Intelligenza artificiale e pace

Messaggio per la 57a Giornata mondiale della pace

Francesco

«La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso». Il tema di fondo del messaggio di papa Francesco per la 57a Giornata mondiale della pace (1.1.2024), che è stato pubblicato il 14 dicembre, è quello dell’intelligenza artificiale, che secondo il pontefice fa parte dei «prodotti straordinari» del «potenziale creativo» dell’intelligenza umana, a patto però di essere al servizio della dignità intrinseca dell’uomo e della promozione della giustizia e della fraternità.

Il messaggio è intitolato Intelligenza artificiale e pace, e indica la «necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica – in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie».

Stampa (14.12.2023) da sito web www.vatican.va.

 

All’inizio del nuovo anno, tempo di grazia che il Signore dona a ciascuno di noi, vorrei rivolgermi al popolo di Dio, alle nazioni, ai capi di stato e di governo, ai rappresentanti delle diverse religioni e della società civile, a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo per porgere i miei auguri di pace.

1. Il progresso della scienza e della tecnologia come via verso la pace

La sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 35,31). L’intelligenza è espressione della dignità donataci dal Creatore, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26) e ci ha messo in grado di rispondere al suo amore attraverso la libertà e la conoscenza. La scienza e la tecnologia manifestano in modo particolare tale qualità fondamentalmente relazionale dell’intelligenza umana: sono prodotti straordinari del suo potenziale creativo.

Nella costituzione pastorale Gaudium et spes, il concilio Vaticano II ha ribadito questa verità, dichiarando che «col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la propria vita». Quando gli esseri umani, «con l’aiuto della tecnica», si sforzano affinché la terra «diventi una dimora degna di tutta la famiglia umana», agiscono secondo il disegno di Dio e cooperano con la sua volontà di portare a compimento la creazione e di diffondere la pace tra i popoli. Anche il progresso della scienza e della tecnica, nella misura in cui contribuisce a un migliore ordine della società umana, ad accrescere la libertà e la comunione fraterna, porta dunque al miglioramento dell’uomo e alla trasformazione del mondo.

Giustamente ci rallegriamo e siamo riconoscenti per le straordinarie conquiste della scienza e della tecnologia, grazie alle quali si è posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano la vita umana e causavano grandi sofferenze. Allo stesso tempo i progressi tecnico-scientifici, rendendo possibile l’esercizio di un controllo finora inedito sulla realtà, stanno mettendo nelle mani dell’uomo una vasta gamma di possibilità, alcune delle quali possono rappresentare un rischio per la sopravvivenza e un pericolo per la casa comune.

I notevoli progressi delle nuove tecnologie dell’informazione, specialmente nella sfera digitale, presentano dunque entusiasmanti opportunità e gravi rischi, con serie implicazioni per il perseguimento della giustizia e dell’armonia tra i popoli. È pertanto necessario porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?

 

2. Il futuro dell’intelligenza artificiale tra promesse e rischi

I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana.

Inoltre le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su Internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente.

Dobbiamo ricordare che la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche non sono disincarnate dalla realtà e «neutrali», ma soggette alle influenze culturali. In quanto attività pienamente umane, le direzioni che prendono riflettono scelte condizionate dai valori personali, sociali e culturali di ogni epoca. Dicasi lo stesso per i risultati che conseguono: essi, proprio in quanto frutto di approcci specificamente umani al mondo circostante, hanno sempre una dimensione etica, strettamente legata alle decisioni di chi progetta la sperimentazione e indirizza la produzione verso particolari obiettivi.

Questo vale anche per le forme di intelligenza artificiale. Di essa, a oggi, non esiste una definizione univoca nel mondo della scienza e della tecnologia. Il termine stesso, ormai entrato nel linguaggio comune, abbraccia una varietà di scienze, teorie e tecniche volte a far sì che le macchine riproducano o imitino, nel loro funzionamento, le capacità cognitive degli esseri umani. Parlare al plurale di «forme di intelligenza» può aiutare a sottolineare soprattutto il divario incolmabile che esiste tra questi sistemi, per quanto sorprendenti e potenti, e la persona umana: essi sono, in ultima analisi, «frammentari», nel senso che possono solo imitare o riprodurre alcune funzioni dell’intelligenza umana. L’uso del plurale evidenzia inoltre che questi dispositivi, molto diversi tra loro, vanno sempre considerati come «sistemi socio-tecnici». Infatti il loro impatto, al di là della tecnologia di base, dipende non solo dalla progettazione, ma anche dagli obiettivi e dagli interessi di chi li possiede e di chi li sviluppa, nonché dalle situazioni in cui vengono impiegati.

L’intelligenza artificiale, quindi, deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali come «l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità».

Non è sufficiente nemmeno presumere, da parte di chi progetta algoritmi e tecnologie digitali, un impegno ad agire in modo etico e responsabile. Occorre rafforzare o, se necessario, istituire organismi incaricati di esaminare le questioni eti-che emergenti e di tutelare i diritti di quanti utilizzano forme di intelligenza artificiale o ne sono influenzati.

L’immensa espansione della tecnologia deve quindi essere accompagnata da un’adeguata formazione alla responsabilità per il suo sviluppo. La libertà e la convivenza pacifica sono minacciate quando gli esseri umani cedono alla tentazione dell’egoismo, dell’interesse personale, della brama di profitto e della sete di potere. Abbiamo perciò il dovere di allargare lo sguardo e di orientare la ricerca tecnico-scientifica al perseguimento della pace e del bene comune, al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo e della comunità.

La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso.

L’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante. Le sfide che pone sono tecniche, ma anche antropologiche, educative, sociali e politiche. Promette, ad esempio, un risparmio di fatiche, una produzione più efficiente, trasporti più agevoli e mercati più dinamici, oltre a una rivoluzione nei processi di raccolta, organizzazione e verifica dei dati. Occorre essere consapevoli delle rapide trasformazioni in atto e gestirle in modo da salvaguardare i diritti umani fondamentali, rispettando le istituzioni e le leggi che promuovono lo sviluppo umano integrale. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere al servizio del migliore potenziale umano e delle nostre più alte aspirazioni, non in competizione con essi.

 

3. La tecnologia del futuro: macchine che imparano da sole

Nelle sue molteplici forme l’intelligenza artificiale, basata su tecniche di apprendimento automatico (machine learning), pur essendo ancora in fase pionieristica, sta già introducendo notevoli cambiamenti nel tessuto delle società, esercitando una profonda influenza sulle culture, sui comportamenti sociali e sulla costruzione della pace.

Sviluppi come il machine learning o come l’apprendimento profondo (deep learning) sollevano questioni che trascendono gli ambiti della tecnologia e dell’ingegneria e hanno a che fare con una comprensione strettamente connessa al significato della vita umana, ai processi basilari della conoscenza e alla capacità della mente di raggiungere la verità.

L’abilità di alcuni dispositivi nel produrre testi sintatticamente e semanticamente coerenti, ad esempio, non è garanzia di affidabilità. Si dice che possano «allucinare», cioè generare affermazioni che a prima vista sembrano plausibili, ma che in realtà sono infondate o tradiscono pregiudizi. Questo pone un serio problema quando l’intelligenza artificiale viene impiegata in campagne di disinformazione che diffondono notizie false e portano a una crescente sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione. La riservatezza, il possesso dei dati e la proprietà intellettuale sono altri ambiti in cui le tecnologie in questione comportano gravi rischi, a cui si aggiungono ulteriori conseguenze negative legate a un loro uso improprio, come la discriminazione, l’interferenza nei processi elettorali, il prendere piede di una società che sorveglia e controlla le persone, l’esclusione digitale e l’inasprimento di un individualismo semri rischiano di alimentare i conflitti e di ostacolare la pace.

 

4. Il senso del limite nel paradigma tecnocratico

Il nostro mondo è troppo vasto, vario e complesso per essere completamente conosciuto e classificato. La mente umana non potrà mai esaurirne la ricchezza, nemmeno con l’aiuto degli algoritmi più avanzati. Questi, infatti, non offrono previsioni garantite del futuro, ma solo approssimazioni statistiche. Non tutto può essere pronosticato, non tutto può essere calcolato; alla fine «la realtà è superiore all’idea» e, per quanto prodigiosa possa essere la nostra capacità di calcolo, ci sarà sempre un residuo inaccessibile che sfugge a qualsiasi tentativo di misurazione.

Inoltre la grande quantità di dati analizzati dalle intelligenze artificiali non è di per sé garanzia di imparzialità. Quando gli algoritmi estrapolano informazioni, corrono sempre il rischio di distorcerle, replicando le ingiustizie e i pregiudizi degli ambienti in cui esse hanno origine. Più diventano veloci e complessi, più è difficile comprendere perché abbiano prodotto un determinato risultato.

Le macchine «intelligenti» possono svolgere i compiti loro assegnati con sempre maggiore efficienza, ma lo scopo e il significato delle loro operazioni continueranno a essere determinati o abilitati da esseri umani in possesso di un proprio universo di valori. Il rischio è che i criteri alla base di certe scelte diventino meno chiari, che la responsabilità decisionale venga nascosta e che i produttori possano sottrarsi all’obbligo di agire per il bene della comunità. In un certo senso ciò è favorito dal sistema tecnocratico, che allea l’economia con la tecnologia e privilegia il criterio dell’efficienza, tendendo a ignorare tutto ciò che non è legato ai suoi interessi immediati.

Questo deve farci riflettere su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il «senso del limite». L’essere umano, infatti, mortale per definizione, pensando di travalicare ogni limite in virtù della tecnica, rischia, nell’ossessione di voler controllare tutto, di perdere il controllo su se stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Riconoscere e accettare il proprio limite di creatura è per l’uomo condizione indispensabile per conseguire, o meglio, accogliere in dono la pienezza. Invece nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica.

 

5. Temi scottanti per l’etica

In futuro l’affidabilità di chi richiede un mutuo, l’idoneità di un individuo a un lavoro, la possibilità di recidiva di un condannato o il diritto a ricevere asilo politico o assistenza sociale potrebbero essere determinati da sistemi di intelligenza artificiale. La mancanza di diversificati livelli di mediazione che questi sistemi introducono è particolarmente esposta a forme di pregiudizio e discriminazione: gli errori sistemici possono facilmente moltiplicarsi, producendo non solo ingiustizie in singoli casi ma anche, per effetto domino, vere e proprie forme di disuguaglianza sociale.

Talvolta, inoltre, le forme di intelligenza artificiale sembrano in grado di influenzare le decisioni degli individui attraverso opzioni predeterminate associate a stimoli e dissuasioni, oppure mediante sistemi di regolazione delle scelte personali basati sull’organizzazione delle informazioni. Queste forme di manipolazione o di controllo sociale richiedono un’attenzione e una supervisione accurate, e implicano una chiara responsabilità legale da parte dei produttori, di chi le impiega e delle autorità governative.

L’affidamento a processi automatici che categorizzano gli individui, ad esempio attraverso l’uso pervasivo della vigilanza o l’adozione di sistemi di credito sociale, potrebbe avere ripercussioni profonde anche sul tessuto civile, stabilendo improprie graduatorie tra i cittadini. E questi processi artificiali di classificazione potrebbero portare anche a conflitti di potere, non riguardando solo destinatari virtuali, ma persone in carne e ossa. Il rispetto fondamentale per la dignità umana postula di rifiutare che l’unicità della persona venga identificata con un insieme di dati. Non si deve permettere agli algoritmi di determinare il modo in cui intendiamo i diritti umani, di mettere da parte i valori essenziali della compassione, della misericordia e del perdono o di eliminare la possibilità che un individuo cambi e si lasci alle spalle il passato.

In questo contesto non possiamo fare a meno di considerare l’impatto delle nuove tecnologie in ambito lavorativo: mansioni che un tempo erano appannaggio esclusivo della manodopera umana vengono rapidamente assorbite dalle applicazioni industriali dell’intelligenza artificiale. Anche in questo caso c’è il rischio sostanziale di un vantaggio sproporzionato per pochi a scapito dell’impoverimento di molti. Il rispetto della dignità dei lavoratori e l’importanza dell’occupazione per il benessere economico delle persone, delle famiglie e delle società, la sicurezza degli impieghi e l’equità dei salari dovrebbero costituire un’alta priorità per la comunità internazionale, mentre queste forme di tecnologia penetrano sempre più profondamente nei luoghi di lavoro.

 

6. Trasformeremo le spade in vomeri?

In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti «sistemi d’arma autonomi letali», incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto «intelligente», rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma.

Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra. Così facendo non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo correrà il rischio di diventare sempre più «artificiale». Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace.

In un’ottica più positiva, se l’intelligenza artificiale fosse utilizzata per promuovere lo sviluppo umano integrale, potrebbe introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione e nella cultura, un miglioramento del livello di vita di intere nazioni e popoli, la crescita della fraternità umana e dell’amicizia sociale. In definitiva, il modo in cui la utilizziamo per includere gli ultimi, cioè i fratelli e le sorelle più deboli e bisognosi, è la misura rivelatrice della nostra umanità.

Uno sguardo umano e il desiderio di un futuro migliore per il nostro mondo portano alla necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica –, in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie. Le questioni etiche dovrebbero essere tenute in considerazione fin dall’inizio della ricerca, così come nelle fasi di sperimentazione, progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione. Questo è l’approccio dell’etica della progettazione, in cui le istituzioni educative e i responsabili del processo decisionale hanno un ruolo essenziale da svolgere.

 

7. Sfide per l’educazione

Lo sviluppo di una tecnologia che rispetti e serva la dignità umana ha chiare implicazioni per le istituzioni educative e per il mondo della cultura. Moltiplicando le possibilità di comunicazione, le tecnologie digitali hanno permesso di incontrarsi in modi nuovi. Tuttavia rimane la necessità di una riflessione continua sul tipo di relazioni a cui ci stanno indirizzando. I giovani stanno crescendo in ambienti culturali pervasi dalla tecnologia e questo non può non mettere in discussione i metodi di insegnamento e formazione.

L’educazione all’uso di forme di intelligenza artificiale dovrebbe mirare soprattutto a promuovere il pensiero critico. È necessario che gli utenti di ogni età, ma soprattutto i giovani, sviluppino una capacità di discernimento nell’uso di dati e contenuti raccolti sul web o prodotti da sistemi di intelligenza artificiale. Le scuole, le università e le società scientifiche sono chiamate ad aiutare gli studenti e i professionisti a fare propri gli aspetti sociali ed etici dello sviluppo e dell’utilizzo della tecnologia.

La formazione all’uso dei nuovi strumenti di comunicazione dovrebbe tenere conto non solo della disinformazione, delle fake news, ma anche dell’inquietante recrudescenza di «paure ancestrali (…) che hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie». Purtroppo ancora una volta ci troviamo a dover combattere «la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri per impedire l’incontro con altre culture, con altra gente» e lo sviluppo di una coesistenza pacifica e fraterna.

8. Sfide per lo sviluppo del diritto internazionale

La portata globale dell’intelligenza artificiale rende evidente che, accanto alla responsabilità degli stati sovrani di disciplinarne l’uso al proprio interno, le organizzazioni internazionali possono svolgere un ruolo decisivo nel raggiungere accordi multilaterali e nel coordinarne l’applicazione e l’attuazione. A tale proposito esorto la comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme. L’obiettivo della regolamentazione, naturalmente, non dovrebbe essere solo la prevenzione delle cattive pratiche, ma anche l’incoraggiamento delle buone pratiche, stimolando approcci nuovi e creativi e facilitando iniziative personali e collettive.

In definitiva, nella ricerca di modelli normativi che possano fornire una guida etica agli sviluppatori di tecnologie digitali, è indispensabile identificare i valori umani che dovrebbero essere alla base dell’impegno delle società per formulare, adottare e applicare necessari quadri legislativi. Il lavoro di redazione di linee guida etiche per la produzione di forme di intelligenza artificiale non può prescindere dalla considerazione di questioni più profonde riguardanti il significato dell’esistenza umana, la tutela dei diritti umani fondamentali, il perseguimento della giustizia e della pace.

Questo processo di discernimento etico e giuridico può rivelarsi un’occasione preziosa per una riflessione condivisa sul ruolo che la tecnologia dovrebbe avere nella nostra vita individuale e comunitaria e su come il suo utilizzo possa contribuire alla creazione di un mondo più equo e umano. Per questo motivo, nei dibattiti sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, si dovrebbe tenere conto della voce di tutte le parti interessate, compresi i poveri, gli emarginati e altri che spesso rimangono inascoltati nei processi decisionali globali.

Spero che questa riflessione incoraggi a far sì che i progressi nello sviluppo di forme di intelligenza artificiale servano, in ultima analisi, la causa della fraternità umana e della pace. Non è responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana. La pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità, e di cooperazione e impegno nella ricerca dello sviluppo integrale di tutte le persone e di tutti i popoli.

La mia preghiera all’inizio del nuovo anno è che il rapido sviluppo di forme di intelligenza artificiale non accresca le troppe disuguaglianze e ingiustizie già presenti nel mondo, ma contribuisca a porre fine a guerre e conflitti, e ad alleviare molte forme di sofferenza che affliggono la famiglia umana. Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2023

Intelligenza artificiale e pace | Documenti | Il Regno

Documenti, 1/2024, 01/01/2024, pag. 1

 

 

“Cultura Digitale e IRC. Opportunità e criticità” il nuovo numero della rivista «CATECHETICA ED EDUCAZIONE»

Editoriale:

I tratti che caratterizzano la nostra contemporaneità comunicativa ci interpellano nella quotidianità scolastica, spesse volte ci mettono in difficoltà, forse ci infastidiscono. Nella scuola sicuramente chiedono il contributo di tutti gli insegnanti all’esperienza di apprendimento-insegnamento, dunque anche quello specifico degli Insegnanti di Religione Cattolica (IdR). E se la scuola tenta di cambiare a contatto con le nuove istanze, come può muoversi l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC)? Per decidere da che parte stare, è necessario interpre-tare, interpretarsi e sapere dove si vuole andare.
D. Lorenzo Milani – di cui abbiamo celebrato quest’anno il centenario della nascita – affermava che non si può educare se non si sa cosa accade nella società e nella politica. Non è possibile formare le persone senza essere coscienti di ciò che succede e soprattutto senza decidere da che parte stare.
Il presente numero di Catechetica ed Educazione, che alla fine di ogni annata dedica i suoi contributi all’IRC, raccoglie i risultati del percorso di riflessione e confronto promosso dall’Istituto di Catechetica nell’anno accademico 2022-2023, concretizzatosi in un Seminario di studio e un Webinar di aggiornamento per IdR di ogni ordine e grado scolastico a livello nazionale.

L’intento di riattivare un lungo e fecondo impegno di ricerca a favore dell’IRC e dei suoi docenti coincide con le celebrazioni del 70° anniversario di fondazione dell’Istituto, di cui si trova testimonianza nella sezione a esso dedicata, con la documentazione già avviata nei numeri precedenti dell’annata.
Punto di partenza cronologico del percorso è il Seminario di studio del mese di novembre 2022 sui bisogni formativi degli IdR, animato dai due inter-venti di Fabio Landi e Francesca Romana Busnelli, raccolti in Appendice. Il primo, dopo aver sottolineato l’urgenza di superare l’isolamento in cui spesso gli IdR si trovano ad operare, prende in esame uno dei temi formativi più significativi e attuali ovvero la sintesi tra vita, cultura e fede. La seconda offre spunti per considerare diversi approcci metodologici, in grado di orientare la costruzione di percorsi formativi per adulti, a partire dalle proprie scelte teoriche e assiologiche.
A partire da questi stimoli, volendo pensare a una formazione di adulti che insegnano religione, il tema della “cultura digitale” è parso di particolare attualità ed efficacia, affrontato attraverso una descrizione di scenario e prospettive, seguiti dall’offerta di un’interpretazione da più angolazioni disciplinari.
Portare i giovani dalle communities alla comunità è impegno educativo indispensabile, che coinvolge anche gli IdR, chiamati a interessarsi non solo al mondo dei social media in quanto strumenti di nuova comunicazione, ma anche alle logiche sottese al loro funzionamento, dunque allo scenario culturale che i mezzi ridisegnano. Lo afferma Fabio Pasqualetti nel saggio che presenta il contenuto del suo intervento al Webinar tenutosi il 31 marzo 2023 e recante lo stesso titolo del presente quaderno di Catechetica ed Educazione.

Anche Renato Butera è intervenuto nel medesimo Webinar, attivando l’attenzione degli IdR sulla possibilità e opportunità dell’impiego dell’audiovisivo nell’attività didattica. Pari-menti l’attenzione è centrata sulle caratteristiche della narrazione e della serialità che sottostanno alle dinamiche della produzione audiovisiva, all’interno dei tratti generali del mondo comunicativo contemporaneo. Per rispondere alle domande sorte in queste prime iniziative formative è stato costruito un percorso di appro-fondimento cui hanno contribuito gli autori dei saggi successivi, che descrivono la complessità del contesto comunicativo contemporaneo.
Che sia necessario circoscrivere uno scenario culturale, in cui possano trovar posto prospettive interpretative e operative, è testimoniato dal saggio di Massimiliano Padula. Variabili socio-culturali qualificano le tendenze digitali e le possibilità create dalla connettività globale sfidano il modo consueto di intendere cultura e società. L’analisi del consumo mediatico dei ragazzi convince del fatto che vada superata la visione di sistemi tecnici chiusi e omogenei, dato che il social networking è solo un aspetto di un sistema aperto e dinamico.

Piero Polidoro, a sua volta, ferma l’attenzione attorno ai concetti chiave che animano la discussione in merito a come i media digitali modificano la nostra esperienza, partendo dalla consapevolezza che è in realtà la “computation” e non il “carattere digitale” dei media a produrre effetti sociali dirompenti. Appare necessario che i risultati delle ricerche quantitative siano intrecciati con quelli di ricerche qualitative e – ancor più – entrambe siano guidate da una comprensione sistematica del mondo. La differenza principale non sta tanto tra coloro che ritengono l’impatto dei media computazionali come decisivo o irrilevante, quanto tra coloro che ritengono i nuovi processi comunicativi fenomeni orientabili oppure ineluttabili.
Apre lo spazio dell’interpretazione interdisciplinare Claudia Caneva, che nota come la tecnologia diventi sempre più totalizzante e immersiva, al punto che i sistemi computazionali stanno esprimendo una vocazione inedita: quella di “enunciare la verità”. È all’orizzonte una mutazione antropologica? Nuove povertà (gamification e hikikomori) richiamano l’attenzione sul fatto che sia necessario porsi e risolvere l’interrogativo. Il tema della coscienza e della sua educazione rimane decisivo, poiché attraverso di essa si sviluppa la consapevolezza riflessiva – cognitiva ed etica – che caratterizza l’essere umano; anche emozioni e senti-menti non sono surrogabili elettronicamente perché sono risposte interpretative e valutative agli stimoli che esprimono la relazione col mondo.
Proseguendo nella rassegna dei vari approcci disciplinari, c’è da chiedersi anche in che modo la teologia sia sfidata dalle nuove tecnologie. Marco Tibaldi ritiene che una teologia che accolga l’appello proveniente dalla galassia digitale debba potenziare una capacità “teosemiotica”, ovvero discernere e interpretare i codici comunicativi del web per procedere a una vera e propria inculturazione del kerygma. Per raggiungere l’obiettivo, l’Autore delimita alcune intersezioni tra teologia e mondo digitale, che vanno dal recupero della dimensione estetica in teologia al raccordo tra cultura pop, sensus ecclesiae e sinodalità, al tratteggiamento di una spiritualità digitale, per giungere finalmente alla possibilità di un annuncio digitale.
Da una prospettiva psico-pedagogica, Alessandro Ricci fa notare come costruire l’azione educativa dei nativi digitali richieda nientemeno che di rivedere radicalmente l’impianto del processo educativo, perché altre sono rispetto al passato le priorità, nuove le consapevolezze e le competenze richieste. L’interesse per il mondo contemporaneo digitalizzato è di carattere sociale, psicologico e legale, volto a esplorare i caratteri di uso e abuso della rete. E la società attende dall’educazione la realizzazione della sua funzione emancipante e socializzante, in cui l’agire educativo trasmette un sistema di valori e un atteggiamento di dialogo con la realtà. Il benessere digitale è ormai istanza educativa indilazionabile.
Guardando ai media più tradizionali, come sta cambiando la narrazione religiosa nella più recente produzione televisiva e cinematografica? In che modo una dimensione essenzialmente affidata alla trasmissione orale si sta adattando (se lo sta facendo) a una comunicazione prevalentemente iconica? Nel cercare una risposta a tali interrogativi, Annalisa Picardi conclude che la ricerca di senso, il bisogno di ritrovarsi e di avere figure educative efficaci è tra le priorità del post-umano. L’attuale scenario antropologico obbliga a riflettere su come la dimensione religiosa debba tenere conto dell’immaginario e di come questo possa essere positivamente abitato dalle immagini che arrivano dal mondo delle serie tv. L’uomo si forma attraverso l’immaginario e quindi non può vivere senza sogni perché attraverso questi può comprendere ed elaborare i suoi bisogni e desideri più profondi. Se l’immaginazione diviene luogo teologico di ascolto e d’incontro, la dimensione religiosa nel cinema e nella tv può essere una risposta al cambio antropologico, oltre alle sollecitazioni del semplice “genere religioso” cinematografico e televisivo.
I luoghi fisici frequentati dai giovani sono ormai affiancati – talvolta soppiantati – da luoghi virtuali, canali attraverso i quali essi esprimono convinzioni, desideri, emozioni, prospettive e contemporaneamente mediazioni che plasmano i loro stati di coscienza. Gli studenti che frequentano oggi le scuole nei diversi ordini hanno in mano strumenti potenti e straordinari e hanno bisogno di una guida e di una bussola per orientarsi nei labirinti e nelle potenzialità della rete. Da qui l’esigenza per gli adulti di liberarsi da timori e visioni limitate rispetto alla cultura digitale e l’importanza di avere riferimenti sicuri di risorse in rete per l’insegnamento delle varie discipline. In questa direzione procede il contributo sostanzialmente informativo di Barbara Pandolfi e Luca Paolini, che offrono una rassegna di siti web utili per un IRC digitally adequate.
Come accennato in precedenza, il presente numero del periodico si conclude con il contributo di Corrado Pastore che riassume in forma ragionata l’insieme della produzione scientifica raccolta nelle collane librarie dell’Istituto di Catechetica.

Con i due messaggi gratulatori di S. Em. Card. José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione, e di Don Mauro Mantovani, Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, e, infine, con una rassegna fotografica dell’attuale vita dell’Istituto di Catechetica termina anche la sezione della rivista dedicata a celebrare i 70 anni di vita dell’istituzione che ha contribuito in modo significativo allo sviluppo del pensiero catechetico a livello mondiale.

I MEMBRI DELL’ISTITUTO DI CATECHETICA
catechetica@unisal.it

ALLEGATO:

Anno VIII. Numero 3 – Dicembre 2023

Sezione Commemorativa: il 70° dell’ICA

Agosto 2023

ACCEDI ALLA RIVISTA ONLINE nella sezione “CATECHETICA ED EDUCAZIONE”

Il primo annuncio e il kerygma secondo la Evangelii Gaudium

Proponiamo la relazione di don Ubaldo Montisci, membro dell’Istituto di Catechetica, al Simposio internazionale sul tema: Via Ecclesiae. La Chiesa e il suo futuro nel pensiero di Papa Francesco a 10 anni dalla pubblicazione della Evangelii gaudium.

 

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Il primo annuncio e il kerygma secondo la Evangelii Gaudium-Montisci Szeged 22 novembre 2023

 

 

Convegno in occasione dell’anniversario della pubblicazione dell’Evangelii gaudium

Il convegno pastorale-catechetico Via Ecclesiæ ha esaminato in una prospettiva decennale l’esortazione apostolica di papa Francesco, a partire da Evangelii gaudium, pubblicata nel 2013 . I partecipanti al convegno, unico a livello nazionale, svoltosi presso l’Università Ferenc Gál di Szeged il 22 novembre, hanno esaminato come nel documento il Santo Padre pone alla Chiesa le sfide della trasmissione della fede e dell’evangelizzazione.

Alla conferenza organizzata dall’Istituto catechetico della diocesi di Szeged-Csanád (SZEKI) hanno partecipato relatori nazionali e stranieri alla ricerca di risposte alla domanda su dove si trova l’evangelizzazione oggi e dove dobbiamo andare dopo.

A nome degli organizzatori, Serfőző Levente direttore del SZEKI, ha salutato i numerosi studenti, referenti pastorali e catechetici, catechisti e operatori pastorali delle diocesi ungherese e dall’estero, rappresentanti dei movimenti e della vita sociale.

Al convegno era presente László Kiss-Rigó, vescovo della contea di Szeged-Csanád; Endre Gyulay, vescovo emerito della contea di Szeged-Csanád; József Kovács, vicario generale della diocesi di Szeged-Csanád e Lajos Kondé, vicario pastorale della diocesi; Zsolt Szilvágyi, vicario pastorale della diocesi di Timisoara; Emma Németh, presidente della Conferenza delle Superiori ungheresi; József Tóth, rettore dell’Università Ferenc Gál; László Dux, rettore dell’Università Ferenc Gál; József Sebestyén, rettore del Collegio arcivescovile di studi religiosi di Veszprém; István Novák, vicerettore generale delegato dell’Università cattolica Károly Eszterházy di Eger e Marianna Barcsák, preside dell’Istituto pedagogico cattolico.

 

La conferenza è iniziata con il festoso benvenuto del vescovo della contea László Kiss-Rigó. Mons. Michael W. Banach, nunzio apostolico, ha tenuto il discorso di apertura del convegno organizzato in occasione dell’anniversario della pubblicazione dell’Evangelii gaudium . Ha contestualizzato il documento, mostrandone il collegamento con le precedenti esortazioni apostoliche e con i discorsi pronunciati dal Santo Padre durante il suo viaggio apostolico in Ungheria nel mese di aprile. Ha illustrato brevemente i temi dell’Evangelii gaudium , ponendo particolare attenzione ai seguenti quattro pilastri: il tempo è al di sopra dello spazio; l’unità supera il conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è più della parte.

 

 

Il nunzio ha presentato, con il titolo Un papato sotto l’Evangelii Gaudium , come gli ultimi dieci anni siano stati influenzati dalla “passione per l’evangelizzazione” di Papa Francesco e dalla serie di riforme per rendere la Chiesa più missionaria. Ha concluso il suo intervento con domande per una ulteriore riflessione: Siamo una comunità che pratica la misericordia? Come lo esprimiamo? Siamo solidali? Dov’è la fuliggine nella nostra vita comunitaria? Siamo inclusivi? Siamo consumatori religiosi o discepoli attivi? Quali sono i tre passi coraggiosi e creativi che faremmo come comunità evangelizzatrice?

Fülöp Kisnémet OSB, studente della Pontificia Università Gregoriana di Roma, ha presentato il background intellettuale che definisce il documento pontificio e da cui proviene il suo autore, papa Francesco (ex cardinale Bergoglio). Osservando gli sforzi pastorali della Chiesa latinoamericana, ha scoperto che Papa Francesco ha riassunto diversi decenni di cammino pastorale nella sua esortazione apostolica a partire dalla Evangelii gaudium . Secondo il relatore, l’approfondimento del funzionamento del “laboratorio latinoamericano” post-conciliare costituisce una delle chiavi interpretative più significative per una lettura significativa dell’Evangelii Gaudium e per comprendere la visione di Papa Francesco di una Chiesa più sinodale.

 

 

Una delle tendenze più significative in America Latina, che ha influenzato anche il cardinale Bergoglio, è la “teologia del popolo”. Questo popolo è stato plasmato da una storia comune e da una cultura comune.

La teologia del popolo prende sul serio la situazione sociale dei poveri, sottolinea la necessità della responsabilità sociale e professa il principio di dare priorità ai poveri. Attualizza anche le sfide che la missione deve affrontare: come membri della Chiesa, siamo tutti discepoli missionari stimolati alla missione dalla gioia dell’incontro con Gesù Cristo. La Chiesa ritrova se stessa soprattutto attraverso un costante ritorno alla missione missionaria; il discepolato ci lancia nel mondo affinché l’opera di evangelizzazione si svolga nella società.

Ferenc Janka, vicerettore dell’Università Gál Ferenc , ha tenuto una conferenza dal titolo La gioia come forza che modella la vita, nella quale ha sottolineato che il ministero apostolico e lo stile di Papa Francesco sono strettamente legati al tema della gioia, e quindi si inseriscono organicamente con alla rivelazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, all’insegnamento e alla liturgia della Chiesa.

 

 

Ferenc Janka ha scelto un approccio transdisciplinare: ha fatto appello alla scienza dell’etica, della filosofia e della psicologia, nonché agli insegnamenti delle Sacre Scritture, per esaminare cos’è la vera gioia e come si può sperimentarla. Nell’approccio morale cristiano, la gioia della fede, della speranza e dell’amore si oppone alla mancanza di prospettiva dell’incredulità, alla disperazione dell’essere senza speranza e alla solitudine dell’essere non amati. La fonte distintiva della gioia è la relazione: con Dio, con l’altro, con se stessi e con il mondo creato. In queste relazioni le persone conoscono sempre di più se stesse e sperimentano l’intensità e l’intimità dell’unità tra l’esterno e l’interno. Sperimentando l’amore di un altro, impara a dare e ricevere amore. È il flusso della gioia.

 

 

László Bakó, docente presso la Facoltà di Teologia cattolica romana dell’Università Babeș-Bolyai, ha sollecitato un cambiamento nella direzione pastorale. Ha citato Papa Francesco: tutto, i costumi, la lingua, gli stili, tutte le strutture ecclesiali devono essere rimodellate, affinché diventino canali idonei per evangelizzare il mondo oggi. Ciò dovrebbe essere fatto in uno spirito di freschezza, onestà, gioia e leggerezza, centralità nelle persone e visione della realtà.

La freschezza può venire dal rinnovamento incessante, dall’atteggiamento di chi ricomincia e impara ogni giorno. László Bakó, che da sette anni è impegnato nei lavori del Tribunale vescovile di Timisoara, ha sottolineato che è importante che l’onestà sia una delle caratteristiche indispensabili della Chiesa cattolica. “Potremmo mettere sul piatto della bilancia con coraggio le nostre strutture e parlarne con uno stile onesto, simile a quello di Papa Francesco”, ha detto. Trova triste che l’appartenenza alla Chiesa cattolica sia segnata dagli imperativi del “non si deve” e del “si deve”.

 

 

Elemento essenziale del cambiamento di orientamento pastorale è anche la centralità della persona, l’attenzione alla persona come persona e come comunità. Il primo è il rapporto personale con Dio, e da questo segue strettamente il rapporto comunitario. Tutto questo va praticato nella conoscenza della realtà, nell’incontro con la realtà – ha sottolineato il relatore.

Sándor Keszeli, membro del Comitato internazionale per la catechesi, ha avvertito che la Chiesa raggiunge solo il 4% dei giovani con le sue iniziative tradizionali.

 

 

Il relatore ha presentato il cammino rappresentato da Papa Francesco e ha parlato di come il Papa invita alla conversione individuale e comunitaria. Come individuo, richiede la consapevolezza che il significato fondamentale dell’essere cristiano è trasmettere la fede, cioè contribuire con ogni momento della mia vita trasformata dalla presenza di Dio alla vicinanza risanatrice e alla Parola invitante di Dio che raggiunge gli altri . Ciò può derivare dalla gioia dell’incontro. Come Chiesa, anche noi siamo chiamati a questa missione: l’essenza della Chiesa missionaria è trasmettere la gioia del Vangelo e creare una comunità di fraternità, dove tutti hanno diritto ad pari dignità in conseguenza del battesimo, dove la l’esperienza dell’amore di Dio muove i membri gli uni verso gli altri, dove vediamo l’altro come un dono, che può far emergere il meglio di me, dove pratichiamo la meravigliosa facoltà del cuore: l’arte di ascoltare e sentire.

 

 

Ubaldo Montisci, docente della Pontificia Università Salesiana, ha sottolineato nel suo intervento: nella pastorale, il primo annuncio occupa un posto privilegiato, poiché contiene il messaggio principale, che il convertito ascolterà sempre di nuovo in vari modi, e il pastore deve predicare la catechesi ancora e ancora. Questo è il messaggio che “tutti gli uomini e le donne, compresi i più poveri” hanno il diritto di sentire. Contiene la corteccia. Il portatore della notizia deve essere un “evangelizzatore con lo Spirito”, pronto ad annunciare la buona notizia in ogni situazione della vita, presente in ogni “crocevia” della vita delle persone, e sa che l’annuncio può essere fatto sia in “luoghi sacri e profani”. La trasmissione della fede è personale, da anima ad anima. A questo ogni battezzato deve essere pronto e, per avere successo, deve attuarlo con entusiasmo e creatività nella vita di ogni giorno.

 

 

Sergio Pérez Buena, docente di pastorale e catechetica presso la Pontificia Università di Salamanca, nel suo intervento, ha discusso del processo avviato nella Chiesa dal tema catechetico-pastorale della Evangelii Gaudium e dell’impatto che esso ha avuto nel campo della catechesi. Una pietra miliare in questo senso è stato il motu proprio a partire dall’Antiquum ministerium pubblicato nel maggio 2021, con cui Papa Francesco ha istituito il servizio dei catechisti secolari, il servizio istituzionalizzato del catecumenato, e ha posto così la catechesi al centro dell’evangelizzazione .

“Il catechista è un battezzato che ascolta la chiamata del Signore, si guarda attorno e si mette al servizio stabile della comunità”, ha affermato il Papa, citando il relatore. Il motu proprio spiega anche che il catechista, in quanto insegnante di religione, è innanzitutto chiamato a trasmettere la fede dalla prima predicazione all’insegnamento, che rende consapevoli della vita nuova in Cristo e prepara ai sacramenti dell’iniziazione cristiana. Il catechista è quindi compagno e accompagnatore che insegna in nome della Chiesa – si legge al punto 6 dell’Antiquum ministerium -.

László Gájer, professore associato dell’Università Cattolica Pázmány Péter, nella sua presentazione ha analizzato il cammino della Chiesa ungherese. Come ha detto, la Chiesa cattolica ungherese cerca da tempo il suo posto nel fuoco incrociato della retorica politica in Ungheria e nella regione. Per trovare una via d’uscita dalla morsa delle ideologie politiche, bisogna uscire dalla struttura di pensiero dicotomico della politica attuale e invece di sostenere la mentalità del campo degli esperti, bisogna presentare qualche altra possibilità. La vita degli ungheresi è spesso determinata solo in parte dalle grandi tensioni globali, ma i processi politici e ecclesiali mondiali ci influenzano. La polarizzazione rispetto alle questioni politiche sta diventando sempre più comune nel nostro Paese e la divisione è diventata parte della vita quotidiana.

Lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, sottolinea il ruolo del cristianesimo nel promuovere la riconciliazione – lo scrive anche nel libro Convivenza . Il cristianesimo può diventare catalizzatore di convivenza se accetta il rischio del dialogo, sa cioè affrontare la differenza dell’altro e cercare di creare con lui un rapporto multiforme, comprendendone gli interessi e gli orientamenti. Il dialogo, l’incontro e l’impegno comunitario possono essere una degna visione cristiana del futuro, ha affermato il relatore.

 

 

László Gájer ha sottolineato che i dati dell’ultimo censimento ungherese hanno causato incertezza e paura in molte persone. Sarebbe saggio adesso porci con serena umiltà davanti a queste figure e cercare di mostrare noi stessi e il mondo esterno grandi come realmente siamo. I grandi edifici e il sistema istituzionale mettono sulle spalle le persone fragili – a volte i sacerdoti esausti – senza offrire loro una casa o uno spazio spirituale, ha affermato il relatore.

Nel mondo di oggi, “martellante e orientato al profitto”, il punto di riferimento può essere la religione, la fede, che nella preghiera trasmette l’esperienza che “c’è qualcuno che ti ha chiamato, che ti ascolterà”. Il compito della Chiesa è insegnare alle persone a pregare.

L’importanza e l’influenza sociale, culturale o politica del cristianesimo possono diminuire, ma tutto ciò non ha molta importanza. Ma se la preghiera viene persa o indebolita, non importa quanto influente possa essere il cristianesimo, tutto è inutile e non solo vuoto ma pericoloso.

 

 

traduzione dall’articolo originale: Convegno in occasione dell’anniversario della pubblicazione dell’Evangelii gaudium

Foto: Attila Lambert

Éva Trauttwein/Corriere ungherese

La via stretta dell’evangelizzazione: Sinodo e Catechesi

È il titolo della conferenza tenuta dal prof. Rinaldo Paganelli nel contesto del pomeriggio di studio per i docenti e gli studenti del Curricolo di Catechetica dell’Università Pontificia Salesiana (Roma) realizzatosi nei giorni scorsi.

Quali i temi più avvertiti tra gli esperti e nell’opinione pubblica? Quali le provocazioni e gli orientamenti provengono dalla prima parte del Sinodo appena concluso? Quali indicazioni riguardano la catechesi? Come questa può mettersi a servizio della conversione pastorale auspicata nel documento?

È disponibile qui l’intervento del prof. Paganelli, che ringraziamo per aver accettato la collaborazione.

 

La via stretta dell’evangelizzazione: Sinodo e Catechesi

Il tono generale, dei commentatori sui vari quotidiani, non è stato duramente critico, ma pressoché tutti hanno osservato la timidezza nelle proposte di soluzione di problemi che esigerebbero audacia nell’affrontarli.

Difficile fare sintesi

I redattori dell’Instrumentum Laboris, giustamente, si sono preoccupati di non abbandonare alcuno dei molti interrogativi che erano stati avanzati. È così che i sinodali, all’inizio dei lavori, si sono trovati con in mano un Foglio di Lavoro, 50 pagine, dotato di una batteria di schede fitte di domande. Troppa carne al fuoco per un’assemblea di 350 persone in un mese, anche se per 46 ore settimanali.

I gruppi di 10-12 persone (Circuli minores) lavoravano ciascuno, ogni giorno su un sottotema di un tema e, quindi, si riusciva abbastanza a mettere a fuoco l’argomento, mentre le Congregazioni generali sono state appesantite da interventi generici e non di rado fuori tema. I moderatori erano troppo benevoli: solo in un caso è stata tolta la parola di un intervento che si annunciava non pertinente.

Nella serata del 28 ottobre stata votata La Relazione di sintesi.  Si presenta con un testo ampio, ma agileAmpio perché affronta un ventaglio di questioni estremamente ricco, agile perché i temi sono organizzati con chiarezza in venti paragrafi, ciascuno dei quali inizia precisando le convergenze raggiunte, prosegue illustrando le questioni da approfondire e termina avanzando alcune proposte.

Si stende in venti paragrafi, a loro volta, sono organizzati in tre parti, tra loro strettamente consequenziali. La prima parte (“Il volto della Chiesa sinodale”) presenta i principi teologici che illuminano e fondano la sinodalità. La seconda parte (“Tutti discepoli, tutti missionari”) si occupa dei soggetti che, ai diversi livelli, formano il Popolo di Dio e che sono chiamati, ciascuno per la sua parte, ad assumere la sinodalità come concreto stile ecclesiale. La terza parte (“Tessere legami, generare comunità”) si concentra sui processi e organismi che, in una logica sinodale, consentono lo scambio tra le Chiese e il dialogo con il mondo.

La Relazione si distende su troppi argomenti, senza approfondirli in maniera adeguata, ripropone domande e accumula rinvii a uno studio ulteriore, più che avanzare proposte di soluzione. Se soffre di una certa genericità lo si deve all’ampiezza delle questioni emerse nella consultazione del popolo di Dio di questi due ultimi anni e allo scopo relativamente modesto cui giungere, visto che in questa sessione ci si doveva fermare a metà strada, consegnando il compito conclusivo ai lavori della Seconda sessione del 2024. A dire il vero, bisogna anche notare che il livello della riflessione teologica e della profondità di analisi delle situazioni concrete di alcuni interventi non erano molto brillanti. Per questo la Relazione di sintesi contempla tra le proposte quella di «promuovere, in sede opportuna, il lavoro di teologi e canonisti per l’approfondimento terminologico e concettuale».

Un evento storico

Il Sinodo dei vescovi non è un concilio ecumenico. Non ha potere deliberativo. È un organo consultivo del papa, cui spetta prendere le ultime decisioni. Non sarebbe stato realista attendersi decisioni dirompenti, soprattutto da questa prima assemblea sinodale. L’atmosfera di questo Sinodo è stata del tutto pacifica, pur nella diversità delle prese di posizione, quella del Concilio era quasi sempre agitata. La conflittualità fra le diverse posizioni dei Padri è stata però feconda e ha rivelato nei fatti che lo Spirito Santo guida la Chiesa: alla fine, infatti, i Padri conciliari sono approdati a decisioni molto audaci e, dopo molto battagliare, hanno raggiunto il consenso quasi unanime su tutti i documenti.

La Sintesi del Sinodo è stata approvata quasi all’unanimità (343 sì e un solo voto contrario). Tutti i singoli punti del testo sono stati approvati con la maggioranza qualificata richiesta di almeno due terzi. E il paragrafo conclusivo “programmatico” in vista della prossima sessione dell’ottobre 2024 ha avuto in particolare 336 voti favorevoli e 10 contrari.

Comunque ci sono stati alcuni paragrafi che hanno ottenuti meno di 300 voti. In particolare tre punti che toccano la problematica del diaconato femminile, un paragrafo che riguarda l’opportunità di inserire i presbiteri che hanno lasciato il ministero in un servizio pastorale che valorizzi la loro formazione e la loro esperienza e un altro paragrafo in cui si parla del celibato sacerdotale laddove si riferisce che alcuni chiedono se la sua convenienza teologica debba necessariamente tradursi nella Chiesa latina in un obbligo disciplinare.

Poco più di 300 voti hanno invece preso altre questioni. Quella di esaminare se alla luce del Concilio Vaticano II è opportuno ordinare i prelati della Curia Romana vescovi. Quella che incoraggia i vescovi africani a promuovere un discernimento teologico e pastorale sul tema della poligamia. E poi il punto in cui si fa riferimento ad alcune questioni, come quelle relative all’identità di genere e all’orientamento sessuale (nella Sintesi non si trova citato l’acronimo “Lgbtq+” che pure era apparso nell’Instrumentum laboris), al fine vita, alle situazioni matrimoniali difficili, che risultano controverse non solo nella società, ma anche nella Chiesa.

Una volta preso atto delle debolezze, sarebbe ingiusto non misurare la reale dimensione dell’evento, la cui importanza merita, senza temere l’uso inflazionato del termine, di essere definita storica. È la prima volta nella storia della Chiesa che si sono visti sedere allo stesso tavolo vescovi e cardinali, fedeli laici uomini e donne, suore, preti, diaconi e frati, con lo stesso diritto di voto a determinare le decisioni da prendere.

Non è sorprendente ma, è di fondamentale importanza il ricorrente riconoscimento che i fedeli laici sono veri soggetti della missione nelle loro attività sociali, che le loro esperienze e competenze sono l’attuazione, per ciascuno, di una sua vocazione specifica, per cui non è la frequentazione assidua di spazi ecclesiali a fondare la loro rilevanza nel partecipare ai processi decisionali della Chiesa, bensì la loro «genuina testimonianza evangelica nelle realtà più ordinarie della vita».

Ascoltare lo Spirito fino in fondo

Il lavoro del Sinodo è stato vissuto nell’ascolto dello Spirito e nel tentativo di discernere gli spiriti. Questa «conversazione nello Spirito» ha dato luogo a esperienze preziose: si è imparato ad ascoltare, a rispettare la diversità delle opinioni, a sopportare il dissenso. Naturalmente, non si doveva nemmeno fare opera di persuasione.

Tuttavia, questo metodo di «conversazione nello Spirito» ha mostrato anche i suoi limiti. La spiritualizzazione ha provocato una sorta di evitamento improduttivo del conflitto; vi erano più domande che risposte. Le questioni di riforma in sospeso da tempo non sono state portate avanti; e, rispetto al Concilio Vaticano II, gli esperti di teologia non si sono seduti ai tavoli dell’assemblea sinodale. Questo si evince anche dalla relazione finale. Per questo motivo, è proprio per «approfondire» le questioni rimaste aperte che viene richiesto ora il lavoro dei teologi e degli altri saperi.

L’alto gradimento del presente testo è stato reso possibile dal fatto che molte questioni non sono state risolte, ma indicate come ancora aperte: il che, da solo, deve essere considerato un grande successo. Questo significa molto lavoro per l’anno prossimo. (Il diaconato delle donne, la questione del celibato, la cultura sessuale, la questione di genere, la benedizione delle coppie omosessuali − sono tutte rimaste aperte).

Da un lato, questo può deludere chi si aspettava già ora delle decisioni. Ma preoccupa anche chi voleva che questi temi fossero rimossi dal tavolo sinodale. Secondo le cifre del voto sulle questioni sensibili, questi ultimi non sono poi così pochi− circa un terzo.

Per il tempo compreso tra le due Sessioni, il compito delle Chiese locali è così già definito: a partire dalle convergenze raggiunte, le Comunità saranno chiamate ad approfondire le questioni e le proposte, combinando discernimento spirituale, approfondimento teologico ed esercizio pastorale.

 

La sfida del sinodo per restare dentro al mondo

Il sinodo, che ha visto rappresentato ogni angolo della terra in modo quantitativamente meno sproporzionato che in passato, ci offre la possibilità di delineare tre attenzioni che un evento di tale portata suscita.

  1. Il confronto con il Vaticano II (1963-1965) è inevitabile e persino salutare, ma va svolto con attenzione. Questo sinodo è partito con uno svantaggio enorme rispetto al Vaticano II. Il Concilio aveva alle spalle centocinquanta anni di ricerca teologica straordinaria di risveglio spirituale e liturgico impetuoso. Aveva alle spalle le esperienze e la cultura di un cattolicesimo politico finalmente non confessionale. La fede e la chiesa furono chiamate a scegliere la strada difficile di una fedeltà in tempi nuovi e diversi, senza rancori e senza timidezze. Questo sinodo non ha alle spalle nulla del genere. In questo periodo la teologia ha vissuto una stagione più povera, la vita ecclesiale è stata ferita non solo dalle prove dei tempi, ma anche dall’aver tentato strade movimentiste, neoclericali o di managerializzazione della pastorale vecchie e già ampiamente fallite. Alla disciplina della libertà troppo spesso sono stati sostituiti spesso narcisismo ecclesiastico e carrierismo.
  2. Il problema del cattolicesimo era e resta quello del confronto con la modernità. Il radicalizzarsi di questa ha reso tale compito molto più difficile e molto più urgente. Il vaticano II lo aveva compreso ed aveva detto no tanto alla demonizzazione della modernità, quanto alla sua adulazione. Come disse Paolo VI (8 dicembre 1965) dentro la stessa modernità da una parte c’è la religione del Dio che si fa uomo, dall’altra quella dell’uomo che si fa Dio. Un tale confronto non comporta affatto la necessità di uno scontro assoluto, al contrario esige dialogo fecondo ed amicizia e il coraggio di una ricerca comune. Credenti e non credenti hanno anzitutto il dovere di essere pensanti-
  3. Tornare a percorrere di nuovo la via stretta dello stare dentro la modernità guidati da un Vangelo che non piglia tutto né rifiuta tutto, che discerne e anche inventa cose nuove, non lo si fa limitandosi a dichiarazioni di principio. Ma ciò che è realisticamente da chiedere al sinodo non sono le decisioni, ma la definizione di una agenda: pochi nodi, cruciali e urgenti. Tale agenda può dare ordine al confronto futuro per rendere poi più costoso evitare di decidere. È importante recuperare e aggiornare la visione della via stretta, collegata a una agenda fatta di pochi problemi urgenti. La via stretta era e resta dura, ma le scorciatoie erano e restano effimere e nefaste.

La relazione di sintesi attenzioni catechistiche

Per entrare di più nell’ambito della catechesi richiamo la vostra attenzione sul fatto che nella Relazione di Sintesi trova spazio il tema dell’iniziazione cristiana, come sorgente sacramentale della sinodalità: la comunione, la partecipazione e la missione dei cristiani nascono dal fonte battesimale, si accrescono con la Confermazione e si alimentano continuamente alla mensa dell’Eucaristia, la cui celebrazione manifesta l’unità e insieme la diversità della Chiesa.

 

“L’iniziazione cristiana è l’itinerario attraverso cui il Signore, mediante il ministero della Chiesa, ci introduce nella fede pasquale e ci inserisce nella comunione trinitaria ed ecclesiale. Tale itinerario conosce una significativa varietà di forme a seconda dell’età in cui viene intrapreso e delle diverse accentuazioni proprie delle tradizioni orientali e di quella occidentale. Tuttavia vi si intrecciano sempre l’ascolto della Parola e la conversione della vita, la celebrazione liturgica e l’inserimento nella comunità e nella sua missione. Proprio per questo il percorso catecumenale, con la gradualità delle sue tappe e dei suoi passaggi, è il paradigma di ogni camminare insieme ecclesiale” (Parte 1 Il volto della Chiesa sinodale §3).

Queste attenzioni hanno a che fare con un cristianesimo con un piede nella cristianità e con l’altro nella postmodernità. La parrocchia e la sua azione catechistica vivono di conseguenza una situazione di “transizione”. Si può anche usare la parola “smaltimento”, parola forte, ma che esprime bene quello che sta accadendo. Tutto l’impegno pastorale che viene richiesto è proprio quello di prendere per mano le persone che vengono dal cristianesimo di tradizione e di accompagnarle verso una situazione nuova: da una fede di convenzione a una fede di convinzione. Le proposte pastorali, le omelie, le iniziative parrocchiali devono avere tutte questa finalità. In questo lavoro avvengono delle inevitabili perdite: avviene cioè lo ‘smaltimento’ progressivo di chi è cattolico solo per anagrafe.

“Il sacramento del Battesimo non può essere compreso in modo isolato, al di fuori della logica dell’iniziazione cristiana, né tanto meno in modo individualistico. Occorre dunque approfondire ulteriormente l’apporto alla comprensione della sinodalità che può provenire da una visione più unitaria dell’iniziazione cristiana”.

Non siamo chiamati solamente a cambiare paradigma catechistico: siamo invitati a rivedere la figura di fede che persiste e che in modo inconsapevole comunichiamo agli altri nella proposta catechistica. Il sinodo sollecita ad andare alla ricerca, per noi e per gli altri, di una figura di fede “culturalmente abitabile, vivibile, sensata e desiderabile” nei nostri contesti di missione pastorale, segnati ormai ovunque dalla pluralità.

“Dall’Eucaristia impariamo ad articolare unità e diversità: unità della Chiesa e molteplicità delle comunità cristiane; unità del mistero sacramentale e varietà delle tradizioni liturgiche; unità della celebrazione e diversità delle vocazioni, dei carismi e dei ministeri. Nulla più dell’Eucaristia mostra che l’armonia creata dallo Spirito non è uniformità e che ogni dono ecclesiale è destinato all’edificazione comune”.

Per “figura di fede” intendiamo il modo con cui noi interpretiamo il cristianesimo, stabiliamo il nostro rapporto con Dio, lo traduciamo in atteggiamenti e orientamenti di vita. La sfida della catechesi non è solo questione di cambiamento di strategie, ma verificare se la figura di fede che si propone è oggi culturalmente comprensibile e vivibile, per noi e per coloro a cui è diretta la nostra missione. La proposta sinodale è ancora troppo schiacciata sull’iniziazione cristiana, quando ci si rende conto che è un nuovo annuncio quello che si chiede alle chiese.

  1. a) Piuttosto che dire che la Chiesa ha una missione, affermiamo che la Chiesa è missione. «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21).
  2. b) I sacramenti dell’iniziazione cristiana conferiscono a tutti i discepoli di Gesù la responsabilità della missione della Chiesa. Laici e laiche, consacrate e consacrati, e ministri ordinati hanno pari dignità. Hanno ricevuto carismi e vocazioni diversi ed esercitano ruoli e funzioni differenti, tutti chiamati e nutriti dallo Spirito Santo per formare un solo corpo in Cristo. Tutti discepoli, tutti missionari, nella vitalità fraterna di comunità locali che sperimentano la dolce e confortante gioia di evangelizzare. L’esercizio della corresponsabilità è essenziale per la sinodalità ed è necessario a tutti i livelli della Chiesa. Ogni cristiano è una missione in questo mondo (Parte 2: Tutti discepoli, tutti missionari §8).

Il Sinodo da valore a un cristianesimo della grazia. La fede nel segno della grazia si basa sull’esperienza di un amore incondizionato. Tutto è donato. Questa esperienza connota la missione della Chiesa. È dunque la fede nella possibilità di vivere con speranza, perché siamo preceduti e custoditi. Questo non per le nostre forze, ma per grazia.

La fede identificata con il dovere e persino quella solo identificata con l’impegno non hanno futuro e non parlano più alle persone di oggi. Né la prima né la seconda sono una figura di fede “missionaria”, cioè in grado di sorprendere, di interrogare, di convertire. Qualsiasi rinnovamento della pastorale non avrà esito se non avremo operato questa conversione e non saremo entrati in un orizzonte di grazia, quella grazia che ci rende responsabili e impegnati. In noi le persone hanno bisogno di vedere riflessa la gioia di una fede che ci porta alla testimonianza gratuita e all’impegno. Non una fede legata ai doveri e al volontarismo delle nostre forze. Ciò che non è da perdere è la presenza della chiesa in mezzo alla gente. L’accento va più su “comunità ecclesiali presenza in un dato territorio” che su “parrocchia come insieme di strutture”, anche se di qualche struttura avremo sempre bisogno.  A livello di organizzazione. Siamo chiamati a vivere comunità cristiane che abbiano la forma di rete, in grado di mettere a disposizione le risorse umane, economiche, organizzative disponibili. Tra le proposte: Si invitano le Chiese locali a individuare forme e occasioni in cui dare visibilità e riconoscimento comunitario ai carismi e ministeri che arricchiscono la comunità”.

I confini di una comunità diventano luoghi di scambio, ponti comunicativi. Ciascuna è un punto della rete che fa correre la comunicazione, facilita l’accesso alle risorse e contribuisce a metterle a disposizione. Confini più porosi permettono di concentrare le energie sull’essenziale, lasciando progressivamente perdere ciò che non lo è. La logica dello scambio e della messa in comune concentrando le energie su aspetti essenziali alla missione.  Di conseguenza si è sollecitati a coltivare una ministerialità diffusa, che sappia dire il senso delle cose di tutti i giorni, con capacità di ascolto, aiuto, solidarietà, rottura della tentazione dell’indifferenza. La prossimità nel quotidiano è figura di una chiesa missionaria.

A livello di proposte pastorali e catechistiche segnalo che ad intra deve tornare al centro l’ascolto condiviso della Parola di Dio e il suo condurre verso l’assemblea eucaristica domenicale. Ad extra vanno messi al centro gli adulti le famiglie e i giovani perché possano trovare spazi per sperimentarsi e mettere alla prova i sogni della loro vita.

È stato riaffermato l’imperativo del cristiano di non mancare di rispetto per la dignità di nessuna persona e il dovere della Chiesa di corrispondere alle «persone che sono o si sentono ferite o trascurate dalla Chiesa, che desiderano un luogo in cui tornare “a casa” e in cui sentirsi al sicuro, essere ascoltate e rispettate, senza temere di sentirsi giudicate».

Rinaldo Paganelli

 

Alcune foto dell’evento:

“Fare Catechesi in Italia” attraverso la voce degli autori

7° video: don Rinaldo Paganelli S.C.I.
– docente invitato di  catechetica presso la facoltà di Scienze dell’Educazione dell’UPS di Roma

Visualizza i video precedenti:

 

 

“Laudate Deum”, il grido del Papa per una risposta alla crisi climatica

Pubblicata l’esortazione apostolica di Francesco che specifica e completa l’enciclica del 2015.

 

«“Lodate Dio” è il nome di questa lettera. Perché un essere umano che pretende di sostituirsi a Dio diventa il peggior pericolo per sé stesso». Con queste parole si conclude la nuova esortazione apostolica di Papa Francesco, pubblicata il 4 ottobre, festa del Santo di Assisi. Un testo in continuità con la più ampia enciclica Laudato si’ del 2015. In 6 capitoli e 73 paragrafi il Successore di Pietro intende specificare e completare quanto già affermato nel precedente testo sull’ecologia integrale, e al tempo stesso lanciare un allarme e una chiamata alla corresponsabilità di fronte all’emergenza del cambiamento climatico, prima che sia troppo tardi. L’esortazione guarda in particolare alla COP28 che si terrà a Dubai tra fine novembre e inizi di dicembre. Il Pontefice scrive: «Con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura» e «non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie» (2). È una «delle principali sfide che la società e la comunità globale devono affrontare» e «gli effetti del cambiamento climatico sono subiti dalle persone più vulnerabili, sia in patria che nel mondo»

I segni del cambio climatico sempre più evidenti

Il primo capitolo è dedicato alla crisi climatica globale. «Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti» spiega il Papa. Che osserva come «negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra», una «malattia silenziosa che colpisce tutti noi». Inoltre Francesco afferma: «è verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano significativamente la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi». Il Pontefice, dopo aver ricordato che se si superano i 2 gradi di aumento della temperatura «le calotte glaciali della Groenlandia e di gran parte dell’Antartide si scioglieranno completamente, con conseguenze enormi e molto gravi per tutti» (5), a proposito di chi minimizza il cambiamento climatico, risponde: «quello a cui stiamo assistendo ora è un’insolita accelerazione del riscaldamento, con una velocità tale che basta una sola generazione – non secoli o millenni – per accorgersene». «Probabilmente tra pochi anni molte popolazioni dovranno spostare le loro case a causa di questi eventi» (6). Anche i freddi estremi sono «espressioni alternative della stessa causa» (7).

La colpa non è dei poveri

«Nel tentativo di semplificare la realtà – scrive Francesco – non mancano coloro che incolpano i poveri di avere troppi figli e cercano di risolvere il problema mutilando le donne dei Paesi meno sviluppati. Come al solito, sembrerebbe che la colpa sia dei poveri. Ma la realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei Paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita più della metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?» (9).

Il Papa mette a tema anche la posizione di chi dice che gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico riducendo l’uso di combustibili fossili «porteranno a una riduzione dei posti di lavoro». Ciò che sta accadendo, in realtà «è che milioni di persone perdono il lavoro a causa delle varie conseguenze del cambiamento climatico: l’innalzamento del livello del mare, la siccità e molti altri fenomeni che colpiscono il pianeta hanno lasciato parecchia gente alla deriva». Mentre «la transizione verso forme di energia rinnovabile, ben gestita» è in grado «di generare innumerevoli posti di lavoro in diversi settori. Per questo è necessario che i politici e gli imprenditori se ne occupino subito» (10).

Indubitabile origine umana

«L’origine umana – “antropica” – del cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio» afferma Francesco. «La concentrazione dei gas serra nell’atmosfera… è rimasta stabile fino al XIX secolo… Negli ultimi cinquant’anni l’aumento ha subito una forte accelerazione» (11). Allo stesso tempo la temperatura «è aumentata a una velocità inedita, senza precedenti negli ultimi duemila anni. In questo periodo la tendenza è stata di un riscaldamento di 0,15 gradi centigradi per decennio, il doppio rispetto agli ultimi 150 anni… A questo ritmo, solo tra dieci anni raggiungeremo il limite massimo globale auspicabile di 1,5 gradi centigradi» (12). Con conseguente acidificazione dei mari e scioglimento dei ghiacci. La coincidenza fra questi eventi e la crescita di emissioni di gas serra «non può essere nascosta. La stragrande maggioranza degli studiosi del clima sostiene questa correlazione e solo una minima percentuale di essi tenta di negare tale evidenza». Purtroppo, osserva amaramente il Pontefice, «la crisi climatica non è propriamente una questione che interessi alle grandi potenze economiche, che si preoccupano di ottenere il massimo profitto al minor costo e nel minor tempo possibili» (13).

Siamo appena in tempo per evitare danni più drammatici

«Sono costretto – continua Francesco – a fare queste precisazioni, che possono sembrare ovvie, a causa di certe opinioni sprezzanti e irragionevoli che trovo anche all’interno della Chiesa cattolica. Ma non possiamo più dubitare che la ragione dell’insolita velocità di così pericolosi cambiamenti sia un fatto innegabile: gli enormi sviluppi connessi allo sfrenato intervento umano sulla natura» (14). Purtroppo alcune manifestazioni di questa crisi climatica sono già irreversibili per almeno centinaia di anni, mentre «lo scioglimento dei poli non può essere invertito per centinaia o migliaia di anni» (16). Siamo dunque appena in tempo per evitare danni ancora più drammatici. Il Papa scrive che «alcune diagnosi apocalittiche sembrano spesso irragionevoli o non sufficientemente fondate», ma «non possiamo dire con certezza» ciò che accadrà (17).  È quindi «urgente una visione più ampia… Non ci viene chiesto nulla di più che una certa responsabilità per l’eredità che lasceremo dietro di noi dopo il nostro passaggio in questo mondo» (18). Ricordando l’esperienza della pandemia di Covid-19 Francesco ripete «Tutto è collegato e nessuno si salva da solo» (19).

Il paradigma tecnocratico: l’idea di un essere umano senza limiti

Nel secondo capitolo Francesco parla del paradigma tecnocratico che «consiste nel pensare come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia» (20) e «si nutre mostruosamente di sé stesso» (21) basandosi sull’idea di un essere umano senza limiti. «Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo… È terribilmente rischioso che esso risieda in una piccola parte dell’umanità» (23). Purtroppo, come insegna anche la bomba atomica, «l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza» (24). Il Papa ribadisce che «il mondo che ci circonda non è un oggetto di sfruttamento, di uso sfrenato, di ambizione illimitata» (25). Ricorda pure che noi siamo inclusi nella natura, e «ciò esclude l’idea che l’essere umano sia un estraneo, un fattore esterno capace solo di danneggiare l’ambiente. Dev’essere considerato come parte della natura» (26); «i gruppi umani hanno spesso “creato” l’ambiente» (27).

Decadenza etica del potere: marketing e falsa informazione

Abbiamo compiuto «progressi tecnologici impressionanti e sorprendenti, e non ci rendiamo conto che allo stesso tempo siamo diventati altamente pericolosi, capaci di mettere a repentaglio la vita di molti esseri e la nostra stessa sopravvivenza» (28). «La decadenza etica del potere reale è mascherata dal marketing e dalla falsa informazione, meccanismi utili nelle mani di chi ha maggiori risorse per influenzare l’opinione pubblica attraverso di essi». Grazie a questi meccanismi si convincono gli abitanti delle zone dove si vogliono realizzare progetti inquinanti illudendoli che si potranno generare delle opportunità economiche e occupazionali ma «non viene detto loro chiaramente che in seguito a tale progetto» resterà «una terra devastata» (29) e condizioni di vita molto più sfavorevoli. «La logica del massimo profitto al minimo costo, mascherata da razionalità, progresso e promesse illusorie, rende impossibile qualsiasi sincera preoccupazione per la casa comune e qualsiasi attenzione per la promozione degli scartati della società… Estasiati davanti alle promesse di tanti falsi profeti, i poveri stessi a volte cadono nell’inganno di un mondo che non viene costruito per loro» (31). Esiste «un dominio di coloro che sono nati con migliori condizioni di sviluppo» (32). Francesco li invita a chiedersi, «di fronte ai figli che pagheranno per i danni delle loro azioni», quale sia il senso della loro vita (33).

Politica internazionale debole

Nel capitolo successivo dell’esortazione il Papa affronta il tema della debolezza della politica internazionale, insistendo sulla necessità di favorire «gli accordi multilaterali tra gli Stati» (34). Spiega che «quando si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal diritto, non necessariamente si deve pensare a un’autorità personale» ma di «organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali». Che «devono essere dotate di una reale autorità per “assicurare” la realizzazione di alcuni obiettivi irrinunciabili» (35). Francesco deplora che «le crisi globali vengano sprecate quando sarebbero l’occasione per apportare cambiamenti salutari. È quello che è successo nella crisi finanziaria del 2007-2008 e che si è ripetuto nella crisi del Covid-19», che hanno portato «maggiore individualismo, minore integrazione, maggiore libertà per i veri potenti, che trovano sempre il modo di uscire indenni» (36). «Più che salvare il vecchio multilateralismo, sembra che oggi la sfida sia quella di riconfigurarlo e ricrearlo alla luce della nuova situazione globale» (37) riconoscendo che tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale. Il Papa cita il processo di Ottawa sulle mine antiuomo che mostra come la società civile crea dinamiche efficienti che l’ONU non raggiunge.

Inutili le istituzioni che preservano i più forti

Quello proposto da Francesco è «un multilateralismo “dal basso” e non semplicemente deciso dalle élite del potere… È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali» (38). Dopo aver riaffermato il primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza, Francesco spiega che «non si tratta di sostituire la politica, perché… le potenze emergenti stanno diventando sempre più rilevanti». «Proprio il fatto che le risposte ai problemi possano venire da qualsiasi Paese, per quanto piccolo, conduce a riconoscere il multilateralismo come una strada inevitabile» (40). È necessario dunque «quadro diverso per una cooperazione efficace. Non basta pensare agli equilibri di potere, ma anche alla necessità di rispondere alle nuove sfide e di reagire con meccanismi globali». Servono «regole universali ed efficienti» (42). «Tutto ciò presuppone che si attui una nuova procedura per il processo decisionale»; servono «spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale, per esprimere e includere le diverse situazioni. Non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti» (43).

Le conferenze sul clima

Nel capitolo seguente Francesco descrive le diverse conferenze sul clima tenutesi fino ad oggi. Ricorda quella di Parigi, il cui accordo è entrato in vigore nel novembre 2016, ma «pur essendo vincolante, non tutti i requisiti sono obblighi in senso stretto e alcuni di essi lasciano spazio a un’ampia discrezionalità» (47), non sono previste sanzioni per gli obblighi non rispettati e mancano strumenti efficaci per farla osservare, non prevede sanzioni vere e proprie e non ci sono strumenti efficaci per garantirne l’osservanza. E «si sta ancora lavorando per stabilire procedure concrete di monitoraggio e fornire criteri generali per confrontare gli obiettivi dei diversi Paesi» (48). Il Papa accenna alla delusione per la COP di Madrid e ricorda che quella di Glasgow ha rilanciato gli obiettivi di Parigi, con molte “esortazioni”, ma «le proposte volte a garantire una transizione rapida ed efficace verso forme di energia alternativa e meno inquinante non sono riuscite a fare progressi» (49). La COP27 in Egitto del 2022 «è stata un ulteriore esempio della difficoltà dei negoziati» e anche se ha prodotto «almeno un progresso nel consolidamento del sistema di finanziamento per le “perdite e i danni” nei Paesi più colpiti dai disastri climatici» (51) anche su questo molti punti sono rimasti “imprecisi”. I negoziati internazionali «non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale. Quanti subiranno le conseguenze che noi tentiamo di dissimulare, ricorderanno questa mancanza di coscienza e di responsabilità» (52).

Cosa ci si aspetta dalla COP di Dubai?

Guardando alla COP28 Francesco scrive che «dire che non bisogna aspettarsi nulla sarebbe autolesionistico, perché significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti del cambiamento climatico» (53). «Non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta» (54). Il Papa osserva che «la necessaria transizione verso energie pulite… abbandonando i combustibili fossili, non sta procedendo abbastanza velocemente. Di conseguenza, ciò che si sta facendo rischia di essere interpretato solo come un gioco per distrarre» (55). Non si può cercare soltanto un rimedio tecnico ai problemi, «corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare… mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare» (57).

Basta ridicolizzare la questione ambientale

Francesco chiede di porre fine «all’irresponsabile presa in giro che presenta la questione come solo ambientale, “verde”, romantica, spesso ridicolizzata per interessi economici. Ammettiamo finalmente che si tratta di un problema umano e sociale in senso ampio e a vari livelli. Per questo si richiede un coinvolgimento di tutti». A proposito delle proteste dei gruppi radicalizzati, il Papa afferma che «essi occupano un vuoto della società nel suo complesso, che dovrebbe esercitare una sana pressione, perché spetta a ogni famiglia pensare che è in gioco il futuro dei propri figli» (58). Il Pontefice auspica che dalla COP28 emergano «forme vincolanti di transizione energetica» che siano efficienti, «vincolanti e facilmente monitorabili» (59). «Speriamo che quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano così mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna… Ai potenti oso ripetere questa domanda: “Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?”» (60).

Un impegno che scaturisce dalla fede cristiana

Infine il Papa ricorda che le motivazioni di questo impegno scaturiscono dalla fede cristiana, incoraggiando «i fratelli e le sorelle di altre religioni a fare lo stesso» (61). «La visione giudaico-cristiana del mondo sostiene il valore peculiare e centrale dell’essere umano in mezzo al meraviglioso concerto di tutti gli esseri». «Noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile» (67). «Questo non è un prodotto della nostra volontà, ha un’altra origine che si trova alla radice del nostro essere, perché Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda» (68). Ciò che conta, scrive Francesco è ricordare che «non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali, senza una maturazione del modo di vivere e delle convinzioni sociali, e non ci sono cambiamenti culturali senza cambiamenti nelle persone» (70). «Gli sforzi delle famiglie per inquinare meno, ridurre gli sprechi, consumare in modo oculato, stanno creando una nuova cultura. Il semplice fatto di cambiare le abitudini personali, familiari e comunitarie» contribuisce «a realizzare grandi processi di trasformazione che operano dal profondo della società» (71). Il Pontefice conclude la sua esortazione ricordando che «le emissioni pro capite negli Stati Uniti sono circa il doppio di quelle di un abitante della Cina e circa sette volte maggiori rispetto alla media dei Paesi più poveri». E afferma che «un cambiamento diffuso dello stile di vita irresponsabile legato al modello occidentale avrebbe un impatto significativo a lungo termine. Così, con le indispensabili decisioni politiche, saremmo sulla strada della cura reciproca» (72).