Valorizza: il progetto sperimentale per la valutazione dei docenti

PREMIARE IL MERITO SI PUO’

L’avvio del sistema di valutazione in Italia come fattore di miglioramento e di sviluppo” è il convegno organizzato a Roma il 7 dicembre 2011 dal MIUR con la partecipazione dell’OCSE-CERI, della Fondazione per la Scuola e dell’Associazione TreeLLLe.

 

In questa occasione è stata presentata la ricerca di Fondazione per la Scuola e Associazione TreeLLLe sulla sperimentazione del MIUR per premiare i docenti che si distinguono per un generale apprezzamento all’interno di ogni scuola (vedi Sintesi del Rapporto).

La scuola italiana ha bisogno di un sistema nazionale di valutazione che comprenda la valutazione degli apprendimenti, la valutazione dell’efficacia delle singole scuole e la valutazione della professionalità dei dirigenti e degli insegnanti.
Le recenti raccomandazioni dell’Unione Europea in merito alla valorizzazione del capitale umano e alla necessità di un’adeguata valutazione del sistema scuola ci chiamano a una costante riflessione sul tema della valutazione.
Al fine di individuare le linee strategiche per un sistema nazionale di valutazione e di miglioramento della qualità dell’istruzione (vedi legge 10/2011 e 98/2011), il MIUR nel 2011 ha avviato due sperimentazioni: “Valorizza”, per premiare i docenti che si distinguono per un generale apprezzamento all’interno della scuola, e “VSQ”, valutazione per lo sviluppo della qualità delle scuole.
In tale direzione si intende procedere, raccogliendo la sfida della valorizzazione del capitale umano e rispondendo alle precise istanze della Commissione Europea mediante l’implementazione dei percorsi sperimentali avviati.

La Fondazione per la Scuola e l’Associazione TreeLLLe, come centri di ricerca indipendenti, sono stati indicati dal MIUR – attraverso un apposito Protocollo – di elaborare un rapporto di ricerca sulla sperimentazione-pilota “Valorizza” del MIUR.
Nel rapporto di ricerca le due Fondazioni illustrano (con l’intervento dei loro esperti) i principali risultati verificati, le osservazioni critiche e costruttive raccolte dalle scuole coinvolte e formulano alcuni suggerimenti in vista di un possibile futuro sviluppo di “Valorizza”.

 

Valorizza: presentata la prima sperimentazione per la premialità nelle scuole
Portata a termine dal Miur una delle due sperimentazioni sulla meritocrazia nella scuola

 

Il ministro Gelmini l’anno scorso ha lanciato, tra mille polemiche, due progetti di sperimentazione della premialità nelle scuole mediante forme di valutazione del merito: il merito e la qualità delle scuole, il merito e la qualità dei docenti con conseguente riconoscimento di premi sotto forma di risorse finanziarie.

Oggi a Roma, davanti al ministro Profumo, è stato presentato il progetto “Valorizza” per la valutazione e la premialità degli insegnanti.

L’altro progetto sperimentale VQS, riguardante un’ottantina di scuole, è tuttora in corso in quanto previsto per una durata pluriennale e verrà presentato al termine della presentazione.

“Valorizza” ha coinvolto i docenti di 33 istituzioni di vario ordine e grado.

Il Miur ha affidato all’Associazione TreLLLe e alla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo l’assistenza e la valutazione del progetto “Valorizza”.

Obiettivo del progetto era quello di identificare e premiare gli insegnanti di ogni scuola che godono presso tutti di una reputazione professionale.

Primo obiettivo della sperimentazione “Valorizza” è “evitare lo scoraggiamento dei suoi docenti migliori, quelli che negli anni recenti hanno contribuito maggiormente a tenerla in piedi e a farla funzionare pur tra mille difficoltà”.

Altro obiettivo indiretto del progetto è quello di rassicurare i giovani che oggi non guardano alla scuola come prospettiva di lavoro con conseguente scelte alternative occupazionali per i migliori laureati. A questi giovani è necessario dare il messaggio che “anche nel mondo dell’istruzione, per i meritevoli, ci sono attraenti prospettive retributive, di carriera e di partecipazione al governo della scuola”.

Dal Rapporto sul progetto “Valorizza”, disponibile sui siti www.fondazionescuola.it e www.treelle.org emerge un sostanziale successo della sperimentazione con convergenza di valutazione positiva dei docenti eccellenti da parte dei colleghi, delle famiglie e degli studenti.




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Il progetto Valorizza confermato anche per quest’anno
La premialità docenti continua la sua strada sperimentale

 

Si chiude ma non va agli archivi la prima sperimentazione sulla premialità dei docenti.

“Valorizza”, il progetto sperimentale per la valutazione dei docenti si è concluso con la presentazione degli esiti finali a Roma alla presenza del ministro il 7 dicembre.

Nato un anno fa tra polemiche e mille difficoltà, soprattutto a causa delle pregiudiziali ideologiche e politiche nei confronti dell’ex-ministro Gelmini, è arrivato in porto grazie soprattutto alla tenacia del capo dipartimento del Miur, Giovanni Biondi.

Nonostante i diversi apprezzamenti al progetto espressi nel corso del convegno di presentazione, “Valorizza” non ha, però, ancora raggiunto la maggiore età e un convincente livello di qualità e di esportabilità, tanto che il Miur ha deciso di potenziarlo e replicarlo anche per quest’anno scolastico, accogliendo in tal modo una raccomandazione della Fondazione Treelle che, insieme alla Fondazione per la scuola Compagnia San Paolo, ha accompagnato la sperimentazione.

L’adesione al progetto da parte delle scuole sarà assolutamente volontaria.

Cadute, forse, le pregiudiziali, resta un dubbio di fondo che anche la responsabile scuola del PD, Francesca Puglisi, ha espresso a margine del convegno: è valida una valutazione per la premialità degli insegnanti basata soltanto sulla loro reputazione professionale?

Dubbi in merito sono stati espressi nel corso del convengo dal direttore Ceri, Ocse, Dirk Van Damme che ha lasciato intendere che la valutazione, oltre che basarsi sulla reputazione del docente (misurata dai colleghi, dalle famiglie e dagli studenti), potrebbe tener conto anche di requisiti oggettivi professionali individuati a livello generale, necessari all’innalzamento della qualità del sistema scolastico italiano e all’innovazione didattica.




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III Domenica di Avvento (Anno A)

III DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 61,1-2.10-11

 

Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore. Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli. Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti.

v In questo brano sono congiunti due frammenti del c. 61: la vocazione del profeta e la sua missione (vv. 1-2); un canto di gioia al Signore elevato dal profeta a nome di Sion (vv. 10-11). L’epoca di questa profezia è quella del fervore religioso degli anni dopo l’esilio (538 a. C.) e della ricostruzione del tempio (520 a. C.).

Il profeta riconosce che il protagonista nella sua vita è stato lo spirito del Signore. Il dono dello Spirito, ossia della sua forza creatrice e illuminante, per lui è stato come una «unzione» che lo consacra tutto al Signore.

vv. 1-2. La missione del profeta è specificata da alcuni momenti che sono quelli che caratterizzano l’anno del giubileo, chiamato nel nostro testo: «anno di misericordia». La prima fase del giubileo è l’annuncio di una Buona Notizia ai poveri, a coloro, cioè, che hanno come unica sicurezza non il potere politico ma il Signore. Le altre fasi sono effetto della forza di questa parola. Essa ha il potere di sanare ferite profonde, «i cuori spezzati», nella comunità, che rischia di perdere la propria identità, e inoltre ha la forza di rompere le catene che tengono schiavi dei fratelli: una schiavitù in senso fisico, ma anche quella più profonda causata dalla paura della morte. Altro effetto della parola è la scarcerazione dei prigionieri: la comunità di Israele era tornata dall’esilio, ma correva sempre il pericolo della depressione e di continuare a portare il muro della sua prigione nel cuore.

vv. 10-11. Il profeta s’identifica con Sion, la sposa del Signore, e ne descrive la gioia mediante immagini che richiamano la liturgia nuziale (vesti, manto, diadema, gioielli) e metafore che richiamano la terra feconda (semi, vegetazione, giardino). Il giubileo sarà un anno in cui l’uomo sperimenta l’amore misericordioso del Signore, la sua «giustizia». Quest’esperienza salvifica si esprimerà nella lode davanti a tutti i popoli.

 

Seconda lettura: 1 Tessalonicesi 5,16-24

Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.  Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male. Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!

 

v Questa è la prima lettera che Paolo scrive. È indirizzata ad una piccola comunità che l’apostolo aveva catechizzato in poco tempo. Ora continua la sua catechesi per scritto.

Qual è l’atteggiamento interiore di una comunità cristiana in mezzo ai pagani? Innanzi tutto la gioia che nasce da un culto ininterrotto. È lo Spirito che dona la forza di trasformare la vita terrena del cristiano in un autentico culto a Dio. La sua preghiera e il suo ringraziamento sono una corrente che fluisce continuamente.

Tutta la vita cristiana è segnata dalla presenza dello Spirito, perciò Paolo esorta: «non spegnete lo Spirito». La comunità non si opponga, per durezza di cuore o per immoralità, ai diversi carismi con cui lo Spirito la favorisce. Sarà una comunità ricca di discernimento: «vagliate ogni cosa».

L’opera di santificazione non è conclusa con il battesimo. Dio deve completare quest’opera già iniziata. È una santificazione sempre insidiata, per questo Dio deve conservarla: «si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo». La fiducia del cristiano non sta nelle proprie forze ma in «colui che vi chiama» continuamente al suo Regno: egli è fedele e condurrà a compimento ciò che ha incominciato.

Vangelo: Giovanni 1,6-8.19-28

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia».  Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».  Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

 

Il Vangelo in immagini

 

 

Esegesi


Il testo mette insieme due parti ben distinte: i vv. 6-8 presi dal prologo e i vv. 19-28 dal primo dei tre giorni in cui Giovanni dà testimonianza a Gesù.

L’evangelista incomincia a parlare di Giovanni Battista, che ha preceduto di poco la missione di Gesù. Nelle discussioni nelle comunità cristiane dopo la pasqua non si era spesso d’accordo sul compito affidato da Dio al Battista. L’evangelista chiarisce che il Battista ha avuto la missione di «dare testimonianza alla luce» (v. 7). Egli non era la «luce». Solo Gesù è la luce, quella vera. Egli aveva il compito di portare alla fede in Gesù.

I vv. 19-34 parlano della testimonianza del Battista dapprima negativa e indiretta (vv. 19-28), poi positiva in riferimento all’identità e alla missione di Gesù. Egli parla ad una delegazione di sacerdoti e di leviti inviata dai Giudei, cioè al gruppo ostile, che non crede a Gesù, e nel v. 24 entrano in scena anche i farisei: si tratta quindi una testimonianza ufficiale.

Il Battista inizia confessando di non essere né il Cristo, né Elia, né il profeta: tre espressioni di attesa messianica (vv. 19-23). Il Cristo è il Messia; Elia era atteso prima del giorno del Signore; il profeta era aspettato come il nuovo Mosè che avrebbe rinnovato i prodigi dell’esodo (cf. Dt 18,15-18). Con una triplice negazione Giovanni Battista esclude chiaramente di essere colui che il popolo attendeva.

Nel v. 23 egli risponde positivamente e applica a se stesso il testo di Is 40,3: «voce di uno che grida nel deserto». Non era lui la Parola, ma solo una «voce», che doveva gridare per preparare la via al Signore che viene.

I farisei allora gli fanno una domanda sulla sua attività di battezzatore. Il Battista declassa il suo battesimo: «Io battezzo nell’acqua» (v. 26). Egli si sente solo un precursore di uno che è già presente, e che è più importante, ma che i farisei non conoscono.

Il brano si conclude ricordando il luogo della testimonianza di Giovanni: «Betania, al di là del Giordano» (v. 28).

 

Meditazione


Nella liturgia della Parola di questa III domenica di Avvento, un posto particolare è riservato ancora alla testimonianza del Precursore, colui che è chiamato a dare testimonianza alla luce vera che illumina ogni uomo, il Cristo, «perché tutti credano per mezzo di lui» (cfr. Gv 1,7). Ma l’approssimarsi della venuta del Signore offre, a questa domenica di Avvento, una coloritura particolare: la gioia, tema tradizionale nella maggior parte delle antiche liturgie occidentali. Una orazione dell’antica liturgia mozarabica per questa domenica così invita a pregare: «Signore Gesù, che porti la pace in mezzo al turbamento… fa che sempre, in composta serenità, attendiamo la tua venuta, o vigilante Amico, o Protettore, o unico Elargitore della pace». E l’invito alla gioia risuona nel testo di Isaia, come risposta al lieto annuncio di liberazione: «Io gioisco pienamente nel Signore… perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza» (Is 61, 0). Ma anche l’apostolo Paolo, nel testo proposto come seconda lettura, esortando a mantenersi «irreprensibili per la venuta del Signore», invita i credenti a «stare sempre lieti… in ogni cosa rendendo grazie» (1Ts 5,16).

L’autore del quarto vangelo invece ci introduce alla testimonianza del Precursore. Dopo aver richiamato alcuni versetti del prologo, il testo della liturgia inizia con Gv 1,19: «Questa è la testimonianza di Giovanni…». Tutta l’attenzione dell’evangelista è dunque concentrata sul testimone e sulla qualità della sua testimonianza. Ma sorprendente è il modo con cui viene presentata questa testimonianza. Veramente nel quarto vangelo al Battista si addice il testo di Isaia: essere voce di un annuncio che orienta e attrae verso quella Parola di cui il testimone afferma la presenza in mezzo agli uomini e di cui attesta la verità. La domanda posta a Giovanni riguarda la sua identità: «Tu chi sei?… Sei tu il profeta?… Che cosa dici di te stesso?» (cfr. 1,19-22). Ma Giovanni non è il testimone di se stesso. E d’altra parte, paradossalmente, il Battista afferma la sua identità attraverso una negazione, quasi scomparendo per lasciare lo spazio a Colui sul quale deve essere concentrata la ricerca dell’uomo (Gesù domanderà ai due discepoli di Giovanni che lo seguivano: «Chi cercate?»: Gv 1,38). Il Precursore, in qualche modo, ritiene solo curiosità una domanda che riguarda la sua identità. La vera domanda è altrove: chi è Gesù? Solo se si inizia un cammino a partire da questa domanda, che ciascuno deve porsi nella verità, si può giungere alla stessa esperienza del Battista e cioè conoscere Gesù per testimoniarlo. Ed è per questo che il quarto vangelo concentra la nostra attenzione sul verbo testimoniare e attorno a esso fa ruotare tutta la figura di Giovanni.

In Gv 1 ci vengono offerti molti elementi che caratterizzano la testimonianza del Battista. Ne evidenziamo solo alcuni. Anzitutto, come abbiamo già sottolineato, Giovanni è pienamente consapevole che la sua intera vita, e dunque la sua testimonianza, sono totalmente in relazione al Cristo. Di fronte a coloro che lo interrogavano sulla sua identità, Giovanni insiste nel dire chi non è. La sua risposta appare come uno sfondo scuro che crea un contrasto e permette alla luce di manifestarsi: egli è solo «una lampada che arde e risplende» (Gv 5,35), non la luce; è «l’amico dello sposo» (3,29), non lo sposo; è il testimone della verità, non la Verità; è la voce, non la Parola. Certamente una vita che sembra fondarsi su di una negazione ci lascia attoniti; ma è una negazione (una kenosis) necessaria per fare spazio a Gesù. In questa paradossale perdita di identità, Giovanni ritrova se stesso ed è per questo che la sua gioia è piena.

Il Battista esprime, inoltre, la sua relazione con Gesù con un stupenda immagine la quale, nello stesso tempo, rivela un tratto del volto di Cristo, caro al quarto vangelo. Giovanni dice: «A Lui, io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (1,27). Questo gesto simbolico era previsto nella cosiddetta legge del levirato (Dt 25,5-10) e avveniva quando un uomo rinunciava al diritto di riscatto verso la propria cognata, rimasta vedova, per dare una discendenza al fratello morto. Giovanni è consapevole di non poter pretendere di togliere il diritto di matrimonio al legittimo sposo, cioè al Messia, sottomettendolo al rito previsto dalla legge. Ma il gesto simbolico di cui il Precursore non si sente degno è ugualmente il gesto umile dello schiavo. E Giovanni sente di non poter neppure assumersi questo ruolo, perché solo Gesù è il servo del Signore, in quanto è la realizzazione di quel misterioso servo che si è addossato le nostre colpe e che come agnello muto, condotto al macello, pazientemente soffre (cfr. Is 53,7). Ecco perché il Battista indicherà Gesù come l’agnello di Dio (cfr. Gv 1,36). Gesù è lo Sposo; Gesù è il Servo. Due immagini che ritorneranno, nel quarto vangelo, al capitolo 19, nella scena della crocifissione. Giovanni il testimone aveva già visto da lontano il volto pasquale di Cristo e nella oscurità l’aveva testimoniato. Ora alla fine, ai piedi della croce, c’è un altro testimone, il discepolo amato, che vede e che rende testimonianza affinché noi crediamo (19,35). E il discepolo amato è colui che rimane, con la sua testimonianza, finché il Signore Gesù ritorna. In questo discepolo trova spazio la testimonianza della Chiesa, lungo la storia, la nostra personale testimonianza. Tuttavia è il Battista a indicarci, ancora oggi, lo stile di questa testimonianza attraverso una vita che si definisce a partire da Cristo e attraverso una testimonianza che non è preoccupata di se stessa. Il testimone autentico è colui che vive riconoscendo e vedendo Colui che sta in mezzo a noi, e per questo la sua testimonianza orienta. La vita di Giovanni è stata veramente nascosta come quella del seme caduto in terra. Ma il frutto di una testimonianza umile e nascosta resta sempre la gioia; colui che ha seminato, si vede ammesso alla gioia del mietitore. Ancora nel ventre della madre, Giovanni sussultò di gioia (cfr. Lc 1,44). Alla fine della sua vita il testimone potrà dire: «L’amico dello sposo… esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere; io, invece, diminuire» (Gv 3,29-30).

 

 

Preghiere e racconti


Il Vangelo della gioia

«Il Signore è fedele per sempre

rende giustizia agli oppressi,

da il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti,

il Signore protegge lo straniero».

(Sal 145)

 

C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.

Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.

«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5). Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.

Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia. Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.

 

Umiltà

Qualche finezza etimologica non guasta. E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.

II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile. Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra. E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale. Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.

Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole?

E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale?

E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato?

E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).

Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore?

Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?

 

Fedeltà

La gioia cristiana deriva da due fontane. La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse. Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro. Il nostro, insomma, è un Dio di parola. «Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.

«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».

È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore. La gioia non tarderà ad irrompere.

La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».

Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.

A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.

 

Utopia

«Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10). È la più osata battuta di Isaia. La più incredibile.

Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.

Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra?

O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze?

O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»?

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72)

 

Questa è la mia gioia

Questa è la mia gioia: attendere e guardare

il bordo della strada, dove l’ombra

insegue la luce, e la pioggia cade

nella vigilia dell’estate.

 

Messaggeri mi portano novelle

di cieli sconosciuti,

mi salutano

e s’affrettano lungo la via.

Il mio cuore è lieto, e soave

è il respiro della brezza che passa.

 

Dall’alba all’imbrunire

siedo qui davanti alla mia porta,

e so che all’improvviso arriverà

il momento in cui potrò vedere.

 

E intanto sorrido

e tutto solo canto.

E intanto l’aria si riempie

del profumo della promessa.

 

(R. TAGORE, Poesie. Gitanjali, Roma, Newton, 1988, 83.

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

Nella prossima Giornata Mondiale della Gioventù il papa amministra il sacramento del perdono.

 

La Giornata Mondiale della Gioventù, si sa, non è un’invenzione di Benedetto XVI, ma del suo predecessore. Papa Joseph Ratzinger, però, vi ha introdotto due novità di rilievo.

La prima a Colonia, nell’estate del 2005. Al culmine della veglia notturna papa Benedetto si inginocchiò davanti all’ostia consacrata. A lungo e in silenzio. Con centinaia di migliaia di giovani toccati da quel gesto adorante.

Da allora, con papa Benedetto, l’adorazione eucaristica silenziosa è divenuta una costante non solo delle Giornate Mondiali della Gioventù, ma anche di altri incontri di massa, ad esempio la veglia nell’Hyde Park di Londra, il 18 settembre del 2010.

La seconda novità entrerà in campo invece a Madrid, la mattina del prossimo 20 agosto, nei Jardines del Buen Retiro. Nella XXVI Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà nella capitale della Spagna, il papa amministrerà in pubblico il sacramento della confessione, per un’ora, prima di celebrare la messa nella cattedrale.

Per l’esattezza, le confessioni fanno parte del programma delle Giornate Mondiali della Gioventù a partire dalla sua edizione di Roma del 2000, quando il Circo Massimo diventò per molte ore il più grande confessionale a cielo aperto che si ricordi.

Mai però finora il papa in persona ha confessato dei giovani durante una Giornata Mondiale della Gioventù.

Giovanni Paolo II usava scendere nel confessionale della basilica di San Pietro una volta all’anno, il mercoledì santo, per un paio d’ore.

Benedetto XVI ha compiuto questo gesto due sole volte, finora: in due celebrazioni penitenziali con i giovani della diocesi di Roma, nella basilica di San Pietro, il giovedì prima della Domenica delle Palme, il 29 marzo 2007 e il 13 marzo 2008.

Ma che il sacramento della confessione sia al centro della sua cura pastorale è fuori dubbio.

Ne ha parlato numerose volte. Soprattutto ai sacerdoti. Per l’Anno Sacerdotale da lui indetto tra il 2009 e il 2010 ha proposto come modello il Curato d’Ars, un santo che passava nel confessionale ogni giorno una decina di ore, con penitenti che accorrevano a lui, umile parroco di campagna, dall’intera Francia.

Per citare solo due suoi richiami, Benedetto XVI ha dedicato interamente al sacramento della confessione il discorso che ha rivolto l’11 marzo 2010 alla Penitenzeria Apostolica:

> “Cari amici…”

E da ultimo, ha cominciato proprio parlando del sacramento del perdono l’omelia della festa dei Santi Pietro e Paolo di quest’anno, che coincideva con il sessantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale:

“Cari fratelli e sorelle, ‘Non vi chiamo più servi ma amici’ (cfr. Gv 15, 15). A sessant’anni dal giorno della mia ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande arcivescovo, il cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati. ‘Non più servi ma amici’: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola cerimoniale, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che egli conosce in modo del tutto particolare e che così lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo ‘Io’ una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua passione, egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. E mediante il mandato di perdonare egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: ‘Non più servi ma amici’. Egli mi affida le parole della consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. ‘Non siete più servi ma amici’: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà”. […]

All’intensità con cui Benedetto XVI promuove una rinascita della confessione non è finora corrisposta una sensibile messa in pratica dei suoi appelli, da parte di vescovi e sacerdoti.

Il tema è stato ampiamente trascurato anche dai media.

Il gesto pubblico che Benedetto XVI compirà a Madrid il prossimo 20 agosto, confessando durante la Giornata Mondiale della Gioventù, richiamerà l’attenzione su questo cruciale deficit della pratica cristiana d’oggi?

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Il testo integrale dell’omelia di Benedetto XVI del 29 giugno 2011, nella festa dei santi Pietro e Paolo:

> “Non vi chiamo più servi ma amici…”

Il fondamento religioso del neoconservatorismo

Il pensiero neoconservatore ha cambiato la politica americana nel corso degli ultimi 50 anni, infondendo sangue fresco nelle vene del Partito repubblicano specialmente a partire dall’amministrazione Reagan. Un volume pubblicato di recente negli Stati Uniti raccoglie 50 saggi editi e inediti del fondatore e padre intellettuale del neoconservativismo, Irving Kristol: The Neoconservative Persuasion. Selected Essays, 1942-2009 (Basic Books, 2011, 390 pp.). Curato dalla vedova di Kristol, la storica Gertrude Himmelfarb, e prefato dal figlio, William Kristol, il libro è molto più di un affare di famiglia, considerando l’impronta che ha lasciato non solo sulla politica americana, ma anche sulla percezione dell’America nel mondo, la scuola neocon (diventata col tempo molto di più di una “persuasione”, analgesica caratterizzazione datane da Kristol).
Una delle più celebri definizioni di “neoconservatore”, che si deve allo stesso Irving Kristol, recita: «Un neoconservatore è un liberal che è stato assalito dalla realtà» (a liberal who has been mugged by reality). Il libro aiuta a comprendere meglio la “persuasione neoconservatrice” al di là della battuta, e fornisce alcuni importanti elementi per comprendere quella equazione, specialmente rispetto ai termini “liberal” e “realtà”.
Circa il termine “realtà”, una delle accuse tipiche rivolte alla mentalità neocon è quella di trasformismo ideologico: mai veramente affrancatasi da un atteggiamento eversivo, è una mentalità che scaturisce da una visione della realtà sociale e politica da rivoluzionare, non da riformare. Il primo saggio del volume è del 1942 e reca tutti i segni del trotskismo del giovane Kristol – trotskista tanto da portare un nom de guerre, come era tipico dei trotskisti dell’epoca. Al collasso
del capitalismo dopo il 1929, il giovane Kristol aveva reagito con il rigetto del conservatorismo, in un paese in cui non c’era molto da conservare. Ma il giovane Kristol era andato molto oltre, tanto da condannare la guerra difensiva contro il Giappone come «una crociata reazionaria »: potenza dell’ideologia, di cui i neocon avrebbero dato prova (in direzione contraria) nei decenni a venire.
Per comprendere il secondo termine dell’equazione, “liberal”, si deve arrivare alla vera svolta culturale, alla fine degli anni Sessanta, quando la scuola neoconservatrice nasce in reazione alla “controcultura”, diventando in sostanza una “anti-controcultura”.
È in questo periodo che i dogmi neoconservatori nascono dal punto di vista filosofico e culturale, cristallizzati col tempo e definiti da Kristol nella conclusione ad un saggio degli anni Ottanta: Jane Austen è meglio di Proust e Joyce, Raffaello meglio di Picasso, Aristotele meglio di Marx, Tocqueville meglio di Max Weber, e via classicizzando (p. 130).
Ben lungi dall’essere un pensatore sistematico, Kristol era meglio noto come attivo organizzatore, polemista e fondatore di riviste (alcune delle quali dalla vita brevissima). Ma l’orma lasciata dalla sua vis polemica non si lascia cancellare facilmente dall’America contemporanea, che dai tempi della teorizzazione del neoconservatorismo ad oggi è diventata molto più polarizzata attorno alla percezione dei due fattori “realtà” e “liberalismo”.
Per quanto refrattario alla teorizzazione politica, un’interessante lista di dogmi politici arriva da Kristol nel 2003, cioè molto dopo l’infusione della linfa neocon nelle sorgenti del Partito repubblicano di Reagan e Bush, in un saggio  intitolato “The Neoconservative Persuasion”: aspirazione alla crescita economica, moderata accettazione dello Stato moderno ereditato da Franklin Delano Roosevelt, sano terrore del declino morale e culturale dell’America, nessuna
particolare dottrina in politica estera, tranne una ferma convinzione della necessità che la potenza americana giochi un ruolo sullo scacchiere mondiale. A giudicare dall’influsso della scuola neocon sulla politica americana e sul Partito repubblicano, questa definizione appare troppo modesta e autoassolutoria, se si pescano alcune “perle” ben più radicali del moderatismo del 2003. In un saggio del 1986-1987 sulla “agenda nascosta dei diritti umani” Kristol accusava gli attivisti di criptocomunismo, agenti dedicatisi ad indebolire l’America. In un saggio del 1997 accusava la
scuola socialdemocratica di aver fondato un’idea di Stato e di welfare state basato su una concezione ingenuamente ottimista della persona umana, il che aveva condotto «alla più triste delle tragedie politiche del nostro tragico secolo» (p.98).
Ci sono alcune intuizioni che fanno di Kristol un acuto interprete dell’anima americana. Nel 1996 Kristol notava la differenza tra il conservativismo europeo e quello americano, che si distingue per essere un patriottismo su base religiosa, tipica di un paese come gli Stati Uniti, «una nazione basata su un credo» (p. 182). Due anni prima, in piena era Clinton, Kristol notava la potenza del sentimento religioso in America, per il cui revival «i conservatori e il Partito repubblicano non sono ancora preparati, mentre il Partito democratico è quasi totalmente disinteressato» (p. 295). È questo uno dei motivi di interesse del libro per un lettore europeo, vale a dire la comprensione del successo culturale del movimento neocon in America: mentre il conservativismo europeo può funzionare senza Dio, il  neoconservativismo americano ha bisogno di un fondamento religioso.
In questo sta la differenza non solo tra il conservativismo dei due continenti, ma tra i due continenti in generale: una lezione buona per quanti vogliono comprendere l’America, ma anche per quanti vorrebbero importare facilmente dall’America soluzioni politiche e matrici ideologiche. A meno di non volersi liberare di quel welfare state che nel 1997 Kristol aveva giudicato frutto di una profonda crisi morale (prima che finanziaria), tanto da accusarlo di aver distrutto «l’istituzione sociale più fondamentale, la famiglia».

La resistibile ascesa neoconservatrice
di Massimo Faggioli
in “Europa” del 9 marzo 2011

 

 

 

 

 

 

 

 

Irving Kristol: The Neoconservative Persuasion. Selected Essays, 1942-2009

 

 

 

 

 

 

 

 

“Á annag veg – Either Way”


il film di Gunnar Sigurdsson si impone al Torinio Film Festival

 

Per vincere bastano due attori

 

Il Torino Film Festival non ha regalato grandi sussulti. Anzi, anche facendo la tara alla scarsa esperienza di autori dalla carriera acerba, e spesso soltanto all’opera prima, si può concludere che la media della qualità in campo è stata piuttosto modesta.
A saltare all’occhio, in particolare, è stata la diffusa assenza di un lavoro di scrittura anche solo lontanamente solido. Quasi tutte le opere viste si basano infatti su una linea narrativa e un quadro drammaturgico appena accennato, e si affidano per il resto all’abilità espressiva del regista che fra l’altro si rintana spesso nei moduli del cinema documentario. Nella maggior parte dei casi il risultato è un lavoro che assomiglia più a un esercizio di regia, a una tesina di fine corso – e nel novero ce n’erano effettivamente un paio – che a un film organico e compiuto.
Non a caso, sfuggono alla sensazione di un lavoro irrisolto quei pochi film che fanno proprio della mancanza di una struttura solida uno stile o addirittura un contenuto. A partire dal vincitore, l’islandese Á annag veg – Either Way di Gunnar Sigurdsson, storia di un’amicizia sul lavoro, sempre in bilico sull’assurdo, per la quale non a caso si sono fatti i nomi di Beckett e Kaurismäki. Se i modelli sono ancora lontani, l’esordiente regista colpisce già per la consapevolezza del proprio stile, tanto rigoroso da far dimenticare che in scena ci sono solo due attori. Ma è il caso anche del francese La guerre est déclarée di Valérie Donzelli, presentato fuori concorso. La storia di due genitori alle prese con una grave malattia del figlio nato da poco, sfrutta quello che è poco più d’un assunto narrativo per rispolverare gli stilemi della Nouvelle vague, e di un cinema che, liberato in gran parte dalle briglie letterarie, si regga il più possibile sui suoi mezzi espressivi peculiari. I momenti di astrattezza godardiana risultano un po’ rancidi, e rischiano di inquinare il film, ma in generale alla regista riesce la cosa più difficile, ossia raccontare con levità un dramma toccante, giocando sulla dicotomia fra morte e vita, in ciò memore piuttosto della lezione di Agnés Varda e del suo Cléo dalle nove alle cinque (1962). Inoltre il film ha il grande merito di non ricattare il pubblico, mostrando già nelle prime immagini come la guerra dichiarata alla malattia probabilmente è già a buon punto. Sempre fuori concorso, lo statunitense Bad Posture di Malcolm Murray fa invece dell’assenza di contenuti il proprio argomento. Il racconto di due amici senza arte né parte che sprecano le loro giornate fra graffiti, bevute e piccoli furti nemmeno troppo convinti, diventa infatti alla lunga un film sul nichilismo, che supera il rischio di diventare a sua volta nichilista in virtù di uno stile insospettabilmente rigoroso e di brevi, controllatissimi squarci lirici attraverso cui filtra uno sguardo dolente e nient’affatto cinico.
Deludono invece i titoli che si sono spartiti ex-aequo il premio speciale della giuria: l’arabo Tayeb, Khalas, Yalla di Rania Attieh e Daniel Garcia, e soprattutto il francese 17 filles di Delphine e Muriel Coulin, il film più sopravvalutato del festival. La storia – ispirata a un fatto reale – di diciassette compagne di scuola che decidono di rimanere incinte contemporaneamente poteva essere lo spunto per mille riflessioni, invece qui non si va mai oltre la fenomenologia adolescenziale stravista altrove. Se al posto della gravidanza le protagoniste fossero state coinvolte in qualsiasi altro evento, il film non sarebbe cambiato di un fotogramma.
In questo contesto non esaltante, poi, si sono difesi i titoli italiani. Ulidi piccola mia di Mateo Zoni è una microscopica produzione in stimolante bilico fra documentario e fiction, ambientata in una casa-famiglia di ragazze dal passato difficile. Uno di quei film dove la felice scelta degli elementi messi in scena fa passare in secondo piano la mancanza di un progetto strettamente creativo. Mentre con Sette opere di misericordia, fuori concorso, i fratelli Gianluca e Massimiliano De Serio lasciano intravedere ottime capacità espressive. Nonostante la loro storia fra sottoproletariato e simbologia cristiana si appesantisca a tratti di programmatici “pasolinismi”.
Il festival in ogni caso si dimostra interessante quando si mantiene sui binari di questo cinema strettamente d’autore e indipendente, anche se spesso acerbo e a volte compiaciuto. Un po’ sulla scia, insomma, del Sundance festival americano. Perché quando invece si inoltra verso i territori del cinema di genere, o si avvicina alla produzione mainstream, rischia di diventare del tutto insulso.
Fanno parte del primo gruppo un paio di film molto attesi che non hanno mancato di entusiasmare qualcuno. Attack the Block di Joe Cornish, una produzione franco-inglese, è ormai l’ennesima alchimia fra commedia e fanta-horror, ma si risolve presto in una pallida e noiosa imitazione di prototipi come L’alba dei morti dementi (2004), pellicola firmata da quell’Edgar Wright che guarda caso con Cornish ha contribuito recentemente a scrivere la sceneggiatura del Tintin spielberghiano. Mentre l’indonesiano The Raid di Gareth Huw Evans è una ripetitiva parata di arti marziali, ancorché finemente coreografate. Se la cava meglio Jaume Balaguerò, nome interessante dell’horror spagnolo, col suo Mientras duermes.
Rientrano invece del tutto o in parte nel cinema hollywoodiano due film sportivi: Moneyball – L’arte di vincere di Bennett Miller con Brad Pitt e Win Win – mosse vincenti di Thomas McCarthy con Paul Giamatti. Morale edificante preconfezionata al servizio di lavori inappuntabili che però metaforicamente non travalicano di un centimetro gli angusti confini del campo da gioco. Mentre The Descendants di Alexander Payne con George Clooney è un prodotto degno di nota, ma fuori dal target del festival, perché firmato da un regista che è già un nome noto e collaudato della commedia grazie a titoli come A proposito di Schmidt (2002) e Sideways (2004). Nel complesso, comunque, con le sue tante anteprime mondiali, la sua direzione autorevole, la sua presidenza di giuria prestigiosa, il Festival di Torino continua a essere una finestra privilegiata da cui guardare da che parte sta andando il cinema. E uno specchio sicuramente credibile dello stato degli autori indipendenti. A deludere, semmai, a volte, è ciò che vi rimane riflesso.

di Emilio Ranzato

 

L’Osservatore Romano 5-6 dicembre 2011

Festa dell’Immacolata Concezione (Anno A)

IMMACOLATA CONCEZIONE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Gen 3,9-15.20

 

[Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».  L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.

 

v Poiché oggi è ammesso da tutti che i primi capitoli della Genesi non ci forniscono una cronaca di avvenimenti, ma contengono una professione di fede circa i rapporti dell’uomo e della sua storia con Dio, dobbiamo cercare di cogliere il messaggio religioso contenuto nella nostra lettura.

Essa contiene soprattutto l’annunzio di una prospettiva di salvezza per l’umanità rappresentata dalla prima coppia umana. L’annunzio è preceduto da un dialogo in cui Dio mette in evidenza l’effetto distruttore del peccato (la rottura del vincolo di dipendenza da Dio, suggerita dal serpente, che prometteva di far diventare gli uomini come Dio, se si fossero ribellati alle sue leggi): perdita del rapporto amicale con Dio, inizio della diffidenza reciproca tra l’uomo e la donna, ingresso della fatica e del dolore nella vita umana, necessità di lottare sempre contro l’insidia perenne del peccato.

L’annunzio apre la prospettiva che, nel futuro, il seme dell’uomo avrebbe sconfitto il seme del serpente. Il sentimento cristiano, guidato da una interpretazione libera di questo testo documentata dalla Volgata, ha capito che, in questa prospettiva di futura vittoria, un posto speciale spettava a Maria.

 

 

Seconda lettura: Ef 1,3-6.11-12

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.

 

v La nostra seconda lettura utilizza una parte della prosa lirica elevata a Dio in onore di Gesù Cristo, con cui si apre la lettera agli Efesini (1,3-14). Sulla sua scelta per questa liturgia ha forse pesato la presenza del termine immacolati, che ricorre nel v. 4.Il senso principale del brano è che Dio merita la nostra lode e il ringraziamento perché egli per primo ci ha ricolmati di ogni sorta di benedizioni valide per sempre, avendo suscitato per noi il suo Figlio Gesù Cristo, da noi riconosciuto come Signore. Più in particolare, Dio va lodato e ringraziato perché, mediante la persona di Gesù Cristo, noi siamo stati chiamati alla santità (cioè a essere santi e immacolati), con un decreto che precede la fondazione del mondo. Senza che ne avessimo alcun diritto naturale, per poter realizzare la nostra chiamata alla santità, Dio ci ha regalato l’adozione a suoi figli, per i meriti di Gesù Cristo. Tutto questo, già per se stesso, può essere inteso come un inno di lode che celebra l’attività salvifica di Dio. Da aggiungere è anche che, avendo posto in Cristo tutta la nostra speranza, sappiamo che erediteremo la totalità delle divine promesse. Come si vede, al centro della nostra lettura c’è che tutti noi cristiani siamo chiamati alla santità, cioè a essere santi e immacolati, a partecipare quindi al modello di esistenza che ha qualificato Maria santissima come immacolata.

 

Vangelo: Lc 1,26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

 

 

Il Vangelo in immagini

IMMACOLATA ANNO B

 

Esegesi

Tra i testi del Nuovo Testamento che ci parlano di Maria, la madre del Salvatore, il racconto dell’Annunciazione di Gesù è certamente il più ricco di teologia, sicché ad esso si è sempre ispirato lo speciale settore dell’approfondimento teologico che è detto mariologia. Cerchiamo di cogliere questa ricchezza, partendo dall’analisi esegetica dei singoli versetti.

Nei vv. 26-27, l’evangelista stabilisce un rapporto di netta continuità tra il già descritto annuncio della nascita del precursore (Lc l,5ss) e la scena che si accinge a descrivere: ogni singolo avvenimento della storia della salvezza si inquadra perfettamente in un disegno generale concepito e realizzato da Dio. In questo disegno si fronteggiano la grandezza insondabile di Dio, che manda come suo messaggero l’angelo Gabriele (un personaggio a cui nel libro di Daniele era stata affidata una missione riguardante gli avvenimenti messianici), e la piccolezza apparentemente insignificante di Nazareth di Galilea e di una oscura fanciulla che si chiama Maria, promessa sposa di un certo Giuseppe (solo in quest’ultimo personaggio c’è un barlume di riconosciuta nobiltà, perché discende dalla cosa di Davide).

Di Maria è qui sottolineato per ben due volte lo stato di verginità. Per Giuseppe è richiamata la sua appartenenza alla cosa di Davide, da cui doveva venire il Messia.

— Nel v. 28, il saluto dell’angelo, chàire, non è un semplice sinonimo del comune shalom (pace), ma sembra voglia evocare l’accenno alla gioia messianica a cui nei profeti è invitata la figlia di Sion (che significa la nazione ebraica), nell’imminenza dei tempi messianici (Sof 3.14; Gl 2,21.23; Zac 9.9). Il titolo kecharitoméne, con cui Maria è gratificata dall’angelo, non ha certamente il senso di un gentile appellativo (equivalente a una bella fanciulla!), ma sembra si voglia riferire alla missione che a lei Dio vuole affidare e si può ben tradurre: trasformata dal favore divino; la traduzione della Volgata, piena di grazia, rende giustizia alla densità teologica del vocabolo e ha indotto il popolo cristiano a trovare qui incluso un accenno alla verità dell’immacolata concezione. A quella stessa missione sembra debba riferirsi la frase il Signore è con tè; era questa infatti la formula con cui si dava incoraggiamento, nei libri dell’Antico Testamento, ai personaggi scelti da Dio per una qualche missione speciale (Isacco, in Gn 26,3.24; Giacobbe in Gn 28,15; Mosè, in Es 3,12; Gedeone, in Gdc 6,12; ecc.).

— Nel v. 29, il turbamento di Maria, diversamente da quanto è detto per Zaccaria in 1,12, non deriva dalla visione dell’angelo, ma dal senso delle sue parole: Maria dimostra così la sua iniziale consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di misterioso.

— Nei vv. 30-31, l’angelo, dopo averle rivolto un incoraggiamento, rivela a Maria la missione che Dio vuole affidarle: con parole che richiamano alla mente il testo di Is 7,14, le è detto che essa dovrà dare alla luce un figlio del quale Dio stesso ha già stabilito il nome. L’importanza di questo figlio è già oscuramente accennata nell’implicito riferimento al testo di Isaia e nel fatto che il suo nome è direttamente scelto da Dio.

— Nei vv. 32-33, è dichiarata apertamente la straordinaria identità del futuro figlio di Maria. Questo figlio è descritto con chiaro riferimento al testo di 2Sam 7,8-16: da lì sono presi i termini grande… figlio (di Dio) …cosa… regno (i Davide) …regno senza fine. Il figlio di Maria è qui qualificato come il Messia atteso dai Giudei, ma già il senso delle parole adoperate in ambiente giudaico sembra dilatarsi per accogliere la nuova prospettiva cristiana.

— I vv. 34-35 difficilmente potrebbero spiegarsi, se si intendessero come battute stenografiche di un dialogo tra l’angelo e Maria. Sono però chiarissimi nel trasmetterci il messaggio rivelato che il figlio di Maria è stato concepito verginalmente, cioè senza il contributo di un padre terreno, e che questo stesso figlio di Maria è propriamente figlio di Dio fin dalla sua origine, cioè non in conseguenza della sua elezione alla dignità messianica, ma, grazie alla potenza creatrice dello Spirito Santo, fin dal momento della sua prodigiosa concezione.

— Nei vv. 36-37, l’angelo conferma l’eccezionalità dell’avvenimento annunziato, fornendo un segno capace di renderlo credibile: rivela a Maria la notizia ancora sconosciuta da tutti, che la sterile Elisabetta è diventata feconda nella sua vecchiaia, a dimostrazione che nulla è impossibile a Dio.

— Nel v. 38, che conclude il racconto, l’evangelista ci fa capire che Maria ha pienamente inteso l’alta missione che le è stata affidata, al punto che mette sulle sue labbra parole evocanti alte personalità dell’Antica Alleanza (Abramo, Mosè, Davide, il misterioso Servo di JHWH), che avevano meritato il titolo onorifico di servi del Signore. Proclamandosi serva di Dio, Maria è ben lontana dall’esprimere una semplice rassegnazione a oscuri disegni divini, dichiara piuttosto di essere gioiosamente pronta a collaborare alla imminente salvezza del mondo portata dal suo figlio Gesù.

Dall’esame analitico dei singoli versetti emerge la conclusione che il racconto di Luca ha come scopo principale quello di rivelarci l’identità messianica del figlio di Maria, che però è anche, a titolo specialissimo, figlio di Dio sin dalla sua concezione. In secondo luogo, il racconto ci parla della missione affidata a Maria, sottolineando soprattutto due cose: che l’iniziativa di quanto dovrà accadere appartiene esclusivamente a Dio; che lo stesso Dio ha reso Maria idonea all’assolvimento del compito affidatele mediante la pienezza di grazia. In questa pienezza, il popolo cristiano ha sentito che doveva starci anche l’Immacolata Concezione.

 

Meditazione

La liturgia della Parola di questa festa ci consente di abbracciare in un solo sguardo il mistero della salvezza. Al centro delle letture c’è il testo tratto dalla lettera agli Efesini in cui Paolo medita quale sia il desiderio originario di Dio; la prima lettura, dalla Genesi, descrive la risposta umana, il peccato, che tuttavia non arresta il piano di Dio, ma lo trasforma in una promessa che attraversa la storia fino a compiersi nell’incarnazione del Figlio di Dio, come il racconto di Luca annuncia.

In Cristo il Padre «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi» (Ef 1,4-5). Adamo ed Eva non sanno accogliere questa gratuita iniziativa di Dio. In loro opera l’inganno della tentazione che li induce a ritenere di dover conquistare, in modo autonomo e autosufficiente, ciò che Dio intende dare loro gratuitamente: l’essere per lui figli santi e immacolati. Dopo il peccato Adamo ed Eva sono ancora tentati di percorrere la via dell’autonomia, senza affidarsi alla misericordia del Padre. Si nascondono e, riconoscendosi nudi, intrecciano foglie di fico per farne cinture (cfr. Gen 3,7). È Dio invece a intrecciare per loro una storia di salvezza, rivestendoli di tuniche di pelle (cfr. Gen 3,21) e promettendo loro che, nella lotta contro quel male che sempre insidia la vita umana, un figlio di donna, stirpe della sua stirpe, conseguirà la vittoria.

«Dove sei?», domanda Dio all’uomo peccatore. La risposta che Adamo non sa dare la darà Dio stesso nell’incarnazione del Figlio: siamo in lui, nel Cristo. Essere in Cristo è uno dei temi più cari e ricorrenti in Paolo ed emerge anche nel brano della lettera agli Efesini. «In lui» – l’apostolo lo ripete continuamente – Dio ci ha benedetti, ci ha scelti, ci ha reso eredi… e sempre «in lui» si fonda la nostra speranza e sale al Padre la nostra benedizione e la nostra lode alla sua gloria. Dove sei? Siamo in Cristo.

Tale è anche il segreto della vita di Maria, colei che si lascia totalmente rivestire dalla gratuità di Dio per dare carne a questa grazia che in lei si fa persona e assume un volto umano: «Colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Diversamente da Adamo ed Eva, che oppongono il loro progetto alla promessa di Dio, in Maria tutto è ascolto e recettività dell’agire divino. Si può rileggere il racconto di Luca facendo attenzione ai tre nomi con cui la vergine di Nàzaret viene chiamata. Il primo è quello con cui Gabriele la saluta: «piena di grazia», che traduce un’espressione greca più ricca di sfumature (kecharitoméne). Luca usa qui un participio perfetto di forma passiva. Un perfetto: in greco questo modo verbale indica un’azione passata che ha raggiunto la sua perfezione e perdura nel presente. Maria è stata e rimane oggetto del favore divino. Il participio è di forma passiva e ha come soggetto implicito Dio stesso: viene così posto l’accento sull’agire divino. Essere ricolma della grazia, prima che costituire una qualità di Maria, rivela l’atteggiarsi di Dio nei suoi confronti, il suo modo di guardarla e di incontrarla. Infine, il verbo indica una trasformazione. Non significa semplicemente guardare qualcuno con benevolenza, ma trasformare, in virtù di questo favore, l’oggetto del proprio sguardo, rendendolo amabile. Maria è l’amata da Dio e, in quanto amata, è totalmente rinnovata da questo amore. Il nome usato da Gabriele acquista così la sua pregnanza: da un lato sottolinea la gratuità dell’azione di Dio, dall’altro manifesta la recettività piena e cordiale da parte di Maria.

Solo dopo averla salutata con il nome che viene da Dio, Gabriele la chiama anche con il nome datele dagli uomini. La verità della vita di ciascuno di noi sta nel modo che Dio ha di guardarci e chiamarci. Il nome umano è Maria. Se confrontiamo questa scena con il precedente annuncio rivolto a Zaccaria (Lc 1,5-7.13) emerge una grande differenza. Di Maria non si dice nulla, ne della sua discendenza, ne delle sue qualità morali; nulla neppure di un suo desiderio di maternità. L’unica realtà ricordata è la sua verginità. Due volte, con insistenza, il testo afferma che Maria è vergine (vv. 27 e 28). Tale condizione segnala ancora una povertà: viene annunciata una gravidanza a una vergine, vale a dire a una persona che sembrerebbe del tutto impari rispetto al compito affidatele. Nello stesso tempo questa verginità sottolinea la radicale apertura e docilità di Maria verso l’agire di Dio. Tutto in lei è povertà che si apre ad accogliere la potenza di Colui al quale nulla è impossibile (cfr. v. 37).

Infine nel racconto risuona un terzo nome che Maria stessa si da in risposta al saluto dell’angelo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (v. 38). Quello di Maria non è un semplice atto di obbedienza. E un modo peculiare di collocarsi davanti al Signore e di entrare nella giusta relazione con lui. L’angelo aveva salutato Maria annunciandole come Dio si relazionava con lei: il Signore è con te, tu sei la piena di grazia, colei che Dio ama e trasforma nel suo amore. Rispondendo, Maria afferma a sua volta come desidera che sia la sua relazione con Dio: sono la «schiava» del Signore. Colei che in tutto dipende dalla sua Parola. Quello di Maria è un atto di fede prima ancora che di obbedienza. Il suo atteggiamento mostra inoltre il legame che sussiste tra fede e umiltà. Non presume di sé; al contrario si domanda «com’è possibile? come posso io?»; di conseguenza si affida, facendo della propria povertà e inadeguatezza lo spazio nel quale il Signore può manifestare la sua potenza. Come canterà nel Magnificat, Dio ha potuto compiere in lei grandi cose, perché ha conosciuto l’umiltà, la piccolezza, il «niente» della sua serva. Dio agisce in lei non a misura della sua piccolezza, ma a misura della grandezza del proprio amore.

Possiamo comprendere il mistero dell’«Immacolata» alla luce di questi tre nomi, che tracciano anche per noi una via di santificazione personale.

 

Preghiere e racconti


La festa dell’Immacolata

«La prima festa dell’anno è l’Immacolata. Non è senza motivo che l’anno liturgico si apra con una visione di bellezza. Nella preghiera liturgica, anzi nella vita stessa della Chiesa il primato è della contemplazione – ogni attività apostolica e anche morale ha termine nella contemplazione della gloria divina, nel silenzio dell’adorazione, nel canto della lode. La Chiesa prima di tutto canta la bellezza. (…) La festa dell’Immacolata è visione di sovrumana bellezza».

(D. Barsotti, Il mistero cristiano nell’anno liturgico, 69).


Maria, vergine dell’attesa

Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna. Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.

Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).

«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.

Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome. L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.

Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.

 

Maria, Vergine e Madre dell’attesa

Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all’inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti. L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno. L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia. Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.

 

Con la lampada accesa

E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.

Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti. Saremo tutti invitati, tutti protagonisti. Verrà questo giorno!

Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche. No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene. Questo vi annunciamo oggi!

Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».

A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».

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La vera tristezza

Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.

Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.

 

Una «pro-vocazione»

Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze… Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia. Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti. Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.

Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo?

Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro. Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.

Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità. Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…

Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito. Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze. Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.

Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.

Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove. Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore. Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra. Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi!

Buona attesa, dunque. Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio!

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).

 

Benedetta sei Tu, Vergine Maria

Benedetta sei Tu, più grande del cielo, più bella della terra e più profonda di tutta la ragione, chi riesce a esprimere la Tua grandezza? Non c’è niente che sia uguale a Te, Vergine Maria. Ti glorificano gli angeli, Ti lodano i serafini, perché Colui che siede nella gloria è venuto a dimorare nel Tuo corpo. L’amico degli uomini ci ha innalzato fino a Sé, ha preso su di Sé la nostra morte, ci ha donato la vita Colui a cui appartiene onore e lode. Tu, Tu sola, nostra Signora, genitrice di Dio, sei madre della luce. Ti glorifichiamo con cantico di lode.

 

Sei il candelabro che porta la lampada sempre accesa, la luce del mondo, luce da luce senza inizio, Dio da Dio vero, che da Te prese senza mutamento la forma umana, che ci ha illuminati con la Sua venuta, noi che sedevamo nel buio e nell’ombra della morte, Luce che guida i nostri passi sulla via della pace per mezzo del mistero della Sua santa sapienza.

 

Rallegrati, benedetta vergine senza macchia, Tu vaso puro, Tu gloria del mondo, Tu luce intramontabile, Tu tempio indistruttibile, Tu bastone della fede, Tu solido sostegno dei santi. Prega per noi il Tuo figlio diletto, nostro redentore, perché abbia pietà di noi e sia misericordioso, e attraverso la Sua grazia ci siano perdonati i peccati per sempre.

Amen.

(Preghiera etiope)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.

G. TURANI, Avvento e natale 2011. Sarà chiamato Dio con noi. Sussidio liturgico-pastorale, San Paolo, 2011.

– Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche di Avvento e Natale, a cura di Enzo Bianchi et al., Milano, Vita e Pensiero, 2005.

– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– J.B. METZ, Avvento-Natale, Brescia, Queriniana, 1974.

– E. BIANCHI, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999.

 

 

Paolo Dall’Oglio: La sete di Ismaele

 

Siria, ecco il monastero dove le fedi si incontrano

 


Un diario dal deserto. Gli articoli che padre Paolo Dall’Oglio ha scritto dal 2007 per il mensile internazionale «Popoli» sono ora raccolti nel volume La sete di Ismaele, in libreria da domani (Gabrielli, pagine 144, euro 12,00, introduzione  di Stefano Femminis). Il libro è arricchito dalla prefazione – di cui anticipiamo una parte – del giornalista e scrittore  Paolo Rumiz, che ha visitato l’antico monastero in cui ha sede la comunità monastica di  (www.deirmarmusa.org),  fondata da padre Dall’Oglio nel 1991 e dedita all’accoglienza e al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam. È dei  giorni scorsi la notizia che il religioso ha ricevuto dal governo siriano un decreto di espulsione, a causa del suo  impegno a favore della riconciliazione: sono in corso trattative con la Chiesa locale affinché l’effettività del decreto sia sospesa e il gesuita possa restare.

Deir Mar Musa. Il nome mi chiamava come una fata morgana, come la nostalgia di qualcosa di antico, qualcosa che  avevo dimenticato ma continuava ad agitarsi nel fondo dell’anima.
Quella fortezza della fede, arroccata sugli ultimi precipizi del Monte Libano davanti al deserto siriano, era una tappa  ineludibile del mio viaggio verso la Terra Santa. Cercavo i cristiani d’Oriente, eppure a parlarmi per primo del  monastero retto dal gesuita Paolo Dall’Oglio non era stato un prete ma un musulmano d’Italia. «Vai a vedere – aveva  detto – un luogo dove la tua fede ha imparato a convivere con l’islam». E aggiunse parole lusinghiere sulla capacità di  quel suo priore molto sui generis di capire il mondo musulmano pur tenendo dritta la barra del cristianesimo in quel  difficile avamposto.
Così andai, e già la lunga strada di avvicinamento lungo l’Anatolia fino alle terre alte del Tigri (dove comunità cristiane  di lingua aramaica vecchie di quasi due millenni resistevano miracolosamente alla pressione del nazionalismo islamico  urco) aveva ribaltato molte delle mie false certezze. Credevo, prima di prendere quella lunga strada, di  allontanarmi dal baricentro, dai punti di riferimento più forti della mia fede, e invece constatavo che proprio  allontanandomi da Roma avvertivo la presenza di un messaggio cristiano più limpido, cristallino, sempre più vicino alla sua fonte originaria, e sempre meno disturbato da tentazioni di egemonia e di potere. Era come se mi fosse  possibile prendere atto della mia identità e della mia cultura religiosa d’origine solo in terre dove il cristianesimo era  decisamente minoritario, se non addirittura perseguitato.
Erano passati, non dimentichiamolo, appena quattro anni dall’attentato alle Torri gemelle, e il discorso del conflitto di  civiltà era stato semplificato ad arte dai seminatori di zizzania come scontro religioso. Era anche per reagire a questa  semplificazione che avevo intrapreso quel viaggio tra i miei cugini d’Oriente, un viaggio che mi portava fatalmente a  sconfinare, un giorno sì e uno no, nei territori dell’ebraismo e della fede musulmana. Così, quando in una sera di  temporale imminente arrivai al monastero fortificato di Mar Musa, mi ero già reso conto che religiosi da prima linea  come Paolo Dall’Oglio si trovavano, con la loro semplice presenza, non soltanto a combattere con le infinite  suscettibilità del mondo musulmano, ma anche a scontare sulla loro pelle (con molte eccezioni s’intende) le  incomprensioni e i pregiudizi dei loro referenti d’Occidente. Di queste il priore di Mar Musa non volle mai parlarmi, ma  era mia ferma convinzione che esse ci fossero.
Ebbi la conferma, lì a Mar Musa, che per farsi riconoscere, il cristianesimo aveva anche bisogno di capire come Cristo e   discepoli erano visti dagli altri popoli del Libro. Nel suo ineguagliabile L’Usage du monde, Nicolas Bouvier racconta  del viaggio compiuto negli anni Cinquanta fino al subcontinente indiano. Nella tappa afghana egli narra di aver trovato  nel bazar di Kabul una raffigurazione di Gesù che ascendeva al cielo circondato da apostoli armati. Per un musulmano era magari concepibile che un profeta della bontà di Isa accettasse di essere catturato senza difendersi, ma era  assolutamente inammissibile che i suoi uomini rinunciassero a difenderlo. Vili, codardi, non avevano reagito. E  soprattutto, rinunciando a uccidere dei malvagi, essi avevano favorito la catena del male. La raffigurazione di discepoli  armati altro non era che il desiderio dei musulmani di rendere più presentabile il martirio di quel sant’uomo.  Ancora più interessante la visione degli ebrei ortodossi, così come mi era stata vivacemente spiegata da un rabbino  gerosolimitano di nascita italiana. Il difetto maggiore di Cristo? Non si era sposato, non aveva figli. Chi non fa figli non è  un uomo e non ascolta i comandamenti di Elohim: crescete e moltiplicatevi. E allora, mi disse, come fa a essere dio  uno che non è nemmeno uomo? E che dire dei discepoli, questi scioperati perdigiorno che avevano rinunciato alla  fatica della terra e del lavoro? Che garanzie di serietà potevano dare questi scapoloni a zonzo capaci di vivere solo alle spalle altrui? Sì, era fondamentale ascoltare storie così, sentire il parere degli “altri” per raccontare la “nostra” identità  con maggiore forza e consapevolezza.
Una sera pregammo insieme, in quel monastero che altro non era che la “reception” di un arcipelago di grotte  eremitiche sparse nelle rocce circostanti. Risuonarono antiche litanie, sentii la bellezza della preghiera cristiana  formulata in lingua araba, e la parole-chiave attorno cui tutto ruotava era “nur”, luce. Cantava Paolo Dall’Oglio dentro  una chiesa buia, dove la luce, appunto, era solo un raggio che entrava da una feritoia verso Oriente. Fu da quel viaggio  che cominciai a cercare la mia fede proprio nelle periferie, negli avamposti, nelle trincee di mondi considerati a rischio   nel profondo di stati marchiati come “canaglia” dalla geopolitica banalizzata dell’Occidente.
Ad Antiochia – incontrando la mia compagna di viaggio Monika Bulaj – una donna che si era convertita al  Cristianesimo e subiva per questo non poche ritorsioni, aveva spostato una tendina in casa sua e mostrato, dietro, un  foglio di giornale illustrato con la raffigurazione di Cristo. Sospirò e spiegò perché aveva deciso di seguirlo. «Come fai a  non fidarti di uno con un viso simile?», riassunse così il concetto, prima di riempirci il sacco da viaggio di frutta secca e caffè che a lei dovevano essere costati una fortuna.

Paolo Rumiz
in “Avvenire” del 4 dicembre 2011

Il Progetto Policoro

24° Corso di Formazione Nazionale Progetto Policoro

S. Maria degli Angeli – Assisi, 30 novembre – 4 dicembre 2011

Il 24° modulo formativo nazionale del Progetto Policoro vede coinvolti 174 giovani/adulti dei quattro (tre più uno “senior”) anni di corso. Nell’ambito dei lavori sono previsti, tra gli altri, gli interventi di mons. Angelo Casile, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, don Domenico Beneventi, aiutante di studio del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile e di Piero Rinaldi di Caritas Italiana. Tra i temi che verranno approfonditi, l’identità del Progetto Policoro tra vocazione, educazione e animazione, e gli approfondimenti sul Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. «Agli animatori – spiega mons. Casile – viene proposto un cammino incentrato sulla chiamata personale, riconoscibile tramite i segni dell’amore di Dio Padre nella vita di ciascuno e il servizio nella comunità e con la comunità. L’itinerario di crescita indicato intende condurli alla testimonianza dell’Amore ricevuto fra i coetanei. L’educazione, così, apre a domande profonde di senso e l’evangelizzazione assume i volti degli uomini, testimoniando una Chiesa che va oltre il fatalismo e realizza gesti concreti, come ad esempio i progetti elaborati attraverso il microcredito. Proprio a quest’ultima importantissima pratica saranno dedicate le testimonianze di alcune cooperative presenti al corso e l’intervento del prof. Daniele Ciravegna, presidente della Fondazione don Mario Operti». Il programma dei lavori prevede anche una visita alla Basilica di San Francesco e a quella di Santa Chiara e la partecipazione al musical “Notte di Natale 1211”. Tra i partecipanti a questo corso sono da segnalare giovani/adulti provenienti da dieci diocesi ulteriormente coinvolte nel Progetto Policoro: Anagni-Alatri, Cesena-Sarsina, Modena-Nonantola, Palestrina, Prato, Pistoia, Senigallia e Velletri-Segni.
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Presentazione del Progetto Policoro

di don Angelo Casile


Cos’è il Progetto Policoro? È un progetto organico della Chiesa italiana che tenta di dare risposta concreta al problema della disoccupazione in Italia. Policoro, città in provincia di Matera, è il luogo dove si svolse il primo incontro il 14 dicembre del 1995, subito dopo il 3° Convegno Ecclesiale Nazionale tenuto a Palermo. Si vuole affrontare il problema della disoccupazione giovanile, attivando iniziative di formazione a una nuova cultura del lavoro, promuovendo e sostenendo l’imprenditorialità giovanile e costruendo rapporti di reciprocità e sostegno tra le Chiese del Nord e quelle del Sud, potendo contare sulla fattiva collaborazione di aggregazioni laicali che si ispirano all’insegnamento sociale della Chiesa.

Ideatore del Progetto Policoro è mons. Mario Operti: nato a Savigliano (Cuneo) nel 1950, sacerdote della diocesi di Torino, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro della CEI (1995-2000), deceduto il 18 giugno 2001.

L’icona biblica del Progetto è tratta dagli Atti degli Apostoli (3,1-10). Pietro e Giovanni, allo storpio che chiedeva l’elemosina alla Porta Bella del Tempio di Gerusalemme, non hanno da offrire ricchezze materiali, ma il Vangelo che è Gesù. «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!». La Chiesa offre a ogni persona il suo tesoro, Gesù. La ricchezza del Vangelo cambia la vita e aiuta le persone ad alzarsi dalla strada della rassegnazione e del mendicare assistenza per camminare insieme e con cuore nuovo lungo i sentieri della speranza e dell’autentico sviluppo.

Nella convinzione di «stare dentro la storia con amore»[1], l’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro coinvolse il Servizio Nazionale per la pastorale giovanile e la Caritas Italiana nell’incontro svolto a Policoro (14 dicembre 1995), che vide la partecipazione dei rappresentanti diocesani di Basilicata, Calabria e Puglia e di alcune Associazioni laicali per riflettere sulla disoccupazione giovanile nella sicura speranza che l’Italia «non crescerà se non insieme»[2].

Il Progetto è per tutta l’Italia. Avviato nel 1995 in Basilicata, Calabria e Puglia, oggi il Progetto coinvolge sempre più Campania, Sicilia, Sardegna, Abruzzo-Molise, Umbria, Emilia-Romagna e ultimamente il Lazio, le Marche e la Toscana per un totale di 97 diocesi e 137 animatori. Con le altre regioni, in particolare Lombardia, Piemonte e Triveneto sono attivi fin dall’inizio importanti rapporti di reciprocità, che si basano sulla comunione ecclesiale.

Il documento dell’Episcopato italiano Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno (2010), scritto a vent’anni dal documento Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno (1989), ha riconosciuto il Progetto Policoro «tra i segnali concreti di rinnovamento e di speranza che hanno per protagonisti i giovani, […] con l’intento di affrontare il problema della disoccupazione giovanile, attivando iniziative di formazione a una nuova cultura del lavoro, promuovendo e sostenendo l’imprenditorialità giovanile e costruendo rapporti di reciprocità e sostegno tra le Chiese del Nord e quelle del Sud, potendo contare sulla fattiva collaborazione di aggregazioni laicali che si ispirano all’insegnamento sociale della Chiesa»[3].

L’intuizione fondamentale del Progetto Policoro è il lavorare insieme di diversi soggetti (ecclesiali, associativi, istituzionali) attorno allo stesso problema (la disoccupazione) nell’ottica dell’attenzione alla persona e alla società per un loro autentico sviluppo nella solidarietà, sussidiarietà e reciprocità tra le Chiese del Nord Italia e del Sud Italia.

Il metodo sviluppato dal Progetto Policoro consiste nel coinvolgere sempre più sul territorio e in sinergia le diocesi, con l’apporto competente dei direttori degli Uffici e degli animatori di comunità, e le associazioni per evangelizzare il lavoro e la vita, educare e formare le coscienze, esprimere gesti concreti (idee imprenditoriali e reciprocità). Lo stile è quello di aiutarsi a crescere insieme nel rispetto reciproco delle specificità e competenze, nella solidarietà e nella comunione. La virtù cristiana che lo sostiene è la speranza.

 


[1] Conferenza Episcopale Italiana, Con il dono della carità dentro la storia, 26 maggio 1996, n. 6.

[2] Consiglio Permanente della CEI, La Chiesa italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, n. 8.

[3] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21 febbraio 2010, n. 12.

 

Programma.pdf
Programma_sintetico.doc
Il Progetto come vocazione, Casile
Chiamati ad educare a… .Beneventi
Alle radici di un impegno, Rinaldi
Il Microcredito nel Progetto
Presentazione Progetto Policoro 2012
Conclusioni, Casile e Beneventi

Processi educativi e traguardi di competenze

 

in questi ultimi anni nelle giornate di Studio IRC promosse dall’Istituto di Catechetica si è riflettuto su alcuni orientamenti culturali significativi per l’educazione religiosa, analizzando in particolare l’apprendimento, l’ermeneutica, il linguaggio religioso, l’etica nell’orizzonte del pluralismo culturale.…

Quest’anno la riflessione della giornata di studio verterà un tema di grande interesse ed attualità: Processi educativi e traguardi di competenze.

La giornata si realizzerà sabato 3 dicembre 2011 presso l’Università Pontificia Salesiana dalle 9.00 alle 18.00.

La giornata si svolge, secondo una consuetudine ormai convalidata al confronto e all’integrazione fra i partecipanti, valorizzando le diverse competenze. Vengono offerti brevi imputs iniziali sugli aspetti significativi del tema e si lascia  quindi aperta la conversazione al contributo di ciascuno.

Come premesse vengono prese la scelta educativa privilegiata dalla Facoltà e la traduzione in Pedagogia religiosa che ne ha fatto l’Istituto.

1. Si vogliono approfondire come temi:

– Gli Orientamenti della Cei per il Decennio 2010-2020.

– Le scelte privilegiate dall’Istituto nella Pedagogia religiosa

– Quali orientamenti? Quale integrazione?

2. Specificamente per l’IRC:

– L’Istituto ha una Pedagogia – Didattica caratterizzata?

– La Scuola e di conseguenza l’IRC si orientano ai traguardi di competenza…

– Identità e differenze da rilevare

– Possibili convergenze da promuovere

– Urgenze e problemi da evidenziare

3. Verso una sintesi orientativa

 

La partecipazione alla giornata è riservata  ad un numero ristretto di studiosi e propfessionisti della materia.

 

 

 

 

 

 

PROGRAMMA

 

9.00 Apertura della Giornata

– Preghiera

– Saluto delle Autorità

– Presentazione del Programma e Metodologia di lavoro

9.30:  Prof. Vincenzo Annicchiarico

– Gli Orientamenti Pastorali della Cei e ricaduta sull’IRC

10,00 – 11.00: Confronto libero dei partecipanti

11,00: Coffee break

11.30 – 12.00: Prof. Zelindo Trenti

Gli Orientamenti dell’Istituto di Catechetica per l’IRC

12.00 – 13.00: Confronto libero dei partecipanti

13.10:  Pranzo

14.30 – 15.00:  Prof. Sergio Cicatelli

I traguardi di competenza negli attuali Orientamenti della scuola

15.00 – 16.00: Confronto libero dei partecipanti

16.00 – 16.30: Prof. Cesare Bissoli

Le Indicazioni Nazionali e  traguardi di competenze per l’IRC

16.30 – 17.30: Confronto libero dei partecipanti

17.30:  Conclusioni orientative