La presentazione di Gesù al tempio di Giovanni Bellini
La presentazione di Gesù al tempio dove il volto della Vergine, ritratto nella pena del primo distacco dal figlio, è semplicemente sublime.
Il veneziano Giambellino, come lo chiamavano, nato intorno al 1438 e morto nel 1516, era notissimo già al tempo suo come il “pittore delle Madonne”. Tante ne dipinse, su ispirazione o su committenza, e in tutte colpisce l’intreccio delle mani di Maria con le manine del bambino, l’eterno gioco tra madre e figlio.
Ma nella Presentazione il gioco non c’è più, il bambino sta stretto dentro le fasce come una piccola mummia, spunta solo una parte della manina che non riesce più a muoversi in cerca della madre. Maria lo stringe a sé come se non volesse lasciarlo, mentre altre mani lo stanno prendendo e sono quelle del barbuto Simeone, tra gli sguardi muti delle figure sullo sfondo.
La scena sconvolge per la sacralità e il presagio della passione. La si osserva commossi, ci si allontana a guardare altri quadri, poi si torna indietro cercando di capirla meglio e ammirarla una volta di più. Di ritorno a casa, si va a rileggere il passo del Vangelo (Lc 2,22-35) che l’ha ispirata.
L’evangelista Luca racconta che Maria e Giuseppe si recarono al tempio di Gerusalemme per l’offerta del neonato e la purificazione della madre, secondo la legge di Mosè: «Ora, c’era in Gerusalemme un uomo chiamato Simeone: era un uomo giusto e pio… Anzi, dallo Spirito Santo gli era stato rivelato che non sarebbe morto prima d’aver visto il Cristo del Signore. Andò dunque al tempio, mosso dallo Spirito; e mentre i genitori portavano il bambino Gesù, egli lo prese tra le braccia e benedì Dio dicendo:
“Ora, o Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”…».
Il vecchio Simeone riconosce in Gesù il Salvatore. Poi unisce nella stessa profezia il figlio e la madre, dicendo a Maria: «Ecco, egli è posto come segno di contraddizione, sicché una spada trapasserà la tua anima».
Molti grandi pittori hanno raffigurato l’episodio della presentazione al tempio. Nell’affresco di Giotto, Simeone ha già in braccio il bambino, mentre la madre tende le mani come per riprenderselo, timorosa di affidare ad altri la sua creatura. Andrea Mantegna, che era il cognato di Giovanni Bellini, aveva dipinto le stesse figure centrali, ma diversi i personaggi che osservano. Nell’arte di Bellini, una luce gentile accarezza i volti, la timidezza pensosa dei gesti esprime il dialogo tra la terra e il cielo. Ma la scena è illuminata soprattutto dalla bellezza di Maria, capolavoro assoluto del “pittore delle Madonne”. Ha scritto Paolo VI: «Con Maria, ci viene aperta una duplice via: la via della verità che riguarda la sua collocazione nei misteri di Cristo e della Chiesa. E una via più accessibile, anche agli umili. La definiamo la via della bellezza».
Franca Zambonini, Il pittore delle madonne e la bellezza di Maria, in «Famiglia cristiana» (2008) 52, 130.
La Settimana con don Bosco
26 gennaio-1º febbraio
26. (Ss. Timoteo e Tito) – Timoteo fu il “ca-ro discepolo” di san Paolo (OE21 198). – Tito divenne “un modello di virtù, fedele seguace e coadiutore del nostro santo Apostolo” (OE9 201).
27. (S. Angela Merici) – Don Bosco “volle che il primo Oratorio festivo, aperto nel 1876 in Torino dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, fosse intitolato a sant’Angela Merici” (MB10 589).
28. (S. Tommaso d’Aquino) – “Sapeva sì ben nascondere l’ingegno, che il suo silenzio passava per istolidezza, e dai suoi condiscepoli egli veniva nominato il bue muto” (OE24 238s).
29. “La fede senza opere vale a niente; fac-ciamo dunque opere di fede” (OE3 340s).
30. (B. Bronislao Markiewicz) – “Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la nostra Società” (MB10 102).
31. (S. GIOVANNI BOSCO) – “Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate gio-vani perché io vi ami assai” (OE2 187).
Febbraio
1. (Commemorazione di tutti i Confratelli salesiani defunti) – “Ogni anno il giorno dopo la festa di san Francesco di Sales tutti i sacerdoti celebreranno una Messa pei soci defunti” (OE27 89).
(Morand Wirth)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.
– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.
– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10, 71 pp.
– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.
…
– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.
Per la Domenica della Parola di Dio, che si celebra il 26 gennaio, l’Ufficio Catechistico, tramite il Servizio dell’Apostolato Biblico, l’Ufficio Liturgico, l’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro e l’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto hanno preparato un Sussidio per aiutare le comunità diocesane e parrocchiali a celebrare, riflettere e pregare su un tema che solo apparentemente riguarda il passato: il Giubileo. L’obiettivo, sottolinea nella presentazione Mons. Giuseppe Baturi, Arcivescovo di Cagliari e Segretario Generale della CEI, è “riscoprire nella meditazione della Parola di Dio il senso della libertà biblica e il fondamento solido della speranza che non delude”. “La parola d’ordine, che emerge anche dai testi di questo Sussidio, è libertà”, aggiunge Mons. Baturi evidenziando che “vari sono i soggetti che devono beneficiare di una rinnovata e forse insperata libertà nel tempo giubilare”. “Anzitutto – spiega – le persone: se qualcuno per varie ragioni è caduto in disgrazia ed è diventato schiavo, non deve restare tale per sempre. Viene il tempo in cui recuperare lo status di persona libera. Nessun errore o sciagura del passato sono da considerarsi definitivi. Ma anche la terra deve essere affrancata da ogni potenziale sfruttamento intensivo: astenersi periodicamente dalla semina significa allora ricordare ai proprietari terrieri che la terra è un dono di Dio e come tale va trattata”. Ecco allora che il Giubileo può essere “un tempo speciale, in cui porre gesti concreti di speranza per un futuro nuovo, rispettoso della dignità di tutte le creature di Dio, affrancato dalla schiavitù delle cose materiali e aperto al trascendente”. Il Sussidio si compone di uno schema per l’animazione liturgica della Domenica della Parola, della proposta di testi biblici e di documenti magisteriali a cui si aggiungono testi teologici e opere d’arte che possono sostenere la riflessione e l’approfondimento.
In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere. Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. Poi Neemìa disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi ratristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».
Il libro di Neemia può essere diviso in tre parti: la prima (cc. 1-7) narra la ricostruzione delle mura di Gerusalemme, la riforma sociale e l’organizzazione della città; la seconda (cc.
8-9) presenta la promulgazione della legge giudaica a cui fa seguito la festa dei tabernacoli, la preghiera penitenziale e l’impegno assunto dalla comunità nei confronti della legge; la terza parte (cc. 10-13) contiene alcuni dati statistici e informa sulle ultime azioni di Neemia. Il brano della nostra lettura si trova nella seconda parte, di cui è un momento culminante.
Il tratto dà il quadro grandioso e solenne dell’avvenimento costitutivo della comunità giudaica, e cioè della promulgazione della legge. Esdra e i leviti leggono alcune parti della legge; è il giorno della nascita del giudaismo. L’assemblea del popolo ascolta in piedi la proclamazione della legge; il popolo viene direttamente interpellato e posto di fronte alle sue responsabilità e ai suoi doveri nei confronti di Dio quale comunità dell’alleanza. Avviene una liturgia vera e propria; Esdra benedice il Signore, i presenti rispondono: amen, compiendo il gesto rituale di alzare le mani; poi tutti si inginocchiano e adorano il Signore. Questi aspetti liturgici della descrizione sono molto simili alla celebrazione del culto giudaico nel periodo sinagogale.
Nella liturgia della Chiesa questo testo biblico che, nell’annuncio e nell’accoglienza della legge di Dio, pone l’atto di nascita della comunità del popolo eletto dopo l’esilio, assume il significato di indicare che nella presente celebrazione l’ascolto della parola di Dio e l’adesione ad essa nella fede crea e mantiene la comunità dei credenti in Cristo; attorno alla parola di Dio la chiesa viene costituita in assemblea liturgica cultuale. Si ha così una visualizzazione dell’insegnamento del concilio ecumenico Vaticano secondo: «Il popolo di Dio viene adunato anzitutto per mezzo della parola del Dio vivente (…), in virtù della parola salvatrice la fede si accende e si alimenta nel cuore dei credenti, e con la fede ha inizio e cresce la comunità dei credenti» (Presbyterorum Ordinis n. 4). L’evento raccontato nella lettura è anticipazione della costituzione della Chiesa viva e la Chiesa viva è compimento e realizzazione della prefigurazione profetica descritta nella lettura.
Seconda lettura: 1 Corinzi 12,12-30
Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?
Il brano della lettura, che fa seguito immediato a quello della domenica precedente, si trova nella seconda parte della lettera, nel punto in cui l’apostolo risolve i quesiti che gli sono stati posti. Qui continua a trattare il tema dei carismi, esponendo l’immagine dell’unico corpo di Cristo.
In questo tratto l’autore insiste sulla necessità che tutti, dotati di doni diversi, collaborino alla missione dell’unica Chiesa. Si serve dell’esempio delle membra e del corpo, esempio allora classico. Tutte le membra hanno una funzione indispensabile per il bene di tutto. In tale unità e solidarietà non c’è posto per i complessi di inferiorità o di superiorità, tutti portano un contributo tutti compiono una funzione. Ma la Chiesa unita e solidale a modo del corpo fisico forma realmente il corpo di Cristo, animato dalla vita dello Spirito Santo. È una delle grandi idee sul mistero della Chiesa. Essa non è una società nata dalle varie iniziative degli uomini, diretta da loro; esprime invece e attua una unità mistica che è Cristo nell’atto di riunire i credenti. Con il battesimo tutti i cristiani sono incorporati in Cristo per opera dello Spinto Santo; tutti fummo abbeverati di uno stesso Spirito, cioè ricevemmo l’abbondanza del suo dono. Dal battesimo sorgono le diverse funzioni elencate per il bene della chiesa. Il termine «apostoli» non comprende soltanto il gruppo dei Dodici, ma tutti i predicatori del vangelo, favoriti di carismi divini; i dottori sono coloro che con il dono della scienza e della sapienza istruiscono i fedeli nelle verità della religione; il dono di assistere è quello di compiere opere di misericordia soccorrere i poveri, i malati bisognosi. Il brano della lettura si conclude con l’esortazione ad aspirare ai carismi migliori; segue ad esso infatti l’elogio della carità.
Vangelo: Luca 1,1-4;4,14-21
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Esegesi
Il vangelo di Luca dopo il prologo (1,1-4) si articola nel racconto dell’infanzia di Giovanni e di Gesù (1,5-2,52), nella descrizione del ministero di Gesù in Galilea (3,1-9,50), nella narrazione del grande viaggio verso Gerusalemme (9,51;19,28), nel ministero di Gesù a Gerusalemme (20-21) e nel mistero finale di morte e risurrezione (22-24). Il brano della lettura evangelica della terza domenica del tempo ordinario nel ciclo C congiunge due tratti evangelici staccati, e cioè l’inizio, il prologo (Lc 1,1-4) e la inaugurazione del ministero pubblico di Gesù in Galilea nella sinagoga di Nazaret (Lc 4).
Aspetti di esegesi
Prologo: Questo prologo di Luca al suo vangelo composto con arte e con armonia di parti, ha un’andatura classica e attesta il proposito dell’evangelista di comporre un’opera storica coscienziosa. Molti avevano già scritto intorno alla vita e agli insegnamenti di Gesù. Luca vuole servirsi di fonti scritte, interrogare le fonti orali più accreditate, cioè i testimoni oculari, specialmente gli apostoli. Dopo questa indagine accurata e universale l’evangelista scriverà tutto con ordine, disponendo i fatti in un vasto disegno e quadro storico e cronologico non trascurando la connessione logica. L’opera è dedicata a Teofilo, personaggio di famiglia elevata, appartenente alla nobiltà. Luca scrive infatti: «Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,1-4).
Inaugurazione del ministero di Gesù a Nazaret. All’inizio dell’attività di Gesù la scena qui descritta costituisce un momento programmatico. In un solo tratto Luca mette in evidenza le grandi idee dell’opera di Gesù; Gesù agisce mosso e guidato dallo Spirito: «In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode» (Lc 4,14-15); lo Spirito, che era disceso su Gesù nel battesimo ora agisce in lui ispirandolo, conducendolo, e rendendo efficace il suo ministero; lo Spirito e Cristo sono inseparabili; Gesù incomincia ad insegnare ed è ammirato e lodato dalle folle; il seguito del racconto infatti informa che «Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); l’affermazione secondo cui la sua fama si diffuse in tutta la regione è come un ritornello nel vangelo di Luca, che lo ripete dopo l’insegnamento a Cafarnao (Lc 4,37), dopo la guarigione del lebbroso (Lc 5,15) e dopo la risurrezione del figlio della donna di Naim (Lc 7,17).
In Gesù si compie la vocazione espressa nell’antico Testamento nel libro di Isaia nel testo profetico 61,1-2 che egli legge nella sinagoga di Nazaret ove inaugura il suo ministero: «Secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,16-19; Is 61,1-2).
Il testo descrive la chiamata e la missione del profeta come annuncio e messaggio di consolazione; Gesù applica a sé il testo profetico: «Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,20-21). Gesù è unto da Dio Padre con lo Spirito Santo per la missione; il compito di tale missione consiste nell’annunziare il lieto messaggio ai poveri, nel proclamare la liberazione ai prigionieri, nel dare la vista ai ciechi, nel rimettere in libertà gli oppressi, nel predicare l’anno di grazia. Si tratta di una funzione che ha carattere profetico e insieme messianico; a tale compito egli è abilitato dallo Spirito Santo a lui donato da Dio Padre come unzione per la consacrazione. Il brano evangelico risulta così una presentazione che Gesù fa di se stesso inaugurando il suo ministero.
Meditazione
Erano stati il battesimo ricevuto al Giordano (cfr. Lc 3,21-22) e lo scontro con Satana nel deserto (cfr. Lc 4,1-13) a dargli quell’energia incontenibile. Il dono dello Spirito Santo e la vittoriosa lotta contro lo spirito del male gli avevano dato una carica e una lucidità profetica uniche. Gesù ormai girava insegnando tra le genti e queste «gli rendevano lode» (Lc 4,15). Assistiamo incantati allo sbocciare della vocazione travolgente di Gesù. La tradizione monastica definisce questo momento del cammino ‘fervore novizio’, dove ogni ostacolo è vinto dalla passione di un’ardente adesione all’evangelo.
Gesù torna al luogo delle sue origini, tra i suoi famigliari, a Nazaret. E anche qui, una volta ancora, pone al centro della sua vita e delle relazioni con i suoi conoscenti la parola di Dio, secondo una metodologia tanto antica – ce ne viene fatta una precisa descrizione nella prima lettura, tratta dal libro di Neemia – quanto attuale anche per noi, essendo quella che ancor oggi viene seguita nelle nostre liturgie: scelta una sezione dal Libro, questa viene proclamata con chiarezza e autorità, facendovi seguire un commento esplicativo e attualizzante, al fine di mostrare la pertinenza del testo con la vita di chi ascolta e provocare la meditazione, la conversione, la preghiera.
Il brano scelto da Gesù è uno dei più luminosi di tutto il Primo Testamento. Narra di un personaggio che, rinnovato dall’unzione dello Spirito Santo, viene incaricato dal Signore di recare una esaltante comunicazione: «mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Dopo la lettura, è certo che deve essere sceso un silenzio perfetto in quell’assemblea. Ancor oggi è forse il momento della celebrazione in cui l’attenzione è massima, perché ci si prepara ad ascoltare il commento che verrà tenuto (e a valutare il predicatore…). Se poi a svolgere questo incarico è un ragazzo del paese, di cui si sente dire un gran bene, è facile immaginare la scena: un’assemblea quasi in ‘apnea’, con gli occhi fissi su di un unico punto… (cfr. Lc 4,20).
Personalmente, sono intrigato dal tentativo di ipotizzare cosa potesse passare in quel frangente per il cuore e per la mente di Gesù. Il seguito del racconto, non riportato dal brano liturgico, ci fa sapere che il suo stato d’animo non era affatto assalito da vergogna, timidezza o da una qualche forma di soggezione verso i suoi conterranei (cfr. Lc 4,23-27). Ho invece il sospetto che Gesù stesse rapidamente rendendosi conto che, a partire da quanto aveva vissuto precedentemente e da quanto aveva appena letto, il misterioso personaggio, datore dell’universale messaggio di liberazione, potesse essere… lui stesso. Come ogni altro essere umano, seppur secondo una specialissima esperienza, Gesù è andato ricercando quale potesse essere il miglior modo per rendere onore a Dio, è andato ricercando segni storici per contribuire ad attuare il sogno di Dio.
Non sappiamo quanti secondi o minuti sia durato il silenzio in cui l’assemblea e Gesù erano immersi. Certo è che la prima parola risuonata dalla bocca del «figlio di Giuseppe» (Lc 4,22) ha proprio dell’incredibile: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). In modo ancor più suggestivo, il testo originale greco afferma: «che si è compiuta nei vostri orecchi». Ora, non era la prima volta che le parole del profeta Isaia risuonavano in una sinagoga. Ma in Gesù si realizzano in modo assolutamente unico, perché in lui vanno a coincidere. Lui è la Parola, che realizza tutte le attese e le profezie. Tutta la sua esistenza sarebbe stata lo ‘svolgimento’ del messaggio di liberazione annunciato e atteso. Detto in altre parole, Gesù sta dicendo di essere il Messia e che avrebbe portato una svolta decisiva al Regno di Dio.
Non credo che noi potremo mai renderci conto di quello che devono aver provato gli ascoltatori presenti in quel luogo di culto. Forse tra costoro c’erano alcuni che sono poi diventati, secondo la testimonianza dell’evangelista Luca, «testimoni oculari» (Lc 1,2) della vicenda di Gesù. Comunque sia, non abbiamo da rimpiangere nulla: ogni volta che ascoltiamo e celebriamo la parola evangelica, possiamo entrare in relazione con il Signore Gesù in modo certamente più profondo ed esistenziale di quanto hanno potuto fare gli abitanti di Nazaret; anche perché siamo meglio a conoscenza del destino e della speranza che Gesù
ha inaugurato. Ascoltatori della Parola per vivere della Parola!
Don Bosco commenta il Vangelo
Don Bosco privilegia i giovani tra i poveri
Nella sinagoga di Nazareth Gesù aprì il rotolo e trovò il passo del profeta Isaia dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,18). Questo testo ha illuminato un santo come san Vincenzo de’ Paoli molto caro a don Bosco.
Prima di tutto, nell’opera pubblicata da don Bosco in italiano e intitolata Il cristiano guidato alla virtù ed alla civiltà secondo lo spirito di san Vincenzo de’ Paoli,si legge che questo santo si è lasciato illuminare dallo Spirito Santo: “Per bene apprezzare qual sia stato l’amore di san Vincenzo verso Dio, sarebbe mestieri conoscere tutta l’influenza dello Spirito Santo sul cuore di lui, e la fedele sua cooperazione ai lumi che ne riceveva” (OE3 250).
All’origine del suo amore per i poveri, spiega poi don Bosco, c’è la visione di fede di san Vincenzo, di cui tratta l’istruzione per il giorno decimosecondo del mese dedicato al santo:
Se io considero, diceva, un contadino o una povera donna secondo il suo esteriore e ciò che sembra proporzionato al loro spirito, appena troverei in loro la figura e lo spirito di esseri ragionevoli, tanto sono essi grossolani e materiali. Ma se gli osservo coi lumi della fede, vedrò che il Figlio di Dio, il quale volle essere povero, ci viene rappresentato da questi poveri. Vedrò che non aveva quasi più la figura d’uomo nella sua passione. Vedrò che dai Gentili riputavasi un insensato e consideravasi qual pietra di scandalo dai Giudei. Vedrò infine, che malgrado tutto ciò egli si qualifica il predicatore de’ poveri: Evangelizare pauperibus misit me (OE3 339s).
Ai suoi Preti della Missione san Vincenzo voleva inculcare che la loro missione è la santificazione dei poveri in vista della loro salvezza:
Dopo di aver dedotto dal testo evangelico: Evangelizare pauperibus misit me, che la santificazione dei poveri fu una delle principali funzioni del Salvatore, dimostra ai suoi preti quanto sarebbe per essi pericoloso il trascurare questi membri sì abbietti agli occhi degli uomini, ma sì preziosi a quelli di Dio […]. Un missionario deve tremare se a causa dell’età, o sotto pretesto d’infermità, si rallenta e dimentica che Dio riposa su di lui per la salvezza dei poveri, perché la salvezza dei poveri è un affare di cui si è incaricato presso Dio (OE3 464).
Sull’esempio di san Vincenzo, don Bosco ha voluto privilegiare i poveri in tutte le sue opere. Nel Regolamento dell’Oratorio di s. Francesco di Sales per gli esterni leggiamo:
Lo scopo di quest’Oratorio essendo di tener lontana la gioventù dall’ozio, e dalle cattive compagnie particolarmente nei giorni festivi, tutti vi possono essere accolti senza eccezione di grado o di condizione. Quelli però che sono poveri, più abbandonati, e più ignoranti sono di preferenza accolti e coltivati, perché hanno maggior bisogno di assistenza per tenersi nella via dell’eterna salute (OE29 59).
Il primo esercizio di carità sarà di raccogliere giovanetti poveri ed abbandonati per istruirli nella santa Cattolica religione, particolarmente nei giorni festivi. Avvenendo spesso che si incontrino giovani talmente abbandonati, che per loro riesce inutile ogni cura, se non sono ricoverati, perciò per quanto è possibile si apriranno case, nelle quali coi mezzi, elle la divina Provvidenza ci porrà tra le mani, verrà loro somministrato ricovero, vitto e vestito; e mentre si istruiranno nelle verità della cattolica fede, saranno eziandio avviati a qualche arte o mestiere (OE29 252).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
L’immagine della domenica
Giardini Casa Generalizia FMA (Roma) – 2021
«“Quanto tempo è per sempre?”, e il Bianconiglio risponde: “A volte, solo un secondo”. Alice incalza allora di nuovo: “E quanto tempo è un secondo?”, al che il Bianconiglio replica: “Quando ami, un’eternità”».
(L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie).
Preghiere e racconti
L’ascolto della parola di Dio
C’è un profondo bisogno di amore in ciascuno di noi, così spesso prigionieri delle nostre solitudini. È il bisogno di una parola di vita che vinca le nostre paure e ci faccia sentire amati. Il profeta Amos descrive con efficacia questa situazione: “Ecco, verranno giorni oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore” (8,11). E sant’Agostino – che quella Parola ha incontrato, fino a farne la ragione di tutta la sua vita – così presenta la risposta del Dio vivente al nostro bisogno: “Da quella città il Padre nostro ci ha inviato delle lettere, ci ha fatto pervenire le Scritture, onde accendere in noi il desiderio di tornare a casa” (Commento ai Salmi, 64, 2-3).
Se si arriva a comprendere – come è capitato a tanti credenti di ieri e di oggi – che la Bibbia è questa “lettera di Dio”, che parla proprio al nostro cuore, allora ci si avvicinerà a essa con la trepidazione e il desiderio con cui un innamorato legge le parole della persona amata. Allora, Dio, che è insieme paterno e materno nel suo amore, parlerà proprio a ciascuno di noi e l’ascolto fedele, intelligente e umile di quanto egli dice sazierà poco a poco il nostro bisogno di luce, la tua sete d’amore. Imparare ad ascoltare la voce di Dio che parla nella Sacra Scrittura è imparare ad amare: perciò, l’ascolto delle Scritture è ascolto che libera e salva.
(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 63-64).
Da Nazaret arriva l’annuncio della vera liberazione
Luca, il migliore scrittore del Nuovo Testamento, sa creare una tensione, una aspettativa con questo magistrale racconto che si dipana come al rallentatore: Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. E seguono le prime parole ufficiali di Gesù: oggi l’antica profezia si fa storia. Gesù si inserisce nel solco dei profeti, li prende e li incarna in sé. E i profeti illuminano la sua vocazione, ispirano le sue scelte: Lo Spirito del Signore mi ha mandato ai poveri, ai prigionieri, ai ciechi, agli oppressi.
Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. Da subito Gesù sgombra tutti i dubbi su ciò che è venuto a fare: è qui per togliere via dall’uomo tutto ciò che ne impedisce la fioritura, perché sia chiaro a tutti che cosa è il regno di Dio: vita in pienezza, qualcosa che porta gioia, che libera e dà luce, che rende la storia un luogo senza più disperati. E si schiera, non è imparziale il nostro Dio: sta dalla parte degli ultimi, mai con gli oppressori; viene come fonte di libere vite e mai causa di asservimenti.
Gesù non è venuto per riportare i lontani a Dio, ma per portare Dio ai lontani, a uomini e donne senza speranza, per aprirli a tutte le loro immense potenzialità di vita, di lavoro, di creatività, di relazione, di intelligenza, di amore. Il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato della persona, il suo primo sguardo va sempre sulla povertà e sul bisogno dell’uomo. Per questo nel Vangelo ricorre più spesso la parola poveri, che non la parola peccatori. Non è moralista il Vangelo, ma creatore di uomini liberi, veggenti, gioiosi, non più oppressi.
Scriveva padre Giovanni Vannucci: «Il cristianesimo non è una morale ma una sconvolgente liberazione». La lieta notizia del Vangelo non è l’offerta di una nuova morale, fosse pure la migliore, la più nobile o la più benefica per la storia. La buona notizia di Gesù non è neppure il perdono dei peccati. La buona notizia è che Dio è per l’uomo, mette la creatura al centro, e dimentica se stesso per lui. E schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi “altra” da quello che è.
Un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo. Infatti la parola chiave è “libertà-liberazione”. E senti dentro l’esplosione di potenzialità prima negate, energia che spinge in avanti, che sa di vento, di futuro e di spazi aperti. Nella sinagoga di Nazaret è allora l’umanità che si rialza e riprende il suo cammino verso il cuore della vita, il cui nome è gioia, libertà e pienezza (M. Marcolini). Nomi di Dio.
(Ermes Ronchi)
«Gli occhi di tutti erano fissi su di lui»
L’evangelo di oggi, che cuce insieme il prologo di Luca con l’esordio della predicazione di Gesù nella sinagoga di Nazaret, mostra fitte rispondenze con il brano della prima lettura, tratto dal profeta Neemia. In questo brano infatti ci viene rappresentata una vera e propria liturgia della parola ad opera del sacerdote Esdra (450 a. C.), che, ritto su una tribuna, declama le Scritture mentre “tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge”.
Secondo la consuetudine, ci racconta infatti Neemia, “i levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura”. Oltre 400 anni dopo, Gesù si colloca fermamente in questa tradizione rabbinica di primato della Parola e stavolta il popolo non tende solo l’orecchio, ma anche “gli occhi di tutti erano fissi su di lui”. Ancora da Neemia comprendiamo come la spiegazione del senso, l’interpretazione fornita dai sacerdoti, fa sì che la Parola da lettera morta diventi messaggio vivo ed efficace per il qui e ora di chi la ascolta, tanto da suscitare la commozione e il turbamento profondo del popolo (“Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge”).
Tuttavia, rispetto allo scriba Esdra, la singolarità della lettura di Gesù sta nel fatto che egli sceglie con cura la pagina di Isaia per riadattarla a se stesso, espungendo tra l’altro un versetto “duro” (“per annunciare un giorno di vendetta” diceva l’antico profeta) e modificandone le parole: lo Spirito del Signore mi ha “chiamato” diventa mi ha “unto”. La Parola proclamata diventa così interpretazione essa stessa della figura storica di Gesù di Nazaret, ne spiega i gesti, ne illumina l’agire, ne traccia il ritratto di Messia mite e vicino agli uomini nei loro bisogni, rivelando a sua volta il volto di misericordia e di libertà del Padre. Gli occhi di tutti erano fissi su di lui perché Lui è la Parola, e infatti, esordisce Luca, ci sono “testimoni oculari” che si sono fatti servitori e mediatori di questa unica vicenda umana di Parola fattasi carne e sangue.
Tra questi, a “trafficare” con la Parola, come con i talenti, c’è lo stesso Luca, che con la sua attitudine scientifica vuole mettere ordine alla congerie di racconti che circolavano su Gesù, per mostrare al Teofilo (“amico di Dio”) di ogni tempo, lo spessore della Parola su cui poggia la sua Fede. Interessante peraltro l’uso del verbo catecheo, da cui la nostra “catechesi”, che però nella nostra lingua ha svoltato verso un senso di insegnamento morale, mentre qui, come si vede, è ancorato alla Parola (logos).Ma se gli avvenimenti si sono allora compiuti (pleròo), e in Gesù “la Scrittura si è compiuta” (ancora lo stesso verbo), grazie allo Spirito che apre le orecchie e toglie il velo ai nostri occhi, essa si compie ancora, ogni giorno, nelle gambe e nelle braccia, nel cuore e nella mente di ogni uomo che da questa Parola si lascia interpellare, e alla luce di questa Parola legge la propria vita intrecciandola nella relazione salvifica con gli altri compagni di strada.
(Valentina Chinnici – Pastorale della Cultura e dell’Educazione di Palermo).
Viveva di fede come noi
«Quanto avrei voluto essere sacerdote per poter predicare sulla Madonna! Una sola volta sarebbe stata sufficiente per dire tutto quello che penso a questo proposito. Prima avrei fatto capire quanto poco conosciamo la sua vita. Non occorre dire cose inverosimili o che non sappiamo; per esempio che, da piccola, a tre anni, la Madonna ha offerto se stessa a Dio nel Tempio con sentimenti ardenti di amore e del tutto straordinari; mentre forse ci é andata semplicemente per obbedire ai suoi genitori… Perché una omelia sulla Madonna possa piacermi e farmi del bene, occorre che io veda la sua vita reale, non la sua vita supposta; e sono certa che la sua vita reale era molto semplice. Ce la mostrano inabbordabile, mentre bisognerebbe mostracela imitabile, fare vedere le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, dare delle prove di questo per mezzo del Vangelo in cui leggiamo: «Non compresero le sue parole» (Lc 2,50). E questa parola molto misteriosa: «I suoi genitori si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33). Questo stupirsi suppone un certo meravigliarsi, non è vero? Sappiamo bene che la Madonna è Regina del Cielo e della terra, eppure è più madre che regina, e non occorre dire a motivo delle sue prerogative, che lei eclissi la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere fa scomparire le stelle. Mio Dio! quanto questo mi appare strano! Una madre che fa scomparire la gloria dei suoi figli! Io penso tutto il contrario, ritengo che essa farà crescere molto lo splendore degli eletti. È bene parlare delle sue prerogative, ma non occorre dire soltanto questo… Forse qualche anima andrà fino al punto di sentire allora una certa lontananza con una tale creatura talmente superiore e dirà : «Se le cose stanno così, ci accontenteremo di andare a brillare in un angolino».Ciò che la Madonna aveva in più rispetto a noi, era il fatto che non poteva peccare, che era esente dalla macchia originale, ma d’altra parte, è stata meno fortunata di noi, poiché non ha avuto la Madonna da amare, e questa è una tale dolcezza per noi».
(Santa Teresa del Bambino Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa, in Ultimi colloqui, 21/08/1897).
…Dal cavallo al cammello.
«Chi non risponde alla Parola diventa sordo» (Martin Buber). L’accompagnamento non può che portare alla consapevolezza che, come ci ricorda NVNE, «tutta la vita è una risposta» (26/e) e, quindi, a saper scorgere le continue chiamate di Dio in ogni stagione della propria esistenza. È il faticoso passaggio dal cavallo al cammello.
Un cavallo va bene per la bellezza, la forza, la velocità e la razza, per godersi una cavalcata, gareggiare e vincere un premio. Tutto molto bello. Ma poi nella vita ci sono anche i deserti, e là il migliore dei cavalli è inutile e la velocità non serve. Il cavallo si spazientirà, diverrà irrequieto, gli zoccoli affonderanno nella sabbia. Il suo respiro brucerà nel calore e la bestia s’imbizzarrirà, cadrà e morirà nelle sabbie spietate. I cavalli non sono per il deserto.
I cammelli sì! Il cammello s’incamminerà e andrà avanti. Anche senza cibo, senz’acqua, senza redini, senza direzione, andrà avanti costantemente, fedelmente, sicuramente, manterrà la rotta, attraverserà il deserto, raggiungerà l’acqua e salverà se stesso e il suo cavaliere. La tenace perseveranza di mantenere fermamente la rotta nelle circostanze peggiori è una dote preziosa per sopravvivere in questo mondo. Noi tutti abbiamo bisogno di un cammello nelle nostre stalle.
(Antonio LADISA, La direzione spirituale oggi: perché?, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 30).
La tua parola
La tua parola, Signore, mi porta a meditare,
perché è una parola dal senso inesauribile,
che non ha mai finito di offrire i suoi segreti
a colui che li cerca.
Più che alla riflessione, la tua parola m’invita
alla contemplazione, perché sei tu che mi parli
e mi fai scoprire la tua personalità,
in tutto quello che dici.
Leggendo il Vangelo per accogliere
tutta la verità che ci hai insegnato,
vorrei unirmi con più chiarezza
a tutto quello che sei.
Trasforma la mia lettura in uno sguardo profondo
che cerchi la tua presenza e raggiunga,
attraverso la tua parola, un volto d’amico
dal sorriso divino.
Arricchendosi di un testo che è vita,
il mio spirito e il mio cuore possano trovare in te
un riposo che li apra ad una conoscenza
carica d’amore.
(JEAN GALOT, Contemplazione, Benedettine, S. Agata sui due Golfi, 1987).
La casa della Parola
Nella sua Parola è Dio stesso a raggiungere e trasformare il cuore di chi crede: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4,12). Affidiamoci, allora, alla Parola: essa è fedele in eterno, come il Dio che la dice e la abita. Perciò, chi accoglie con fede la Parola, non sarà mai solo: in vita, come in morte, entrerà attraverso di essa nel cuore di Dio: “Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” (San Gregorio Magno).
Alla Parola del Signore corrisponde veramente chi accetta di entrare in quell’ascolto accogliente che è l’obbedienza della fede. Il Dio, che si comunica al nostro cuore, ci chiama ad offrirgli non qualcosa di nostro, ma noi stessi. Questo ascolto accogliente rende liberi: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,31-32).
Per renderci capaci di accogliere fedelmente la Parola di Dio, il Signore Gesù ha voluto lasciarci – insieme con il dono dello Spirito – anche il dono della Chiesa, fondata sugli apostoli. Essi hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso, custodito nello scrigno sicuro del popolo di Dio pellegrino nel tempo. La Chiesa è la casa della Parola, la comunità dell’interpretazione, garantita dalla guida dei pastori a cui Dio ha voluto affidare il suo gregge. La lettura fedele della Scrittura non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro.
(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 63-64).
Preghiera
O Gesù, ti sei presentato al tuo paese
per annunciare i tempi messianici,
per proclamare
ai poveri il lieto messaggio,
ai prigionieri la liberazione,
ai ciechi la vista,
agli oppressi la libertà,
per predicare un anno di grazia.
Grazie per tutti coloro che si adoperano per questo.
19. “Volete levarvi di dosso questa melanconia? Venite da me e troveremo il mezzo per cacciarla e per rimediare” (MB6 321).
20.(Ss. Fabiano e Sebastiano)– “Erano raccolti per la elezione del nuovo Papa quando videro una colomba [che] si andò a posare sul capo di Fabiano” (OE30 27). – “Il Santo Pontefice ravvisando in questo giovine militare [Sebastiano] un cristiano pio, dotto, prudente, ed intrepido in mezzo a tutti i pericoli lo costituì difensore della Chiesa Romana” (OE14 384).
21.(S. Agnese)– “All’età di soli dodici anni ella fu in mille guise insultata, flagellata, minacciata […] e finalmente cinta della corona dei vergini e dei martiri” (OE15 53s).
22.(S. Vincenzo diacono)–(B. Laura Vicuña) “Per far del bene, era solito ripetere, bisogna avere un po’ di coraggio” (MB3 52).
23. “Se pregate, da due grani che voi seminate ne nasceranno quattro spighe; se non pregate, seminando quattro grani raccoglierete due sole spighe” (MB1 197).
24.(S. Francesco di Sales)– “Colle sole armi della dolcezza e carità si parte pel Chiablese”, “tutto s’accende di zelo”, “colla sua pazienza, colle prediche, cogli scritti, e con insigni miracoli acqueta ogni tumulto”; “quasi per forza creato Vescovo di Ginevra, […] raddoppiò il suo zelo non trasandando anche il più basso uffizio del suo ministero” (OE1 479s).
25.(Conversione di S. Paolo)– Dio “è padrone dei cuori”, e “può cangiare anche una tigre feroce in mansueto agnello” (OE24 28).
Questo piccolo “calendario salesiano” propone al lettore un pensiero di don Bosco per ogni giorno dell’anno.
Segue il calendario liturgico della Chiesa, nel quale inserisce il Proprio della Famiglia salesiana.
Per ogni giorno offre un pensiero del Santo possibilmente adattato al giorno corrispondente.
Come si può indovinare, questo piccolo calendario è destinato in modo speciale ai membri della Famiglia salesiana come nutrimento per il loro spirito salesiano.
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco,
– soprattutto nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana);
– nei 19 volumi delle Memoriebiografiche (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria);
– nelle Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo);
– e nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto).
La seconda cifra indica la pagina del volume.
Le solennità sono in maiuscolo, le feste in maiuscoletto, le memorie obbligatorie in minuscolo tondo, e le memorie facoltative in minuscolo corsivo.
In pochi casi l’ortografia e la punteggiatura dei testi di don Bosco sono state modernizzate per facilitare la lettura.
(Morand Wirth)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
“2025: A.I. confini della comunicazione” è il titolo del Convegno organizzato dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, che si terrà dal 23 al 26 gennaio a Roma.
L’evento si aprirà con due sessioni tematiche specifiche per poi intersecarsi con il programma ufficiale del Giubileo del mondo della comunicazione. Si inizia giovedì alle 15.30 con il saluto di mons. Domenico Pompili, presidente della Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, e l’introduzione di Vincenzo Corrado, Direttore dell’Ufficio. Alle 16 è prevista la riflessione di Maria Chiara Carrozza, presidente del CNR, su “Intelligenza artificiale, informazione e comunicazione”, mentre alle 18 sarà Mariagrazia Fanchi, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore a soffermarsi su “Le sfide della comunicazione oggi”. Venerdì 24 gennaio, alle 9.30 Alessandro Gisotti, vicedirettore della Direzione Editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, offrirà ai partecipanti una lettura del Magistero pontificio legato ai temi della comunicazione. Alle 10, Antonio Preziosi, direttore del Tg2, interverrà su “Il senso del limite”, mentre alle 10.30 Marco Ferrando, direttore delle testate del Master in giornalismo dell’Università di Torino, e Celeste Satta, del medesimo Ateneo, rifletteranno su “meno prodotti, più processi”. Alle 11.45 è in programma un dialogo con Marco Girardo, direttore di Avvenire, Vincenzo Morgante, direttore di Tv2000-inBlu2000, e Amerigo Vecchiarelli, direttore dell’Agenzia Sir. Nel pomeriggio l’appuntamento è nella Basilica di San Giovanni in Laterano per la Messa internazionale in occasione della festa di San Francesco di Sales. La giornata di sabato 25 è dedicata al Pellegrinaggio alla Porta Santa di San Pietro e all’incontro culturale in Aula Paolo VI con Maria Ressa e Colum McCann (moderato da Mario Calabresi), seguito dall’esibizione del Maestro Uto Ughi. Alle 12.30, gli operatori della comunicazione arrivati da tutto il mondo saranno ricevuti in udienza da Papa Francesco, sempre in Aula Paolo VI. Alle 15, nell’ambito dei “Dialoghi con la città” organizzati per il Giubileo, il Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, dialogherà con Ferruccio De Bortoli, giornalista e saggista, sul tema: “Comunicare speranza e pace” (Basilica di Santa Maria in Trastevere). Il tutto si concluderà il 26 gennaio con la Messa della Domenica della Parola presieduta dal Papa nella Basilica di San Pietro.
“Nel sentire comune, i confini vengono solitamente intesi come linee di delimitazione di un territorio, di una proprietà oppure della sovranità di uno Stato. Eppure, la radice etimologica della parola indica ben altre sfumature: cum e finis. Cioè, cum, che rimanda alla condivisione. E, poi, finis, che significa limite ma anche culmine di un’azione”, sottolinea Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali ricordando che “il rapporto con i confini si gioca proprio sul livello della relazione”. “È un punto di incontro, tra il vecchio e il nuovo. Ai (il riferimento è ai sistemi di intelligenza artificiale) confini ci si incontra per dirigersi verso il cuore della comunicazione. Questo percorso, certamente faticoso, restituisce il fascino dell’incontro, dell’ascolto e della parola. A noi – conclude – l’impegno di coglierne il messaggio e tradurlo in realtà”.
è vicino il momento in cui dovranno essere effettuate le iscrizioni al primo anno dei diversi ordini e gradi di scuola, un appuntamento che comprende anche la scelta di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica (Irc). Cogliamo l’occasione per invitarvi ad accogliere questa possibilità, grazie alla quale nel percorso formativo entrano importanti elementi etici e culturali, insieme alle domande di senso che accompagnano la crescita individuale e la vita del mondo. Il tutto, in un clima di rispetto e di libertà, di approfondimento e di dialogo costruttivo. Mentre vi scriviamo, muove i primi passi il Giubileo del 2025, che Papa Francesco ha voluto dedicare al tema “Pellegrini di speranza”. Si tratta di un evento dai forti significati non solo religiosi, ma anche culturali e sociali, a conferma di come il messaggio cristiano parli all’uomo di oggi non meno di quanto abbia inciso in passato nella storia e nella cultura nazionale e mondiale. Il Giubileo, infatti, è tra le altre cose sinonimo di riconciliazione, di pace, di dignità umana, di giustizia, di salvaguardia del creato, beni essenziali di cui sentiamo un urgente bisogno. Il tema della speranza provoca in modo speciale il mondo dell’educazione e della scuola, luoghi in cui prendono forma le coscienze e gli orientamenti di vita e si pongono le basi delle future responsabilità. Quale speranza dà senso all’esistenza? Dove è possibile riconoscere e trovare ragioni di vita e di speranza? E ancora, prendendo a prestito le parole di Papa Francesco, come sostenere la necessità di «un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine» (Spes non confundit, 9)? Sono domande a cui la scuola non può essere estranea e alle quali dà spazio l’insegnamento della religione cattolica. Testimoni di speranza sono infatti i docenti di religione, che uniscono alla competenza professionale l’attenzione ai singoli alunni e alle loro domande più profonde. Siamo molto grati a tutti gli insegnanti che, mentre offrono le ragioni della speranza che li muove, accompagnano coloro che stanno crescendo a scoprire la bellezza e il senso della vita, senza cedere alle tentazioni dell’individualismo e della rassegnazione, che soffocano il cuore e spengono i sogni. Il cammino dei prossimi mesi – anche grazie all’Irc – ci aiuti a ritrovare la fiducia e il coraggio di aprire le famiglie, le scuole e tutte le comunità a nuovi orizzonti di collaborazione e di speranza.