Indagine Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza

Scuola, per gli studenti deve preparare di più al lavoro…
…e per i genitori essere più aperta alle proposte degli alunni

 

Secondo gli adolescenti la scuola deve soprattutto prepararli al mondo del lavoro (32,5%), farli maturare (27,8%) e accrescere la loro cultura (26,6%). è quanto emerge dall’Indagine Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Telefono Azzurro ed Eurispes che fornisce una fotografia degli atteggiamenti, delle idee e dei comportamenti dei bambini e degli adolescenti presentata oggi a Roma.

I ragazzi vorrebbero più spazio per sport (16,1%), attività pratiche (15,6%), studio dell’informatica e delle nuove tecnologie (13%) e lingue straniere (12,5%). Allo stesso tempo vorrebbero anche sentirsi più partecipi della vita scolastica e avere più opportunità di indicare su quali temi desiderano soffermarsi (11,1%). Il 7,8% vorrebbe più spazio per la musica, il 4,7% che si facesse una maggiore attività di prevenzione su temi quali bullismo e droghe, il 4,4% che fosse inserita nei programmi anche l’eduzione sessuale e il 3,6% vorrebbe meno nozionismo. Infine il 10,5% degli studenti non cambierebbe nulla: la scuola va bene così com’è.

Ma quasi un terzo degli adolescenti (29,3%) ha dichiarato di sentirsi annoiato per la maggior parte del tempo trascorso a scuola, il 7,1% prova agitazione e il 2,6% addirittura infelicità. I sentimenti negativi raccolgono quindi nel complesso quasi il 40% delle indicazioni. Un dato che desta preoccupazione, anche a fronte di un quarto del campione che si è detto interessato (25,8%), a un quinto che si è detto sereno (20,4%) e al 5% che si diverte tra le mura scolastiche.

Gli studenti vorrebbero essere più partecipi della vita scolastica: infatti, l’84,7% chiede una scuola più aperta alle proposte e alle iniziative dei ragazzi e il 66% auspica un coinvolgimento degli studenti stessi nel fare lezione su alcune materie.

A preoccupare è tuttavia soprattutto la valutazione implicitamente data dagli studenti alla classe docente: dovendo immaginare una scuola ideale, il 59,1% dei ragazzi vorrebbe infatti insegnanti più preparati e più aggiornati.

Sul fronte dei genitori, questi vorrebbero una scuola più aperta alle proposte degli alunni e insegnanti più preparati.

L’80% dei genitori in una “scuola ideale” vorrebbe insegnanti più preparati e più aggiornati. Per il 67% del campione sarebbe necessario invece un maggiore impegno nel combattere le discriminazioni e per il 79,1% la scuola ideale dovrebbe mostrarsi più severa con i ragazzi violenti.

Fortissima anche la richiesta, espressa dall’84,5% dei genitori, di avere una scuola più aperta alle proposte e alle iniziative degli alunni. Meno sentite le opzioni di mandare i propri figli in istituti privi o di alunni stranieri (6%) o di simboli religiosi (12,4%).

L’idea dei genitori è che la scuola debba “accrescere la cultura” (28,9%) e “far maturare le persone” (28,8%); il 17,9% si è espresso richiamando la necessità di preparare al mondo del lavoro e il 13,4% a favore della trasmissione di valori.

Se i ragazzi vorrebbero più sport, attività pratiche e informatica, i genitori desiderano prevenzione e lingue straniere. I genitori vorrebbero aumentare nelle scuole le attività di prevenzione rispetto a fenomeni quali il bullismo o le droghe (20,7%) e dare maggiori opportunità ai ragazzi di scegliere i temi su cui soffermarsi (18,5%). Il 17,9% invece vorrebbe nei programmi scolastici più spazio per lo studio delle lingue straniere e il 12,7% maggiore spazio alle attività pratiche.

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tuttoscuola.com

 

 

Indagine Conoscitiva 2011 sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza

Insegnare ai ragazzi, imparare dai ragazzi. È questo il messaggio principale della Dodicesima Indagine Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Telefono Azzurro ed Eurispes che, come ogni anno, fornisce una fotografia degli atteggiamenti, delle idee e dei comportamenti di bambini e adolescenti, individuando le trasformazioni avvenute nell’ultimo anno e cogliendo i più recenti trend della vita dei giovani italiani.
Non solo, dunque, attenzione alta su quello che ai ragazzi si insegna ma anche su quello che dai giovani si può imparare. Novità assoluta dell’Indagine 2011 è la voce dei genitori.
Oltre ai 1.496 ragazzi tra i 12 e i 18 anni, sono stati infatti ascoltati anche 1.266 genitori con l’intento di fornire un quadro il più possibile esaustivo sulla condizione dei più giovani e di indagare luci e ombre del rapporto genitori-figli.
Famiglia, media e nuove tecnologie, tempo libero, scuola, comportamenti a rischio, bullismo e cyberbullismo i grandi temi dell’Indagine.

 

Per scaricare una sintesi della Indagine Conoscitiva

sintesi_indagine_telefono_azzurroeurispes_2011

 

http://www.azzurro.it/index.php?id=225

 

Karol: un film su Giovanni Paolo II

il film d’animazione Karol è incentrato sulla vita del Pontefice

 

Nel giorno della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, anche Boing renderà a suo modo omaggio alla figura di Karol Wojtyla con un lungometraggio prodotto da Mondo Tv. Andrà in onda, infatti, proprio domenica 1° Maggio, in prima serata alle 20.35, il film d’animazione Karol, incentrato sulla vita del Pontefice.

Realizzato con tecniche d’animazione in computer grafica, il film narra le principali vicende che hanno segnato il percorso umano e spirituale di Wojtyla. Una storia ricca di eventi ed emozionante, in cui ampio risalto verrà dato al rapporto tra il Papa e i giovani. Un rapporto da sempre molto intenso, che portò il Pontefice a istituire la Giornata Mondiale della Gioventù, diventata nel corso degli anni occasione d’incontro per milioni di ragazzi.

Il film, che vedrà Luca Ward dare la voce a Papa Giovanni Paolo II, si rivolge non solo ai più piccoli ma a tutta la famiglia, rappresentando un’ulteriore offerta della rete, sempre più premiata dal pubblico. Ad oggi Boing è infatti il canale più seguito nella fascia 4-14 anni, oltre che essere ottava rete nazionale, subito dopo le  reti generaliste Rai, Mediaset e La7.

Si è identificato con la Chiesa perciò ne può essere la voce

Dal volume Giovanni Paolo II pellegrino per il Vangelo (Cinisello Balsamo – Torino, Edizioni Paoline – Editrice Saie, 1988) pubblichiamo integralmente l’articolo nel quale il cardinale Joseph Ratzinger ripercorreva e faceva emergere gli aspetti fondamentali dei primi dieci anni di pontificato di Karol Wojtyla.

Giovanni Paolo II è senz’altro colui che, ai nostri tempi, si è incontrato personalmente con il maggior numero di esseri umani. Innumerevoli sono le persone a cui egli ha stretto la mano, a cui ha parlato, con cui ha pregato e che ha benedetto. Se il suo elevato ufficio può creare distanza, la sua personale irradiazione crea invece vicinanza. Anche le persone semplici, incolte, povere non hanno da lui l’impressione della superiorità, dell’irraggiungibilità o del timore, quei sentimenti che colpiscono così sovente chi si trova nelle camere d’aspetto dei potenti, delle autorità. Quando poi si hanno contatti personali con lui, è come se lo si conoscesse da lungo tempo, come se si parlasse con un parente prossimo, con un amico. Il titolo di “Padre” (= Papa) non appare più solo un titolo, ma l’espressione di quel rapporto reale che si prova veramente davanti a lui.
Tutti conoscono Giovanni Paolo II: il suo volto, il suo modo caratteristico di muoversi e di parlare; la sua immersione nella preghiera, la sua spontanea letizia. Certe sue parole si sono incise in maniera indelebile nella memoria, a cominciare dall’appassionato richiamo con cui egli si è presentato all’inizio del suo pontificato: “Spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura di lui!”. Oppure queste altre: “Non si può vivere per prova, non si può amare per prova!”. In parole come queste si condensa tutto un pontificato. È come se egli volesse aprire dappertutto vie d’accesso a Cristo, come se desiderasse rendere accessibile a tutti gli uomini il varco verso la vita vera, verso il vero amore. Se, come Paolo, lo si ritrova instancabilmente sempre in cammino, fino “ai confini della terra”, se vuol essere vicino a tutti e non perdere alcuna occasione per annunciare la Buona Novella, non è per scopi pubblicitari o per sete di popolarità, ma perché si realizzi in lui la parola apostolica: Charitas Christi urget nos (II Corinzi, 5, 14). Accanto a lui lo si avverte: gli sta a cuore l’uomo perché gli sta a cuore Dio.
Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega anche perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona. Qui si manifesta anche un altro elemento di quella grande capacità di integrazione, che contrassegna il Papa che viene dalla Polonia: l’aver cambiato il classico “noi” dello stile pontificale con l'”io” personale e immediato dello scrittore e dell’oratore. Una simile rivoluzione stilistica non è da sottovalutare. A tutta prima può sembrarci l’ovvia eliminazione di un’usanza antiquata, che non si intonava più ai nostri tempi. Ma non si deve dimenticare che questo “noi” non era solo una formula di retorica cortigiana. Quando parla il Papa, egli non parla a nome proprio. In quel momento, in ultima analisi, non contano niente le teorie o le opinioni private che egli ha elaborato nel corso della sua vita, per quanto alto possa essere il loro livello intellettuale.
Il Papa non parla come un singolo uomo dotto, con il suo io privato o, per così dire, come un solista sulla scena della storia spirituale dell’umanità. Egli parla attingendo dal “noi” della fede di tutta la Chiesa, dietro il quale l’io ha il dovere di scomparire. Mi viene in mente a questo proposito il grande Papa umanista Pio II, Enea Silvio Piccolomini, il quale da Papa doveva talvolta dire, attingendo appunto dal “noi” del suo magistero pontificio, cose in contraddizione con le teorie di quel dotto umanista che precedentemente era stato lui stesso. Quando gli venivano segnalate simili contraddizioni soleva rispondere: Eneam reicite, Pium recipite (“Lasciate stare Enea, prendete Pio, il Papa”).
In un certo senso non è dunque un fenomeno innocuo se l'”io” rimpiazza il “noi”. Ma chi fa la fatica di studiare attentamente tutti gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, capisce ben presto che questo Papa sa distinguere molto bene tra le opinioni personali di Karol Wojtyla e il suo insegnamento magisteriale in quanto Papa; egli però sa anche riconoscere che le due cose non sono reciprocamente eterogenee, ma riflettono un’unica personalità imbevuta della fede della Chiesa. L’io, la personalità, è entrata interamente al servizio del “noi”. Non ha degradato il “noi” sul piano soggettivo di opinioni private, ma gli ha semplicemente conferito la densità di una personalità tutta plasmata da questo “noi”, tutta dedita al suo servizio.
Io credo che tale fusione, maturata nella vita e nella riflessione di fede, tra il “noi” e l'”io” fondi in modo essenziale il fascino di questa figura di Papa. La fusione gli consente di muoversi in questo suo sacro ufficio in maniera del tutto libera e naturale; gli consente di essere come Papa interamente se stesso, senza dover temere di far scivolare troppo l’ufficio nel soggettivo.
Ma come è cresciuta questa unità? In che modo una strada personale di fede, di pensiero, di vita conduce a tal punto nel centro della Chiesa? Questa è una domanda che va ben oltre la semplice curiosità biografica. Giacché proprio tale “identificazione” con la Chiesa senza velo alcuno di ipocrisia o di schizofrenia sembra impossibile oggi a molti uomini che sono in travaglio per la fede.
Nella teologia è diventato, nel frattempo, quasi civetteria di moda il muoversi in distanza critica a riguardo della fede della Chiesa e far sentire al lettore che lui, il teologo, non è poi così ingenuo, così acritico e servile da porre il suo pensiero del tutto al servizio di questa fede. In tal modo mentre la fede viene svalutata, le frettolose proposte di questi teologi non ne traggono alcuna rivalutazione; invecchiano in fretta come in fretta sono nate. Nasce allora di nuovo un grande desiderio non solo di ripensare intellettualmente la fede in modo leale, ma anche di poterla vivere in modo nuovo.
La vocazione di Karol Wojtyla maturò quando egli lavorava in un’azienda di produzione chimica, durante gli orrori della guerra e dell’occupazione. Egli stesso ha de-finito questo periodo di quattro anni, vissuto nell’ambiente operaio, come la fase formativa più determinante della sua vita. In tale contesto egli ha studiato la filosofia, apprendendola faticosamente dai libri, e il sapere filosofico gli si presentava di primo acchito come una giungla impenetrabile.
Il suo punto di partenza era stato la filologia, l’amore per la lingua, combinata all’applicazione artistica della lingua, in quanto rappresentazione della realtà in una nuova forma di teatro. È sorta così quella specie particolare di “filosofia” caratteristica del Papa attuale. È un pensiero in dialettica con il concreto, un pensiero fondato sulla grande tradizione, ma sempre alla ricerca della sua verifica nella realtà presente. Un pensiero che scaturisce da uno sguardo artistico e, nello stesso tempo, è guidato dalla cura del pastore: rivolto all’uomo per indicargli la via.
Mi sembra interessante scorrere per un momento la serie cronologica degli autori determinanti nei quali egli si imbatté lungo l’iter della sua formazione. Il primo era stato, come lui stesso riferisce nella sua intervista ad André Frossard, un manuale d’introduzione alla metafisica. Se altri studenti tentano solo di comprendere in qualche modo l’intera logica della struttura concettuale esposta nel testo e di fissarsela in mente in vista dell’esame, in lui ebbe inizio invece la lotta per una reale comprensione, cioè per cogliere il rapporto tra concetto ed esperienza, ed effettivamente si accese, dopo due mesi di duro impegno, il cosiddetto “lampo”: “Scoprii quale senso profondo aveva tutto ciò che io avevo prima solo vissuto e presagito”.
Poi arrivò l’incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza. Questa precisione del vedere, questa intelligenza dell’uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell’amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa. Infine egli scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l’opera di san Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell’interiorità, “dell’anima maturata nella grazia”. L’elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un’unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli. La crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici. La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva; le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica. Ma, quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto i piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l’uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare.
Così pare a me che sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un “filosofo”, che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall’incontro con l’uomo che cerca e che domanda. Wojtyla è stato ed è l’uomo. Il suo interesse scientifico fu sempre più contrassegnato dalla sua vocazione di pastore. Di qui si comprende come la sua collaborazione alla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il cui testo è determinato in modo centrale dalla preoccupazione per l’uomo, è diventata un’esperienza decisiva per il futuro Papa.
“La via della Chiesa è l’uomo”. Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Ne è risultato che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico. Anche questa era una importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa. Giacché la crisi dell’orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale. Qui si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull’uomo e il compito teologico, ed è così evidente, che non è possibile sottrarvisi.
Dove crolla l’antica metafisica, anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale. Wojtyla aveva imparato da Scheler a indagare, con una sensibilità umana finora ignota, l’essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, il linguaggio del corpo e, di conseguenza, l’essenza dell’amore. Egli ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo, ma proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci delinea le vie da percorrere: il pensiero dell’età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova, e Wojtyla l’ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d’esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l’ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.
Un altro elemento ancora è stato importante per questo cammino di vita e di pensiero, per l’unità di esperienza, pensiero e fede. Tutta la battaglia di quest’uomo non si è svolta dentro un cerchio più o meno privato, unicamente nello spazio interno di una fabbrica o in un seminario. Essa era circonfusa dalle fiamme della grande storia.
La presenza di Wojtyla in fabbrica fu conseguenza dell’arresto dei suoi professori universitari. Il tranquillo corso accademico fu interrotto e sostituito da un durissimo tirocinio in mezzo a un popolo oppresso. L’appartenenza al seminario maggiore del cardinal Sapieha era già, in quanto tale, un atto di resistenza. E così la questione della libertà, della dignità e dei diritti dell’uomo, della responsabilità politica della fede, non penetrò nel pensiero del giovane teologo come un semplice problema teorico. Era la necessità, molto reale e concreta, di quel momento storico.
Ancora una volta la situazione particolare della Polonia, situata nel punto d’intersezione tra est e ovest, era diventata il destino di questo Paese. I critici del Papa osservano con frequenza che egli, come polacco, conosce veramente solo la pietà tradizionale, sentimentale, del suo Paese e non può quindi comprendere pienamente le complicate questioni del mondo occidentale.
Nulla è più insensato di una simile osservazione, che tradisce un’ignoranza completa della storia. Basta leggere l’enciclica Slavorum apostoli per derivarne l’idea che precisamente di questa eredità polacca aveva bisogno il Papa per poter pensare all’interno di una molteplicità di culture. Essendo la Polonia un punto di intersezione delle civiltà, in particolare delle tradizioni germaniche, romaniche, slave e greco-bizantine, la questione del dialogo delle varie culture proprio in Polonia è, per molti aspetti, più ardente che altrove. E così proprio questo Papa è un Papa veramente ecumenico e veramente missionario, preparato provvidenzialmente anche in tale senso per affrontare le questioni del tempo successivo al concilio Vaticano II.
Rifacciamoci ancora una volta all’interesse pastorale e antropologico del Papa. “La via della Chiesa è l’uomo”. Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell’enciclica sul “Redentore dell’uomo” si può veramente capire se ci si ricorda che per il Papa “l’uomo” in senso pieno è Gesù Cristo. La sua passione per l’uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente. Qui l’antropocentrismo è aperto verso l’alto.
Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio come concorrente dell’uomo si è già da tempo capovolto in noia dell’uomo e per l’uomo. L’uomo non può più considerarsi centro del mondo. Ed ha paura di se stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva. Quando l’uomo viene collocato al centro escludendovi Dio, l’equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della lettera ai Romani (8, 19. 21-22), in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell’uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa della comparsa dei figli di Dio, della loro liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l’uomo, egli vorrebbe aprire le porte a Cristo. Giacché unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l’uomo e la creazione entrare nella loro libertà.
L’antropocentrismo del Papa è quindi, nel suo nucleo più profondo, teocentrismo. Se la sua prima enciclica è apparsa tutta concentrata sull’uomo, le sue tre grandi encicliche si coordinano naturalmente tra di loro in un grande trittico trinitario: l’antropocentrismo è nel Papa teocentrismo, perché egli vive la sua vocazione pastorale a partire dalla preghiera, fa la sua esperienza dell’uomo nella comunione con Dio e a partire da qui egli ha appreso a comprenderla.
Un’ultima osservazione. Il profondo amore del Papa a Maria è certamente, innanzitutto, un’eredità che gli viene dalla sua patria polacca. Ma l’enciclica mariana dimostra quanto questa pietà mariana è stata in lui biblicamente approfondita nella preghiera e nella vita. Nello stesso modo in cui la sua filosofia era stata resa più concreta e vivificata mediante la fenomenologia, ossia attraverso lo sguardo alla realtà che appare, così anche il rapporto con Cristo non rimane per il Papa nell’astratto delle grandi verità dogmatiche, ma diventa un concreto umano incontrarsi con il Signore in tutta la sua realtà e in tal modo logicamente anche un incontrarsi con la Madre, nella quale l’Israele credente e la Chiesa orante sono diventati persona. Ancora una volta è sempre e solo a partire da questa concreta vicinanza, in cui si vede il mistero di Cristo in tutta la ricchezza della sua pienezza divino-umana, che il rapporto col Signore riceve il suo calore e la sua vitalità. E naturalmente è qualcosa che si ripercuote su tutta l’immagine dell’uomo il fatto che questa risposta della fede ha preso figura per sempre in una donna, in Maria.
Che cosa voglio dire con tutto ciò? Il mio scopo era quello di dimostrare l’unità fra mistero e persona nella figura di Papa Giovanni Paolo II. Egli si è realmente “identificato” con la Chiesa, e ne può quindi essere anche la voce. Tutto ciò non è detto per glorificare una creatura umana, ma per dimostrare che il credere non estingue il pensare e non ha bisogno di mettere fra parentesi l’esperienza del nostro tempo. Al contrario: soltanto la fede dona al pensiero la sua apertura e all’esperienza il suo significato. L’uomo non diventa libero quando diviene un solista, ma quando riesce a trovare il grande contesto al quale appartiene. Dieci anni di pontificato di Giovanni Paolo II. L’ampiezza del suo messaggio appare già ora quasi incalcolabile, immensa. Ho voluto tentare di accennare in pochi tratti alle energie portanti che ne costituiscono la forza profonda, e, insieme, rendere così meglio comprensibile la direzione che egli ci indica. Il Signore voglia conservarci a lungo questo Papa, perché ci sia di guida sulla strada verso il terzo millennio della storia cristiana.

(©L’Osservatore Romano 1° maggio 2011)

Le cinque perle di Giovanni Paolo II

 

i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia

un bilancio storico e spirituale di un pontificato.

 

In vista della beatificazione di Giovanni Paolo II ha ripreso slancio un’operazione tutt’altro che semplice, inauguratasi già immediatamente dopo la sua morte: quella di tracciare un bilancio storico e spirituale di un pontificato che non solo è durato più di venticinque anni, ma che ha attraversato un periodo storico estremamente complesso e sconvolgente – basti pensare ai due crolli epocali: il muro di Berlino e le Torri gemelle o, prima ancora, all’attentato subito dal papa – e il cui protagonista aveva a sua volta vissuto in prima persona il dramma della seconda guerra mondiale e della Shoah, la cattività comunista e l’evento di grazia del Vaticano II. Su quali elementi soffermarsi per un’analisi complessiva? I documenti portanti del magistero, come le encicliche? I messaggi veicolati dagli innumerevoli viaggi? La tipologia della moltitudine di santi e beati canonizzati? Le caratteristiche e gli orientamenti teologici degli ecclesiastici nominati all’episcopato o al cardinalato? La gestione dei rapporti interni alla Curia o delle relazioni con i capi di stato?
Un’opzione rischiosa ma al contempo feconda è stata quella scelta da Alberto Melloni – docente di Storia del cristianesimo all’ Università di Modena-Reggio Emilia e direttore della Fondazione per le Scienze religiose di Bologna – che ha individuato Le cinque perle di Giovanni Paolo II (Mondadori, pp. 154, 18), cioè «i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia», come recita il sottotitolo. Scelta non facile, che l’autore motiva efficacemente nelle prime pagine del libro, e che lo porta a isolare delle gemme preziose per poterle incastonare nell’insieme del pontificato wojtyliano così da permetterne una lettura luminosa e al contempo destinata a durare ben al di là della momentanea attenzione mediatica legata alla beatificazione.
Di queste «perle», l’aver celebrato il concilio come la «grande grazia del XX secolo», la visita alla sinagoga di Roma e il primo incontro delle religioni ad Assisi appartengono al biennio 1985-1986, la richiesta di perdono per i peccati commessi dai figli della chiesa nel corso della storia è al cuore del Giubileo del 2000, mentre la strenue opposizione alla guerra si colloca già nel periodo del progressivo declino fisico del Papa. Sono cinque eventi che contengono sì una forte carica innovativa rispetto al passato, ma che, paradossalmente, rivelano anche una profonda continuità con
la grande tradizione della chiesa e la sua capacità di annunciare il vangelo in un mondo che cambia.
Non a caso mi sembra che la «perla» chiave che ha in sé la capacità di suscitare le altre sia proprio la prima: la valorizzazione del Vaticano II attraverso un «sinodo straordinario» dei vescovi che ne riafferma la qualità di massima espressione del magistero pontificio e quindi di criterio alla luce del quale discernere a valutare ogni scelta successiva, e non viceversa. Non sorprende allora che negli altri gesti, ricostruiti ed evidenziati da Melloni con sagacia e copiosa documentazione, l’ispirazione profondamente conciliare emerga con particolare evidenza e sia esplicitamente richiamata dal papa stesso.
Davvero sono perle che «hanno bisogno di essere narrate per essere comprese» e che anche quanti, come la nostra generazione, hanno avuto il privilegio di vederle risplendere sotto i loro occhi, devono rileggere e rielaborare per assaporarne tutta la portata evangelica, così da trasmetterle come tesoro prezioso alle generazioni che verranno.

Le cinque perle di Wojtyla
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 30 aprile 2011

 

 


Melloni: Ecco le cinque perle di Giovanni Paolo II


By Rai Vaticano | Aprile 25, 2011

A pochi giorni dalla beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, lo storico Alberto Melloni ci propone nel suo nuovo libro “Le cinque perle di Giovanni Paolo II”, edito da Mondadori, una sua chiave di lettura del pontificato del papa polacco. Si tratta di un approfondimento di alcuni eventi che hanno lasciato il segno e che hanno bisogno di essere compresi in una prospettiva autonoma. Le cinque perle di Giovanni Paolo II sono i gesti e i momenti della vita e del pontificato di  questo Papa, che agiscono dentro la Chiesa . Ho chiesto all’autore di spiegarci meglio alcuni punti del suo libro.

 

 

I rapporti tra la comunità ebraica e il Papa non sono mai stati una semiretta”, afferma nel secondo capitolo del suo libro, ma possiamo dire che il rapporto tra il rabbino Toaff  e Papa Wojtyla è stato particolare, non a caso è citato nel testamento del Pontefice. Come è stato il loro rapporto? Che cosa ha rappresentato la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986 in questa complessa storia tra la Chiesa cattolica e gli ebrei?

La comunità ebraica di Roma è stata nei secoli testimone di uno sviluppo delle concezioni del potere e della salvezza della chiesa latina: ha visto la prima chiesa perseguitata, quella che prende il potere nell’impero, quella dell’alto medievo, il maturare della discriminazione religiosa, la persecuzione e la ghettizzazione, la pressione rude della conversione, gli accomodamenti con una macchina di governo pontificia, l’emancipazione nello Stato unitario, i diversi atteggiamenti davanti alle leggi razziali e alla persecuzione nazifascista, la stagione del concilio, il lento riconoscimento dello Stato d’Israele. Del percorso che va dal Vaticano II al mea culpa del 2000, è stato testimone diretto Rav Toaff, rabbino capo di una comunità ferita dalla razzia del 16 ottobre e poi dal battesimo del suo rabbino capo Zolli. Quella comunità ha potuto vedere una metamorfosi degli atteggiamenti cattolici con Giovanni XXIII e poi con “Nostra Aetate” , che per Giovanni Paolo II è stato un atto di svolta al quale bisognava rispondere in modo creativo, come ha fatto con la visita alla Sinagoga, ad Assisi e con il mea culpa del 2000. Come sempre nella vita di papa Wojtyla, il gesto conta più delle parole: quella espressione “fratelli maggiori” non è lusinghiera per chi conosca la bibbia, così come il fugace segno di croce al Muro occidentale quando deposita la sua preghiera di perdono nel pellegrinaggio giubilare a Gerusalemme avrebbero potuto suscitare diffidenze o irritazioni. Che non ci furono perché l’eloquenza del gesto superava e spiegava ciò che le parola non dicevano: il coraggio di Rav Toaff è stato quello di pazientare perché quella metamorfosi avviata al concilio producesse tutti i suoi frutti, almeno per quella generazione, in attesa che la prossima faccia la sua parte.

Proseguendo nella lettura del suo libro, la terza perla per lei e’ Assisi, lo spartiacque del nuovo atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le altre religioni. Che cosa ha voluto sottolineare in questo capitolo?

Il concilio non aveva programmato un documento sulle religioni, ma solo una dichiarazione sugli ebrei che, a valle della Shoah e dell’ombra che da quella si allungava sulla intera esperienza cristiana di vertice e di base, spiegasse perché la chiesa di Roma sentiva di dover affermare al suo massimo grado il riconoscimento delle promesse, la perennità dell’alleanza e la detestazione dell’antisemitismo “di chiunque e di qualunque epoca”. Fu per attenuare la resistenza dei vescovi arabi e dei loro governi che si decise di estenderlo e mimetizzarlo in un atto, “Nostra Aetate”, che esprimesse stima e attenzione per l’islam, e anche per le altre grandi religioni. Ma così facendo si creava una indiretta analogia: come il rapporto con l’ebraismo era qualcosa di essenziale per la chiesa, si veniva a suggerire che anche nel rapporto da fare con le altre religioni si doveva adottare la stessa grammatica. Israele, come sacramento di tutte le alterità, diventava un modello del bisogno cristiano di comprendere la fede degli altri con gli occhi di Dio. Questa intuizione rimane silente fino al 1986, segmentata in segretariati e mansionari di curia: Assisi rappresenta un evento enorme perché dice come la chiesa di Roma vuole guardare agli altri non come a civiltà o come ad antagonisti, ma come a voci della preghiera comune che sale dalla terra chiedendo a Dio la pace che gli uomini dimenticano di fare.

Papa Benedetto XVI nell’omelia della messa crismale concelebrata in San Pietro, ha fatto esplicitamente il nome di Karol Wojtyla come esempio di riscatto per tutti i cristiani,  e lei  scrive  nel quarto capitolo: “finalmente il momento del perdono e del mea culpa viene fissato al 12 marzo 2000, un gesto il cui annuncio e’ stato accolto polemicamente”. Ci puo’ spiegare?

Il mea culpa era stato proposto fin dal 1993 in un concistoro straordinario: e la reazione di alcuni porporati, come Biffi, era stata molto negativa. Si pensava che chiedere perdono volesse dire aprire una falla nella difesa del magistero e dell’autorità delle autorità: e che dunque quelle cose che la modernità aveva rimproverato alla chiesa andassero al contrario o sbandierate o al massimo contestualizzate in tempi lugubri e violenti per tutti. Wojtyla invece non cede: da padre conciliare aveva vissuto la discussione sul caso Galileo al Vaticano II; da vescovo aveva partecipato all’atto del dare e chiedere perdono con il quale vescovi tedeschi e polacchi si erano abbracciati a vent’anni dalla fine della II guerra mondiale; come persona aveva perdonato chi gli aveva sparato nel 1981 e alla fine ottenne al suo mancato killer la grazia del Quirinale. Per lui il riconoscersi della Chiesa come “casta meretrix” non era una concessione fatta al marketing – anche se poteva perfino essere usata così – ma qualcosa che andava dovuto a Dio. Ancora una volta sul piano delle formule si oscilla (peccato della chiesa, nella chiesa, dei figli della chiesa), ma il senso è chiaro e consente al cattolicesimo romano oggi di poter guardare a orrori come quelli della pedofilia – che non sono certo tipici del suo clero, ma che hanno toccato anche un clero mal guidato – con gli occhi di chi sa che non è della propaganda di sé che la Chiesa ha bisogno ed è ministra, ma di una misericordia di cui è la prima mendicante.

Antonia Pillosio