Con grande gioia e partecipazione, l’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana ha celebrato, il 21 maggio di quest’anno giubilare, la Festa dei Partenti, un momento speciale dedicato agli studenti che stanno per concludere il loro percorso di studi e che ora si preparano a tornare nelle loro terre di missione.
Dopo anni di approfondimento teologico e pastorale, questi catecheti partiranno per le loro rispettive comunità nei quattro continenti di provenienza (manca all’appello solo l’Oceania), dove continueranno il loro impegno nelle proprie diocesi o congregazioni di appartenenza.
Un evento di fede e fraternità
La celebrazione ha avuto il suo momento centrale nella Santa Messa, vissuta con profonda spiritualità e partecipazione da parte di tutti gli studenti e docenti dell’Istituto. Un’occasione per ringraziare Dio per il cammino formativo vissuto e affidare a Lui il nuovo percorso che attende i partenti.
A seguire, il pranzo comunitario ha permesso ai presenti di condividere un clima di gioia e fraternità, rafforzando i legami costruiti nel tempo trascorso insieme.
Un augurio per il futuro
L’ICa esprime il suo affettuoso augurio a questi catecheti, affinché possano continuare a diffondere il Vangelo con passione e dedizione, portando la luce della fede nelle loro comunità. Il direttore dell’Istituto, don Giuseppe Ruta, ha sottolineato l’importanza di mantenere vivi i contatti, promuovendo una formazione continua e favorendo la creazione di reti e comunità di ricerca per un dialogo e un approfondimento sempre più ricco.
Che il loro servizio sia fecondo e che il Signore li accompagni sempre.
Novita: I partecipanti al Corso IdR potranno utilizzare la carta del Docente per corrispondere la quota di iscrizione di 160 euro. Quanti sono già iscritti potranno avere il conguaglio per la quota di soggiorno nel Campus universitario dell’UPS (sui previsti 190 euro).
Ancora pochi posti disponibili!!!
1-3 luglio 2025 presso Università Pontificia Salesiana di Roma – Piazza Ateneo Salesiano, 1
L’Istituto di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana intende riprendere la tradizione delle attività di formazione residenziale per Insegnanti di Religione Cattolica (IdR) con un Corso che avrà luogo dal 1 al 3 luglio 2025 a Roma sul tema: Il sapere religioso nel tempo del dialogo.
Relatore: prof. Pierpaolo Triani, ordinario di Pedagogia, Università Cattolica di Milano,
Discussant: prof. Carlo Macale, docente di Pedagogia del lavoro, UPS.
Seguirà il laboratorio didattico.
2 luglio, mattina: dimensione teologica
Relatore: prof. Giuseppe Lorizio, ordinario di Teologia, Pontificia Università Lateranense,
Discussant: prof. Komlanvi Samuel Amaglo, docente di Teologia delle religioni, UPS.
Seguirà il laboratorio didattico.
2 luglio, pomeriggio: dimensione filosofica
Relatore: prof. Adriano Fabris, ordinario di Filosofia morale, Università di Pisa,
Discussant: prof. Tiziano Conti, docente di Filosofia dell’educazione, UPS.
Seguirà il laboratorio didattico.
3 luglio, mattina: dimensione sociologica
Relatore: prof.ssa Cecilia Costa, ordinaria di Sociologia, Università di RomaTre,
Discussant: prof.ssa Maria Paola Piccini, docente di Metodologia della ricerca sociale, UPS.
Seguirà il laboratorio didattico.
Note logistiche
Il Corso si svolgerà presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, con arrivo entro le ore 14.00 del 1° luglio e partenza dopo il pranzo del 3 luglio.
Costi
Soggiorno con trattamento di pensione completa in camera singola, dalla cena del 1° luglio al pranzo del 3 luglio: € 190 (IVA compresa).
Spese di partecipazione al corso: € 160 (IVA compresa).
Costo di un singolo pasto: € 20 (IVA compresa).
Chi non intende pernottare in sede verserà solo la quota di partecipazione e dei singoli pasti prenotati.
Eventuali soggiorni di familiari in camere multiple o prolungamenti del soggiorno per fermarsi a Roma nei giorni successivi saranno concordati direttamente dagli interessati con Fraterna Domus (info@fraternadomus.it; tel. 06-330821).
Iscrizione e scadenze
Indirizzo mail unico di comunicazione sarà rpr@unisal.it (salvo diverse disposizioni)
L’iscrizione va comunicata entro il 30/05/2025 inviando una mail a rpr@unisal.it, indicando nell’oggetto Corso IRC 2025 – Cognome e Nome e allegando la scheda di iscrizione debitamente compilata e la ricevuta del bonifico attestante il pagamento della quota di partecipazione (€ 160) a titolo di caparra. La caparra verrà restituita solo in caso di annullamento del Corso; non sarà restituita in caso di ritiro dell’iscrizione da parte dell’interessato/a.
Il pagamento è da effettuarsi unicamente tramite bonifico bancario con le seguenti coordinate: IBAN: IT62W0569603219000001000X18
ll nuovo corso di formazione, promosso dalla CRUIPRO, mira a formare leader capaci di orientarsi e guidare la comunità ecclesiale secondo lo stile della sinodalità. L’approccio adottato combina teoria e pratica, favorendo un apprendimento immersivo attraverso strumenti quali l’ascolto reciproco, la conversazione nello Spirito, l’interazione tra scienze, teologia e pastorale, la preghiera comune e momenti di condivisione fraterna.
L’iniziativa è aperta esclusivamente agli studenti e alle studentesse di Licenza e Dottorato di ogni indirizzo regolarmente iscritti all’anno accademico 2025/2026 -solo a coloro che stanno attualmente studiando a Roma- e si svolgerà dal 29 settembre al 3 ottobre 2025 presso l’Istituto Giovanni Paolo II a Roma.
Il corso è gratuito, la frequenza è esclusivamente in presenza ed è prevista una prova finale al fine di ottenere l’assegnazione di 3 ECTS.
Il programma sarà guidato da un prestigioso gruppo di docenti, tra cui Sr Nathalie Becquart, Sottosegretaria del Sinodo dei Vescovi, Philippe Bordeyne, Preside dell’Istituto Giovanni Paolo II, Andrea Bozzolo, Rettore dell’Università Pontificia Salesiana e Presidente CRUIPRO, Armando Nugnes, Rettore del Pontificio Collegio Urbano.
Ogni giornata del corso seguirà una scansione ben definita:
08:30 Preghiera, 09:00 Inizio lezioni, 12:15 Santa Messa, 13:00 Pranzo comunitario, 15:00 Lavori di gruppo, 18:00 Conclusione dei lavori.
Le iscrizioni sono aperte fino al 15 maggio 2025.
Per partecipare, è necessario presentare una lettera motivazionale.
Per maggiori informazioni, è possibile inviare una mail a: eventi@istitutogp2.it
Ricerca di spiritualità e genitori dell’iniziazione cristiana
Convegno AICa 2-4 settembre 2025 – Torino
Giovedì 10 aprile 2025 dalle 16 alle 17, online presentazione del convegno AICa 2025
Link zoom: https://bit.ly/aica2025 – passcode: aica
Nella complessità che stiamo vivendo ci chiediamo quale sia lo specifico della catechesi e quali arricchimenti possa trarre dalla relazione con i diversi soggetti che incontra nell’azione pastorale. Il primo anno del convegno ci ha messo in ascolto di esperienze, luoghi e periferie esistenziali che ci hanno invitato a ripensare la vita pastorale odierna e la proposta della catechesi. In particolare siamo stati provocati dal cambiamento della spiritualità e della forma di Chiesa che si stanno delineando. In questo secondo anno, ci lasciamo provocare dalla ricerca di spiritualità dei giovani che tocca anche i genitori dei ragazzi dell’iniziazione cristiana, per rinnovare il nostro modo di incontrarli e di accompagnare gli itinerari proposti.
Quando: dal pomeriggio di martedì 2 a dopo pranzo di giovedì 4 settembre 2025. Dove: Casa don Bosco – Valdocco, via Maria Ausiliatrice, 32, Torino. Come arrivare: La stazione Ferroviaria più vicina è Porta Susa: da qui si può prendere il taxi o il bus numero 10 N direzione Rondò Della Forca.
Martedì 2 settembre 2025: ● 16.00: Accoglienza e presentazione del convegno ● 16.30: Ascolto della ricerca su giovani e spiritualità – Paola Bignardi e d. Claudio Margaria ● 18.30: Celebrazione eucaristica
Mercoledì 3 settembre 2025 ● 9.00: In ascolto dei genitori e della loro ricerca di spiritualità nell’esperienza della diocesi di Torino (d. Michele Roselli) ● Pranzo ● 15.00: Approfondimento del significato e lavoro con la griglia di lettura della realtà attuale (d. Rolando Covi). Lavoro in gruppo ● 18.30: Celebrazione eucaristica ● Cena sociale
Giovedì 4 settembre ● 9.00: condivisione in assemblea e rilettura del percorso ● 12.00: Conclusione convegno ● 12.30: Pranzo
Iscrizioni: è possibile iscriversi al Convegno entro il 30 giugno 2025 compilando il google form
Per informazioni Don Stefano Borghi (segretario AICa) segreteria@catechetica.it
Quota di partecipazione è di 230€ Comprensiva di: vitto e alloggio: 150€ (dalla cena del 2 al pranzo del 4) iscrizione al convegno 40€ quota associativa 2025: 40€
Per coloro che hanno già versato la quota associativa 2025 il costo è di 190€ Per coloro che partecipano in forma non residenziale il costo è di 80€ (comprensivo di quota associativa 2025) più supplemento di eventuali pasti (15€ ciascuno).
La quota di partecipazione deve essere versata per mezzo di Bonifico Bancario sul c.c.: IBAN: IT49S0306909606100000182921 Intestato a: Associazione Italiana del Catecheti Causale: Cognome e Nome – Partecipazione Convegno AICa 2025
Aldo Cazzullo, Il Dio dei nostri padri. Il grande romanzo della Bibbia, HarperCollins, Milano 2024, pp.333, € 19,50
Questo volume merita essere conosciuto e magari letto con attenzione. Ne facciamo qui una presentazione secondo questi punti: diffusione (1), contenuto (2), ragioni del successo (3), come valutare il testo e utilizzarlo (4).
(1). Diverse sono le ragioni che motivano la presentazione di questo libro. Partiamo dal fatto semplice ma espressivo: esso è stato acquistato con un prezzo accessibile e diffuso per migliaia di copie (si parla di oltre 300.000 nel 2024) in Italia e all’estero, suscitando curiosità e giudizi diversi, in generale di tono positivo, affermando: «È un libro che mi piace, è originale perché tocca in profondità il mondo dell’uomo, si ispira alla Bibbia così trascurata nella cultura popolare…». Più avanti daremo delle spiegazioni motivate.
(2). Quanto al contenuto precisiamo subito che il richiamo nel titolo alla Bibbia, non corrisponde ad una nuova edizione della Bibbia (come la “Bibbia di Gerusalemme” o altre rinomate edizioni) e nemmeno ad un volume di esegesi o spiegazione scientifica di essa. Pur dovendo ammettere che l’A. cerca di essere fedele al dettato del testo per quanto conviene al suo scopo di scrittura. Per capire il genere letterario conviene anzitutto conoscere chi l’ha scritto. Si chiama Aldo Cazzullo (nato nel 1966), giornalista patentato e brillante del “Corriere della Sera”, che non si dichiara apertamente cattolico, ma persona affascinata dalla Bibbia e dunque si sente spinto da una specifica visione umana e religiosa. Ha riletto con lui il manoscritto un grande esperto di Bibbia, il Card. Gianfranco Ravasi.
L’A. dà questa motivazione perché ha composto questo libro: «La Bibbia nessuno la legge più. Invece la Bibbia è un libro meraviglioso. Che si può leggere anche come in un grande romanzo: l’autobiografia di Dio», e noi completiamo, “è anche l’autobiografia dell’uomo”. Dunque Dio e uomo cioè noi, così come ne parla un libro memorabile come la Bibbia, che dalla Chiesa è intesa come “Parola di Dio” e nominata “Sacra Scrittura”.
Diciamo subito che l’A. si limita alla prima parte della Bibbia chiamata Antico Testamento (AT) o prima alleanza tra Dio e il popolo di Israele. Non vi è intenzione di estromettere il Nuovo Testamento (NT) o nuova alleanza, cioè la storia di Gesù e della Chiesa alle origini. Vi sono – è vero – cenni significativi specie nel capitolo finale. Si può dire che la scelta dell’AT è determinata dall’intenzione dominante dell’A.: con l’AT far conoscere con più ampiezza e ricchezza di segni il mistero dell’uomo all’uomo di oggi. Ciò ha portato il giornalista e scrittore a mettere in scena personaggi “umani” che svolgono un ruolo significativo nella storia narrata dal Libro sacro.
Naturalmente per Cazzullo non si tratta di fare un’astratta filosofia di chi è l’uomo, ma proprio rispettando la Bibbia, egli intende far conoscere che essa è fatta di persone concrete, uomini e donne, sovente protagonisti della vicenda in cui sono inseriti. Ne vengono fuori undici capitoli, ciascuno articolato secondo i dati principali riguardanti il personaggio. Eccellente è lo stile di scrittura, attento al testo biblico senza falsarne il significato con indebite e impertinenti aggiunte, ed insieme spiegando con chiarezza certe modalità linguistiche e di pensiero della Bibbia che non sono più le nostre, e dunque introducendo per questo una sorta di rapida attualizzazione, ricorrendo sapientemente a parole e immagini del nostro tempo.
Ecco, dunque, i contenuti come li nomina lo stesso A.: la creazione, Adamo ed Eva, la cacciata dall’Eden, Caino e Abele, Noè e il diluvio, la storia di Giacobbe che lotta con Dio e di Giuseppe che svelò i sogni del Faraone, Mosè, le piaghe d’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, i dieci comandamenti, la conquista della terra promessa, da Giosuè che espugna Gerico a Davide che taglia la testa di Golia, da Sansone, l’eroe fortissimo ma tradito dal suo amore, a Salomone che innalza il tempio… Sono raccontate anche alcune “grandi donne” della Bibbia: Giuditta che decapita il condottiero nemico, Ester che salva il popolo dallo sterminio, Susanna che vede condannati i suoi molestatori. E poi l’angelo che salva Tobia e il diavolo che tormenta Giobbe, l’amore del Cantico dei Cantici e la disillusione di Qoelet («Tutto è vanità»). Sino alla grande speranza della risurrezione, e di un salvatore che viene a riscattare l’umanità: per i cristiani, Gesù (cf. pp. 321-322).
(3). Qui viene tanto necessaria quanto inevitabile la domanda: quali sono le ragioni del successo? Si sono espressi in tanti: uomini di cultura cristiani, ed anche non credenti, gente del popolo con prevalenza di ammirazione ed anche di domande. È a questo livello di globale buona impressione che ci si deve interrogare: perché un libro dimenticato è come diventato un libro risorto. Cazzullo afferma come ragione di successo che la Bibbia «è una storia che parla di noi», ci parla con una originalità stupefacente ed attraente.
Su questa lunghezza d’onda, va ricordato che, con la partecipazione dell’A., è stata fissata “una giornata particolare” articolata in diversi incontri a livello nazionale, con il titolo Alla scoperta dei segreti della Bibbia («Corriere della Sera», 23 marzo 2025, p. 37).
(4). In una valutazione complessiva, tenendo conto anche della identità della Bibbia secondo lo studio scientifico, va riconosciuto ed appezzato il tentativo di parlare dell’uomo all’uomo secondo una esperienza plurisecolare di un popolo, che ha scritto la Bibbia come sua memoria fondante, appellandosi dunque a Dio per parlare di sé. Veramente essa attrae come un“romanzo”, come la chiama l’A. Ma va anche osservato che si fanno delle spiegazioni ed applicazioni esistenziali che non sempre rispettano completamente il senso biblico. In particolare è stato osservato che parlando dell’uomo davanti a Dio, non si parla di quale Dio sia di fronte all’uomo, finendo di parlare a metà dell’uomo stesso. Si tratta di esprimere più integralmente la relazione tra l’uomo e Dio. Rimane dunque la domanda, magari per un prossimo libro: chi è questo Dio da cui sgorga l’umanità sorprendente e attraente dell’uomo biblico, diventato in certo modo nostro compagno di viaggio?
Dicembre, 2024. Il nuovo numero della rivista online dell’Istituto di Catechetica
Editoriale
L’Insegnamento della religione cattolica (IRC) è per definizione, per statuto e per convinzione dei docenti una disciplina scolastica. Senza negare la necessità di un aggiornamento continuo delle abilità metodologico-didattiche degli Insegnanti di religione (IdR), l’attenzione dei contributi raccolti nel presente numero di “Catechetica ed Educazione” è volutamente spostata sulla dimensione epistemologica dell’IRC, recuperando una vecchia tradizione dell’Istituto di Catechetica (ICa) che già nel secolo scorso ha promosso un ampio dibattitto sull’identità dell’IRC e sulle modalità della sua attuazione didattica.
L’intenzione è di calarsi nell’area fondativa della disciplina, in quel territorio di retrovia, in quei punti di appoggio che, sebbene celati alla vista, sono determinanti per reggere il peso dell’intera struttura. Fuor di metafora, si vuole analizzare quel tessuto connettivo che a ben vedere permette di collocare in un orizzonte di significato, costruire motivazioni, sorreggere e purificare intenzioni, dare garanzia di radici affondate in un terreno solido e condiviso, da cui muovere per affrontare la quotidianità del presente e immaginare un futuro appropriato e significativo. Si parla di prove di epistemologia e non di itinerari o percorsi, proprio per lasciare il campo aperto e non indicare un tragitto definito. In effetti, viviamo un momento storico-culturale che ci chiama a riconsiderare le certezze, magari a metterle in discussione, a vagliare le auctoritates del nostro ambito di studio e di lavoro e riformulare, aggiornandole, le convinzioni di base. Per questo non è un caso che i due poli della riflessione proposta siano precisamente religione e cultura, considerati non come nuclei tematici assoluti bensì come energie sorgive dal cui intreccio scaturisce l’IRC che – in quanto disciplina scolastica – è una mediazione didattica di approccio a un aspetto della realtà e a una dimensione della cultura, la religione per l’appunto. Sia da un punto di vista istituzionale che da un punto di vista pratico, l’IRC è di fatto l’unico presidio di cultura religiosa negli ambienti scolastici italiani. Ne deriva una grande responsabilità sia per rispettare i parametri concordatari che per assicurare una legittimità scientifica e pedagogica. Pensiamo perciò a una epistemologia non solo astrattamente teorica ma messa a confronto con l’attuale ordinamento ministeriale in Italia, per verificare quanto sia presente o quanto sia assente un taglio culturale nell’IRC concretamente vissuto nelle aule scolastiche. Su questa tematica si è svolto un seminario di studio nel gennaio 2024, i cui interventi (Cicatelli, Montagnini, Zini, Padula e Carnevale), revisionati e ampliati, sono riprodotti in questo fascicolo.
Un ulteriore contributo di riflessione è offerto dall’articolo di Giuliana Migliorini e dalla presentazione di un’indagine sugli IdR di Anna Peron, entrambe partecipanti al Seminario. Il saggio di Sergio Cicatelli introduce e fonda la riflessione sull’epistemologia dell’IRC, volendo riaprire una discussione che ha conosciuto una stagione di confronto assai ricco e vivace negli scorsi anni Settanta e Ottanta. L’Autore propone che l’IRC possa essere inteso principalmente come cultura religiosa, perché la dimensione religiosa della cultura è oggetto di attenzione e mediazione scolastica accanto e a prescindere dalle singole appartenenze confessionali. Dai concetti di cultura (come mondo vitale) e di religione (come costruzione umana) può scaturire una rivisitazione della natura dell’IRC (capace di parlare alla coscienza di ogni alunno proprio perché culturale e capace di rimanere fedele al religioso perché fedele all’umano), che lo colloca tra gli strumenti privilegiati di conoscenza scolastica trasversale e di alfabetizzazione dei cittadini. L’intervento di Flavia Montagnini rilegge il rapporto Vangelo-educazione culturale, legandolo a questioni specifiche che possono interessare l’IdR (risonanza pedagogica e antropologico-esistenziale della cultura religiosa cristiana a scuola). La riflessione sull’epistemologia di una disciplina corre sempre il rischio di essere relegata nell’ambito accademico, se l’insegnante non è capace di immaginare che diventi pratica quotidiana nelle aule. La domanda se l’IRC possa realmente essere offerto agli alunni come cultura religiosa secondo i principi della didattica disciplinare trova risposta affermativa ancorandosi alla professionalità dell’IdR. Il rispetto per l’epistemologia dell’IRC implica un’azione di insegnamento che fa propri alcuni assunti pedagogici e li traduce in un’azione didattica coerente, che vive come risorsa la diversità dei singoli docenti nella gestione dell’aula, dal punto di vista relazionale, didattico ed organizzativo. La sezione dedicata agli Approfondimenti prende corpo grazie a diversi contributi, che mettono in evidenza aspetti filosofici, sociologici e didattici della cultura religiosa calata nella mediazione didattica dell’IRC. Paolo Zini considera possibilità e ambivalenze della cultura come via alla religione e inserisce l’IRC in tale analisi. Il mediatore di senso del quale la religione sembra aver bisogno per rendersi accostabile nello spazio pubblico è la cultura. E la formalità culturale è necessaria per fondare, giustificare, accreditare la legittimità curricolare dell’Insegnamento della Religione perché, a prescindere dalla logica che attraversa ciascuna espressione religiosa ad intra, l’Occidente è ancora vincolato alle prescrizioni illuministiche. Sotto questa luce, l’IRC forse vivrebbe l’imbarazzante situazione di una disciplina dall’oggetto formale che contrasta quello materiale e viceversa, perché la pretesa religiosa del Cristianesimo collide con i parametri dell’Occidente contemporaneo, che decidono cosa sia cultura e quale sia la sua legittima espressione. L’IRC sembra qualificarsi come evento didattico indispensabile non solo per il rilievo storico del suo oggetto, ma come istanza critica di tutto il sapere che abita e anima in forme diverse ogni perimetro didattico. La domanda religiosa illumina la parzialità del materiale rispetto agli aneliti più profondi dell’animo umano. Davanti alle possibilità culturali la domanda religiosa svela il desiderio escatologico della persona, che azzarda l’approdo alla sfera dell’ultramondano. E considerare la via della speranza – nella sua inaudita incarnazione cristiana – è forse, prima di un’opportunità, un diritto della coscienza di chi più o meno consapevolmente frequenta la scuola per imparare la vita. La presa di coscienza che cultura e religione si muovono tra incertezza e complessità è l’assunto su cui si basa l’argomentazione del sociologo Massimiliano Padula. La religione si configura come un fatto sociale e il suo insegnamento rientrerebbe nel novero delle prassi, peraltro garantito e protetto da una struttura giuridica definita dal Concordato. L’abbinamento dell’IRC alla categoria di “cultura religiosa”, mantenendo il discorso nei termini avalutativi della visione sociologica, riesce a garantire all’insegnamento la prospettiva epistemologica necessaria per consentirgli di posizionarsi efficacemente in uno scenario non solo secolarizzato e plurale, ma oramai di “neo-cristianesimo” o “cristianesimo di ritorno”, per cui l’Europa tende a diventare terreno di sviluppo di pratiche e format ecclesiali d’intonazione evangelico pentecostale. E dunque, l’IRC può fare cultura religiosa? Cristina Carnevale cerca di mettere a confronto la prospettiva epistemologica proposta con la prassi didattica, con particolare riferimento alla scuola primaria e a quella dell’infanzia, proponendo una serie di esempi desunti dalla pratica didattica pensata in chiave di cultura religiosa. Ma il punto di partenza è la scelta di considerare la cultura religiosa come incontro col patrimonio letterario-artistico cristiano; come scoperta del patrimonio immateriale legato al Cristianesimo; come condizione personale e religiosa in un contesto di immersione nel digitale; come insieme di conoscenze religiose all’interno di un sapere unitario legato alla vita.
Il metodo ermeneuticoesistenziale e la didattica simbolica risultano traiettorie efficaci non solo in termini di apprendimento ma anche di definizione di identità, scelta di comportamenti e nascita di atteggiamenti, quindi in termini di configurazione culturale legata al tema religioso. Quali sono le ragioni educative e culturali, che fanno dell’IRC una disciplina scolastica a pieno titolo? Se il rapporto della religione con la cultura presenta interessanti risvolti sotto il profilo pedagogico e didattico, il Cristianesimo gioca un ruolo decisivo nella configurazione della cultura italiana ed europea. Giuliana Migliorini, soffermandosi sull’arte come veicolo di espressione dell’esperienza umana e religiosa e come momento qualificante della cultura, evidenzia come proprio il confronto tra produzioni artistiche di differenti ambienti religiosi possa avviare un dialogo costruttivo e aperto con altre esperienze di fede senza pregiudizi o perdita delle proprie specificità anche per chi non ha alcun legame con la vita religiosa. È altresì importante valorizzare l’accesso artistico alla cultura religiosa, sapendo che la scuola tende ormai a connettersi in modo dinamico all’extrascolastico e a rafforzare le competenze disciplinari in prospettiva interdisciplinare. Le prove di epistemologia proposte in questo numero di “Catechetica ed Educazione” si completano con un sondaggio, costruito e realizzato da Anna Peron. Il focus dell’argomentazione circa il rapporto tra religione e cultura si sposta decisamente verso l’IRC, centrando l’attenzione sullo strumento per eccellenza di orientamento della pratica didattica e in cui si evidenziano le scelte culturali e scolastiche in tema di religione, ovvero le Indicazioni Nazionali. Il sondaggio ha voluto mettere in evidenza il livello di conoscenza delle linee-guida da parte di un campione sufficientemente significativo di IdR italiani; trovarne i punti di forza e di debolezza; individuare particolari esigenze formative degli IdR rispetto alla conoscenza e applicazione delle Indicazioni. Interessanti i suggerimenti per un perfezionamento del documento e l’emergere di un bisogno di formazione, che riguarda non solo la conoscenza delle Indicazioni Nazionali, ma aspetti metodologici, docimologici, pedagogici e il tema biblico in particolare, tra i nuclei tematici. Certamente emerge la necessità di revisionare una pedagogia condivisa in chiave di progettazione per competenze e un adeguamento ai tempi attuali della visione del fenomeno religioso.
“La dimensione educativa della catechesi”. Le relazioni di fondo del Simposio Si è voluto dedicare una seconda parte del fascicolo all’evento che ha concluso l’anno dedicato a celebrare i settant’anni di vita dell’ICa (1953-54/2023-24): il Simposio internazionale di catechetica “La dimensione educativa della catechesi”. L’incontro si è svolto nella sala J.E. Vecchi dell’Università Pontificia Salesiana (Roma) l’8-9 novembre 2024 e ha visto la partecipazione in presenza di un centinaio di catecheti, pastoralisti e pedagogisti, mentre diversi altri studiosi erano collegati online dalle loro sedi nei vari continenti. Dopo aver portato l’attenzione sulla dimensione comunicativa della catechesi, in occasione del 60° anniversario della sua fondazione, l’ICa ha scelto in questa circostanza di concentrare la riflessione sulla dimensione educativa di questa disciplina, cioè la prospettiva che da sempre ne ha caratterizzato l’approccio. Del denso programma si riportano qui esclusivamente le relazioni principali che hanno introdotto ciascuno dei tre “sguardi” con cui si è voluto esaminare il rapporto tra catechesi ed educazione: quello storico retrospettivo, quello che si posa sulla situazione attuale e quello che si spinge verso il futuro. Le tre relazioni hanno avuto ciascuna la reazione di diversi discussant e hanno dato vita a un confronto appassionato e stimolante tra gli esperti. Si spera di raccogliere in un unico volume di prossima pubblicazione l’insieme di contributi scritti e di riflessioni emerse durante il Simposio. La relazione del catecheta francese Joël Molinario ha approfondito la relazione tra la catechesi e l’educazione così come si è sviluppata nel passato. La ricognizione ha permesso di constatare la differenza tra le epoche storiche in riferimento all’educazione alla fede dei battezzati. L’Autore ha concentrato la sua riflessione sull’epoca moderna e si è soffermato, in particolare, su tre momenti determinanti: l’affermarsi dello strumento “catechismo” nel XVI secolo, fatto che non può essere compreso appieno se non lo si colloca nel contesto dell’Umanesimo rinascimentale e della sua preoccupazione per l’educazione; la nascita e lo sviluppo del “movimento catechistico” che prende le mosse dalla riflessione sull’insegnamento catechistico nel XIX secolo con il bisogno sentito di rinnovare i metodi e che deve confrontarsi, al contempo, con l’esigenza in qualche modo contrapposta di precisare i contenuti, anche attraverso la pubblicazione di un catechismo universale; il rinomato intervento del card. Ratzinger a Parigi e Lione del 1983, con le accese polemiche che ne sono seguite. L’Autore conclude ribadendo l’impossibile separazione tra contenuto e metodo della catechesi e vede nel catecumenato una forma paradigmatica di autentica realizzazione dei processi di educazione nella fede. L’intervento di Luciano Meddi rivolge lo sguardo sul presente e passa in rassegna le principali “provocazioni” culturali che la catechesi deve oggi fronteggiare sul versante educativo. Il catecheta romano ritiene che il rapporto tra catechesi ed educazione non trovi sufficiente sviluppo nella riflessione catechetica contemporanea. Ciò impedisce la piena valorizzazione di una dimensione che, invece, è connaturale alla catechesi, il cui compito primario è la risposta di fede e la maturazione umano-cristiana del battezzato. Per andare oltre, si impongono dei chiarimenti terminologici, che riguardano soprattutto il significato delle parole socializzazione, educazione e formazione, e vanno operate delle scelte decise: tra queste ultime la più rilevante e urgente è la necessità di concentrare l’attenzione sulle modalità con cui il battezzato interiorizza il messaggio cristiano e lo testimonia esistenzialmente in maniera consapevole e responsabile. In tutto ciò svolge un ruolo determinante la formazione in vista della maturazione delle competenze per la vita cristiana, che è il compito specifico della catechesi ecclesiale. Sulla base di tali considerazioni, è possibile riqualificare il curricolo di catechetica. Il terzo articolo offre una riflessione in chiave prospettica per la catechesi del futuro. Thomas Groome vede nella fedeltà e nella creatività i dinamismi ecclesiali che possono/devono guidare il rinnovamento della catechesi. In particolare, c’è bisogno di una “pratica della sinodalità”, in modo che questa non rimanga una pia intenzione, e la catechesi deve porsi al servizio di questa causa, favorendo la maturazione nei battezzati di una fede viva e di una sensibilità comunionale. Il compito educativo essenziale della catechesi sarà quello di accompagnare i percorsi di crescita nella fede. Il movimento che ne scaturisce va “dalla vita alla fede alla vita”, dinamismo che è ampiamente illustrato nel contributo e che si basa, sostanzialmente, su una pedagogia partecipativa e conversazionale.
I membri dell’Istituto di Catechetica catechetica@unisal.it
CATECHETICA ED EDUCAZIONE Rivista «online» dell’«Istituto di Catechetica» della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma «Catechetica ed Educazione» è una testata telematica, iscritta al Tribunale di Roma (registrazione n. 151/16 dicembre 2020), che persegue finalità culturali in ambito pedagogico-catechetico Anno IX Numero 2 – Agosto 2024
In prossimità del Simposio Internazionale di Catechetica dell’8-9 novembre 2024, a Roma, sul tema “La dimensione educativa della catechesi”, l’Istituto di Catechetica (ICa) della Facoltà di Scienze dell’Educazione, Università Pontificia Salesiana (FSE, UPS) di Roma, ha pensato bene di “preparare il terreno” e di iniziare a “riscaldare il motori”, inviando a catecheti dei cinque continenti un questionario con sette domande, attinenti alla “catechesi”, con una sottolineatura particolare alla dimensione educativa, in sintonia con il tema del Simposio.
In qualche modo, questa iniziativa si affianca alla ricerca La competenza riconsiderata2 che ha coinvolto gli Exallievi dell’ICa (2000-2020). Sia la ricerca, sia l’intervista sono due modalità che consentono di mantenere il contatto con la realtà e verificare la qualità del servizio accademico di insegnamento e di ricerca che l’ICa ha offerto e continua a proporre alle comunità ecclesiali sparse nel mondo, da poco più di settant’anni. Sono pervenute alla Direzione dell’ICa 40 interviste in tutto (una condivisa da due catecheti operanti in Tanzania). Un’intervista è frutto di condivisione degli Uffici catechistici a livello nazionale (Australia). Hanno risposto all’invito 41 catecheti, di cui 15 F e 26 M, provenienti dall’Africa (3/4 = 7), dall’America (3/4 = 7), dall’Asia (2/5 = 7), dall’Oceania (2/1 = 3) e dall’Europa (3/5 = 8) a cui vanno aggiunti 9 italiani (2/7 = 9).3 Si tratta di un forum aperto a tutti senza preclusione e casualmente rappresentativo, senza alcuna pretesa di rappresentatività statistica e di ricerca empirica. Non di meno le risposte pervenute offrono un ampio panorama e uno spaccato della situazione e delle prospettive della catechesi oggi.
Alcuni studiosi e studiose di catechetica sono conosciuti a livello internazionale, altri ed altre lo sono di meno: tutti comunque hanno espresso, a partire dalla pro-pria esperienza e competenza, risposte degne di considerazione e di riflessione, alcune più sul versante della teorizzazione, altre su quello della prassi. Il livello minimo richiesto per la partecipazione all’intervista è stato quello di essere in possesso almeno di una licenza o laurea in campo catechetico o di avere almeno una consolidata esperienza catechistica. La differenziazione maschile e femminile, con una prevalenza numerica dei maschi (26) sulle femmine (15), non va colta in modo discriminante ma complementare, necessaria per un confronto autentico che metta insieme intuizioni della “genialità femminile” (non si dimentichi la preponderanza delle catechiste nella comunità ecclesiale: cf. DC 127-128) e l’apporto che si spera aumenti ma (senza predomini) da parte della “genialità maschile”, che appare preponderante nel campo della scienza catechetica, ma nettamente inferiore nel servizio della catechesi ecclesiale (cf. DC 129).
La provenienza “mondiale” permette, seppur nella immediatezza propria di un’intervista, di cogliere elementi comuni a livello globale, ma anche elementi più localizzati e caratterizzanti in spazi geografici differenti, in questo tempo di ricerca e di forte bisogno di riorientamento. Le sette domande cercano di cogliere tratti specifici spazio-temporali del trinomio catechesi-educazione-catechetica e sono state inviate, in italiano e in-glese, in due ondate, ai catecheti, exallievi dell’ICa e non, perché rispondessero entro le due scadenze indicate: febbraio e maggio del 2024 (solamente una di esse è pervenuta nel mese di giugno). Il materiale raccolto è il risultato di un’adesione libera, aperta a quanti volessero aderire.
Presentiamo le sette domande dell’intervista, inviate ai catecheti in italiano e inglese, con alcune brevi considerazioni di commento che ne esplicitano l’intenzionalità e la concatenazione. Una breve premessa dava questa breve avvertenza: Tenendo presente il proprio contesto geografico e culturale, chiediamo di rispondere alle seguenti domande con risposte sintetiche massimo 10 righe (totale caratteri 1.000 – mille – spazi inclusi) per ognuna delle seguenti domande: 1) Quale “memoria” ed “eredità” di catechesi rimane ancora viva e valida per la Chiesa di oggi? Quali gli aspetti propositivi, quali i pesi o gli eventuali intralci o impedimenti? La prima domanda mira ad una retro-visione della catechesi di oggi, cer-cando di cogliere le immancabili risorse, ma anche le controindicazioni ad un suo sviluppo lineare e promettente nel presente e nel futuro. 2) Come appare oggi la situazione della catechesi nel mondo odierno, in particolare nel vostro contesto di appartenenza? Quale attenzione o disattenzione da parte di pastori e delle comunità cristiane? Il secondo quesito pone l’attenzione sul momento storico attuale e sul con-testo geografico in cui si vive, cercando di fotografare in poche battute la situa-zione della catechesi e la responsabilità da parte delle comunità cristiane e, a vari livelli, dei loro responsabili. 3) Quale profilo per la catechesi del futuro? Quali sono i rischi da evitare assolutamente e quali risorse da valorizzare come priorità per dare “futuro” alla catechesi? A partire dai precedenti interrogativi, il terzo mira a valorizzare il patri-monio del passato e del presente, ma soprattutto a guardare avanti, ipotizzando una “nuova” o “rinnovata” catechesi all’altezza del suo compito e delle sfide cul-turali di oggi. 4) Credete che vi siano possibilità di nuovi linguaggi per un’efficace inculturazione della fede nell’antico continente europeo e nel vostro continente di appartenenza? Quali sono le principali risorse e le differenze tra il mondo occidentale e gli altri “mondi”? Il quarto quesito mira ad approfondire il precedente, guardando ai lin-guaggi antichi e nuovi, confrontando i vari e differenti contesti continentali, co-gliendone sia le potenzialità, sia le limitazioni e diseguaglianze. 5) Si è parlato recentemente di “emergenza educativa” e addirittura di “catastrofe educa-tiva”. Come considerate la dimensione educativa della catechesi e quale contributo può essere dato dalla catechesi ecclesiale alla situazione attuale di “crisi”? La quinta domanda punta sulla tematica propria del Simposio internazio-nale, chiedendo di mettere in evidenza la considerazione educativa della cate-chesi nel proprio contesto, non solo a livello ecclesiale, ma anche a livello socio-culturale e umanitario. 6) Quali sono le principali tendenze per dare oggi qualità all’identità e alla formazione dei catechisti in particolare e degli operatori pastorali in generale? L’interrogativo intende mettere a fuoco l’interesse per l’identità e la for-mazione dei catechisti, considerando le principali istanze e tendenze per il mi-glioramento di questo “antico” e prezioso “ministero” per la Chiesa e il mondo. 7) C’è futuro per la catechetica nella comunità scientifica ed ecclesiale? È possibile deli-neare in prospettiva l’identità del catecheta nella Chiesa, nella comunità scientifica e nella società di domani? Quali i tratti caratterizzanti? L’ultima questione tocca l’aspetto di studio e di ricerca a servizio della fe-deltà creativa e innovativa della catechesi in un’epoca in continuo cambiamento. Si focalizza, infine, sulla figura del “catecheta”, sui tratti di competenza che lo devono caratterizzare nel momento attuale. Le risposte pervenute sono riportate in “Quaderni di Catechetica ed Educazione» No. 2, in lingua italiana, seguendo l’ordine alfabetico per continente e per autore/autrice. Le 40 interviste possono essere lette di seguito, in verticale, rilevando la originalità di ciascuna, ma, secondo l’utilità, possono essere considerate in orizzontale, leggendo le risposte date dagli intervistati a ciascuna delle sette domande.
Come si potrà notare, le risposte sono differenti per lunghezza e sinteticità, come anche si distinguono per genericità o per la puntigliosa indicazione di alcuni aspetti particolari, rispetto ad altri, ma tutte prendono le mosse dall’esperienza e dalla competenza degli intervistati che si cercherà di non lasciar cadere a vuoto ma di prendere in seria considerazione e mettere in rilievo. Si rinvia alla conclusione, a fine Quaderno, per alcune osservazioni complessive e generali. Un grazie sentito va a Nicolò Suffi per la revisione dell’intero quaderno nell’edizione in italiano, mentre per la revisione delle risposte in madrelingua e le traduzioni dall’inglese a Benny Joseph, dal portoghese a José Anibal Men-donça, dallo spagnolo a Francisco Énriquez Zulaica e dal francese a Morand Wirth.
Cogliamo soprattutto l’occasione per ringraziare i quarantuno partecipanti all’intervista e quanti hanno collaborato per la realizzazione di questo dossier che speriamo possa risultare utile per la riflessione presente e per il rilancio futuro della catechesi nelle varie parti del mondo.
I membri dell’Istituto di Catechetica catechetica@unisal.it
Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».
Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18). Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica. La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36). Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera. Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.
La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio. Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v. 22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf. Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv. 24s). Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v. 23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v. 22). «Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.
La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio. «Io ero là» (v. 26) non significa di per sé una presenza attiva. Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v. 30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona». E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v. 31). Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.
Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità. Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui. Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4). E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.
Seconda lettura: Romani 5,1-5
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8. Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.
Prima (vv. 1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita. A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita. È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf. Rm 8 ed Ef 1,3-14).
Poi (vv. 3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza. Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede. Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.
Infine (v. 5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone. Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo. Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf. Rm 8,15-16.22-24,26-27).
Vangelo: Giovanni 16,12-15
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Esegesi
In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo. Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf. Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna). Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.
Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi. Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso. Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi. E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore. Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «viannuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.
Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi. È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso). Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito… prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.
L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi. Essa passa per l’opera del Figlio. Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio». Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito. E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.
Meditazione
Solennità della Santissima Trinità. Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18). Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda… Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma è Gesù stesso, la nostra via (cfr. Gv 14,6) per eccellenza, che ci abilita e anzi ci stimola a questa ricerca. È possiamo cercare di addentrarci nel segreto della vita intima di Dio a partire dal brano evangelico dell’evangelista Giovanni, tratto dai cosiddetti ‘discorsi d’addio’ – che giustamente qualcuno ha definito ‘discorsi di arrivederci’, in quanto sono finalizzati a nuovo incontro tra noi e Gesù. In questi dialoghi con i suoi discepoli, pronunciati poche ore prima della tragica conclusione della sua esistenza, Gesù ha raccolto i desideri, le preoccupazioni, le consegne e le parole che maggiormente gli stavano a cuore. E se queste espressioni ci vengono presentate a un altissimo livello di densità e di profondità – così come è per ogni testamento – siamo allora invitati a moltiplicare la nostra attenzione e la nostra ricerca. Anche la colletta di questa eucaristia ci esorta affinché «nella pazienza e nella speranza, possiamo giungere alla piena conoscenza di te, che sei amore, verità e vita».
I quattro versetti (Gv 16,12-15) del brano evangelico si aprono con la disincantata affermazione di Gesù ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (v. 12). Troppi fatti avvenuti nelle ultime ore, troppe parole ancora da rielaborare: troppo… di tutto! Capita a chiunque, in momenti particolarmente densi, di non avere più ‘spazio’ per accogliere altre indicazioni e stimoli dalla vita: ci vuole una pausa e uno stacco. Ma… se non ora, quando?
Gesù non ha più tempo! Il suo tempo, la sua ‘ora’ (cfr. Gv 2,4) è ormai imminente! È stupefacente osservare la signoria con cui Gesù allora apre all’azione dello «Spirito della verità» (v. 13) e richiama la perfetta comunione tra Lui e il Padre: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (v. 15). Gesù appare perfettamente padrone della situazione e del tempo, non introduce ‘a denti stretti’ il Padre e lo Spirito, quasi a rincalzo e a delega di una sua incapacità a compiere tutto quanto si era prefissato. No, egli sa bene – potremmo dire per esperienza diretta e costante – che è divino non solo il donare ma anche il ricevere, l’offrire come anche l’accogliere. Questo è forse il tratto che ci colpisce maggiormente: la piena condivisione di intenti e di operazioni all’interno della Trinità, condivisione che diviene simbolo e modello per la Chiesa e per ogni compagine umana. L’amore si alimenta in un incessante dare e ricevere e Dio stesso vive così! Un vero leader non fa tutto da solo ma cerca collaborazione e apre volentieri lo spazio all’azione di altri, che completano la sua opera, approfondendola e cogliendone tutte le implicazioni (cfr. vv. 13-14). Non c’è traccia di alcuna forma di durezza, rigidità o autosufficienza: Gesù coinvolge in questo circolo addirittura i suoi discepoli, prolungando l’azione della Trinità stessa! C’è da rimanere stupiti e quasi disorientati da tanta stima e generosità!
Il brano della Lettera ai Romani che costituisce la seconda lettura liturgica riprende la medesima immagine: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (5,5). C’è un dono che ci raggiunge e, se accettiamo di accoglierlo con riconoscenza, ci abilita a un’azione missionaria capace di renderci forti e maturi perfino nelle tribolazioni (cfr. vv. 3-4). La delizia di Dio (cfr. Pr 8,30-31; prima lettura), del Padre, del Figlio, dello Spirito santo risulta allora essere quella di coinvolgere in questa dinamica d’amore ogni essere umano, svelandoci in tal modo la elementare e gioiosa essenza della propria intimità. Domandiamo ancora al Dio uno e trino lo stupore e il coraggio di partecipare in pienezza «a questa grazia nella quale ci troviamo» (Rm 5,2).
Don Bosco commenta il Vangelo
Santissima Trinità
Il mistero trinitario
Nel libro di formazione cristiana intitolato La chiave del paradiso, don Bosco presenta il mistero trinitario in questi termini:
Due parole soglionsi usare quando parliamo di Dio: Unità e Trinità. Unità vuol dire che vi è un solo Dio. Trinità vuol dire che in Dio vi sono tre persone realmente distinte che si chiamano Padre, Figliuolo, Spirito Santo. Il Padre è Dio, il Figliuolo è Dio, lo Spirito Santo è Dio; tuttavia non sono tre Dei, ma tre persone che hanno la medesima potenza, sapienza e divinità, che perciò sono un solo Dio (OE8 6).
In una visione, racconta don Bosco nelle Maraviglie della Madre di Dio, san Giovanni Evangelista apparve a san Gregorio Taumaturgo per istruirlo sul grande mistero:
Gli spiegò che vi era un Dio solo in tre persone, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo, che tutte tre sono perfette, invisibili, incorruttibili, immortali, eterne; che al Padre si attribuisce specialmente la potenza e la creazione di tutte le cose; che al Figliuolo si attribuisce specialmente la sapienza, e che si fece veramente uomo, ed è uguale al Padre quantunque generato da lui; che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figliuolo ed è la fonte di ogni santità (OE20 244s).
Nella congregazione salesiana tutto si fa nel nome della Santissima Trinità. Quando un salesiano pronunzierà i voti nella congregazione, egli reciterà la formula seguente:
Nel nome dellaSS. Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Io N. N. mi metto alla vostra presenza, Onnipotente e Sempiterno Iddio, e sebbene indegno del vostro cospetto, tuttavia confidato nella somma vostra bontà ed infinita misericordia, alla presenza della Beatissima Vergine Maria Immacolata, di s. Francesco di Sales e di tutti i Santi del Cielo, faccio voto di povertà, di castità e di ubbidienza a Dio ed a voi N. N. Superiore della nostra Società, (ovvero a voi, che fate le veci del Superiore della nostra Società) per tre anni (ovvero in perpetuo) secondo le costituzioni della Società di san Francesco di Sales (OE27 96s).
Nel Cattolico provveduto troviamo questa preghiera di adorazione e di ringraziamento alla SS. Trinità da recitare la domenica:
Santissima Trinità, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo, mio principio ed ultimo fine, io vi adoro col più profondo rispetto, e vi ossequio con tutti gli uomini che sulla terra vi conoscono. Vivamente commosso per gl’innumerevoli benefizi concessimi fin dal primo istante di mia esistenza, ve ne ringrazio con tutto il mio cuore.
Poi segue un ringraziamento particolare a ciascuna Persona divina:
Vi ringrazio, celestePadre, per che mi avete creato a vostra immagine e somiglianza, e mi avete conservato affinché io riconosca ed ami Voi, il Figliuol vostro Gesù Cristo, e lo Spirito Santo, e così io possa poi un giorno lodarvi insieme cogli angeli e coi santi vostri eternamente in cielo.
Vi ringrazio, eterno Figliuolo di Dio, che per amor mio abbiate voluto vestire la natura umana, spargere il vostro sangue, e subire una morte crudele per liberar me dalla morte, eterna e riconciliarmi col Padre.
Vi ringrazio, Santo Spirito, che per mezzo del santo Battesimo abbiate voluto fare vostra abitazione nell’anima mia, mi abbiate santificato, e fatto erede del regno celeste.
Come potrò io, Trinità santissima, rendervi le dovute grazie? Voi anime sante, voi, eletti di Dio, voi specialmente, da tutte le generazioni chiamata beata, voi benedetta fra tutte le donne, o Vergine Maria, offrite alla SS. Trinità in mia vece le vostre adorazioni, i vostri ringraziamenti, imperocché sebbene io avessi mille lingue, tuttavia non sarei mai in istato di adorare, di ringraziare il mio Dio, come Egli si merita. Così sia (OE19 220s).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
L’immagine della domenica
AOSTA – 2019
«La via della Bellezza si rivela così come la via di Dio Trinità, e perciò come la via della salvezza e della verità: nella bellezza tutto è unificato, tutto giustificato nel suo ultimo senso».
(Bruno Forte)
Proverbi 8,22-31Romani 5,1-5Giovanni 16,12-15 Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini. L’analogia è quella del teatro. Pensiamo al teatro, ad un dramma. Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena. La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore. Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena. Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza. La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.
Preghiere e racconti
Racconto
Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.
La mia vita
Sul suo stemma vengono conservati le teste di due mori incoronati, che da circa mille anni, figurano di regola nello stemma dei vescovi di Frisinga. Non è ben chiaro il loro significato, ma per lui sono (Cf. E. BIANCO, Benedetto XVI lavoratore nella vigna, 57.) “l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe” (J. RATZINGER, La mia vita, 120-121). La conchiglia è per Ratzinger anzitutto il segno dell’identità dei pellegrini in cammino. Ma essa ricorda a Ratzinger anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello attorno al ministero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino mentre giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare per travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto che questa buca poteva contenere l’acqua del mare, quanto la sua ragione poteva afferrare il mistero di Dio (Cf. J. RATZINGER, La mia vita, 121). “Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza”.
(J. RATZINGER, La mia vita, 121).
Oggi è la Domenica della Santissima Trinità
La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.
La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.
Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.
(PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Solennità della Santissima Trinità, Domenica, 26 maggio 2013)
Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito
La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.
Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.
(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).
Non lasciarlo troppo attendere!
“Tu che hai guardato, tu che hai ascoltato, non pensare:
questo risale alla notte dei tempi!
Adamo, sei tu. La sua creazione, il mistero della tua vita.
Tra Dio e te, nessun altro gioco d’amore, nessun altro dramma!
Ciò che segue: non una storia compiuta per sempre,
un’avventura vissuta una volta per tutte, ma una lunga ricerca,
contemporanea alla tua vita, che continua, di giorno e di notte.
Non ieri, ma oggi. Penetrato dal suo pensiero su di te entra nel tempo di Dio.
Questo Dio, il tuo Dio, in pena per te, il cui Volto è così poco desiderato,
non lasciarlo troppo attendere!”
(Daniel ANGE, Dalla Trinità all’Eucaristia. L’Icona della Trinità di Rublëv, Ancora, Milano 1999)
Dio è Amore
Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?“
Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.
La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.
La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore.
Il patto di Dio
Dio ha fatto un patto con noi. Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi. In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà. Dio è un Dio-per-noi. Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza. In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi. Dio è un Dio-con-noi. Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo. Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto. Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio. Dio è Dio-in-noi. Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.
(Henri J.M. NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).
Preghiera
Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito,
che sei il termine eccedente del mio desiderio
e la fonte inesauribile del mio stupore.
Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia
per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta,
che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.
Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.
Lode a te che mi avvolgi nella tua nube
e in essa mi sveli il tuo mistero,
che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.
Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.
Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione
e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.
Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione
seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.
Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.
Lode a te che sei il mio Tutto.
La Settimana con don Bosco
7 giugno – 14 giugno
7. “Il Signore ci ha messi in questo mondo per gli altri” (MB7 30).
8.(B. Istvan Sándor)– “Vi rendiamo grazie, o Signore, che ci avete fatti degni di soffrire qualche cosa per la gloria del vostro Santo Nome” (OE13 91).
9.(S. Efrem)– “Sant’Efrem Siro […] esclama cosi: La sapienza dei filosofi, l’eloquenza degli oratori restano ammutoliti allo spettacolo che offrono i gloriosi combattimenti dei martiri” (OE10 83s).
10. “Non si può fare opera migliore, dice san Vincenzo de’ Paoli, che contribuire a fare un prete” (OE29 17).
11.(S. Barnaba)– Barnaba era un “giovane di gran virtù, la cui bontà di cuore contribuì molto a temperare l’animo focoso del condiscepolo [Paolo]” (OE9 171).
12.(Bb. F. Kęsy e comp.)– “Dio solo poteva infondere tanta forza e tanto coraggio nel cuor dei martiri” (OE4 274).
13.(S. Antonio di Padova)– “L’unzione, il fuoco, la dignità più angelica che umana con cui predicava gli tirò sì gran numero di uditori che fu necessità predicasse nell’aperta campagna” (OE1 402).
14. I padri e le madri e gli altri superiori “usino affabilità e dolcezza colle persone loro affidate, soprattutto quando trattasi dar consigli in fatto di religione” (OE3 312).
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
I primi tre versetti del libro degli Atti lo collegano strettamente al terzo vangelo: ne riassumono infatti il contenuto e ripetono il nome del personaggio a cui ambedue i libri sono dedicati: Teofilo (che può essere il nome di un personaggio storico o può essere soltanto il titolo dato al prototipo del cristiano: l’amico di Dio). Il riassunto del terzo vangelo qui proposto si sofferma soprattutto (nell’intero versetto 3) sul fatto che gli Apostoli sperimentarono a lungo e in maniera pienamente convincente che Cristo era tornato a vivere, dopo la sua passione e morte (cioè, era risorto): infatti era apparso a loro ripetutamente, istruendoli sul regno di Dio. L’espressione «per quaranta giorni» deve avere qui un valore simbolico: deve voler significare che l’esperienza del Cristo risorto fu bensì limitata e conclusa nel tempo, ma sufficiente perché agli Apostoli fosse dato un insegnamento pieno sulla missione a loro affidata.
Nei vv. 4.8 sono quasi condensati, in un unico episodio, il lungo rapporto intercorso tra Gesù risorto e gli Undici e l’insegnamento che essi da lui ricevettero. L’espressione «mentre si trovava a tavola con essi» contiene forse una allusione alla verità indiscutibile della sua risurrezione (non era un fantasma!) e alla familiarità conviviale con cui il risorto si intratteneva con i suoi. Elemento importante dell’insegnamento di Gesù risorto è considerato quello che riguarda lo Spirito Santo, il quale con la sua forza avrebbe portato a compimento la loro formazione di discepoli. Altro elemento importantissimo di quell’insegnamento è
l’orizzonte universale della missione affidata agli Undici da Gesù: «di me sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra». L’universalità di questa prospettiva è presentata con grande decisione, tale da far apparire quasi insignificante il desiderio di conoscere i tempi e i momenti della ricostruzione del regno di Israele; quel desiderio è destinato quasi ad annegare nella vastità dei disegni del Padre.
I versi 9-11 contengono diversi messaggi tra loro coordinati. Il primo è che Gesù ha concluso la sua presenza visibile sulla terra, essendo rientrato nel modo di essere proprio di Dio, come suggerisce la frase: «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (la nube è infatti, nell’Antico Testamento, il nascondiglio e insieme il segno della presenza di Dio). Un altro insegnamento è che ormai la testimonianza su Gesù e del suo vangelo è affidata esclusivamente ai suoi discepoli: questo sembra vogliano suggerire i due misteriosi uomini in bianche vesti, che li invitano a non restarsene lì incantati a cercare con lo sguardo colui che fu elevato in alto. Un ultimo insegnamento è che quel Gesù che non è più visibile con gli occhi, tornerà un giorno e sarà di nuovo visibile, nella sua veste di giudice supremo e universale.
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
La lettera agli Ebrei, nel brano che costituisce la nostra seconda lettura, pur non facendo alcun riferimento al racconto del libro degli Atti che include il fatto dell’ascensione del Signore, sembra che ne illustri il profondo significato teologico.
Come nel libro degli Atti, anche qui è detto che Gesù «è entrato… nel cielo… per comparire ora al cospetto di Dio» (9,24). Per poter approfondire il significato dell’ingresso di Gesù nel cielo, che era un elemento comune della predicazione nella Chiesa primitiva, l’ignoto autore della lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra la persona di Gesù e le pratiche cultuali degli Ebrei, concentrate nel tempio di Gerusalemme. In particolare, qui sembra evocata la festa dell’Espiazione, quella che oggi è per gli ebrei, accanto alla Pasqua, una delle feste religiose più importanti, col nome di jôm Kippùr. Elemento centrale di questa celebrazione era quello che si può chiamare il rito del sangue: il sommo sacerdote, passando oltre il velo che separava il luogo santissimo dalla zona del sacrificio, ungeva il coperchio dell’Arca (detto in ebraico kappòret e tradotto con il termine propiziatorio) con il sangue del vitello e del capro offerti quel giorno in sacrificio per l’espiazione dei peccati dello stesso sacerdote e di tutti gli israeliti (Vedi Levitico, 16). Nella nostra lettura, Gesù Cristo è visto come il celebrante di una nuova festa dell’Espiazione: egli è penetrato nel cielo stesso portando il proprio sangue, quello sgorgato dalla sua persona, e ha ottenuto una volta per tutte di togliere i peccati di molti. Conseguenza grandiosa di questi fatti è che si è aperta una via nuova e vivente, la persona stessa di Gesù Cristo immolatasi per il mondo intero, che consente anche a noi di entrare nel santuario, cioè nella casa di Dio. Perché questo accada è però necessario avere il cuore purificato e ilcorpo lavato con acqua pura, nella luce della fede e nella professione della speranza: il che vuol dire avere accolto la testimonianza della predicazione apostolica ed essere entrati a far parte della Chiesa voluta da Gesù.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Esegesi
Chi pensasse di trovare nel vangelo di Luca il racconto circostanziato dell’ascensione al cielo di Gesù, così come in certi apocrifi è raccontata l’ascensione di altri personaggi biblici, resterebbe deluso. Al fatto in se stesso il testo evangelico dedica solo queste parole: «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Queste parole appartengono alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l’intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un’intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.
Come si vede, il tema che riempie tutta la durata di questo specialissimo giorno è quello della risurrezione del Signore Gesù, che si conclude con il mandato, affidato agli Undici, di testimoniarla «sino ai confini della terra».
Diamo qui di seguito il senso globale del brano conclusivo del terzo vangelo, che costituisce la nostra lettura evangelica, senza indugiare sull’analisi dettagliata delle sue singole frasi.
Poiché Gesù Cristo è realmente risorto, la sua passione e la sua morte non sono e non debbono considerarsi una sconfitta, ma una vittoria sul peccato, sicché a tutti è adesso accessibile il perdono dei peccati. E se il peccato è stato sconfitto non c’è più ragione che l’umanità continui a camminare nella strada della sua rovina, ma può cambiare strada, può dare inizio alla propria conversione. È per l’appunto questa la missione che Gesù intende affidare ai suoi discepoli: egli vuole che essi siano i suoi testimoni. Cominciando da Gerusalemme, la loro testimonianza dovrà arrivare a tutte le genti. A tutte le nazioni della terra, a tutti i popoli, dovrà arrivare la lieta notizia di Gesù Cristo, che ha predicato il vangelo e per questo è stato inchiodato sulla croce ed è morto, ma il terzo giorno è risorto. Per intraprendere questa missione, i discepoli di Gesù hanno però bisogno di una forza dall’alto, hanno bisogno cioè che scenda su di loro la forza dello Spirito Santo, secondo la promessa già fatta ai profeti per gli ultimi tempi. Dopo aver raccomandato loro di restare in Gerusalemme fino alla discesa dello Spirito, con un’ultima benedizione, Gesù «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». La testimonianza della risurrezione poteva così essere completata con quest’ultimo elemento: l’ingresso di Gesù nella vita divina del cielo. Egli dunque non doveva essere considerato assente o lontano dalla vita degli uomini sulla terra, ma doveva essere considerato sempre vicino quanto Dio lo è a tutta la sua creazione.
Meditazione
La liturgia della parola della solennità odierna ci presenta due racconti del medesimo avvenimento – lo staccarsi definitivo di Gesù, in modo fisico, da questa terra e dai discepoli – narrati dallo stesso autore. Ciò è dovuto alla grande maestria letteraria e teologica dell’evangelista Luca, non certo a una svista! La differenza che salta maggiormente agli occhi è la cronologia: nel brano evangelico l’ascensione avviene la sera stessa di Pasqua (dato storicamente inverosimile, dal momento che nel racconto dei due discepoli di Emmaus siamo già a sera inoltrata), mentre negli Atti degli apostoli si situa alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni. Tale diversità si spiega a partire da una diversa prospettiva teologica: nell’evangelo tutta l’attenzione è concentrata su Gesù e sulla novità che il giorno di Pasqua porta, non c’è più tempo e spazio per narrare dei discepoli ed è Gesù che domina l’ultima scena; negli Atti degli apostoli è la comunità dei discepoli che diviene soggetto, il tempo è più disteso e si sviluppa il cammino della Chiesa.
Comunque sia, il fatto si svolge a Gerusalemme, meta del pellegrinaggio terreno di Gesù (cfr. Lc 9,51 ss.) e luogo della sua morte e risurrezione. Lo spazio più sacro della città santa è il tempio, con cui si apre (cfr. 1,8 ss.) e si chiude il racconto evangelico. Ma ora è Gesù stesso il tempio, il luogo dove abita la presenza di Dio e noi siamo portati, insieme con lui, alla destra dell’Altissimo!
Gerusalemme è anche il luogo dove scenderà lo Spirito santo (cfr. Lc 24,49; At 1,5), che i discepoli devono attendere: si compie l’ultima e principale promessa di Gesù, che introduce alla comunione trinitaria e che abilita alla missione tra le genti. L’Ascensione è pertanto momento di passaggio, di attesa tra la Pasqua e la Pentecoste: c’è il tempo per prepararsi a rendere testimonianza al Signore risorto, che ora siede nei cieli.
Ma qual è dunque il messaggio, l’incarico a cui sono chiamati i discepoli «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8)? «La conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47), la possibilità per ogni uomo di veder rinascere la propria esistenza, di vederla segnata dalla misericordia affinché a tutti si rechi nuovamente misericordia. Il contenuto del messaggio sembra semplice, seppur straordinario; ciononostante, perfino in quel momento, regna l’incomprensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). Quanta fatica a staccarsi dai propri progetti, quale conversione chiede tenere insieme il nostro mondo con quello di Dio…
È lo stesso Gesù a guidare il gruppo nel momento del distacco. Come i patriarchi, si separa da loro mediante la benedizione, un ultimo gesto di sostegno e vicinanza che sostituisce le parole. Se la prima reazione dei discepoli è quella dello sconcerto, della perplessità, del disorientamento, forse anche della nostalgia – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1,11) – subito subentra l’azione missionaria e della preghiera, da svolgersi nella lode (cfr. Lc 24,53) e nell’attesa del ritorno del Signore: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). Non c’è pertanto un distacco radicale, una separazione: la tristezza che aveva caratterizzato i discepoli nell’ultima sera trascorsa insieme a Gesù viene rimpiazzata dalla le-tizia di saperlo non nel regno dei morti ma dei viventi, di Dio! Ecco perché l’ultimo gesto nei confronti di Gesù è quello della prostrazione – unico caso in tutto il vangelo di Luca – attraverso il quale si riconosce la divinità del Signore.
Mi sembra estremamente significativo che il Signore Gesù introduca i discepoli alla predicazione missionaria mediante il richiamo alle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (Lc 24,46). Nonostante siano compiute, le Scritture restano determinanti per interpretare e conoscere sempre meglio la persona di Gesù: sono il compagno di viaggio dell’autentico discepolo del Signore.
Don Bosco commenta il Vangelo
VII domenica di Pasqua
ASCENSIONE DEL SIGNORE
Gesù promette lo Spirito di verità
Se mi amate, osservando i miei comandamenti, dice Gesù, “io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito, […] lo Spirito della verità” (Gv 14,16).
La promessa di Gesù si compirà dopo la morte e risurrezione, scrive don Bosco nella sua Storia sacra:
“Promise quindi che dopo la sua morte e risurrezione avrebbe mandato lo Spirito Santo dicendo: Se mi volete bene, osservate i miei comandamenti, ed io pregherò il Padre celeste, il quale vi manderà lo Spirito di verità. Egli v’insegnerà tutte le cose, vi rammenterà quanto vi ho detto” (OE3 191).
Nello scritto apologetico dal titolo Vita infelice di un novello apostata, l’amico dell’apostata risponde alle sue obiezioni dicendo:
Voi dunque ignorate […] che alla medesima Chiesa Gesù Cristo abbia promesso l’assistenza dello Spirito Santo, acciocché non possa errare; e che egli abbia dato particolarmente a san Pietro […] il potere, anzi il comando di rinfrancare gli altri nella fede, e quindi d’interpretare loro la Sacra Scrittura, e loro far conoscere le verità che in esse si contengono, e tenerli lontani dagli errori (OE5 187s).
L’azione eclatante dello Spirito Santo si manifesta in particolare nella vita dei santi. Don Bosco nei Fatti ameni della vita di Pio IX riferisce quanto segue in occasione della glorificazione di due serve di Dio. Il papa, dopo aver citato il Vangelo del giorno e ricordato ciò che disse Nostro Signore nell’ultima cena, che cioè “il Santo Spirito venendo su questo mondo avrebbe convinti gli uomini della loro incredulità”, soggiunse:
Le prove della verità di nostra fede sono molteplici e i testimoni che ce ne lasciò il passato brillano di una vivida luce. E intanto non vi è angolo della terra, oggigiorno anzitutto, dove non trovisi o un drappello o un esercito intero di sciagurati che non s’arrovellino per torcere in ridicolo il maggiore dei beni, la fede. Ma il Signore fa vedere a quegli infelici, quasi un rimbrotto continuo, i tanti suoi servitori che suggellarono questa fede col loro sangue […]. Sì, anch’oggigiorno, Iddio mostra ed oppone all’incredulità queste due sue ancelle, le quali ottengono, sebbene in diverso grado, gli onori degli altari (OE23 210s).
L’assistenza dello Spirito Santo vale per tutto il collegio apostolico, e in modo tutto particolare per il papa. Nel suo opuscolo dal titolo I concili generali e la Chiesa cattolica, don Bosco mette in bocca al prevosto questa risposta agli interrogativi del giovane parrocchiano di nome Tommaso:
Le promesse che Gesù Cristo fece di sempre essere cogli altri apostoli sino alla fine del mondo, e l’assistenza e l’inspirazione dello Spirito Santo loro divinamente assicurate, riguardano tutto il collegio apostolico, dal quale perciò non si può escludere san Pietro, che n’è uno dei membri, anzi membro principale pei pieni poteri ricevuti da solo a preferenza di tutti gli altri apostoli. Vi ha di più: le promesse della divina assistenza e dell’infallibilità sono fatte agli altri apostoli solo in quanto che essi sono uniti a Pietro, già prima nominato capo e pastore universale. Di fatto Gesù Cristo assicurò questa infallibilità prima al solo Pietro, e perché? Perché si conoscesse che il papa era il mezzo col quale comunicavasi l’infallibilità alla Chiesa tutta (OE22 46s).
Così la Chiesa “avrà per anima lo Spirito Santo, il quale le insegnerà ogni verità” (OE22 70).
Nelle sue Memorie dell’Oratorio, la questione della verità della religione cattolica è il tema principale nell’affare della conversione dell’amico ebreo Giona. Alla domanda dell’amico: “Ma tu che mi vuoi tanto bene, se fossi al mio posto, che faresti?”, Bosco rispose:
“Comincerei ad istruirmi nella cristiana religione. Intanto Dio aprirà la via a quanto si dovrà fare in avvenire. A questo scopo prendi il piccolo catechismo, e comincia a studiarlo. Prega Dio che ti illumini, e che ti faccia conoscere la verità” (MO 67).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
Matera: Capitale Europea della Cultura – 2019
L’immagine della domenica
«La Terra è un paradiso.
L’Inferno è non accorgersene».
(José Luis Borges)
Atti 1,1-11Ebrei 9,24-28; 10,19-23Luca 24,46-53Assistiamo ad un offuscamento della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini, donne, sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questo stato d’animo…Allo smarrimento si accompagna una sorta di paura nell’affrontare il futuro. L’immagine del domani risulta sbiadita ed incerta. La nebbia ci impedisce di contemplare i colori del cielo, i colori della vita, i colori accessi nel cuore di ogni persona. Il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, nel racconto della Ascensione, sono molto scarni, come a voler affermare una meravigliosa verità che ci riguarda e, come tutte le notizie meravigliose, è caratterizzata non dalle parole, ma da stupore e gioia. Dobbiamo esultare e pienamente ringraziando rallegrarci. Oggi non solo abbiamo ricevuto la conferma di possedere il paradiso, ma siamo penetrati con Cristo nell’altezza dei cieli (Leone Magno).
Preghiere e racconti
Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”. Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai? Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai? “La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”. Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile. L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”. Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione. E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”. Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore? Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore. “L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”. L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”. Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo. Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro. Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori. E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo. Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende. Scrive P. Tillich: “Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale. Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione. Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”. E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.
(Angelo Casati, in www.sullasoglia.it)
Trasfigurati dalla speranza
Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore; chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima. Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare. La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo. Questa gente, si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli: Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo. C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana. Quella, per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”. Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo. Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza.
(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll. VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).
Guardarsi dentro
Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!
“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:
“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”!
Il cielo
«Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.
Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.
Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.
In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione».
(Joseph Ratzinger [BENEDETTO XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).
«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11)
«[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?
In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita».
(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla spianata di Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).
«Rimanete saldi nella fede»
Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.
Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.
Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).
[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso – col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).
Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.
Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!
(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).
Preghiera
Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…
Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.
25.(S. Beda)– A Cana, “come dice il venerabile Beda, poteva la Vergine credere benissimo che Cristo avrebbe respinto le sue preghiere, tuttavia operò contro la speranza, molto confidando nella misericordia del figlio” (OE20 228). –(S. Gregorio VII)“rese lo spirito a Dio pronunziando queste parole del salmista: ho amato la giustizia, ed ho odiato il vizio ed è perciò che muoio in esilio” (OE18 376) –(S. Maria Maddalena de’ Pazzi)“Anche da giovanetta era tutta di Dio, e viveva nel suo amore” (OE8 489).
26.(S. Filippo Neri)– Nel vedere don Bosco trattare famigliarmente con i ragazzi, esclamavano: “Ecco un altro san Filippo Neri, amico della gioventù” (MB5 896).
27.(S. Agostino di Canterbury)– S. Gregorio Magno mandò in Inghilterra “quaranta religiosi sotto la presidenza di sant’Agostino suo discepolo a predicarvi la fede” (OE24 183).
28. “Fermatevi alquanto a considerare ciò che più v’inquieta, e fatene un’offerta al Signore dicendo: sia fatta in ogni cosa la santissima volontà del nostro Iddio” (OE3 447).
29.(S. Paolo VI)–(B. Giuseppe Kowalski)– “Col Rosario furono combattute le eresie, si riformarono costumi, si allontanarono pestilenze, si pose fine a molte guerre” (OE8 108).
30. “Io non ho altro scopo che il pubblico bene della gioventù a cui nella mia pochezza mi sono totalmente consacrato” (E3 70).
31.(Visitazione della B. V. Maria) – Maria “guidata da vero spirito di carità andò a visitare santa Elisabetta, e stette in casa sua tre mesi servendola come umile ancella” (OE10 462).
(Morand Wirth)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».
La liturgia della Parola di questo tempo di Pasqua (anno C) sceglie solitamente per la Prima Lettura brani degli Atti degli Apostoli. Ciò perché in questi brani sono raccontati fatti della chiesa primitiva: così nel tempo di Pasqua si ri-presenta — a livello della liturgia — la nascita della chiesa. Questa nascita è frutto e risultato della risurrezione del Signore. Siccome Egli è risorto, i dodici discepoli e le donne si radunano di nuovo attorno a Lui. Alla fine del tempo pasquale, la solennità di Pentecoste ci fa rivivere la discesa dello Spirito Santo, che realizza e guida la Chiesa.
Rilievi storico-esegetici
— Nel brano odierno si fa riferimento ad una grave crisi che sta scuotendo la chiesa primitiva. I cristiani che provengono dal mondo giudaico mettono ancora in pratica la legge giudaica e praticano la liturgia del mondo giudaico (la Torah). Il motivo di questa linea di condotta era duplice: primo, il fatto che Gesù stesso aveva ottemperato alla Torah e partecipato alle celebrazioni liturgiche del giudaismo, dato che era un Ebreo: lo stesso avevano fatto gli Apostoli e le donne insieme a Maria Madre di Gesù; secondo, la legge era stata anche rivelata da Dio: era parola e comandamento di Dio. Come la si poteva disattendere? Ecco perché i cristiani venuti dal giudaismo sostenevano che anche i cristiani che provenivano dal mondo pagano fossero tenuti ad osservare la legge giudaica (divina!).
— I primi cristiani, provenienti da ambito non giudaico vivevano ad Antiochia (nella Siria attuale), nella Cilicia (sud-est della Turchia attuale) ed un’altra area dell’Oriente. Essi avvertivano una certa perplessità davanti al fatto di dover osservare precetti biblici del giudaismo: Paolo e Barnaba, infatti, che li avevano portati alla fede cristiana, non ne avevano proprio parlato.
— L’importanza della nostra lettura (decurtata fortemente e privata di una parte notevole: mancano i vv. 3-21) è la seguente: Pietro, Paolo e Barnaba, alla luce della loro fede in Gesù Cristo, ritenevano che ad eccezione di alcune direttive importanti (ad es. il Decalogo), molti comandamenti non avevano se non valore provvisorio, limitato al mondo giudaico, ed erano sostituiti dalla fede in Gesù (Paolo aveva mostrato ciò specialmente nella Lettera ai Galati). Ma questo punto di vista non era chiaro per tutti. Molti lo rifiutavano, specie tra i cristiani della Chiesa Madre di Gerusalemme. Nella lettura noi vediamo come la Chiesa sia
concorde nell’esprimere il suo giusto punto di vista. Certo, Luca ha semplificato le lunghe e dure controversie nel racconto degli Atti. È probabile che ci fosse un clima animato e teso, più che una pacifica, lineare discussione.
Ma l’importante, qui, è il fatto che emerge: sin dall’inizio alla chiesa si presentarono questioni nuove e imprevedibili, alle quali nessuno sapeva dare subito una risposta. Tuttavia, lo Spirito Santo, l’impegno degli Apostoli e di tutta quanta la Chiesa fecero sì che si approdasse ad una vera e giusta soluzione.
Seconda lettura: Apocalisse 21,10-14.22-23
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.
Com’è noto, la struttura del libro dell’Apocalisse è caratterizzata dalla serie di sette settenari (7 chiese, 7 sigilli, 7 trombe, 7 visioni, 7 coppe e ancora 7 visioni…). La nostra pericope si colloca all’interno dell’ultimo settenario, che rappresenta, in certo senso, la conclusione di tutta la vicenda della Parola di Dio, da Abramo agli eventi finali. In questo settenario, il cap. 21 descrive la settima visione, quella in cui Giovanni contempla il realizzarsi della profezia di Is 65,17: «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente». In realtà, Giovanni vede una creazione trasfigurata, si direbbe in continuità con l’antica creazione, dove però non c’è più il mare (simbolo del male e della forza che fa resistenza alla liberazione dell’esodo…). Nel brano di questa domenica si riportano solo alcuni versetti di questa visione conclusiva, quelli che riguardano la Gerusalemme celeste.
Chiavi di lettura
È estremamente arduo entrare nei dettagli simbolici della visione espiegarli singolarmente. Preferiamo offrire al lettore alcune chiavi dilettura, che chiariscano il senso teologico della descrizione.
— Prima chiave di lettura: il compimento delle profezie. Ezechiele, nei cc. 40-48 descrive dettagliatamente il Tempio nuovo che sorgerà nella Gerusalemme escatologica. Questa città avrà un nome emblematico: «Il Signore è là» (Ez 48,35). Inoltre Isaia 60 rivolge una promessa a Gerusalemme: «Alzati, rivestiti di luce, perché… su di te risplende il Signore la sua Gloria appare su di te» (vv. 1-2). Quanto era promesso e annunciato come realtà futura dai profeti, ora Giovanni lo contempla come realtà presente. Questa Gerusalemme rappresenta la nuova umanità redenta, intimamente legata a Gesù Cristo, essendo la sposa dell’Agnello (21,9).
— Seconda chiave di lettura: ecclesiologica. I fondamenti di questa città celeste sono 12, come in Ezechiele, ma Giovanni precisa che sono i nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello. I Dodici prolungano e realizzano l’unità del popolo di Dio formato dalle dodici tribù. Nel realizzare il suo disegno di salvezza. Dio vuole un accordo profondo ed un progresso all’insegna della continuità. La Chiesa non è che il punto di approdo del cammino del popolo di Israele. La chiesa non è massa di umanità anonima e priva di relazioni. La città ha la sua compattezza e le sue strutture; in essa gli individui sono legati da vincoli, conoscenze, interessi comuni, formando una comunità gioiosa e fraterna.
— Terza chiave di lettura: ecumenica. La struttura della città è orientata, in mirabile simmetria, secondo i quattro punti cardinali: oriente, occidente, settentrione e meridione (tre porte per ogni punto cardinale, v. 13). La Chiesa di Dio non è una società chiusa, ripiegata sulla fruizione dei suoi privilegi (la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello, v. 23). La salvezza di cui essa gode si apre a tutta l’umanità e a tutto l’universo. Si potrebbe inoltre osservare che le iniziali dei quattro punti o coordinate universali (anatolé, dysis, àrktos, mesembría) formano esattamente il nome Adam il capostipite di tutta quanta l’umanità. Tutto il genere umano, fino agli estremi confini della terra, è chiamato ad accedere attraverso quelle porte e integrarsi nella luminosa società dei santi.
Vangelo: Giovanni 14,23-29
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
Esegesi
La pericope è desunta dai cosiddetti «Discorsi di addio» di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Si tratta di un complesso di insegnamenti (cc. 13-17) che l’Evangelista avrebbe raccolti da vari momenti del ministero di Gesù e posti sulle sue labbra nel momento più solenne della sua missione terrena (quando passa dalla sua esistenza terrena a quella celeste), una specie di testamento spirituale che illumina in retrospettiva tutto il senso della vita e dell’opera di Gesù. Nella nostra lettura è presentato lo Spirito Consolatore, inviato dal Padre, in preparazione alla ormai vicina Pentecoste.
Annotazioni
— «Se uno mi ama, osserverà la mia parola… (v. 23). Questa verità, qui enunciata in termini positivi, viene poi ribadita in termini negativi («Chi non mi ama, non osserva le mie parole», v. 24) e ripresa più avanti: «Se mi amaste, vi rallegrereste…» (v. 28). Questo amore, di cui parla Gesù, deve possedere due condizioni o prove di autenticità: 1. chi ama Gesù, osserva le sue parole, vale a dire vive di esse; 2. chi ama Gesù si rallegra che Gesù vada al Padre, cioè sia nella gloria, perché lì Egli si trova nella «casa del Padre» anche in quanto uomo.
— «Vedremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Chi ama Gesù e vive, cioè realizza pienamente, le sue parole, diventa un tempio, nel quale dimora Dio. L’inabitazione di Dio nell’anima degli uomini costituisce uno dei doni più grandi che Dio possa elargire a noi sulla terra. In modo misterioso l’anima diventa «cielo sulla terra».
— «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome…» (vv. 25-26). Dal greco (paráclétos): non solo nel senso dell’avvocato che difende gli uomini, ma anche nel senso di colui che parla e intercede in loro favore. «Paraclito» nel senso che noi siamo sostenuti e protetti da lui.
— «Vi insegneràogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26). Lo Spirito Santo ci proteggerà perché ci farà capire la parola di Gesù, che non è altro che la parola stessa del Padre (v. 24). Svolgerà questo compito dando calore, forza e intelligibilità a tale parola nella nostra vita. Riporta alla memoria quella parola, non come qualcosa di dimenticato, ma come realtà riscoperta a livello più profondo di fede e di gioia cristiana.
— «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (v. 27). Il prezioso bene della pace è dono di Gesù, è lui che ce lo lascia. Dove c’è Dio, ivi è la pace. Questa pace, intimamente commessa con la presenza di Dio, può sussistere anche in mezzo agli assalti o alle insidie del male, anche in mezzo alle sofferenze. Spesso i Santi parlano dell’esperienza di questa pace profonda, che nessuno al mondo può toglierci.
—«Vado e tornerò da voi…» (vv. 28-29). Gesù non si sottrae che al contatto materiale, corporeo con noi. Ma egli ritornerà in due modi: primo, con lo Spirito Santo; secondo, alla fine dei tempi come Risorto nella sua gloria.
Meditazione
La prima e la seconda lettura di questa sesta domenica di Pasqua ci offrono due immagini simboliche di Gerusalemme. Nel racconto degli Atti è la sede di un incontro, che la tradizione successiva definirà ‘concilio di Gerusalemme’, attraverso il quale la prima comunità cristiana dovrà assumere una decisione fondamentale per la sua storia successiva: se imporre o meno ai cristiani provenienti dal mondo pagano l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della legge mosaica. Il brano dell’Apocalisse ci porta invece a contemplare già la Gerusalemme celeste, che viene da Dio e risplende della sua gloria. Una
città perfetta, aperta a tutte le tribù di Israele (ma è un linguaggio simbolico per affermare che tutti i popoli della terra vi trovano ospitalità come nella loro vera patria). Anche le me-diazioni di ogni tipo – quelle religiose come il tempio, quelle cosmiche come il sole e la luna – vengono meno, poiché cedono il passo all’immediatezza della presenza di Dio e dell’Agnello, simbolo con il quale l’Apocalisse allude sempre al Signore Gesù crocifisso e risorto. Dio e l’Agnello sono il suo tempio e la sua luce. Se ora noi abbiamo bisogno di segni per incontrare il mistero di Dio e percepire la sua presenza nella nostra storia, allora potremo contemplare Dio faccia a faccia, senza più mediazioni. Se ora abbiamo bisogno di essere illuminati per camminare verso Dio, allora sarà Dio stesso a farsi nostra luce. Se ora
viviamo la nostra appartenenza ecclesiale come luogo di distinzione tra coloro che credono e coloro che non credono o vivono altre appartenenze religiose, allora scopriremo Gerusalemme come luogo di incontro di tutti i popoli. La città, infatti, ha porte aperte verso ogni punto cardinale; da ogni confine della terra i popoli vi giungeranno e potranno accedervi, come ricorda anche il salmo responsoriale:
Ti lodino i popoli, o Dio,
ti lodino i popoli tutti.
La terra ha dato il suo frutto.
Ci benedica Dio, il nostro Dio,
ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra (Sal 66,6-8).
L’Apocalisse stessa, nei versetti che seguono immediatamente quelli proclamati dal lezionario liturgico, insiste nel descrivere queste porte sempre aperte e verso tutti: «le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (vv. 24-26). Nella città non potrà entrare niente di falso e di impuro, ma «solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (v. 27). È lui, infatti, l’Agnello, la vera porta, in virtù del suo mistero pasquale. La sua mediazione salvifica si rende presente nella storia attraverso la comunità cristiana, fondata sulla testimonianza apostolica dei Dodici, che porta a compimento l’elezione di Israele e delle sue tribù. I nomi delle Dodici tribù sono infatti scritti sopra le dodici porte, così come i nomi dei Dodici apostoli sui dodici basamenti della città santa. Il simbolismo è ricco, complesso, ma affascinante: la salvezza di Dio, attraverso l’elezione di Israele e della Chiesa, si apre – come queste porte rivolte a oriente e a settentrione, a mezzogiorno e a occidente – per accogliere tutti i popoli, secondo la promessa di Gesù custodita nei vangeli: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (Lc 13,29).
Proprio perché la vera porta è l’Agnello, e nella sua Pasqua la salvezza di Dio può essere annunciata a tutte le genti, la comunità storica di Gerusalemme giunge a decidere, nel discernimento guidato dallo Spirito Santo (cfr. At 15,28), che non è necessario imporre la circoncisione ai convertiti dal paganesimo. Infatti, afferma Pietro nella riunione di Gerusalemme (in un passo che la lettura liturgica omette): «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro» (v. 11). Per la sua grazia, non per altro.
Queste due immagini di Gerusalemme, che le prime due letture dell’eucaristia ci offrono, evocano in fondo la Chiesa in tutto il suo mistero. È una comunità che cammina nella storia, come ci ricordano gli Atti, e in questa sua dimensione è attraversata da tensioni e visioni differenti, sempre impegnata in un faticoso discernimento spirituale della volontà di Dio, chiamata a decisioni che possono anche mutare nel tempo e adattarsi a differenti contesti storici e culturali. Nello stesso tempo, annuncia l’Apocalisse, c’è una dimensione misterica della Chiesa, un suo scendere dall’alto e dal mistero di Dio, che già la abita e la trasfigura nella sua luce, per renderla «una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,11). È soprattutto per farne sacramento di salvezza per tutti i popoli, nonostante tutti i suoi l imiti storici.
Noi siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste per scoprire – ma solo a condizione di essere già per via, protesi verso la meta – che è Gerusalemme stessa a scendere verso di noi in tutta la sua bellezza, per compiere il nostro desiderio e il nostro pellegrinaggio. In questo cammino, come ci ricorda Gesù nell’evangelo di Giovanni, dobbiamo portare con noi un bagaglio sobrio, essenziale ma indispensabile. Innanzitutto una parola da osservare e custodire, o meglio, quella parola che è Gesù stesso come rivelazione definitiva del Padre. Dimorando in lui e nel suo amore siamo certi di essere già in comunione con il Padre, anche nel tempo del nostro pellegrinaggio. A consentirci di rimanere nella Parola c’è il dono dello Spirito Santo – il secondo bene essenziale da portare con sé – che ci insegna ogni cosa ricordando tutto ciò che il Signore Gesù ci ha detto. Quello dello Spirito è un insegnare ricordando, consentendoci di approfondire la rivelazione di Gesù e anche di discernere nella sua luce le decisioni da assumere di volta in volta, di fronte ai problemi che man mano insorgono lungo il cammino. Appunto come accade nel concilio di Gerusalemme, quando le decisioni vengono prese sulla base di quanto «è parso bene allo Spirito Santo e a noi» (v. 28). Un terzo bene da portare con sé è la pace donata dal Signore, che vince ogni turbamento e timore.
Non mancano infatti lungo la via rischi, pericoli, ostilità, scelte coraggiose da assumere. Tutto può però essere affrontato senza paura, nella pace che è dono del Signore e non del mondo, e che dunque possiamo accogliere se siamo disponibili a una comunione con il Signore che ci converte dalle logiche mondane per farci aderire sempre di più al suo stesso ‘sentire’.
Preparando in questo modo il bagaglio per il viaggio ci si accorge tuttavia che si porta con sé un bene infinitamente più grande: la presenza stessa di Dio che cammina con noi e in noi. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Già lungo il cammino si gusta anticipatamente ciò che ci attende al suo compimento: il Padre e il Figlio abitano in noi così come il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello abitano nel cuore della Gerusalemme celeste.
Don Bosco commenta il Vangelo
VI domenica di Pasqua
Gesù promette lo Spirito Santo
Durante l’ultima cena, Gesù disse: “Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26).
Nel Cattolico provveduto leggiamo questa fervorosa “preghiera per ottenere i sette doni dello Spirito Santo”:
Venite, o Spirito Creatore, a visitare l’anima mia, la quale più non desidera che voi. Venite e riempitela della vostra grazia celeste. Voi siete lo Spirito consolatore, il dono di Dio onnipotente, di luce sorgente viva e perenne, il fuoco divino, la carità, la spirituale unzione delle anime nostre. Venite coi sette vostri preziosi doni, Voi che siete il dito di Dio ed insegnateci i nostri doveri. Voi che siete la promessa del divin Padre, suggerite tutto quello che dobbiam fare.
Poi segue una preghiera per ottenere i vari doni dello Spirito Santo e per ciascun dono si chiede una grazia particolare:
Spirito di sapienza, dateci questa virtù che assiste al trono della vostra Maestà;
Spirito d’intelletto, diradate le tenebre della mia mente, fate brillare nell’anima mia un raggio della vostra luce divina;
Spirito di consiglio, siate la mia guida, mostratemi la via che mi conduce al Cielo;
Spirito di fortezza, inspiratemi sì fatto coraggio da mettere in non cale i discorsi dei cattivi, e le loro derisioni, da confessare altamente la fede di Gesù Cristo e colle parole e colle opere;
Spirito di scienza, datemi la scienza dei santi, quella che consiste nel conoscervi e nell’amarvi;
Spirito di pietà, infondete in me uno zelo ardente pel vostro onore, un santo impegno per tutto ciò che è di vostro gusto.
Datemi un santo timore di offendervi, un grande abborrimento al peccato. Questo timore siami qual freno potente, che mi trattenga quando sono per cadere nel peccato, o qual forte stimolo a prestamente alzarmi qualora avessi la disgrazia di soccombere (OE19 612).
Don Bosco, padre degli orfani, è rimasto colpito in modo particolare dalla promessa di Gesù formulata in questi termini: “Non vi lascerò orfani” (Gv 14,18). E la prova che Gesù non ci ha lasciato orfani sta nel fatto che abbiamo la Chiesa e l’Eucaristia.
Nell’episodio XXII della raccolta di Episodi ameni e contemporanei, intitolato “Il Papa e l’Eucaristia”, don Bosco ha scritto:
Dio è presente fra noi in forza dell’Eucaristia e del Papato, secondo la promessa di Gesù Cristo di far sua dimora fra noi, di non lasciarci orfani, di parlare per bocca della Chiesa, di continuare la sua benefica missione, di guarire e di salvare l’umanità (OE15 213).
Nella Vita di san Pietro don Bosco ripete le parole di Gesù nei seguenti termini: “Tu poi, o Pietro, e voi tutti miei apostoli, non pensate che io vi lasci orfani; no, io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli” (OE8 353).
La presenza dello Spirito Santo si manifesta in modo speciale nei concili della Chiesa. Nel suo opuscolo dal titolo I concili generali e la Chiesa cattolica, don Bosco mette in bocca al giovane parrocchiano di nome Tommaso queste affermazioni che il suo prevosto non poteva che approvare:
Siccome Gesù Cristo ha promesso la sua divina assistenza alla Chiesa insegnante, e disse che lo Spirito Santo le avrebbe suggerito tutte le verità, sicché errare non potesse nei suoi insegnamenti; e siccome i vescovi uniti al papa, cioè in un concilio generale, costituisce appunto questa Chiesa insegnante, ne conseguita necessariamente che le decisioni di un siffatto concilio debbano essere infallibili, e le verità da lui proposte verità di Dio, poiché la parola di Gesù Cristo non può mancare (OE22 68s).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
L’immagine della domenica
Giardini UPS (Roma) – 2021
«La novità è come un fiore: non nasce quando lo si vuole, ma solo quandoè il tempo».
(Luigi Maria Epicoco)
Preghiere e racconti
«Quando lo Spirito Santo verrà, v’insegnerà ogni cosa» (Gv 14,26).
Cari figli, non si tratta qui di come questa o quella guerra sarà composta, o se il grano crescerà bene. No, no, figli, non così. Ma quell’«ogni cosa» significa tutte le cose che ci sono necessario per una vera vita divina e per una segreta conoscenza della verità e della malvagità della natura. Seguite Dio e camminate per la santa e retta via, cosa che certe persone non fanno: quando Dio le vuole dentro, esse escono e quando le vuole fuori, entrano; ed è tutta una cosa a rovescio. Queste sono «tutte le cose», tutte le cose che ci sono necessarie interiormente ed esteriormente, sono il conoscere profondamente e intimamente, puramente e chiaramente i nostri difetti, l’annientamento di noi stessi, grandi rimproveri per come restiamo lontani dalla verità e dannosamente ci attacchiamo alle piccole cose.
Lo Spirito Santo c’insegna a inabissarci in una profonda umiltà e a raggiungere una totale sottomissione a Dio e a tutte le creature. Questa è una scienza in cui sono racchiuse tutte le scienze di cui si ha bisogno per la vera santità. Questa sarebbe vera umiltà, senza commenti, non a parole o in apparenza, ma reale e profonda. Possiamo noi disporci in tal modo che ci venga dato in verità lo Spirito Santo! In ciò Dio ci aiuti. Amen.
(GIOVANNI TAULERO, I sermoni, Milano, 1997, 233s.).
Lo Spirito di Dio
Senza lo Spirito Santo, se, cioè, lo Spirito non ci plasma interiormente e noi non ricorriamo a lui abitualmente, praticamente può darsi che camminiamo al passo di Gesù Cristo, ma non con il suo cuore. Lo Spirito ci rende conformi nell’intimo al vangelo di Gesù Cristo e ci rende capaci di annunziarlo esternamente (con la vita). Il vento del Signore, lo Spirito Santo, passa su di noi e deve imprimere ai nostri atti un certo dinamismo che gli è proprio, uno stimolo cui la nostra volontà non rimane estranea, ma che la trascende. Dio ci donerà lo Spirito Santo nella misura in cui accoglieremo la Parola, ovunque la sentiremo.
Dovrebbe esserci in noi una sola realtà, una sola verità, uno Spirito onnipotente che si impossessi di tutta la nostra vita, per agire in essa, secondo le circostanze, come spirito di carità, spinto di pazienza, spirito di dolcezza, ma che è l’unico Spirito, lo Spirito di Dio. Tutti i nostri atti dovrebbero essere la continuazione di una medesima incarnazione. Bisognerebbe che consegnassimo tutte le nostre azioni allo Spirito che è in noi, in modo tale che si possa riconoscere in ciascuna di esse il suo volto. Lo Spirito non chiede che questo. Non è venuto in noi per riposarsi; egli è infaticabile, insaziabile nell’agire; una sola cosa può impedirglielo: il fatto che noi, con la nostra cattiva volontà, non glielo permettiamo, oppure non gli accordiamo abbastanza fiducia e non siamo fino in fondo convinti che egli ha una sola cosa da fare: agire. Se lo lasciassimo fare, lo Spirito sarebbe assolutamente instancabile e di tutto si servirebbe. Basta un nulla a spegnere un focherello, mentre un fuoco avvampante consuma ogni cosa. Se noi fossimo gente di fede, potremmo consegnare allo Spirito tutte le azioni della giornata, qualunque siano: le trasformerebbe in vita.
Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali, così che non ancora tutti i popoli hanno potuto stringerle fraternamente fra loro;
Signore, noi siamo oggi tanto armati come non lo siamo mai stati nei secoli prima d’ora, e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forse anche l’umanità;
Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l’equilibrio crudele della economia di tante Nazioni potenti sul mercato delle armi alle Nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali;
Signore, noi abbiamo lasciato che rinascessero in noi le ideologie, che rendono nemici gli uomini fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l’odio di classe, l’orgoglio nazionalista, l’esclusivismo razziale, le emulazioni tribali, gli egoismi commerciali, gli individualismi gaudenti e indifferenti verso i bisogni altrui;
Signore, noi ogni giorno ascoltiamo angosciati e impotenti le notizie di guerre ancora accese nel mondo;
Signore, è vero! Noi non camminiamo rettamente! Signore, guarda tuttavia ai nostri sforzi, inadeguati, ma sinceri, per la pace nel mondo! Vi sono istituzioni magnifiche e internazionali; vi sono propositi per il disarmo e la trattativa;
Signore, vi sono soprattutto tante tombe che stringono il cuore, famiglie spezzate dalle guerre, dai conflitti, dalle repressioni capitali; donne che piangono, bambini che muoiono; profughi e prigionieri accasciati sotto il peso della solitudine e della sofferenza; e vi sono tanti giovani che insorgono perché la giustizia sia promossa e la concordia sia legge delle nuove generazioni;
Signore, Tu lo sai, vi sono anime buone che operano il bene in silenzio, coraggiosamente, disinteressatamente e che pregano con cuore pentito e con cuore innocente; vi sono cristiani, e quanti, o Signore, nel mondo che vogliono seguire il Tuo Vangelo e professano il sacrificio e l’amore;
Signore, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.
(Paolo VI)
Porremo la nostra dimora presso di lui
Io e il Padre, dice il Figlio, verremo a lui, cioè all’uomo santo, e porremo la nostra dimora presso di lui (Gv 14,23) […] E l’Apostolo dice chiaramente che Cristo abita per la fede nei nostri cuori (Ef 3,l7). Non fa meraviglia se il Signore Gesù è lieto di abitare [nell’anima], che è come un cielo per la cui conquista ha lottato e per la quale non si è limitato, come per gli altri cieli, a dire una parola perché essi fossero creati. Dopo le sue fatiche, manifestò il suo desiderio e disse: Questo è il mio riposo per sempre; qui abiterò poiché l’ho scelto [Sal 131 (132),14]. E beata colei alla quale è detto: Vieni, mia eletta, e porrò in te il mio trono (Ct 2,10-13).
Perché ora sei triste, anima mia, e perché gemi su di me? Pensi di trovare anche tu un posto per il Signore dentro di te? [cfr. Sal 41 (42),6] E quale posto in noi è degno di una tale gloria ed è in grado di accogliere la sua maestà? Potessi almeno adorarlo nel luogo dove si sono fermati i suoi passi! Chi mi darà di poter almeno seguire le tracce di un’anima santa che si è scelta come sua dimora? Se potesse degnarsi di infondere nella mia anima l’unzione della sua misericordia e così stenderla come una tenda, la quale quando viene unta, si dilata, perché anch’io possa dire: Ho corso per la via dei tuoi comandamenti quando tu hai dilatato il mio cuore [Sal 118 (119), 32], potrò forse anch’io mostrare in me stesso se non una grande sala tutta pronta, dove possa mettersi a tavola con i suoi discepoli, almeno un posticino ove possa adagiare la testa (cfr. Mt 8,20). Guardo da lontano quelli veramente beati di cui è detto: Abiterò in loro e con loro camminerò (2Cor 6,16) […]
È necessario che l’anima cresca e si dilati per poter contenere Dio. Ora, la sua larghezza corrisponde al suo amore, come dice l’Apostolo: Dilatatevi nella carità (2Cor 6,13). Infatti, poiché l’anima, essendo spirito, non ha affatto quantità, tuttavia la grazia le dona ciò che non ha la natura. Essa infatti cresce, ma spiritualmente; cresce non nella sostanza, ma nella virtù; cresce anche nella gloria; cresce, infine, e progredisce fino a formare l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cfr. Ef 4,13); cresce anche come tempio santo del Signore. La quantità di ciascuna anima corrisponde alla misura della sua carità in modo tale che è grande quando ha una grande carità, piccola quando ne ha poca, se non ne ha affatto è nulla, come dice Paolo: Se non ho la carità, non sono niente (ICor 13,12).
(BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico 27,8-10, PL 183,918-919).
Preghiera
Signore Gesù, tu chiedi l’amore
come condizione
per l’inabitazione della Trinità,
l’amore che è adesione alla tua Parola.
Ma come possiamo amarti
se non siamo dentro la logica del tuo amore?
Se non sentiamo in noi il fuoco
di questo amore grande e misterioso
che supera ogni limite
e sa affrontare ogni avversità?
Noi non possiamo produrre tale amore,
possiamo solo accoglierlo come dono.
Aiutaci a saperci guardare dentro,
per scorgere in noi la presenza del tuo amore.
La Settimana con don Bosco
17-24 maggio
17. “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea e di Betania, cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui” (OE8 22).
18.(S. Giovanni I)– “Il Signore assegnò a ciascun uomo uno stato particolare nel quale debba vivere ed operare la propria salute” (OE19 593).
19. “Fate quest’oggi qualche astinenza in onore di Maria santissima” (OE3 364).
20.(S. Bernardino da Siena) – Nella chiesa del Sacro Cuore a Roma il pittore ha voluto rappresentare “san Bernardino da Siena, recante la tavola col nome di Gesù” (MB18 348).
21.(S. Cristoforo Magallanes e comp.) – “Dio solo poteva infondere tanta forza e tanto coraggio nel cuor dei martiri” (OE4 274).
22.(S. Rita da Cascia) – “Perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza” (MO 62).
23. “Non è forse miglior cosa saper ben vivere che saper ben parlare?” (OE29 329).
24.(B. Vergine Maria, aiuto dei cristiani)– “La festa di Maria Ausiliatrice deve essere il preludio della festa eterna che dobbiamo celebrare tutti insieme uniti un giorno in Paradiso” (MB17 114).
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.
Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio. Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.
Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett. confermare) nella fede i discepoli. «Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf. At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13). Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf. Lc 22,32).
Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli. Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.
Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni». È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare. Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno. Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…
Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio. Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede. Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf. At 14,27).
Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni. Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio. I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione. Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.
Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova. Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi». Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf. 66,22). «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».
La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova». In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio». La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso. Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica. Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.
La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf. Is 52,1; 61,10).
Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile. Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda». Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto. La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare. La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.
Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf. Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).
Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-35
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Esegesi
Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.
Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito. In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.
La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria. I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf. Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;). Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54). C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre. «Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). «Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).
Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione. Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre. Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita». «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.
«Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova. La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.
Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (teknía). Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf. Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.
Meditazione
La pericope evangelica che la liturgia propone nella quinta domenica di Pasqua dell’anno C’ è, come sempre, tolta dal suo contesto biblico per ‘rivivere’ in un nuovo contesto che è quello liturgico. Senza contraddire il contesto biblico, cerchiamo di far risuonare questo testo di Giovanni all’interno della celebrazione pasquale che la Chiesa vive nei Cinquanta giorni, i quali costituiscono un unico grande giorno di festa.
Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani. Quello che ci viene qui narrato è dunque uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo ‘istituzionale’ le comunità locali — e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Ecco un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.
Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (seconda lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo.
Ecco: faccio nuove tutte le cose!
L’Apocalisse riprende un’immagine molto bella, già usata in precedenza per parlare della fine della storia (cfr. Ap 7,17): Dio che asciuga ogni lacrima dal volto dell’umanità. E aggiunge qui un elenco di situazioni concrete che alla fine e nel fine della storia non ci saranno: «Non vi sarà più morte né lutto e grida e dolore» (Ap 21,5). Le lacrime che saranno asciugate non sono quelle dei grandi eventi della storia, ma quelle dei lutti e delle tribolazioni che ogni uomo e ogni donna hanno vissuto nella loro concreta esistenza.
Nel fine e nella fine della storia, nel disegno di Dio, queste realtà non ci sono più. Dio non le ha mai volute e alla fine della storia le cancella, perché il suo desiderio originario alla fine non può che vincere contro ogni ‘nemico’. Il brano termina con un’affermazione che ci proietta nel testo evangelico: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». La storia conoscerà una svolta, ma tale svolta è opera di Dio. A partire da questo annuncio, spostiamo la nostra attenzione sul brano evangelico, per contemplare come, dove e quando quest’azione di Dio trova conferma, quando la Parola di Dio si dimostra degna di fede/fedele e veritiera (cfr. Ap 21,5).
Anche il testo del Vangelo parla di una ‘cosa nuova’, un comandamento nuovo, che Gesù dona ai suoi discepoli. In realtà non si tratta di una novità dal punto di vista del contenuto: il comando dell’amore è già presente nell’Antico Testamento sia in riferimento a Dio (Dt 6,5), sia in riferimento al prossimo (Lv 19,18.34). La novità sta nel ‘come’. Si tratta di un comando, ‘amatevi’, che interessa l’avvenire, fondato sopra un fatto avvenuto nel passato: ‘come io ho amato voi’. L’amore dei discepoli è possibile perché sono stati preceduti dall’amore di Gesù: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). In Gv 15,9 Gesù descriverà così qual è l’amore con il quale egli ha amato i discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È in questo amore, con il quale il Padre ha amato Gesù e che Gesù a sua volta ha indirizzato verso i suoi discepoli, che i discepoli stessi devono ‘rimanere’.
La novità di questo comandamento, allora, è la novità della Pasqua, nella quale Dio crea qualcosa di nuovo proprio in Gesù, primogenito dell’umanità e terra nuova che l’Apocalisse canta con stupore. Anche se collocato in un discorso di Gesù ambientato nella cena che ha preceduto la passione e quindi la Pasqua, questo testo, come ogni testo dei vangeli, viene trasfigurato dalla luce pasquale. Ma ci dice anche qualcosa di più circa la ‘novità’ che è stata resa possibile dalla Pasqua di Gesù e che ‘oggi’ la Chiesa può celebrare nel suo cammino nella storia dell’umanità.
Gloria, sequela, amore
Nel brano si susseguono tre temi molto significativi — la gloria, la sequela, il comandamento dell’amore — che corrispondono nel testo a suddivisioni ben riconoscibili, e anche a una scansione temporale ben precisa.
La gloria. Nell’Antico Testamento la ‘gloria’ — termine che in ebraico indica la ‘pesantezza’, la ‘consistenza’ — è il manifestarsi di Dio nella storia. La gloria è la presenza di Dio visibile nella storia dell’umanità. Nel testo di Giovanni si parla del Padre che è glorificato in Gesù e di Gesù che è glorificato da parte del Padre. In Gesù, nella sua Pasqua, continua dunque il medesimo ‘stile’ del Dio dell’Esodo, un Dio che agisce nella storia in favore del suo popolo e dell’umanità. Questo primo tema fa riferimento al tempo della Pasqua di Gesù.
La sequela. Il secondo tema è quello del seguire il Signore. Su esso sembra che ci sia incomprensione tra il maestro e i suoi (cfr. 13,36-38). Gesù afferma che ora i discepoli non lo possono seguire dove egli va, sulla sua via (Gv 13,33.36) e il v. 36 è ancora più chiaro: ora i discepoli non possono seguire Gesù. Lo potranno fare però in un secondo momento, dopo la sua Pasqua. Non possono amarsi vicendevolmente come Gesù li ha amati prima che egli li abbia amati fino alla fine (Gv 13,1). Devono accettare questo suo gesto estremo di amore per poter diventare capaci di essere veramente suoi discepoli e di seguirlo. Il tempo di cui si sta parlando è il presente dei discepoli, prima della Pasqua di Gesù.
Il comandamento dell’amore. Ora si capisce perché Gesù introduca a questo punto il tema del comandamento nuovo. Gesù indica qui la via che i discepoli devono percorrere per poterlo seguire, per andare dove lui va, cioè verso la Pasqua: è l’amore fino alla fine, a somiglianza del suo. Prima della Pasqua questo amore è ‘sconosciuto’ ai loro occhi e non sono in grado di percorrere quella via. Solo dopo, dopo la Pasqua di Gesù e il dono dello Spirito, potranno essere veramente discepoli.
La sequela non è frutto dell’impegno dei discepoli, ma è quella ‘cosa nuova’, quella via nel deserto che Dio ha aperto nella storia dell’umanità. Senza la strada aperta da Dio in Gesù, che è la via (Gv 14,6), non ci può essere sequela autentica. Allora questa parola di Gesù è situata in un ‘terzo tempo’, che viene dopo la sua Pasqua e il dono dello Spirito, e condurrà i discepoli alla verità tutta intera. È il tempo della Chiesa.
Don Bosco commenta il Vangelo
V domenica di Pasqua
Amatevi gli uni gli altri
Durante l’ultima cena, Gesù disse ai suoi discepoli: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34).
Nella sua Vita dei sommi Pontefici s. Lino, s. Cleto, s. Clemente don Bosco evoca anche la figura di san Giovanni Evangelista che alla fine della vita ripeteva sempre le parole di Gesù:
Verso il fine dei suoi giorni non potendo più andare sopra la cattedra, ovvero sul pulpito, a predicare vi si faceva portare a braccia. Siccome poi le gravi fatiche sostenute, la sua debolezza e la sua grande età l’impedivano di fare lunghi discorsi, egli soleva spesso ripetere queste parole: Figliuoli miei, amatevi a vicenda, e adempirete la legge di Gesù Cristo. A udirlo così sovente a ripetere la stessa massima, i suoi discepoli annoiati gli risposero: Maestro, voi ci dite sempre le medesime cose.
Il Santo rispose: “Ve lo dico in verità, amatevi scambievolmente, e se avrete la vera carità, adempirete tutta la legge di Gesù Cristo” (OE9 437s).
Nel suo libro sull’Apparizione della beata Vergine sulla montagna di La Salette don Bosco cita una lettera della veggente Melania nella quale raccomanda in particolare l’amore vicendevole:
Mantenetevi in pace, amatevi come fratelli, promettendo a Dio di osservare i suoi comandamenti e di osservarli davvero. E per la misericordia di Dio voi sarete felici, e farete una buona e santa morte, che desidero a tutti mettendovi tutti sotto la protezione dell’augusta Vergine Maria (OE22 430).
Ai primi missionari salesiani in partenza per l’Argentina don Bosco lasciò tra gli altri questo ricordo:
“Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi, ma non portatevi mai né invidia né rancore, anzi il bene di uno sia il bene di tutti; le pene e le sofferenze di uno siano considerate come pene e sofferenze di tutti, e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle” (MB11 340).
Insisteva sullo stesso tema in una conferenza ai salesiani nel 1876:
Ancora una cosa, che io credo di una importanza veramente straordinaria e che bisogna che cerchiamo proprio che ci sia in noi ora e che si conservi sempre. Quest’è l’amor fraterno. Credetelo: il vincolo che tiene unite le Società, le Congregazioni, è l’amor fraterno. Io credo di poterlo chiamare il perno su cui si aggirano le Congregazioni ecclesiastiche. Ma a che grado dovrebbe esso ascendere? Iddio Salvatore ce lo disse: Diligite alterutrum sicut et ego dilexi vos; amatevi a vicenda, nel modo, con quella misura con cui io ho amato voi (MB 12 630).
Lo stesso anno, a Marsiglia, don Bosco s’incontrò con un giovanotto quasi morto di freddo e di fame, lo condusse all’Oratorio dove gli diedero le prime cure.
Concluderò quindi con un pensiero che mi sta sommamente a cuore. L’Apostolo san Giovanni, vecchio di ben cent’anni, non potendo parlare a lungo delle cose di Dio, si faceva portare in chiesa e ripeteva queste poche parole ai discepoli radunati: Diligite alterutrum, e null’altro. Talora i discepoli gli chiedevano: E fatto questo, che cosa dovremo fare d’altro? Diligite alterutrum! rispondeva. Ma stanchi i cristiani di udire sempre da lui lo stesso consiglio, lo pregarono umilmente a dar loro spiegazione di tanta insistenza. Perché, rispose il Santo Apostolo, chi adempie al precetto della carità, ha fatto tutto! Così io dico a voi, o miei cari figli: Amatevi gli uni gli altri, aiutatevi gli uni gli altri caritatevolmente, e non succeda mai che alcuno tenga astio contro il suo fratello, o lo screditi con parole sconvenienti. Guai a chi opera in tal modo! Dobbiamo perdonare al nostro fratello, come desideriamo che Dio perdoni a noi i nostri peccati (MB17 297s).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume
L’immagine della domenica
SEGOVIA (SPAGNA) – 2022
«Anche se tutti i nostri sogni si dovessero sgretolare, non bisogna mai permettere che il cinismo prenda il sopravvento e sclerotizzi i nostri cuori. Da ogni delusione nascerà sempre un nuovo sogno».
(Carlo Acutis)
Preghiere e racconti
La nostalgia dell’Eterno
Come le rondini che a metà agosto cominciano a venir prese dalla febbre migratoria e al crepuscolo con alte strida in gruppi ahimè sempre più piccoli si richiamano e si raccolgono sui fili, così anche noi, a un certo punto della nostra vita, possiamo sentire lo stimolo di prendere il volo.
Al di là del mare, un altro mondo ci chiama.
Non l’abbiamo mai visto, non abbiamo in mano un contratto che ci garantisca l’approdo, non sappiamo neppure se le nostre forze saranno sufficienti. Forse una notte, sfiniti, verremo inghiottiti dai flutti.
Eppure, partiamo lo stesso.
Come i piccoli rondinotti nati in Italia, già al primo volo intorno al nido hanno nostalgia dell’Africa, così noi, nelle parti più segrete del cuore, custodiamo sempre la nostalgia della voce dell’Eterno che ci chiama.
(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015,127)
Affamati d’amore
Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza. La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.
(Madre Teresa di Calcutta)
«Vi do un comandamento nuovo».
Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].
E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.
(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).
Ama con umiltà e rispetto
La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.
(Thomas Merton).
«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22,37-39).
Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento. Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole. Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo. Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.
Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo. In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi. L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite. È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore. Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.
(H.J.M. NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Brescia, 1998, 82s.).
Cogliere il mistero di Dio
Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.
(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).
Cercare la verità…amando
Ho cercato la verità,
con l’Innominato di Manzoni.
Ho cercato la verità
tra le lettere di don Milani.
Ho cercato la verità,
curiosando nella vita di Gandhi.
Ho cercato la verità,
nelle confessioni di sant’Agostino.
Ho cercato la verità
nelle prediche di don Mazzolari.
Ho cercato la verità,
piangendo con Giobbe sul letamaio.
Ho cercato la verità,
fuggendo da casa, con la mia parte
di eredità, come il Figliol Prodigo.
Ho cercato la verità,
nelle poesie di Tagore.
Ho cercato la verità,
nei pensieri di Pascal.
Ho cercato la verità,
nei fioretti di san Francesco.
Ho cercato la verità,
nell’Allegretto della settima di Beethoven.
Ho cercato la verità,
vagando stralunato.
Ho cercato la verità,
negli occhi incavati
e ormai vitrei di Brambilla,
morto di Aids tra le mie braccia.
Ho cercato la verità,
nei rosari che la mia santa madre
recitava per me,
prete molto diverso dal prete
che teneva nella sua testa.
Ho cercato la verità,
nel Parco Lambro,
negli anni ottanta,
assistendo giovani in overdose.
Ho cercato la verità,
nei commenti biblici, stupendi,
del mio cardinale di Milano.
Ho cercato la verità,
nei viaggi del pellegrino Wojtyla.
Ho cercato la verità,
nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.
Ho cercato la verità,
nelle storie degli ultimi
e dei diseredati.
Ho cercato… talvolta nell’affanno,
tal’altra nella pazienza;
talvolta nella confusione,
tal’altra nel silenzio.
Una notte inginocchiato
nella mia cameretta,
recitavo Compieta.
Ho sentito battere al mio cuore.
Ho detto: avanti.
Ero assonnato e stanco.
Solo dopo qualche minuto
mi sono accorto chi era.
«Sono la fede!
So che mi hai cercato
per tanto tempo…lo sai bene
anche tu, che la fede non si cerca
dove non è…perché
la fede è LUI…e LUI è…
l’irruzione, la gratuità,
la meraviglia…
Lui è quello che ha detto:
«Cercate la verità, amando».
Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.
Sono venuto a dirtelo.
Accendi la lampada e spegni
i ragionamenti nella tua testa.
Perché LUI entra dal cuore.
È l’unica porta che può riceverlo».
(Don Antonio Mazzi, Preghiere di un prete di strada).
L’amore basta all’amore
Quando l’amore ti chiama, seguilo,
anche se ha vie ripide e dure.
Quando dalle sue ali ne sarai avvolto,
abbandonati a lui;
anche se la sua lama potrà ferirti.
Quando ti parla, credigli,
anche se la sua voce potrà disperdere i tuoi sogni.
Perché più l’amore ti colpirà,
più tu maturerai.
Perché l’amore non deve dar nulla, se non se stesso,
né coglier nulla, se non da se stesso.
Perché amarsi l’un l’altro,
non è far dell’amore una prigione.
Perché l’amore non possiede, né deve essere posseduto.
Perché l’amore basta all’amore.
La Settimana con don Bosco
10. “Maria ha continuato dal cielo e col più gran successo la missione di madre della Chiesa ed ausiliatrice dei cristiani che aveva incominciato sulla terra” (OE20 237).
11. “Non dimenticare che siamo salesiani. Sal et lux. Sale della dolcezza, della pazienza, della carità. Luce in tutte le azioni esterne” (E7 276).
12.(Ss. Nereo e Achilleo) –(S. Pancrazio) “Il tiranno lo sottopose ad un lungo e grave interrogatorio, in cui Pancrazio spiegò una fortezza degna non di un giovanetto, ma di un eroe” (OE14 411s).
13.(B. Vergine Maria di Fatima) –(S. Maria Domenica Mazzarello)– Don Bosco “approvò che Suor Maria Mazzarello continuasse ad esercitare l’ufficio di superiora […]. Suor Maria lo pregò di mandar presto un’altra al suo posto, dichiarandosi sempre inetta a quell’ufficio, e Don Bosco le rispose: – State tranquilla, il Signore provvederà!” (MB10 619).
14.(S. Mattia) – “San Clemente Alessandrino racconta di san Mattia che insegnava la mortificazione sia colle parole sia coi fatti” (OE9 419).
15. “Il benedetto suo Cuore ha una secreta e prodigiosa virtù di commuovere i peccatori più induriti nel male, ha nello stesso tempo una singolar attrattiva per condurli a ravvedimento” (OE18 526).
16. “Nutrimento e cibo dell’anima nostra è la parola cioè le prediche, la spiegazione del Vangelo e il catechismo” (OE2 198).
17. “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea e di Betania, cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui” (OE8 22).
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisidia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero. Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio. Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”». Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
La Chiesa nasce con i problemi di tutte le istituzioni. Il gruppo missionario, partito da Antiochia di Siria (13,1-3), è composto da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco; ma a Cipro, evidentemente per dissensi, Giovanni torna indietro e Saulo che prende il nome di Paolo diventa il primo della comitiva (v. 14).
La nuova meta è Antiochia di Pisidia, una delle più grandi città all’interno dell’Asia minore (Turchia). La tattica missionaria consiste innanzitutto in un approccio con i giudei del luogo, al primo sabato nella sinagoga. Le parole dell’apostolo non lasciano indifferenti gli ascoltatori, sia i giudei che i proseliti ossia i pagani in via di conversione al giudaismo e si fissa un appuntamento per il sabato seguente.
Ma nel frattempo i giudei hanno tempo di riprendersi e consultarsi e organizzano una ferma resistenza ai nuovi arrivati avvalendosi dell’appoggio di persone autorevoli che erano o riuscirono a far schierare dalla loro parte.
Non è detto che cosa contestassero, ma verosimilmente la posizione egemonica di Gesù rispetto agli altri profeti. Le loro «bestemmie» non riguardavano certamente Dio, ma Gesù Cristo che essi non accettavano come l’unto del Signore. È sempre Gesù la pietra di scandalo (cf. At 4,11), il segno di contraddizione (Lc 2,34).
I giudei neanche accettano di mettere in discussione il primato di Abramo e di Mosè, non possono perciò prendere in considerazione le attribuzioni assegnate a un falegname nazaretano. Il Cristo storico non offriva garanzie per essere ritenuto inviato di Dio (cf. Mc 6,1-6; Lc 4,28-29).
Il settarismo giudaico trova il suo corrispettivo nell’intransigenza cristiana. Gli apostoli che provengono anch’essi dal mondo dei loro oppositori non si provano a cercare un punto di contatto con i loro avversari che pur sono loro fratelli, egualmente figli di Abramo e adoratori dello stesso Dio. Per gli uni la fede in Mosè porta all’esclusione della fede in Cristo, per gli altri l’adesione a Gesù Cristo mette da parte tutti gli altri intermediari tra l’uomo e Dio. Non c’è altro nome in cui è dato salvarsi, è affermato fin dai primi discorsi degli Atti (4,12).
Ad Antiochia avviene la rottura ufficiale tra il cristianesimo e il giudaismo della diaspora come a Gerusalemme era avvenuta la separazione con il giudaismo palestinese. Il cristianesimo nasce dal solco della tradizione giudaica, ma d’ora in avanti perseguirà un cammino tutto proprio e spesso antagonistico con quello della sinagoga.
La chiesa dei giudei o della circoncisione diventa presto la chiesa dei soli gentili. Era evidentemente un fatto incomprensibile, uno scandalo si dirà presto. Bisognava cercare una spiegazione biblico-teologica per renderlo plausibile. I testi che parlavano della salvezza dei gentili non prevedevano l’esclusione dei giudei.
La vertenza di Antiochia, si chiude, come spesso accadrà in futuro nella storia cristiana, con il ricorso al braccio secolare. I giudei, non potendo far tacere gli apostoli con le loro controargomentazioni, mobilitano i notabili della città e con il loro appoggio riescono a far allontanare degli uomini che erano pericolosi per la quiete pubblica.
Ma la risposta degli apostoli è pari all’ostilità ricevuta: scuotono persino la polvere dai loro calzari in segno di protesta. È il rifiuto di ogni comunione con quanti quella terra calpestavano.
Seconda lettura: Apocalisse 7,9.14-17
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
L’Apocalisse trasferisce il lettore sempre in un mondo ideale, quello della risurrezione, di cui tutto si può dire, ma di nulla si può esser certi, salvo la sua realtà.
L’uomo passa la sua prima esistenza in una realtà opaca, piena di contrasti e di contraddizioni e sogna che l’era futura sia il suo contrario, luminosa, pacifica, accattivante. Un mondo sempre da desiderare oltre che attendere, in cui le ingiustizie e le sofferenze di quaggiù, la stessa morte scompariranno per sempre.
La fede è una visione ottimistica del futuro, la proiezione verso una vita senza fine dove non un piccolo numero ma una moltitudine sterminata e plurirazziale entrerà a far parte. Quella di Ap 7 è una scena consolante ed esaltante.
La vita terrena è una grande tribolazione in particolare per i credenti. Essi spesso soccombono sotto il peso dei tiranni, ma la loro fine segna l’inizio di una vita nuova. Sono caduti sotto i ferri degli aguzzini, ma si sono rialzati, indossano tuniche bianche che simboleggiano la luce da cui sono avvolti e nelle loro mani stringono la palma della vittoria. Erano degli sconfitti, ora sono dei vincitori!
La vita del cielo è per l’ebreo l’idealizzazione della sua esperienza religiosa sulla terra. Gerusalemme e il suo tempio sono trasferiti negli al di là e lo stesso rituale liturgico si ritrova davanti al trono di Dio e l’Agnello.
L’Agnello è il simbolo di Gesù Cristo morto e risorto; infatti anch’egli è «come immolato» e «in piedi» (5,6), per questo «è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore e gloria e benedizione» (5,12). E quanto la moltitudine dei martiri gli tributa in segno di riconoscenza. «La salvezza appartiene al nostro Dio e all’Agnello» (7,10).
Ma la gioia nasce dal fatto che i credenti sono diventati partecipi del trionfo dell’Agnello che pascola e guida il suo gregge alle fonti dell’acqua della vita (v. 17).
Per l’israelita il massimo della beatitudine era ritrovarsi davanti a Dio nel suo santuario; la stessa è la condizione degli eletti. E la tenda dell’abitazione di Dio, il tabernacolo celeste è diventata la loro dimora e la loro vita sarà alimentata da una sorgente perenne.
Tutte immagini precarie che vogliono ritrarre una realtà inimmaginabile, la sorte dei giusti. In tutti i casi essa sarà di piena felicità spirituale e fisica poiché la presenza di Dio e dell’Agnello è accompagnata dall’assenza di intemperie e di catastrofi.
Vangelo: Giovanni 10,27-30
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Esegesi
Il breve testo evangelico segna il momento culminante dell’ultimo dibattito di Gesù con le autorità giudaiche. Come il primo, in occasione della purificazione del tempio (2,13), quest’ultimo ha la stessa collocazione topografica.
È la festa della dedicazione (10,22). Gesù ha rimesso piede nei cortili del tempio, dove in precedenza aveva denunciato gli abusi dei dirigenti giudaici (8,44) e questi avevano cercato di catturarlo e ucciderlo (8,20,37,40,59). Ciò nonostante è di nuovo sul posto e si muove liberamente (sta passeggiando) sotto i loro occhi.
L’evangelista fa notare che era inverno. Dato che la festa della dedicazione cadeva nel mese di dicembre l’osservazione è superflua; sta facilmente a indicare il clima di freddezza che regnava attorno o più ancora la desolazione che sovrastava sul luogo santo.
Il tema della conversazione, come nel primo incontro nel tempio (2,15) o nell’interrogatorio fatto al Battista (1,19), riguarda sempre la messianità di Gesù. Questa volta gli interlocutori mostrano ansia e accoramento. Lo attorniano nel senso che lo accerchiano, gli sono addosso quasi da soffocarlo. La loro domanda è ambigua: fino a quando ci tieni sospesi tra la vita e la morte. Può indicare interesse per un quesito teologico essenziale oppure può semplicemente dire che da esso dipende la loro sopravvivenza istituzionale. Se Gesù si dichiara re d’Israele la loro fine è segnata.
Ma la risposta di Gesù è volutamente circospetta. Egli aggira l’ostacolo; non pronuncia la parola messia, ma suggerisce ai suoi obiettori la strada per arrivarvi. Le parole non fanno grande nessuno; sono i fatti che indicano quello che uno è.
Le opere a cui Gesù si appella non sono tanto i miracoli, quanto le azioni benefiche compiute a pro degli uomini, i gesti di benevolenza a favore degli afflitti nel corpo e nello spirito, dei malati, dei peccatori. Egli si è definito poco sopra il buon pastore che dà se stesso per le pecore (10,11), che conosce, cioè le ama, come le pecore conoscono Lui, corri-spondono al suo amore; ma non è amore teorico, bensì fatto di gesti concreti per il bene di tutto il gregge, sia quello del recinto israelitico come di altra provenienza (10,16). Gesù non ha mai agito per il suo prestigio personale, cercando la propria gloria (8,50), l’applauso degli uomini (5,41); anzi è fuggito quando questi volevano farlo re (6,15).
Le «opere» di Gesù sono le stesse che Dio compie e perciò autenticano la sua missione. Egli ha ricevuto lo Spirito nel giorno del battesimo (1,32) e da quel giorno si è lasciato guidare unicamente dalle sue mozioni. Sempre e ininterrottamente. Il suo cibo è compiere la volontà del Padre (4,34). E più chiaramente: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato… che io non perda nessuno di quanti mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno» (6,39-40).
Gesù non si è messo in testa un suo ideale messianico; non ha assecondato le voci della carne e del sangue (Gal 1,16), meno ancora le istigazioni sataniche (Mt 4,1-12) bensì le proposte dello Spirito di Dio, lo stesso che ha parlato a Mosè e ai profeti, solo che allora il suo discorso era incompleto o carente, ora è senza veli e riserve. Il Dio che si è rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe è in realtà il padre di tutti gli uomini e rivolge a tutti non solo ad alcuni le sue premure (10,16).
Gesù ha capito che Dio è un padre prima che un Signore; non mira alla realizzazione del regno d’Israele, ma del regno dei cieli sulla terra, cioè a una convivenza tra gli uomini che assomigli a quella che vige nel mondo in cui egli vive.
La risurrezione di cui Gesù segnala l’avvento (6,39-40) o la vita eterna non è che il passaggio nella famiglia dei figli di Dio, che non conosce circoscrizioni di tempo o di spazio, ma comincia subito con il germogliare della fede (5,19-30).
Il discepolo di Gesù non si misura da quello che egli sa dire su di lui, ma da quello che sa compiere sul suo esempio (13,15). Mosè ha dato dieci comandamenti; Gesù uno solo che è quello di amarsi di uni gli altri (14,15; 15,12).
Gesù ricapitola in un termine convenzionale il gruppo dei suoi seguaci, gregge, e i suoi discepoli nel termine pecore, un animale noto per la sua mansuetudine. Per questo designa se stesso con l’appellativo di pastore (10,11-16). Il vero pastore ama il suo gregge, ma occorre che questi risponda alla sua attenzione. Come ci sono buoni e cattivi pastori ci sono pecore docili e pecore ribelli. I giudei che arbitrariamente ostacolano l’opera di Gesù sono di quest’ultima categoria. «Non siete mie pecore», dichiara Gesù (v. 26). Essi non credono in lui perciò non fanno parte del suo gregge. Non tendono l’orecchio a quello che egli dice in nome di Dio, ma ascoltano solo se stessi, le loro aspirazioni egemoniche (10,1), assecondano lo spirito di rapina, di sfruttamento degli altri (10,8,10); non possono credere a Gesù che chiede di amare il prossimo.
Gesù segnala in due verbi la figura del discepolo, akouein (ascoltare) e akolouthein (seguire). Alla base di tutto c’è l’ascolto. La fede nasce dall’udito, afferma Paolo (Rm 10,14) e quando si accoglie ciò che si è percepito si è sulla via della fede, non ancora nel numero dei credenti. Il profeta parla e i passanti si fermano ad ascoltarlo; alla fine ritengono veritiero il suo messaggio. È un primo passo, ma occorre compierne un altro decisivo. Non basta ascoltare, occorre avvertire la carica di bontà, di amore che è in colui che parla e riuscire a farla propria.
Gesù vanta di conoscere le sue pecore. Il verbo conoscere ha un senso pieno; non indica solo apprensione mentale ma comunione di amore e di vita con la persona conosciuta. «Nessuno conosce il padre se non il figlio» afferma Gesù; nessuno lo ama tanto quanto lui (Mt 11,27). Allo stesso modo Gesù conosce le sue pecore perché le ama; così sono suoi discepoli quelli che hanno creduto al suo amore (cf. 1Gv 4,16) e si sono messi alla sua sequela (v. 27). Il verbo akolouthein significa mettersi materialmente al seguito di qualcuno, ma nel vangelo equivale a diventare discepolo di Gesù, farsi suo «accolito». Allo stesso modo il verbo akouein indica più di un ascolto auricolare: è accettare la parola o proposta udita, credere, ubbidire.
Il credente è colui che riesce ad accettare quanto gli è comunicato in nome di Dio e a metterlo in pratica. Non è un discorso di logica ma di rischio; egli non vede colui che parla in Gesù, ma accetta egualmente la sua presenza e la parola che gli fa pervenire. L’unica garanzia che Gesù può offrire sono i suoi comportamenti che sono gli stessi di Dio.
Il bene è il distintivo di Dio e di chiunque si propone in suo nome. L’albero si riconosce dai frutti, afferma altrove Gesù (Mt 7,17); il buon pastore è colui che dà la vita per le pecore; chi non è contro di noi è per noi (Mc 9,40); non si raccolgono le uve dagli spini (Lc 6,44).
L’agire di Dio è inequivocabile, e tale è anche il modo di comportarsi di Cristo; non ci possono essere dubbi sulla sua intesa con lui. Egli è della sua famiglia, il Figlio, perché ha le stesse attitudini naturali, le stesse capacità operative del Padre. Più che sul piano dell’essere a cui non è fatto nessun accenno è sull’operare che Gesù raggiunge la perfetta iden-tità con Dio.
La frase «Io e il Padre siamo una cosa sola» (v. 30) è la chiave di tutto il discorso che Gesù sta portando avanti con i suoi interlocutori. Essi vogliono un segno della sua messianità e la risposta unica che ha addotto (cap. VIII) e che ora ribadisce è nella sintonia operativa tra lui e Dio. Quello che il Padre fa da sempre, il bene, fa anche lui che sta spendendo
la vita per gli altri.
Non c’è che Gesù e il Padre che sanno amare così disinteressatamente, anzi con il discapito della propria reputazione e della stessa vita, per questo può affermare che il suo amore per l’uomo è estremo (13,1) e che non esiste un’altra carità più grande della sua (15,13).
Il disegno della salvezza è un circolo concentrico che parte da Dio e a lui fa ritorno. Accettarlo, farlo proprio, credere è inserire la propria esistenza in questo circuito che porta l’uomo all’amicizia e alla comunione di vita con Dio. Non per nulla anche il credente è dichiarato «nato da Dio» (1,12) e può rivolgersi a lui con l’appellativo di Padre, può sentirsi
suo vero figlio (cf. Mt 6,9; 1Gv 3,1-2). Uno stato di vita inammissibile che né le ostilità presenti (10,9), né la morte verranno a distruggere.
Gesù è il buon pastore che difende il suo gregge (10,11); il Padre non si lascia strappare nessuno di coloro che sono uniti a lui: questa fede è quella che conta sopra ogni cosa (v. 29). Ma agli occhi dell’uomo non appare nulla di questi legami misteriosi; bisogna avere il coraggio di credere che essi esistono realmente e cercare di rinsaldarli ogni giorno perché ogni giorno c’è il pericolo di perderli di vista.
Meditazione
La quarta domenica di Pasqua è sempre dedicata alla figura di Gesù-Pastore, e ogni anno si legge come brano evangelico un passo del cap. 10 del vangelo di Giovanni. Come sempre dobbiamo collocare questi testi nel contesto liturgico di questo tempo e coglierli dunque nel loro significato pasquale: Gesù è presentato non come pastore in astratto, ma come pastore in rapporto alla sua Pasqua.
La seconda lettura, tratta dall’Apocalisse, ci fornisce la chiave per interpretare il brano evangelico nel contesto del Tempo pasquale. In particolare, è significativo il passo che accosta l’immagine del Pastore a quella dell’Agnello. Gesù è Pastore perché è Agnello: cioè è divenuto pastore e guida perché ha donato la vita per l’umanità. La moltitudine immensa di salvati ha lavato la veste nel suo sangue, non in modo automatico e distaccato, bensì passando attraverso la grande tribolazione, cioè facendo proprio il dono di vita che l’Agnello-Gesù ha già vissuto, sconfiggendo per sempre la morte. Questa visione finale della storia, che si conclude con la bellissima immagine di Dio che terge ogni lacrima dagli occhi dell’umanità, è lo sfondo sul quale collocare i versetti del vangelo: uno dei frutti della Pasqua che irradia di luce nuova la storia è proprio la costituzione di Gesù come Pastore.
Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) questo frutto della Pasqua viene contemplato nelle vicende della Chiesa nascente, che sperimenta — anche nelle contraddizioni delle vicende umane fatte di chiusure e contrapposizioni — la guida del suo Pastore, che apre strade inattese e insperate, colmando i cuori dei discepoli di gioia e di Spirito Santo.
Le mie pecore ascoltano la mia voce… mi seguono
Proviamo a vedere quali sono, nel testo di Giovanni, i verbi che denotano l’azione delle pecore e quali quelli che hanno per soggetto il pastore-Gesù.
Anzitutto le pecore ascoltano la voce del Pastore (la mia ‘voce’: è Gesù che sta parlando in prima persona). Il secondo verbo che ha come soggetto le pecore è ‘seguire’. Le pecore che ascoltano la voce di Gesù lo seguono. Anche nelle altre ricorrenze del verbo ‘ascoltare’ e del termine `voce’, che troviamo nel cap. 10, è presente il verbo ‘seguire’.
Le pecore, quindi, ascoltano e seguono. Ma su cosa si basa l’ascolto della voce di Gesù e la sequela da parte delle pecore? La risposta a questa domanda si trova nei verbi che hanno per soggetto Gesù. Egli conosce le pecore e dona loro la vita eterna. Anche queste espressioni sono presenti in altri punti del discorso del cap. 10 sul buon Pastore. Al v. 14 leggiamo che il buon Pastore conosce le sue pecore e le sue pecore lo conoscono. Al v. 15 si afferma che il pastore-Gesù dà (depone) la sua vita per le pecore: un’espressione diversa, che però presenta somiglianze e legami con quella del v. 28a.
Se c’è un nesso per le pecore tra l’ascolto e la sequela, il testo crea un nesso anche tra conoscere e dare la vita (nei due sensi) per Gesù. Nella Bibbia la conoscenza non è una realtà principalmente razionale, ma è qualcosa di `relazionale’, rimanda a un’esperienza. Si conosce, quando si è sperimentata una cosa/persona e si è rimasti toccati dall’incontro con essa. La conoscenza reciproca tra Pastore e pecore è allora una relazione fondata sull’amore di Gesù per le sue pecore, i suoi discepoli, fino al dono della vita. Per Gesù conoscere le pecore significa donare per loro la vita perché abbiano la vita eterna (cfr. Gv 10,10).
Questo è uno dei frutti della Pasqua di Gesù: la conoscenza reciproca fondata sull’amore. Sempre nel vangelo di Giovanni, un episodio delle apparizioni del Risorto il mattino di Pasqua rievoca anch’esso questa realtà. Maria Maddalena nel giardino della risurrezione riconosce il Signore risorto solo quando si sente chiamata per nome, quando ode la sua voce e la sa riconoscere: «Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!» ( Gv 20,16).
Io e il Padre siamo una cosa sola
Il secondo paragrafo del vangelo passa a parlare della relazione tra il Padre e Gesù, come fondamento della sicurezza con la quale Gesù tiene nelle sue mani le pecore. È il Padre che ha affidato a Gesù le pecore e lo ha quindi costituito pastore: su questo fondamento esse stanno sicure nelle sue mani.
Come in tutto il vangelo di Giovanni, anche qui si afferma che il fondamento della relazione tra Gesù e i suoi discepoli è la relazione esistente tra Gesù e il Padre. Questo appare chiaro in Gv 17,22: «Io ho dato loro la gloria che tu mi hai data, perché siano uno come noi siamo uno». Quel ‘come’ per Giovanni ha un valore molto forte: con esso l’evangelista afferma che la relazione Padre/Figlio è il ‘modello’ della relazione Figlio/discepoli. I discepoli sono sicuri nella mano del Figlio, perché in essa si rende presente la mano del Padre.
Un’altra realtà che emerge dal testo è la mediazione che Cristo esercita tra il Padre e le pecore/discepoli. Se nella prima strofa i due perso-naggi sono il Figlio e i discepoli e nella seconda il Figlio e il Padre, vediamo anche come il Figlio sia ciò che congiunge e crea la relazione tra il Padre e i discepoli. Anche in questo caso si tratta di un frutto della Pasqua di Gesù: la relazione dei suoi discepoli con Dio Padre, che Gesù ha stabilito nella sua carne. Egli è divenuto la via attraverso la quale l’umanità può rivolgersi a Dio in un modo nuovo.
I due paragrafi si illuminano a vicenda e, con la premessa ricavata dalla seconda lettura della liturgia della Parola di questa domenica, possiamo cogliere in questo testo un tratto essenziale della Pasqua. Nella sua Pasqua, Gesù è divenuto Pastore. Ma questa sua investitura proviene dal Padre in forza della sua vita donata, evento definitivamen-te sigillato dalla risurrezione. È una relazione reciproca e non più cancellabile quella che la Pasqua di Gesù ha creato tra lui e le sue pecore: egli è Pastore perché Agnello che ha dato la sua vita.
Ma che cos’è che rende indelebile e definitiva la ‘vita’ che Gesù può ora donare alle pecore? Egli ci attira nella relazione che intercorre tra lui e il Padre. E perché siamo divenuti partecipi di quella relazione, perché noi viviamo in Gesù la nostra relazione con Dio, che la nostra vita ha già da ora il volto dell’eternità.
Don Bosco commenta il Vangelo
IV domenica di Pasqua
Ascolta la parola di Gesù Cristo
In quel tempo, Gesù disse: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” (Gv 10,27s).
Ai suoi giovani don Bosco raccomandava nel Giovane provveduto:
Siccome poi il nostro corpo senza cibo diviene infermo e muore, lo stesso avviene dell’anima nostra se non le diamo il suo cibo. Nutrimento e cibo dell’anima nostra è la parola d’Iddio, cioè le prediche, la spiegazione del Vangelo e il catechismo. Fatevi pertanto grande premura di portarvi a tempo debito alla Chiesa, standovi colla massima attenzione, e procurate di applicare per voi quelle cose che fanno pel vostro stato (OE2 198s).
Dopo la comunione, che osa dobbiamo fare? Parlare con Gesù e ascoltarlo. Leggiamo nel Cattolico provveduto:
Durante questo tempo prezioso intrattenetevi amorevolmente da solo a solo con Gesù Cristo, che sta in voi realmente presente. Lasciate che parli il cuore vostro; il suo linguaggio piace al Signore siccome un’espansione di amore e di confidenza. Esponete a Gesù le vostre indigenze, i vostri bisogni, e con impegno e costanza domandategli tutte le grazie che vi son necessarie. Gesù Cristo essendosi dato interamente a Voi, nulla vi negherà di ciò che gli chiederete per la vostra salute. Se Egli vi parla interiormente, ascoltatelo con umiltà (OE19 497s).
Ascoltare Gesù è ascoltare Dio. Nel Cattolico istruito nella sua religione don Bosco scrive:
Si, Gesù Cristo ha detto e fatto più cose per dimostrare che era Dio. Mentre faceva miracoli, o dava precetti agli uomini, si diceva l’unico figlio di Dio. osservando che egli ed il suo Eterno Padre erano un solo Dio. “Io, diceva, ed il mio Celeste Padre siamo un solo; chi ascolta me ascolta il mio Celeste Padre, che mi ha mandato” (OE4 247).
Tornato in patria dai suoi genitori, racconta don Bosco nella sua Vita di san Martino, il santo riuscì a convertire sua madre, ma non poté guadagnare l’anima di suo padre, “dimostrando così avverato quello che leggiamo nel Vangelo, cioè: di due che ascoltano la parola di Dio uno riporta frutto, si converte a Gesù Cristo e si salva, l’altro la rifiuta, continua nel male e si danna” (OE6 410).
Nella sua Vita di S. Paolo Apostolo, don Bosco mostra come i suoi giudici “chiusero il cuore alle grazie che Dio voleva loro compartire”, e conclude:
“È questa un’immagine di quei cristiani che ascoltano la parola di Dio, ma non si risolvono di mettere in pratica le buone inspirazioni che talora sentonsi nascere in cuore” (OE9 278).
Ne Il Cattolico nel secolo don Bosco distingue tra “le pecore separate dall’ovile, le quali fuggono qui e qua disperse cercando un buon pastore, che loro non è dato di trovare” e le pecore di Gesù Cristo, che “avrebbero ascoltata la sua voce”:
Coloro pertanto che vanno dietro a cosiffatti pastori mercenari non trovansi nel mistico ovile di Gesù Cristo, non ne ascoltano l’amorosa voce, non sono sue pecore dilette. […] Pecore smarrite, e dall’ovile di Gesù Cristo separate, le quali non ascoltando più la voce del divin Pastore fuggono sbrancate e disperse, restringendosi ad alcuni luoghi, cangiando è riformando le loro dottrine secondo la convenienza dei tempi, dei luoghi e delle persone (OE34 155s).
Don Giovanni Battista Baccino, uno dei primi missionari in Argentina, ha raccontato una bella esperienza: nel cortile aveva trovato “torme di ragazzi che ci aspettano; hanno 10, 15 ed anche 18 anni. Domando a vari: sei già promosso alla Comunione? No, mi rispondono. Allora bisogna mettersi con santa pazienza e istruirli, ed essi anche lì nel cortile od in mezzo alla via ascoltano volentieri la parola di Dio” (OE30 384).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
L’immagine della domenica
Marina di san Nicola (Lazio) – 2025
«Sentire in sé il centro, senza però sentirsi troppo al centro. Potrebbe essere una via».
(Etty Hillesum)
Preghiere e racconti
Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo
«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora potremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.
Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione empirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.
La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comunione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinitario.
L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.
Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».
(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).
Le mie pecore ascoltano la mia voce
«La prova della nostra appartenenza alle pecore di Cristo è l’ascoltare volentieri ed essere pronti a obbedire, come pure non star dietro a cose estranee. E l’ascoltare lo intendiamo come credere a ciò che viene detto. Sono poi conosciuti da Dio quelli che l’ascoltano; esser conosciuto equivale a essere suo familiare e assolutamente nessuno è sconosciuto a Dio. Quando Gesù dice dunque: Conosco le mie pecore (Gv 10,14), è come se dicesse: “Le abbraccerò e le unirò a me con un’unione mistica, con un’unione di affetti”. Ma qualcuno potrebbe dire che egli, in quanto è uomo, unisce a sé tutti gli uomini per il fatto che appartengono anch’essi al genere umano. In questo modo tutti siamo familiari di Cristo in modo mistico in quanto si è fatto uomo. Sono invece estranei quanti non conservano nella santità l’immagine [di Dio che è in essi] (cfr. Gen 1,27) […] Dice poi: E le mie pecore mi seguono; quelli che credono, infatti, per un dono divino seguono le orme di Cristo, non osservando le ombre della Legge ma seguendo con la sua grazia i comandamenti e le parole di Cristo, saliranno alla sua dignità, in quanto chiamati ad essere figli di Dio. Poiché Cristo è asceso, anch’essi lo seguiranno […] Gesù dice: Nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio (Gv 10,29), cioè da me. Dichiara di essere la mano onnipotente del Padre, come se il Padre operasse tutto per mezzo suo, così come ciò che è fatto da noi viene compiuto dalla nostra mano. In molti passi della Scrittura Cristo è chiamato la mano e la destra del Padre, cosa che indica la potenza. E semplicemente è chiamata mano di Dio la potenza e la forza che compie tutte le cose».
(CIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al vangelo di Giovanni 7, PG 74,20A-21B).
Essere conosciuti da Gesù
Gesù, il buon pastore, dice di sé che conosce i suoi. Essere conosciuti da Gesù significa la nostra beatitudine, la nostra comunione con lui. Gesù conosce solo coloro che ama, coloro che gli appartengono, i suoi (2 Tm 2,19). Ci conosce nella nostra qualità di perduti, di peccatori, che hanno bisogno della sua grazia e la ricevono, e al tempo stesso ci conosce come sue pecore. Nella misura in cui ci sappiamo da lui conosciuti e da lui soltanto, egli si da a conoscere a noi, e noi lo conosciamo come colui a cui solo apparteniamo in eterno (Gal 4,9; 1 Cor 8,3).
II buon pastore conosce le sue pecore e solamente esse, perché gli appartengono. Il buon pastore, e lui soltanto, conosce le sue pecore, perché lui solo sa chi gli appartiene per l’eternità. Conoscere Cristo significa conoscere la sua volontà per noi e con noi, e farla; significa amare Dio e i fratelli ( 1 Gv 4,7s.; 4,20).
È la beatitudine del Padre riconoscere il Figlio come figlio, ed è la beatitudine del Figlio riconoscere il Padre come padre. Questo riconoscersi reciprocamente è amore, è comunione. Ugualmente, è la beatitudine del Salvatore riconoscere il peccatore quale sua proprietà acquistata, ed è la beatitudine del peccatore riconoscere Gesù quale suo Salvatore. Per il fatto che Gesù è legato al Padre (e ai suoi) da una tale comunione di amore e di conoscenza reciproca, per questo il buon pastore può deporre la propria vita per le pecore e acquistarsi così il gregge quale sua proprietà per tutta l’eternità.
(D. BONHOEFFER, Memoria e fedeltà, Magnano, 1979, 163s.).
Preghiera a Gesù Buon Pastore
O Gesù buon Pastore,
nei santi apostoli Pietro e Paolo
hai dato alla tua Chiesa
due modelli di Pastori
secondo il tuo cuore.
Fa’ che, sul loro esempio
e confortati
dalla loro testimonianza,
impariamo ad amare
e servire i fratelli
con gioia e gratuità.
O santi apostoli Pietro e Paolo
intercede per noi,
affinché possiamo vivere
in comunione nelle diversità dei doni e dei ministeri.
Amen!
(Dagli scritti di don Alberiore)
Il mistero della voce
La Quarta Domenica del Tempo di Pasqua è caratterizzata dal Vangelo del Buon Pastore che si legge ogni anno. Il brano di oggi riporta queste parole di Gesù: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola» (10,27-30). In questi quattro versetti c’è tutto il messaggio di Gesù, c’è il nucleo centrale del suo Vangelo: Lui ci chiama a partecipare alla sua relazione con il Padre, e questa è la vita eterna.
Gesù vuole stabilire con i suoi amici una relazione che sia il riflesso di quella che Lui stesso ha con il Padre: una relazione di reciproca appartenenza nella fiducia piena, nell’intima comunione. Per esprimere questa intesa profonda, questo rapporto di amicizia Gesù usa l’immagine del pastore con le sue pecore: lui le chiama ed esse riconoscono la sua voce, rispondono al suo richiamo e lo seguono. E’ bellissima questa parabola! Il mistero della voce è suggestivo: pensiamo che fin dal grembo di nostra madre impariamo a riconoscere la sua voce e quella del papà; dal tono di una voce percepiamo l’amore o il disprezzo, l’affetto o la freddezza. La voce di Gesù è unica! Se impariamo a distinguerla, Egli ci guida sulla via della vita, una via che oltrepassa anche l’abisso della morte.
Ma Gesù a un certo punto disse, riferendosi alle sue pecore: «Il Padre mio, che me le ha date…» (Gv 10,29). Questo è molto importante, è un mistero profondo, non facile da comprendere: se io mi sento attratto da Gesù, se la sua voce riscalda il mio cuore, è grazie a Dio Padre, che ha messo dentro di me il desiderio dell’amore, della verità, della vita, della bellezza… e Gesù è tutto questo in pienezza! Questo ci aiuta a comprendere il mistero della vocazione, specialmente delle chiamate ad una speciale consacrazione. A volte Gesù ci chiama, ci invita a seguirlo, ma forse succede che non ci rendiamo conto che è Lui, proprio come è capitato al giovane Samuele. Ci sono molti giovani oggi, qui in Piazza. Siete tanti voi, no? Si vede… Ecco! Siete tanti giovani oggi qui in Piazza. Vorrei chiedervi: qualche volta avete sentito la voce del Signore che attraverso un desiderio, un’inquietudine, vi invitava a seguirlo più da vicino? L’avete sentito? Non sento? Ecco… Avete avuto voglia di essere apostoli di Gesù? La giovinezza bisogna metterla in gioco per i grandi ideali. Pensate questo voi? Siete d’accordo? Domanda a Gesù che cosa vuole da te e sii coraggioso! Sii coraggiosa! Domandaglielo! Dietro e prima di ogni vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata, c’è sempre la preghiera forte e intensa di qualcuno: di una nonna, di un nonno, di una madre, di un padre, di una comunità… Ecco perché Gesù ha detto: «Pregate il signore della messe – cioè Dio Padre – perché mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,38). Le vocazioni nascono nella preghiera e dalla preghiera; e solo nella preghiera possono perseverare e portare frutto. Mi piace sottolinearlo oggi, che è la “Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni”. Preghiamo in particolare per i nuovi Sacerdoti della Diocesi di Roma che ho avuto la gioia di ordinare stamani. E invochiamo l’intercessione di Maria. Oggi c’erano 10 giovani che hanno detto “sì” a Gesù e sono stati ordinati preti stamane… E’ bello questo! Invochiamo l’intercessione di Maria che è la Donna del “sì”. Maria ha detto “sì”, tutta la vita! Lei ha imparato a riconoscere la voce di Gesù fin da quando lo portava in grembo. Maria, nostra Madre, ci aiuti a conoscere sempre meglio la voce di Gesù e a seguirla, per camminare nella via della vita! Grazie.
Grazie tante per il saluto, ma salutate anche Gesù. Gridate “Gesù”, forte… Preghiamo tutti insieme alla Madonna.
(PAPA FRANCESCO, REGINA COELI, 21 aprile 2013)
Preghiera per le vocazioni sacerdotali
Signore Gesù, guida e pastore del tuo popolo,
tu hai chiamato nella Chiesa
San Giovanni Maria Vianney,
curato d’Ars, come tuo servo.
Sii benedetto per la santità della sua vita
e l’ammirabile fecondità del suo ministero.
Con la sua perseveranza
egli ha superato tutti gli ostacoli
nel cammino del sacerdozio.
Prete autentico,
attingeva dalla Celebrazione Eucaristica
e dall’adorazione silenziosa
l’ardore della sua carità pastorale
e la vitalità del suo zelo apostolico.
Per sua intercessione:
Tocca il cuore dei giovani
perché trovino nel suo esempio di vita
lo slancio per seguirti con lo stesso coraggio,
senza guardare indietro.
Rinnova il cuore dei preti
perché si donino con fervore e profondità
e sappiano fondare l’unità delle loro comunità
sull’Eucaristia, il perdono e l’amore reciproco.
Fortifica le famiglie cristiane
perché sostengano quei figli che tu hai chiamato.
Anche oggi, Signore, manda operai alla tua messe,
perché sia accolta la sfida evangelica del nostro tempo.
Siano numerosi i giovani che sanno fare
della loro vita un «ti amo» a servizio dei fratelli,
proprio come San Giovanni Maria Vianney.
Ascoltaci, o Signore, Pastore per l’eternità. Amen.
4. “Niente ti turbi, diceva santa Teresa; preghiera e fiducia nella bontà del Signore” (E2 364).
5. “Il Signore ci parla chiaramente dicendo che colui il quale vuol essere suo vero discepolo deve dare ai poveri tutto quanto gli sopravanza del necessario sostentamento” (OE3 283).
6.(S. Domenico Savio)– “Conobbi in lui un animo tutto secondo lo spirito del Signore” (OE11 185).
7. “Maria ci guidi fino al paradiso. Io sarò sempre suo fedele servitore, amico in Gesù Cristo” (E10 42).
8. Maria è diventata “onnipotente per grazia, come Gesù di lei figlio lo è per natura” (E1 51).
9. “Se questa mia qualsiasi fatica sarà a taluno giovevole, ne renda gloria a Dio per cui unicamente fu intrapresa” (OE3 8).
10. “Maria ha continuato dal cielo e col più gran successo la missione di madre della Chiesa ed ausiliatrice dei cristiani che aveva incominciato sulla terra” (OE20 237).
(Morand Wirth)
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono». Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
Questo compito di pascere gli agnelli, ossia di dare come cibo al popolo la dottrina predicata da Cristo, viene contestato espressamente a Pietro e agli apostoli dalle autorità di Gerusalemme. Un primo incidente si era già verificato in precedenza, quando Pietro e Giovanni guarirono lo storpio che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del Tempio (At 3). In quell’occasione, mentre Pietro teneva un discorso, sopraggiunsero i sacerdoti e il comandante delle guardie del Tempio per arrestare i due apostoli, che avevano suscitato la fede in circa cinquemila uomini (At 4,1-4). Pietro non esitò a parlare con franchezza di Gesù davanti alle autorità, ricevendo soltanto il solenne ammonimento di non evangelizzare più (4,13-17). Pietro e Giovanni, però, altrettanto decisamente risposero: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi piuttosto che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20).
Tenendo presente quest’antefatto, divengono più chiare le parole di rimprovero che il sommo sacerdote rivolge agli apostoli. Ma costoro riprendono l’argomento della volta precedente: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini» (5,29). Senz’altro viene da porsi quest’interrogativo: come mai un gruppo di persone sprovvedute, o almeno così giudicate, ha tale franchezza nel parlare ai capi del popolo, toccando il tasto ancora dolente della morte di Gesù? Da dove nasce questo coraggio di «obiettare»? L’unica risposta accettabile e che non necessita di molti commenti proviene dalle loro stesse parole: «E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono» 5,32). Lo Spirito quindi è l’anima di queste persone, a cui un giorno il Maestro disse: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc12,11-12). E nemmeno la fustigazione li fece recedere, piuttosto considerarono un onore e perfetta letizia l’essere stati percossi a causa di Gesù Cristo e del suo Vangelo (cf. Mt 5,10-11 e Gc 1,2-4).
Seconda lettura: Apocalisse 5,11-14
Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli». E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.
L’annuncio di Gesù Cristo morto e risorto ha dominato sempre l’attività degli apostoli. Essi però aggiungono che «Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati» (At 5,31 ). Quest’innalzamento nella gloria il libro dell’Apocalisse ce lo descrive con il suo tipico linguaggio simbolico. Gesù è chiamato Agnello, e come tale entra in scena al v. 6 del capitolo 5. Egli è al contempo «ritto», per indicare che è risorto e possiede tutta la forza che gli deriva dalla risurrezione, e «come immolato» (anche se sarebbe meglio tradurre «come ammazzato»), per sottolineare che egli ha pure tutte le virtualità che provengono dalla sua passione e morte. In virtù di tutto ciò, l’Agnello è in grado di «prendere il libro e di aprirne i sigilli» (5,9), ossia di saper leggere il piano di Dio.
Il veggente assiste a uno spettacolo straordinario: un numero infinito di angeli, insieme agli esseri viventi e ai vegliardi, che lodano l’Agnello, di cui si ricorda ancora una volta la sua passione e morte violenta, ma in più si dice che è degno di ricevere una serie di prerogative e riconoscimenti. L’aggettivo «degno» non deve trarre in inganno: esso non si riferisce a valori morali, bensì alla capacità, da lui detenuta, di ricevere da Dio la potenza di agire, la ricchezza delle risorse divine, la sapienza nel condurre la storia e la forza di vincere il male, e dagli uomini l’onore, cioè la riconoscenza della sua azione di salvezza, insieme alla gloria e alla benedizione nella preghiera e nella liturgia.
Ciò in effetti avviene al v. 13, quando ogni essere creato nei cieli (gli angeli), sulla terra (gli uomini), sotto terra (i morti) e sul mare (coloro che, uomini o angeli, hanno dimostrato di saper vincere il male, di cui il mare sarebbe la sede) elevano l’inno di lode a Dio, il grande dominatore della storia e della natura, che perciò siede sul trono, e all’Agnello, che ha concretamente realizzato le condizioni di questo dominio divino. Le creature, quindi, consapevoli che Dio e Cristo-Agnello hanno donato loro tutto quello di cui bisognavano per vincere il male, a modo loro nella lode colma di gratitudine tentano di restituire ciò che hanno ricevuto.
Vangelo: Giovanni 21,1-19
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Esegesi
Il primo versetto della pericope evangelica inquadra bene il taglio da conferire alla sua lettura: «Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così». Il verbo «manifestare» (in greco faneroo), poi, ricorre successivamente al v. 14, quasi a conclusione della prima parte di quest’ultimo incontro tra Gesù e i suoi discepoli: «Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti». In realtà, questo termine non è nuovo nel Vangelo di Giovanni, viene usato in 1,31 quando Giovanni Battista spiega che l’obiettivo della propria missione è «far conoscere» il Cristo; in 2,11 viene detto che Gesù «manifestò» la sua gloria nel segno compiuto a Cana; in 3,21 Gesù conclude il dialogo con Nicodemo affermando che chi compie la verità cammina verso la luce, allo scopo di «far apparire» che le sue opere sono fatte in Dio; in 7,4 viene tentato a «manifestarsi», cioè a compiere qualche segno grandioso; in 9,3 giustifica la cecità del cieco nato con l’opportunità di «manifestare» le opere di Dio; in 17,6 Gesù riassume la sua missione dicendo che «ha manifestato» il nome del Padre all’umanità. Questa volta, invece, Gesù non deve manifestare altro che se stesso in quanto risorto.
Il verbo «manifestare» svolge una funzione importante nel capitolo 21: essendo presente nei vv. 1 e 14, esso ne delimita la prima parte, tutta dedicata al riconoscimento del Maestro, mentre i vv. 15-19 e 20-23 sono occupati da due dialoghi tra Gesù e Pietro, di cui la pericope proposta nella liturgia ci riporta solo il primo. Fatte queste premesse, siamo pronti ad addentrarci nel brano.
Per l’evangelista Giovanni questa fu la terza e ultima apparizione di Gesù ai suoi discepoli (cf. 21,14), senza appunto contare quella a Maria Maddalena nel mattino stesso di Pasqua (20,11-18). Quanto tempo dopo l’apparizione a Tommaso (20,26-29) Gesù si sia nuovamente manifestato ai discepoli, il Vangelo non lo dice. Conosciamo però il luogo dell’avvenimento: non più Gerusalemme, teatro della passione, morte e risurrezione del Maestro, bensì «sul mare di Tiberiade» (21,1), zona dalla quale provenivano molti dei discepoli. I testimoni dell’accaduto, elencati al v. 2, sono sette dei Dodici discepoli, ma soltanto di cinque ci viene riferito il nome, ossia Simon Pietro, Tommaso, Natanaele e i due figli di Zebedeo. Possiamo però supporre che gli altri due siano il discepolo che Gesù amava, espressamente richiamato nel v. 7, e Andrea, fratello di Pietro. La narrazione evangelica esordisce mettendoci al corrente della decisione di Pietro, a cui si accodano anche gli altri. Ma l’iniziativa si conclude in verità con un radicale fallimento: «Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla » (v. 3).
A questo punto entra in scena Gesù: quando era già l’alba, egli si presentò sulla riva. Benché gli apostoli si trovassero a poco più di novanta metri dalla riva (il testo greco parla di duecento cubiti, v. 8), non riconobbero che quella persona dalla terraferma era il Signore se non quando, ordinando di gettare le reti dalla parte destra della barca, si verificò il segno della «pesca miracolosa» e, quindi, il discepolo prediletto pronunciò la frase che forse tutti avevano in mente ma nessuno aveva il coraggio di pronunciare: «È il Signore!» (v. 7). La reazione di Pietro è immediata: si vestì, si gettò in acqua e guadagnò la riva, mentre gli altri la raggiunsero con la barca. I discepoli trovarono che era già stata preparata per loro una «colazione», a cui Gesù chiese di aggiungere del pesce appena preso. Ciò offre al narratore di volgere l’attenzione sulla rete che, tratta da Simon Pietro, non si ruppe, benché contenesse una gran quantità di pesci, ben centocinquantatre.
Non ci soffermiamo sul tema del riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli, che è tipico di tutti i racconti pasquali e certamente già analizzato. Prestiamo invece attenzione alla figura di Pietro, il cui ruolo era stato in un certo qual senso definito quando Gesù lo incontrò: «Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti
chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)’» (1,42; cf. Mt 16,17-19). Prima di chiudere del tutto la sua vicenda terrena, Gesù vuole finalmente chiarire il suo progetto, che potremmo sintetizzare intorno a tre principi. In primo luogo, non esiste alcuno che possa realizzare qualcosa prescindendo da Lui, nemmeno Pietro. Lo dimostra la pesca infruttuosa intrapresa da questi e dagli altri: ci sembra sentire risuonare le parole di Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla». In secondo luogo, è Pietro che si sobbarca la fatica di trarre a riva la rete piena di pesci, ossia è a lui in prima istanza che è data la responsabilità di essere «pescatore di uomini» (cf. Lc 5,10). Infine, la rete che non si rompe sottolinea il fatto che, autenticamente fondata sulla parola di Gesù e guidata da Pietro, la chiesa non si divide (il testo greco usa il verbo schízo, quasi a voler escludere «scismi»).
Il dialogo dei vv. 15-19 esplicita la simbologia del racconto della manifestazione. Gesù chiede a Pietro per ben tre volte se lo ama, perché è sulla base di quest’amore totale e incondizionato che diventa concreta e fruttuosa l’esecuzione della missione. La missione viene esplicitata con il comando di pascere, come al v. 11 era stata indicata con il verbo «trarre». Ma le pecore e gli agnelli da pascere non appartengono a Pietro, bensì a Gesù, che ha offerto la propria vita per loro, al fine di riunirle e di proteggerle da chi vuole disperderle (cf. Gv 10,11-18). Ma pure a Pietro viene chiesto di offrire la vita per il gregge che Gesù gli ha affidato (vv. 18-19), perciò acquisisce un senso più chiaro quell’invito a seguirlo nel peso di pascere il gregge e di morire per esso.
Meditazione
Dopo averci fatto ascoltare il racconto della venuta del Risorto nel cenacolo, la liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci conduce presso il lago di Tiberiade per assistere alla terza e ultima manifestazione di Gesù narrataci da san Giovanni. È un manifestarsi di nuovo, come l’evangelista precisa al v. 1: «Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo». Dopo questi fatti, dopo tutto ciò che il Quarto Vangelo e i Sinottici ci hanno raccontato della vicenda storica e pasquale di Gesù, il Signore torna a manifestarsi nella ferialità della vita, laddove i discepoli sembrano tornare alle occupazioni di sempre. Con ogni probabilità il vangelo di Giovanni, nella sua prima redazione, si concludeva al capitolo 20; il capitolo 21 costituisce dunque un’aggiunta successiva da parte della comunità. Al di là di questi problemi storico-letterari, noi lettori ci troviamo di fronte a questo fatto sorprendente: nel momento in cui il vangelo si chiude, torna ad aprirsi. Il Signore si manifesta nuovamente nel tempo della Chiesa, anche dopo ‘quei fatti’ che appartengono alla memoria storica dei primi discepoli. Giovanni parla qui di manifestazione, un termine che non usa mai nei racconti di risurrezione del capitolo precedente. Quasi a suggerirci che si tratta di un manifestarsi diverso rispetto agli incontri vissuti con il Risorto dai suoi discepoli storici. Nello stesso tempo precisa che si tratta della «terza manifestazione», ricollegandola così alle apparizioni precedenti. È un manifestarsi del Risorto diverso, ma in continuità con gli incontri vissuti dai discepoli della prima ora. Il primo invito con cui questa pagina ci interpella è allora a vigilare per riconoscere questa manifestazione sempre nuova del Signore nella nostra vita e nella vita delle nostre comunità.
Siamo già nella luce piena del tempo pasquale, eppure il racconto giovanneo ci conduce ancora nella notte, che non è solo la notte dell’infecondità di una pesca vana, ma anche la notte dell’assenza del Signore. Inoltre la barca, nell’insieme della tradizione evangelica, sembra essere luogo di prova e di purificazione della fede. Il Vangelo di Giovanni ci parla solo in un altro passo del lago di Tiberiade e di questa barca su cui i discepoli sono soli, senza il Signore; lo fa al capitolo sesto, dopo il segno dei pani, quando la barca si trova esposta al pericolo del mare agitato e del forte vento. La barca è dunque anche luogo di paura, di timore, di fronte al mare che simboleggia ogni forma con cui il male minaccia la vita degli uomini e la fede dei discepoli. La barca è il luogo in cui una piccola fede, una fede che è sempre ‘poca’, per dirla con Matteo, è chiamata a divenire una fede matura attraverso il fuoco purificatore della prova. Certo, nella tradizione la barca è anche un simbolo ecclesiale, ma la Chiesa non è appunto questo: una comunità in cui la piccola fede è chiamata a divenire una grande fede; in cui il non-sapere che era Gesù può divenire la conoscenza piena di chi grida «È il Signore!», in cui l’infecondità di una rete vuota si trasforma in una rete traboccante di centocinquantatre grossi pesci? Ma a quali condizioni è possibile vivere nella Chiesa questo passaggio che è sempre un passaggio pasquale? Il capitolo 21 non ci parla solo dell’incontro con il Risorto, ma anche del cammino di conversione e di purificazione della fede che occorre vivere per giungervi.
Tra i molti spunti che il testo offrirebbe, ne cogliamo solamente uno. Il capitolo si apre con la decisione di Pietro: «io vado a pescare». Se in queste parole c’è l’aspetto positivo di una responsabilità vissuta in prima persona, capace di suscitare la collaborazione e l’operosità di altri – «Veniamo anche noi con te» (v. 3) – in esse si nasconde comunque la tentazione di un’impresa autonoma e autoreferenziale, vissuta nell’assenza del Signore. Non perché lui non ci sia, ma perché non lo si riconosce presente, e soprattutto perché non si ha abbastanza cura nel porre in relazione il nostro operare con la sua Parola, i criteri del nostro agire con i suoi criteri. È la tentazione di un agire autoreferenziale e autonomo che, per quanto vissuto in nome del Signore, rischia di rendere marginale o non incidente la sua presenza. Quando e laddove il Signore si rende presente con la sua parola, egli esige e rende possibile la nostra conversione. Infatti, in quella notte in cui il Signore rimane assente e c’è soltanto la propria autonoma decisione, i discepoli «non presero nulla». Giovanni usa il verbo piàzo, che significa più precisamente ‘arrestare’. È il medesimo verbo che l’evangelista utilizza più volte nel suo racconto per descrivere il tentativo vano da parte delle autorità giudaiche di arrestare Gesù, perché non era ancora giunta la sua ‘ora’. È vano il tentativo di arrestare Gesù, solo lui può liberamente consegnare se stesso in un amore più forte e radicale dell’odio di chi tenta di catturarlo. Come non si arresta Gesù, così è vano ogni tentativo di vivere il proprio ministero di pescatore di uomini nella modalità di un potere, in qualsiasi forma esso venga esercitato, che tenta o pretende di arrestare, di catturare, di bloccare, di trattenere. Occorre entrare in una logica diversa, che è appunto la logica pasquale di chi non si lascia arrestare, e neppure ‘cattura’ gli altri, ma si consegna nell’amore.
Al v. 6 l’evangelista annota che, dopo il segno della pesca miracolosa, i discepoli non potevano più tirare la rete per la gran quantità di pesci. Sono sette e non riescono. Al v. 11 narra invece che «Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti la rete non si spezzò». Pietro, riesce a fare ora, da solo, quello che prima, in sette, non erano riusciti a fare. Perché ora può? Il racconto risponde a questo interrogativo in modo simbolico: ora può, perché si è gettato in mare. Il mare nella Bibbia è metafora di male, sofferenza, pericolo, morte… In questo mare Pietro si getta, con un gesto che ha un marcato valore battesimale: immergersi nelle acque significa immergersi nella morte del Signore per divenire partecipi della sua risurrezione. Ed è pro-prio il gettarsi nelle acque per essere pienamente partecipe del mistero pasquale, che consente a Pietro di divenire davvero, in modo autentico, quel pescatore di uomini a cui già nel suo primo incontro il Signore Gesù lo aveva chiamato. Il simbolismo battesimale è rafforzato anche dal verbo ‘salire’ del v. 11, che però nel testo originario rimane senza complemento di luogo. Il traduttore aggiunge «salì sulla barca», ma in greco non è detto; Pietro semplicemente risale dalle acque, ed è ancora un modo per alludere al battesimo che ci immerge nelle acque per renderci partecipi della morte di Gesù, e poi da esse ci fa risali- re, rendendoci partecipi della sua risurrezione. Solamente questa conformazione battesimale alla Pasqua di Gesù può consentire a Pietro non solo di vedere la sua rete riempirsi, ma di trarre i pesci fuori dal mare, dalle acque impetuose, per condurli alla terra ferma dell’incontro con il Signore Risorto. Per descrivere Pietro che trae la rete dal mare, Giovanni usa lo stesso verbo greco (hélko) con cui Gesù afferma solennemente al capitolo 12: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). È attraverso la sua Pasqua che Gesù ci attira a sé, ed è attraverso la sua conformazione battesimale al mistero pasquale che anche Pietro può attrarre a Gesù tutti coloro che la sua rete trova e custodisce. Si possono liberare gli uomini dalle acque della morte solo accettando di immergersi in esse, di attraversare personalmente l’esperienza della compassione, condividendo il destino del proprio Maestro e Signore nelle sofferenze stesse dei suoi fratelli, dei quali bisogna prendersi cura.
Don Bosco commenta il Vangelo
III domenica di Pasqua
Il gregge è affidato a Pietro
A Pietro, al quale aveva chiesto per tre volte se egli lo amava, Gesù disse: “Pasci i miei agnelli. […] Pascola le mie pecore!” (Gv 21,16-17).
Il capo della Chiesa, spiega don Bosco nella sua Storia ecclesiastica, è Gesù Cristo, il quale ha conferito piena autorità a Pietro e ai papi suoi successori. E perciò “il papa ossia il romano pontefice, che è il capo della gerarchia e di tutta la Chiesa, riconosce la suprema autorità di Gesù Cristo, il quale disse all’apostolo san Pietro, e in lui a tutti i suoi successori: A te darò le chiavi del regno dei cieli; pasci le mie pecorelle” (OE1 173).
Alla domanda: “Da chi Pietro fu costituito capo della Chiesa?”, leggiamo la seguente risposta nella Storia sacra:
Tale potestà venne confermata dopo la suddetta pesca miracolosa, allorché avendo Gesù detto a Pietro: Simone mi ami tu? gli rispose: Tu lo sai quanto io ti amo. E Gesù: Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Con queste parole voleva significare che Cristo dava a lui e a tutti i suoi successori la piena e somma podestà intorno a tutte quelle cose che riguardano al bene spirituale dei fedeli cristiani” (OE3 205).
Quello che è detto a Pietro vale anche per i suoi successori. Tornando sull’argomento nel Trattenimento 12 della seconda parte del Cattolico istruito a proposito del capo visibile della Chiesa, egli scrive:
Il capo invisibile della Chiesa è Gesù Cristo […]. Ma nell’atto ch’egli andava al cielo ad essere coronato re della gloria nella Chiesa trionfante, deputava san Pietro a capo della Chiesa militante sopra la terra. Siccome san Pietro era uomo, e come tale doveva morire, era necessario che altri gli succedessero nel governo della Chiesa (OE4 344).
Il gregge rappresenta tutti i fedeli di Cristo, come appare nella storia dal titolo Conversione di una Valdese. La convertita Giuseppa riferisce a sua madre queste parole del curato: “Gesù Cristo ha stabilito un capo per governare la sua Chiesa, ed a questo capo ordinò di pascolare il suo gregge, che sono tutti i fedeli cristiani” (OE5 324).
Ecco perché, alla fine dell’opuscolo, don Bosco lancia questo appello ai cristiani separati: “Congiungetevi al pastore supremo, cui disse Gesù Cristo: Pascola i miei capretti, pascola le mie pecore” (OE5 363s).
A Pietro è stato affidato il governo pastorale della Chiesa. Alla domanda: “Quando Gesù Cristo salì al cielo a chi affidò il governo della sua Chiesa?”, don Bosco risponde nella Maniera facile per imparare la Storia sacra: “Quando Gesù Cristo salì al cielo affidò il governo della Chiesa agli apostoli”. Poi alla domanda: “Chi stabilì capo degli apostoli?” risponde: “Gesù Cristo stabilì san Pietro capo degli apostoli, suo vicario in terra nel governo della Chiesa, e come tale fu dai medesimi apostoli riconosciuto” (OE6 116).
Anche gli altri pastori della Chiesa sono affidati, secondo don Bosco, alle cure di Pietro e dei suoi successori. Nella sua Vita di san Pietro si legge infatti che Pietro è quell’apostolo al quale Gesù ordinò “di dare alle sue pecore, che sono i pastori della Chiesa, ed ai suoi agnelli, che sono tutti i fedeli, quel pascolo che sarebbe stato necessario pel loro bene spirituale ed eterno” (OE8 297).
Insieme all’eucaristia il ministero pastorale supremo del successore di Pietro è una manifestazione della presenza di Cristo lungo la storia.
Nell’episodio XXII della raccolta di Episodi ameni e contemporanei, intitolato “Il Papa e l’Eucaristia”, si legge: “Dio è presente fra noi in forza dell’Eucarestia e del Papato, secondo la promessa di Gesù Cristo di far sua dimora fra noi, di non lasciarci orfani, di parlare per bocca della Chiesa, di continuare la sua benefica missione, di guarire e di salvare l’umanità” (OE15 213).
(Morand Wirth)
Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memoriebiografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.
L’immagine della domenica
La Alberca (Salamanca) – 2018
«Se talvolta inclinassi la bilancia della giustizia, fa’ che ciò avvenga non sotto il peso dei doni, ma per un impulso di misericordia».
(Miguel de Cervantes)
Preghiere e racconti
«Simone mi ami tu?»
… Il gallo cantò per la terza volta.
Gesù uscì dalla sala…… e Simon Pietro,
seguendo il rumore, guarda dalla sua parte.
Lo vede e « pianse amaramente ».
Lo stesso Pietro che da quel momento
è diventato vergognoso e intimidito,
perennemente intimidito,
anche se non riusciva a trattenere i suoi slanci abituali,
li compiva, poi si fermava bloccato dalla vergogna,
dalla vergogna del ricordo…
…era là in disparte quella mattina sulla riva…
erano là tutti intorno quel mattino,
in silenzio timoroso, intimiditi
così che nessuno domandava qualche cosa
perché tutti sapevano
che era il Maestro.
Nella frescura di quell’ora mattutina
coi pesci – quei pesci che si agitavano ancora
alle loro spalle – dopo una notte arida di frutto
erano là a mangiare il pesce…
…il pesce preparato da Lui
che aveva pensato anche al loro mangiare
perché sarebbero tornati stanchi.
Il Signore si era steso vicino,
era lì vicino, a mangiare con loro.
Il Signore lo guardava.
Lui sguardava,
ma non guardava
perché aveva vergogna più del solito…
Il Signore forse l’avrà guardato intensamente
finché Pietro disagiato da quello sguardo fisso
si sarà voltato, come a dire « Che vuoi?».
E Gesù, immediatamente,
senza porre frammento di tempo in mezzo:
«Simone, mi ami tu più di costoro?».
Lo diceva a chi l’aveva offeso,
lo diceva al temperamento più facile all’incoerenza, al traditore.
Dopo Giuda, lui.
Ma in lui era evidente che Cristo era.
« Signore, tu lo sai che ti amo».
Non poteva non voltare la faccia
e dire la sua risposta.
Non poteva.
Sarebbe stata una menzogna.
Gli voleva bene,
l’aveva tradito ma gli voleva bene.
Perciò si è voltato verso di Lui
e gli ha dato quella risposta che non era mai venuta meno,
eccetto che in quei momenti terribili.
Gli ha dato la risposta
per cui era continuamente
voltato verso di Lui, dovunque fosse,
fosse sulla barca, nel mare del mattino,
tra la folla sulla montagna,
quando era in casa e Lui non c’era…
Non è vero che ti ho odiato,non è vero che non ti ho amato…
perché «tu lo sai, Signore, che ti amo».
Ma è il contrario di quello che hai fatto…
Io non so come sia, so che è così.
« Simone, mi ami tu?».
Non ha detto
«Non peccare non tradire, non essere incoerente».
Non ha toccato nulla di questo.
Ha detto:« Simone, mi ami tu?».
Ognuno di noi
non riesce a sfuggire completamente
al fatto che Cristo è amabile
e ama noi esattamente così come siamo.
Cristo è chi si compiace di noi.
di me, dice san Pietro piangendo,
la Maddalena, la Samaritana, l’assassino.
Cristo è colui che si compiace di me e perciò mi perdona.
Mi ama e mi perdona.
(Luigi Giussani)
Il Maestro d’umanità e il linguaggio semplice degli affetti
Una mattina sul lago, dopo che Gesù ha preparato il cibo, come una madre, per i suoi amici che tornano da una notte vuota, lo stupendo dialogo tra il Risorto e Pietro, fatto con gli occhi ad altezza del cuore. Tre richieste uguali e ogni volta diverse, il più bel dialogo di tutta la letteratura mondiale: Simone di Giovanni mi ami più di tutti? Mi ami? Mi vuoi bene?
È commovente l’umanità di Gesù. Vorrei dire, senza paura di contraddizioni, che questo è il Dio di totale umanità, e che l’ho scelto per questo. Gesù è risorto, sta tornando al Padre, eppure implora amore, amore umano. Lui che ha detto a Maddalena: «non mi trattenere, devo salire», è invece trattenuto sulla terra da un bisogno, una fame umanissima e divina. Può andarsene se è rassicurato di essere amato.
Devo andare e vi lascio una domanda: ho suscitato amore in voi? Non chiede a Simone: Pietro, hai capito il mio messaggio? È chiaro ciò che ho fatto? Ciò che devi annunciare agli altri? Le sue parole ribaltano le attese: io lascio tutto all’amore, non a dottrine, non a sistemi di pensiero, neppure a progetti di qualche altro tipo. Il mio progetto, il mio messaggio è l’amore.
Gesù, Maestro di umanità, usa il linguaggio semplice degli affetti, domande risuonate sulla terra infinite volte, sotto tutti i cieli, in bocca a tutti gli innamorati che non si stancano di domandare e di sapere: Mi ami? Mi vuoi bene?
Semplicità estrema di parole che non bastano mai, perché la vita ne ha fame insaziabile; di domande e risposte che anche un bambino capisce, perché è quello che si sente dire dalla mamma tutti i giorni. Il linguaggio delle radici profonde della vita coincide con il linguaggio religioso. Prodigiosa semplificazione: le stesse leggi reggono la vita e il vangelo, il cuore e il cielo.
In quel tempo, in questo tempo. Gesù ripete: a voi che, come Pietro, non siete sicuri di voi stessi a causa di tanti tradimenti, ma che nonostante tutto mi amate, a voi affido il mio vangelo. Il miracolo è che la mia debolezza inguaribile, tutta la mia fatica per niente, le notti di pesca senza frutto, i tradimenti, non sono una obiezione per il Signore, ma una occasione per essere fatti nuovi, per stare bene con Lui, per capire di più il suo cuore e rinnovare la nostra scelta per Lui.
Questo interessa al Maestro: riaccendere lo stoppino dalla fiamma smorta (Is 42,3), un cuore riacceso, una passione risorta: «Pietro, mi ami tu adesso?». Santità è rinnovare la passione per Cristo, adesso. La legge tutta è preceduta da un “sei amato” e seguita da un “amerai”. Sei amato, fondazione della legge; amerai, il suo compimento. Chiunque astrae la legge da questo fondamento amerà il contrario della vita (P. Beauchamp).
(Ermes Ronchi)
«Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di queste cose?»
Quando un autore finisce un libro e scrive la conclusione, manifestando lo scopo per cui ha scritto, il libro può essere pubblicato. Se poi a questa conclusione si sente il bisogno di aggiungere un altro capitolo di narrazioni, in continuità con quelle precedenti, allora ci devono essere ragioni decisive, importanti. Questo, come è noto, è ciò che è avvenuto anche per il quarto vangelo, terminato con il capitolo 20 (letto domenica scorsa) e poi allungato di un nuovo capitolo, il testo liturgico odierno. Perché una ripresa breve ma ricca di episodi? Difficile per noi rispondere con certezza, ma possiamo almeno fare un’ipotesi.
L’autore o i redattori ritennero necessario mettere in relazione “il discepolo che Gesù amava” (cf. Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20.23) con Simone, il discepolo al quale fin dal primo incontro Gesù aveva dato il nome di Pietro, roccia salda tra tutti gli altri (cf. Gv 1,42). In ogni caso, questa appendice è straordinaria perché non è tentata di raccontare fatti straordinari o sovrumani riguardanti Gesù risorto, ma vuole dirci solo la sua presenza discreta, elusiva, fedele e paziente in mezzo alla sua comunità.
Questa manifestazione del Risorto avviene sulle rive del mare di Galilea, là dove secondo i sinottici era avvenuta la chiamata delle prime due coppie di fratelli: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, pescatori uniti in una piccola impresa (cf. Mc 1,16-20 e par.). Dopo la morte e resurrezione di Gesù i discepoli sono tornati in Galilea, alla loro vita ordinaria fatta di lavoro, vita comune, vita di fede e di attesa. Ed ecco, in uno di quei giorni ordinari Pietro prende l’iniziativa, dicendo agli altri: “Io vado a pescare”. Gli altri sei ribattono: “Veniamo anche noi con te”.
Questo racconto vuole dirci molto di più di ciò che è avvenuto a quei pescatori. Qui, infatti, c’è solo un pugno di discepoli – neanche undici, tanti quanti erano rimasti, e neppure le donne! – che rappresenta la comunità di Gesù; c’è Pietro che prende l’iniziativa di una pesca che non è pesca di pesci; c’è la disponibilità degli altri sei a seguirlo nella sua iniziativa.
“Ma quella notte non presero nulla”: una pesca infruttuosa, un lavoro e una fatica senza risultati. Questo risultato fallimentare indica qualcosa? Credo di sì: ovvero, Pietro può pretendere l’iniziativa, ma senza la parola, il comando, l’indicazione del Signore, la pesca resterà sterile, la missione senza frutti. Al levare del giorno, però, ecco sulla spiaggia un uomo di cui i discepoli ignorano l’identità. D’altronde mancano le condizioni per riconoscerlo: è ancora chiaroscuro ed egli non è vicino, né ha detto nulla perché i discepoli abbiano potuto riconoscerne la voce.
È lui a rompere il silenzio, raggiungendoli con una domanda: “Piccoli figli, avete qualcosa da mangiare?”. Domanda sentita tante volte, per bocca di un mendicante sulla strada o sulla porta di casa. Sì, domanda di un mendicante che chiede qualcosa da mangiare per sostenersi. I discepoli devono averla sentita spesso sulle strade della Palestina, la sentono ora nell’alba e la sentiranno sempre in tutte le vicende della storia. La loro risposta è un secco: “No”. Non c’è stata pesca, non c’è cibo.
Ma quell’uomo continua: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. Così fanno, un po’ meravigliati, quei discepoli pescatori, e la rete si riempie di una tale quantità di pesci che è faticoso trascinarla a riva. Dunque una pesca abbondante, straordinaria, che desta stupore in tutti. Nello stupore, però, c’è chi discerne qualcosa di più e d’altro: è il discepolo che Gesù amava, il quale aveva vissuto un’intimità unica con Gesù, fino a posare il capo sul suo petto nell’ultima cena (cf. Gv 13,25).
L’amore passivo di cui aveva fatto esperienza lo rendeva dioratico, uomo dall’occhio penetrante, uomo capace di vedere con il cuore e non solo con gli occhi. Ecco perché, indicando con il dito Gesù, può gridare: “È il Signore!” (ho Kýriós estin). Attenzione: lo dice a Pietro, indicando quell’uomo sulla spiaggia e rivelandogli ciò che egli non era stato in grado di vedere. Pietro non esita un istante e nel suo entusiasmo pieno di desiderio di essere con il Risorto si tuffa subito in acqua per raggiungerlo a nuoto.
Inutile tacerlo: nel quarto vangelo tra il discepolo amato e Pietro c’è una vera e propria “santa concorrenza”, non una concorrenza di gelosia, perché i due discepoli sono diversi e il loro rispettivo rapporto con Gesù è diverso. Nell’ultima cena Pietro sta dopo il discepolo amato presso Gesù e a lui, che è abbracciato a Gesù, sul suo petto, deve chiedere di informarsi su chi è il traditore (cf. Gv 13,24-25). E il discepolo amato, ricevuta da Gesù la risposta, non dice nulla a Pietro (cf. Gv 13,26).
Poi nell’alba della resurrezione, informati da Maria di Magdala, Pietro e il discepolo amato corrono insieme al sepolcro, ma questi arriva primo (cf. Gv 20,3-4). Lascia entrare Pietro nel sepolcro (cf. Gv 20,5-7), ma è lui che “vide e credette” (Gv 20,8), mentre Pietro è annoverato tra quelli che “non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti” (Gv 20,9). Il discepolo amato precede Pietro nel discernimento, nella conoscenza, nella fede, e tuttavia riconosce sempre che nell’ordo della vita comunitaria Pietro è il primo per volontà di Gesù!
Quando poi i discepoli hanno trascinato a riva la rete piena di pesci, vedono un fuoco acceso con del pesce sopra e del pane, mentre Gesù chiede loro di portare un po’ del pesce che hanno preso. In ogni caso, Gesù ha preparato per loro un pasto: anche da risorto resta colui che serve a tavola, che prepara il cibo e lo distribuisce. Pietro intanto si dà da fare per scaricare il pesce e tutto avviene senza che la rete si rompa, perché egli sa maneggiarla impedendo che avvengano strappi.
È il suo lavoro di unità, di comunione: spetta a lui conservare intatta, senza strappi la tunica di Gesù tessuta dall’alto in basso (cf. Gv 19,23-24); spetta a lui fare sì che la missione non provochi lacerazioni nella comunità dei credenti. Ed ecco il banchetto: “Venite a mangiare!”, dice Gesù, e nessuno replica, perché basta guardarlo, basta sentire la sua presenza, basta vedere il suo stile nello spezzare il pane e porgere il cibo per riconoscerlo. Non si dimentichi inoltre che, quando questo capitolo viene scritto, ormai Gesù è indicato con il termine ichthús, “pesce”, anagramma di cinque parole:
Iesoûs Christòs Theoû Hyiòs Sotér, Gesù Cristo di Dio Figlio Salvatore.
Ed eccoci infine al racconto che è la vera motivazione dell’aggiunta di questo capitolo 21. Finito di mangiare, Gesù inizia un dialogo con Simon Pietro:
“Simone, figlio di Giovanni, mi ami (verbo agapáo) tu più di queste cose? “Gli rispose: “Sì, Signore, tu lo sai che ti voglio bene (verbo philéo)”. Gli disse: “Sii il pastore dei miei agnellini”. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami (verbo agapáo)?”. Gli rispose: “Sì, Signore, tu lo sai che ti voglio bene (verbo philéo)”. Gli disse: “Sii il pastore dei miei agnellini”. Gli disse per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene (verbo philéo)?”. Pietro si rattristò che per la terza volta gli domandasse: “Mi vuoi bene (verbo philéo)?”,e gli disse: “Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene (verbo philéo)”. Gli rispose Gesù: “Sii il pastore dei miei agnellini”.
Si noti con attenzione il gioco dei verbi greci. La terza volta Gesù non chiede più a Pietro: “Mi ami?” (verbo agapáo), ma, come aveva risposto Pietro per due volte, gli chiede: “Mi vuoi bene?” (verbo philéo). A Gesù basta l’amore umano di Pietro, la sua capacità di volere bene: verrà il giorno – glielo dice subito dopo – in cui Pietro saprà vivere l’amore, l’agápe fino alla fine (eis télos: Gv 13,1), fino al dono della vita nel martirio, ma non ora…
Pietro, dal canto suo, appare grande perché umile, perché non pretende di dire: “Io ti amo”, con quell’agápe che scende solo da Dio. C’è qui tutta la grandezza di Pietro, che rinuncia a essere protagonista di quell’amore che solo Dio può donare.
Il Pietro che era stato presuntuoso (“Darò la mia vita per te!”: Gv 13,37), il Pietro che era sempre così sicuro ed entusiasta da voler fare più di quanto Gesù gli chiedeva (“Signore, lavami non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!”: Gv 13,9), ora è il Pietro anziano, maturo spiritualmente, umile perché è stato umiliato, senza pretese, perché ha compreso di essere una roccia fragile, che al primo spirare del vento affondava… Per lui la vita è stata tutta una lezione, ma proprio per questo può essere il pastore di agnelli e di pecore sperdute.
Gesù allora può dirgli tutto. Non gli ricorda il peccato del rinnegamento e della paura, ma gli svela ciò che lo attende: “Sì, Pietro sei stato giovane, pieno di vita e di entusiasmo, e in quel tempo decidevi quello che volevi e andavi dove volevi. Ma, divenuto vecchio, non sarai più completamente padrone di te stesso. Sarai obbligato a farti aiutare, tenderai le mani e chiederai che altri ti vestano, perché tu non ce la farai da solo, e sarai portato dove non vorrai andare”.
È certamente una profezia del martirio che lo attende, della forma di morte che gli toccherà quando sarò crocifisso e verserà il sangue a gloria di Dio; ma anche di una forma di “morte” quotidiana, nel ministero che gli compete, quando dovrà tante volte assecondare decisioni che lui non vorrebbe. Nella debolezza dell’anzianità sarà possibile, anzi necessario, anche questo “martirio bianco”… Dunque, che cosa spetta a Pietro? Seguire Gesù.
L’ultima parola di Gesù a Pietro è come la prima: “Seguimi!” (cf. Gv 1,42-43). Anche nella nella passività, nel fallimento, nel cedere ad altri le proprie facoltà si può seguire il Signore. Non è proprio quello che ha vissuto anche Gesù, reso oggetto, cosa, manipolato, in balia di altri che hanno fatto di lui ciò che hanno voluto, come era avvenuto per Giovanni il Battista (cf. Mc 9,13; Mt 17,12)? Questa è la sequela di Gesù cui nessuno di noi può sfuggire.
a resta ancora accanto a Pietro il discepolo amato da Gesù. Anche Pietro avrà imparato ad amarlo? Qui, improvvisamente Pietro si interessa a lui, chiedendo a Gesù: “Signore, che sarà di lui?” (Gv 21,21). Ma Gesù risponde: “Se voglio che egli dimori finché io venga, a te che importa? Tu seguimi!” (Gv 21,22). Risposta dura ma chiara: il discepolo amato è colui che dimora, del quale Pietro deve accettare un’altra fine, un altro ministero, un’altra testimonianza. Sarà tra gli agnelli di cui Pietro è pastore, ma quest’ultimo deve e riconoscerlo e basta.
Nei secoli della chiesa Pietro avrà sempre la tentazione di mettere la mano su tutti, ma il discepolo che dimora ha la sua strada, rimane e Pietro deve solo riconoscerlo come l’amato di Gesù. A Pietro spetta seguire Gesù, non mettere la mano sul discepolo amato dal Signore, che resta misteriosamente presente nella chiesa. Chi è visionario e vede con gli occhi di Cristo riconoscerà il Signore, mentre Pietro resta uno che non ha saputo riconoscere il Risorto se non su indicazione del discepolo amato, che rimane.
(Enzo Bianchi)
Mi ami tu?
Ecco che il Signore, dopo la sua resurrezione, appare di nuovo ai suoi discepoli. Interroga l’apostolo Pietro e spinge a confessare per tre volte il proprio amore colui che aveva rinnegato tre volte per timore. Cristo è risorto secondo la carne, Pietro secondo lo spirito. Mentre Cristo moriva soffrendo, Pietro moriva rinnegando. Il Signore Cristo resuscita dai morti e nel suo amore resuscita Pietro. Ha interrogato l’amore di colui che lo confessava e gli ha affidato le sue pecore. […] Il Signore Cristo volendo mostrarci in che modo gli uomini debbano provare che lo amano, lo rivela chiaramente: va amato nelle pecore che ci sono affidate. Mi ami tu? Ti amo. Pasci le mie pecore. E questo una volta, due volte, tre volte. Pietro non dice altro se non che lo ama. Il Signore non gli domanda altro se non se lo ama.
A Pietro che gli risponde non affida altro se non le sue pecore. Amiamoci a vicenda e ameremo Cristo. Cristo, infatti, eternamente Dio, è nato uomo nel tempo. È apparso agli uomini come uomo e figlio dell’uomo. Essendo Dio nell’uomo, opera molti miracoli. Ha molto sofferto, in quanto uomo, da parte degli uomini, ma è risorto dopo la morte perché era Dio nell’uomo. Ha passato sulla terra quaranta giorni come un uomo con gli uomini. Poi, sotto i loro occhi, è asceso al cielo come Dio nell’uomo e si è assiso alla destra del Padre. Tutto questo lo crediamo, non lo vediamo. Ci è stato ordinato di amare Cristo Signore che noi non vediamo e tutti noi proclamiamo: «Io amo Cristo». Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? (I Gv 4,20). Amando le pecore, mostra di amare il pastore, perché le pecore sono membra del Pastore.
Dio dice: «Ti amo di un amore eterno», e Gesù è venuto a insegnarci questo. Quando Gesù fu battezzato, si udì una voce che diceva: «Questo è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». È un’affermazione molto importante e Gesù vuole che noi l’ascoltiamo. Noi siamo i prediletti, non perché abbiamo fatto qualcosa, non perché abbiamo dato prova di noi stessi.
Sostanzialmente Dio ci ama qualunque cosa facciamo. Se questo è vero, per i pochi anni in cui siamo in questo mondo siamo invitati a dire, nel contesto della nostra esistenza: «Sì, o Dio, anch’io ti amo».
Proprio come Dio si prende cura di noi, è molto importante che noi ci prendiamo cura di Dio nel mondo. Se Dio è nato come un piccolo bambino, Dio non può camminare o parlare se qualcuno non insegna Dio. È questa la storia di Gesù, che per crescere ha bisogno degli esseri umani. Dio dice: «Voglio essere debole affinché tu possa amarmi. Quale modo migliore per aiutarti a rispondere al mio amore se non diventando debole affinché tu possa prenderti cura di me?». Dio diventa un Dio vacillante, che cade sotto la croce, che muore per noi e che ha un totale bisogno di amore. Dio fa questo affinché possiamo essergli più vicini. Il Dio che ci ama è un Dio che diviene vulnerabile, dipendente nella mangiatoia e dipendente sulla croce, un Dio che fondamentalmente ci chiede: «Sei qui per me?».
Dio – si potrebbe dire – aspetta la nostra risposta. In modo molto misterioso Dio ‘dipende’ da noi. Dio dice: «Voglio essere vulnerabile, ho bisogno del tuo amore. Ho desiderio di una tua dichiarazione d’amore». Dio è un Dio geloso nel senso che vuole il nostro amore e vuole che diciamo di sì. Per questo, alla fine del Vangelo di Giovanni, Gesù chiede a Pietro tre volte: «Mi ami tu?». Dio aspetta la nostra risposta. La vita ci offre infinite opportunità di dare questa risposta.
(Henri J.M. NOUWEN, La via della Pace, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 81-82).
Butto la rete
Signore,
la mia sola sicurezza sei tu
come il mare che ho davanti
e nel quale butto la rete della mia vita.
Anche se finora non ho pescato nulla
anche se a volte non ne ho la voglia
io so Signore che se avrò la forza
di buttare continuamente questa rete
troverò il senso della verità.
(E. OLIVERO, L amore ha già vinto. Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005).
Gli atti dell’amore
L’amore di Cristo per Pietro fu così senza limiti: nell’amare Pietro egli mostrò come si ama l’uomo che si vede. Egli non disse: «Pietro deve cambiare e diventare un altro uomo prima che io possa tornare ad amarlo». No, tutt’al contrario. Egli disse: «Pietro è Pietro e io lo amo; è il mio amore semmai che lo aiuterà a diventare un altro uomo!». Egli non ruppe quindi l’amicizia per riprenderla forse quando Pietro fosse diventato un altro uomo; no, egli conservò intatta la sua amicizia, e fu proprio questo che aiutò Pietro a diventare un altro uomo. Credi tu che, senza questa fedele amicizia di Cristo, Pietro sarebbe stato recuperato? A chi tocca aiutare chi sbaglia se non chi si dice amico, anche quando l’offesa è fatta contro l’amico?
L’amore di Cristo era illimitato, come l’amore deve essere quando si deve compiere il precetto di amare amando l’uomo che si vede. L’amore puramente umano è sempre pronto a regolare la sua condotta a seconda che l’amato abbia o non abbia perfezioni; mentre l’amore cristiano si concilia con tutte le imperfezioni e debolezze dell’amato e in tutti i suoi cambiamenti rimane con lui, amando l’uomo che vede. Se non fosse così, Cristo non sarebbe mai riuscito ad amare: infatti, dove avrebbe egli mai trovato l’uomo perfetto?
(S. KIERKEGAARD, Gli atti dell’amore, Milano, 1983, 341-344).
Mi ami? Una domanda cruciale
Per tre volte il Signore chiede a Pietro di proclamare il suo amore, di dichiararlo apertamente. È logico chiederci: perché l’ha fatto? Evidentemente l’ha fatto perché lo avvertiva come un bisogno molto importante di Pietro: tre volte Pietro l’aveva rinnegato, tre volte davanti a tutti lo invita a proclamare il suo amore.
È interessante questo particolare: a ogni proclamazione di amore segue una consegna precisa di Gesù. Gesù conferisce un compito e una responsabilità solenne: «Pasci le mie pecorelle», il che in sostanza significa: da’ la prova che mi ami, spendendoti per i tuoi fratelli, diventando strumento di salvezza per i tuoi fratelli. […] Alla terza dichiarazione solenne di Pietro, Gesù chiede veramente tutto: chiede nientemeno che l’offerta della vita. Disse: «Seguimi!». «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio».
Non è certo impossibile che il nostro amore se ne stia tranquillamente nel vago; dobbiamo sempre temere che resti ovattato di belle parole. Finché stiamo solo nel mondo delle belle parole, non siamo sicuri di amare veramente il Signore. E allora Gesù smantella le parole e aiuta a verificarle con la concretezza: «Pasci! ». Cioè: aiuta! salva! Che per Pietro significa: istruisci, organizza, cioè spenditi per i tuoi fratelli per amore verso di me, perché te lo dico io stesso.
È sempre incombente il pericolo che nella nostra preghiera del cuore non scendiamo alla concretezza. Gesù pretende la concretezza dell’amore.
Vigiliamo dunque sulla concretezza della nostra preghiera del cuore: dobbiamo alzarci dai piedi del Signore con in mano una verifica precisa del nostro amore, un dono preciso, una conversione precisa.
E dobbiamo essere attenti che non sia un dono scelto soltanto da noi, ma scelto veramente da lui, gradito a lui, voluto e specificato da lui: maturato cioè nella preghiera. […] Pietro probabilmente avrebbe dato altro al Signore; il Signore invece gli chiede di fare bene il Capo, un capo capace di pascere, cioè di nutrire il gregge, e un capo tanto impegnato col gregge da essere pronto a giocare anche la vita quando sarebbe scoppiata la persecuzione.
(A. GASPARINO, Maestro insegnaci a pregare, Torino, Elle Di Ci, 1993, 205-207)
La Settimana con don Bosco
26 aprile – 3 maggio
26. “Occorre una grande prudenza per saper cogliere il momento in cui la correzione possa essere salutare” (MB16 441).
27. “Gli Israeliti dovevano levarsi il mattino per raccogliere la manna; e noi che siamo senza grazie e senza virtù, perché non faremo lo stesso onde averne?” (OE29 244).
28.(S. Luigi Maria Grignion de Montfort) – (S. Pietro Chanel)– “Anche oggi i popoli pagani, gli stessi selvaggi […] dell’Oceania credono alla esistenza di Dio” (OE34 25).
29.(S. Caterina da Siena)– “Mirabile nella sua dottrina ella s’intendeva profondamente nelle cose di teologia, di filosofia, e […] anche nel governo degli stati. Amava grandemente l’Italia, e per ritornarla all’antico suo splendore adoperavasi incessantemente” (OE1 423s).
30.(S. Pio V)– Dopo la vittoria di Lepanto questo santo Pontefice “decreta che nelle Litanie Lauretane sia inserita l’invocazione: Maria auxilium Christianorum, ora pro nobis”(OE26 321).
1.(S. Giuseppe lavoratore)– “Ah! se si sapesse imparare da Giuseppe quest’arte così preziosa di lavorare e di pregare ad un tempo!” (OE17 293).
2.(S. Atanasio)– Con gli Ariani sant’Atanasio “non cessò mai con lettere, libri, dispute e in tutti i modi dal combattere questi nemici di Gesù Cristo” (OE24 149).
3.(Ss. Filippo e Giacomo) – “San Filippo andò nell’Asia” (OE27 408); san Giacomo minore fu consacrato “vescovo di Gerusalemme” (OE9 464).