XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Isaia 35,4-7a

        Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi». Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.       
  • I capitoli 34-35 costituiscono la cosiddetta «Piccola Apocalisse» del libro di Isaia. Composti probabilmente dopo l’esilio, contengono una serie di oracoli di giudizio contro i nemici d’Israele (34), contrapposti a oracoli di salvezza (35).

     Un inno di gioia (35, 1-3) introduce l’oracolo di consolazione rivolto agli «smarriti di cuore»: l’intervento del Signore è insieme vendetta, ricompensa e salvezza. La giustizia si presenta con due facce, il castigo degli empi e la retribuzione dei giusti.

     All’annuncio del v. 4 segue la descrizione del giorno della salvezza (vv. 5 e ss.), per mezzo delle immagini tradizionali che rappresentano i tempi messianici. Ciechi, sordi, zoppi e muti saranno sanati: le diverse situazioni di schiavitù, i diversi impedimenti che incatenano il popolo credente cadono come per incanto. Sono guarigioni reali e simboliche a un tempo: aprire gli occhi, schiudere gli orecchi significa anche dare la vera conoscenza spirituale e convertire i cuori all’ascolto della parola del Signore: saltare come cervi e gridare di gioia rappresenta la libertà e l’entusiasmo di confessare la fede.

     La salvezza coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche la natura, il cui ritorno alla vita è rappresentato con le immagini dell’acqua che rigenera il deserto e feconda la terra. Il paese inaridito che simboleggiava il castigo divino (34, 10ss.) torna qui a fiorire: scaturiranno acque, torrenti nella steppa, la terra bruciata sarà una palude e il suolo riarso si animerà di sorgenti.

Seconda lettura: Giacomo 2,1-5

       Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?  
  • La lettera di Giacomo entra nel quotidiano della vita di comunità, con chiare indicazioni di comportamento.

     Le conseguenze pratiche della fede sono estremamente chiare fin dall’inizio della lettera. Il secondo capitolo si apre con un’affermazione categorica: esiste una contraddizione insanabile tra la fede nel Signore Gesù e gli interessi personali, egoistici e transitori.

     I tre versetti successivi (2-4) chiariscono l’affermazione con un esempio. La descrizione dell’uomo ricco e del povero accolti nell’assemblea con evidente disparità di trattamento è vivace e realistica, tanto da far pensare che già nella comunità delle origini esistessero questi problemi. L’interrogativo finale lascia alla coscienza della persona la decisione: ma l’accusa è forte e fa riflettere. Si tratta infatti non semplicemente di discriminare (diakrinô), ma addirittura di giudizi perversi (kritaì dialigismôn ponêrôn). Non è quindi solo una fede debole e incerta, ma una vera e propria ingiustizia nei confronti dei fratelli, qualcosa che ferisce profondamente la comunità. Potremmo dire, con linguaggio moderno, che i favoritismi dettati dall’attenzione al denaro e ai privilegi sociali non sono semplicemente un «peccato veniale».

     Segue infatti un ragionamento stringato che ribadisce il pensiero dell’Apostolo. Il v. 5, che introduce l’argomentazione, è una domanda retorica che, nella linea del pensiero dei profeti d’Israele e dello stesso Paolo, ricorda la scelta preferenziale di Dio a favore dei poveri. I poveri agli occhi del mondo sono ricchi nella fede ed eredi del regno: i criteri umani sono quindi completamente capovolti dalla logica di Dio, e se preferenza deve esserci nella comunità cristiana, questa deve andare proprio a coloro che dal mondo sono emarginati e respinti.

Vangelo: Marco 7,31-37

        In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».      

Esegesi

     La guarigione del sordomuto, narrata solo in Marco, è localizzata in territorio pagano (la Decapoli), dove tuttavia sembra essere già giunta la fama di Gesù taumaturgo.

     Il primo versetto (31) offre una precisa indicazione geografica, anche se non appare chiaro l’itinerario seguito da Gesù per giungere da Tiro e Sidone (sulla costa fenicia) fino alla Decapoli, a est del lago di Tiberiade.

     Il v. 32 presenta la situazione, senza indugiare sui preamboli: la gente del posto chiede a Gesù di imporre le mani sul malato, credendo forse che la sua potenza passi come un fluido magnetico. Non è ancora fede, ma ingenua fiducia, forse mista a superstizione, nei confronti di un uomo che opera prodigi.

     I tre versetti centrali (33-35) descrivono il miracolo, con alcune notazioni importanti che introducono il tema del «segreto messianico». Gesù prende in disparte l’uomo, lontano dalla folla, come a voler dissipare ogni fraintendimento propagandistico in quello che sta per fare; eppure indulge alla semplicità della gente e compie anche dei gesti concreti (le dita nelle orecchie, la saliva) che potrebbero farlo assomigliare ai maghi e taumaturghi del tempo. Il prodigio tuttavia non si compie direttamente in conseguenza dei gesti, ma appare piuttosto effetto dell’invocazione di Gesù e della sua parola, non a caso nel versetto centrale (34): egli alza gli occhi al cielo, rivolto palesemente a Dio, e dice in aramaico «Apriti!».

     Il collegamento parola-evento è chiaramente sottolineato dall’avverbio «e subito». Il prodigio è espresso con verbi che adombrano anche un significato di conversione interiore: gli orecchi «si aprono», il cuore e la mente dell’uomo sono quindi aperti ad accogliere la Parola del Signore; la lingua «si scioglie», l’uomo è quindi liberato dai legami del male che lo tenevano prigioniero.

     Viene poi la raccomandazione del segreto, caratteristica di Marco (v. 36): l’ora non è ancora giunta, e tuttavia la notizia del prodigio viene diffusa nonostante il divieto di Gesù. La reazione (v. 37) è di stupore, il miracolo risveglia qualcosa di più della superstizione che lo aveva preceduto. Queste persone credevano possibili guarigioni prodigiose, ma l’a-zione di Gesù li sorprende: ancora adesso non è fede, ma un passo ulteriore si è compiuto, ci si interroga su chi sia quest’uomo che fa udire i sordi e fa parlare i muti.

Meditazione

    Il passo evangelico di questa domenica inizia con una breve introduzione di carattere geografico. Sono nominate le città di Tiro e Sidone, il territorio della Decàpoli: l’evangelista Marco ha cura di farci sapere che Gesù, dopo l’episodio della donna siro-fenicia (cfr. 7,24-30), rimane nella regione pagana del paese e quindi anche il personaggio che tra poco incontrerà è un pagano.

    «Gli portarono un sordomuto…» (v. 32). Sulla scena compaiono all’improvviso alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nella sua dimensione comunicativa (è infatti «sordo» e «muto», cioè incapace di ascoltare e di parlare) per chiederne la guarigione. È da notare che il termine impiegato da Marco per connotare il mutismo di quest’uomo (in greco: mogilálon, «che parla a fatica, con difficoltà») si trova solo qui in tutto il NT e ricorre un’altra volta soltanto nell’AT, precisamente nel testo di Is 35,6 (vedi il brano proposto come prima lettura). Con ciò l’evangelista vuole invitare i suoi lettori a comprendere questo episodio come il compimento di una profezia, come uno dei segni messianici che Gesù realizza.                                  

    Subito, senza perdere tempo e senza troppi discorsi, Gesù mette in atto la sua ‘terapia’ (vv. 33-34). E per prima cosa «prende con sé» il sordomuto (il verbo evidenzia un tratto di delicata accoglienza da non trascurare, soprattutto nel difficile rapporto che a volte si instaura tra malato e guaritore) e lo porta «in disparte». Per un incontro vero e personale con Gesù è necessario separarsi dalla folla, allontanarsi dagli umori sempre ambigui e volubili di essa. Poi Gesù compie due gesti molto concreti (all’apparenza quasi rozzi e poco eleganti) che esprimono la volontà di stabilire un contatto con il malato – anche fisico, corporeo -, di stabilire una comunicazione che prende avvio proprio dagli organi malati: gli orecchi e la lingua. È un «toccare» che mira a riaprire i canali chiusi della comunicazione alla loro sorgente, là dove ogni suono e ogni voce entra nel corpo (gli orecchi) e là dove ogni parola prende forma per uscire verso l’esterno (la lingua). Gesù quindi prosegue levando gli occhi al cielo, in un gesto di preghiera, ed emettendo un sospiro, un «gemito», quasi a esprimere un appello, un’invocazione muta e silenziosa a quel Dio che può donargli la forza di vincere ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo. Un sospiro che dice la sua pena e, insieme, la sua partecipazione a una tale condizione umana. Da ultimo pronuncia un comando, forte e imperioso, che è la parola centrale e decisiva di tutto il racconto: «Effatà». È una parola in aramaico, come altre parole cruciali e decisive riportate da Marco nel suo vangelo. È curioso che qui Gesù parli al singolare: «Apriti!»: è anzitutto l’uomo come tale, nella sua totalità, che deve aprirsi, che deve lasciare che questa parola rompa, infranga, vinca la sua chiusura. Prima che essere rivolta alle sue orecchie, questa parola di Gesù è rivolta al suo cuore, al centro interiore dell’intera sua persona.

    Ed ecco il risultato immediato di tutta questa opera di guarigione: «E subito gli si aprirono gli orecchi…» (v. 35). C’è un’«apertura», c’è uno «scioglimento», c’è un parlare ritrovato e «corretto», che manifestano l’efficacia della ‘cura’ di Gesù e diventano altresì contagiosi, tanto che i presenti non riescono a ubbidire al comando di Gesù, che ingiungeva loro il silenzio, ma «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano…» (v. 36). Con una bella immagine, il card. C.M. Martini nella sua lettera pastorale «Effatà, Apriti» così commenta: «La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea…». L’esclamazione conclusiva (v. 37), pronunciata al colmo dello stupore, rievoca la finale del racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Siamo dunque in presenza di un evento che dischiude di nuovo la realtà originaria, un evento in grado di ricreare quell’umanità così come Dio l’aveva voluta agli inizi della creazione.

    S. Ambrogio, nella sua spiegazione al rito dell’Effatà che si celebrava durante la liturgia battesimale (reinserito ora nella celebrazione del Battesimo degli adulti), chiama questo episodio evangelico: «il mistero dell’apertura». In un contesto di iniziazione è fondamentale che qualcosa venga ‘aperto’ ed è nondimeno fondamentale la consapevolezza del bisogno di ‘lasciarsi aprire’. Tutto il vangelo di Marco è attraversato da questa ‘apertura’ (dai cieli che si aprono al battesimo di Gesù fino al velo del tempio che si squarcia «da cima a fondo» al momento della sua morte) e forse non è un caso che questo racconto di guarigione sia stato collocato a questo punto della narrazione evangelica: la sua valenza simbolica in ordine al cammino di sequela dei discepoli può essere illuminante. Ricordiamo che siamo nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc 6,30-8,21) in cui è più volte sottolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente, la loro durezza di cuore: di fronte a sempre nuove e più grandi rivelazioni di Gesù corrisponde da parte loro un’incomprensione sempre maggiore. I discepoli appaiono come ciechi e sordi, incapaci di vedere e udire la novità del vangelo. Ecco allora che la fatica impiegata da Gesù per guarire quel sordomuto (la molteplicità dei dettagli è indicativa di tutta la laboriosità e lo sforzo compiuto per risolvere il caso) diventa segno della fatica usata a guarire i discepoli dalla loro cecità e sordità spirituale (riguardo alla cecità, l’episodio del cieco di Betsàida, in 8,22-26, svolge una funzione analoga). Ma, nello stesso tempo, l’’apertura’ del sordomuto diventa anche segno della possibilità offerta a tutti (discepoli compresi!) di ottenere la guarigione, di ritrovare una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù. Ed è proprio questo il vero miracolo a cui tende tutto il vangelo…

Immagine della domenica

Campo di girasoli nei dintorni di Villa Adriana (Tivoli)   –   2021  

«Adoro i girasoli. Sanno sempre da che parte voltarsi».

 

Effatà

«A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento. Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare. Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37. S. Ambrogio chiama questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).

Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di apertura, il miracolo e le sue conseguenze.

1. La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo. E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si coglie il senso. Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù. Il caso è in sé disperato (7, 31-32).

2. Ma Gesù non compie subito il miracolo. Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui. Per questo lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche. Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza. Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti. Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel comando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie. Il risanamento della lingua sarà conseguente.

A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sofferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana. Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34). E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toccando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n. 202).

3. Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si aprirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritrovata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”). Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano”. La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga. Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”” (7, 35-37).

In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comunicare interpersonale, ecclesiale, sociale. Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1. rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2. lasciarsi toccare e risanare da Gesù; 3. riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.

Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa. E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipazione al mistero di Dio che è comunicazione».

(Card. C.M. MARTINI, Lettera pastorale: Effatà, apriti, 1990-1991).

Dal silenzio alla parola

Vivere è percorrere la stessa avventura del sordomuto della Decapoli: ognuno è un uomo che non sa parlare, un uomo che non sa ascoltare. Un nodo in gola, un nodo in cuore. Penso alle mie sordità, al mio ascoltare senza partecipazione; penso alla mia lingua annodata, all’insignificanza dei miei messaggi e delle mie parole. E ne comprendo la causa. Non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall’ambito della famiglia o delle amicizie; o ascolto distrattamente, “a mezzo orecchio”, sperando solo che l’altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più acute, idee più importanti.

E la parola si fa dura e vuota. «Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore» (Bonhoeffer), come il fariseo nel tempio: «Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io…». In quante famiglie si parla tra sordi. E diventano culle di silenzio e di solitudini. Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.

Chi non sa ascoltare perderà la parola, perché parlerà senza toccare il cuore dell’altro.

Guariremo tutti dalla povertà delle parole solo quando ci sarà donato un cuore che ascolta. È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il segno intimo e vitale della saliva.

È ciò che continua a fare con me: mi tocca in ogni gioia e in ogni prova, i giorni vibrano della sua presenza, mi tocca in ogni fratello che mi viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta.

Mi tocca e mi restituisce il dono di ascoltare e di “parlare correttamente”, che non è l’eloquenza ma una nuova capacità di comunicare, di indovinare quelle parole che toccano il nervo della vita, bruciano le ipocrisie, hanno il gusto dell’amicizia. Gesù ripete anche a me: «Effatà, apriti! Esci dal tuo nodo di silenzi e di paure; apriti ad accogliere vite nella tua vita, spalanca le tue porte a Cristo».

Se rimani chiuso in te, non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare» (Pasolini) o che versa le sue lacrime nelle tue lacrime, ma solo distanza e solitudine.

«E comandò loro di non dirlo a nessuno».

Gesù aiuta senza condizioni. Per lui è più importante la gioia del sordomuto, che non la sua gratitudine; la felicità dell’uomo conta più della fedeltà.

Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, rapiti nel gorgo della loro felicità. Invece stanno fecondando in silenzio la storia con una nuova capacità di vere relazioni.

(Ermes Ronchi)

La tua Parola

La tua Parola, Signore, non l’hai scritta perché io la studiassi e la spiegassi. La tua Parola, Signore, mi è giunta perché l’amassi, perché mi sforzassi di calarla nel mio intimo, perché anch’io potessi diventare una tua parola.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 119).

«Apri la tua bocca»

Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la nostra lingua esprima la giustizia. La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore. Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste cose quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7). Parliamo dunque del Signore Gesù, perché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la parola di Dio.

Infatti è stato scritto anche questo: «Apri la tua bocca alla parola di Dio». Tu la apri, egli parla. Per questo Davide ha detto: «Ascolterò che cosa dice in me il Signore» (cfr. Sal 84,9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80,11). Ma non tutti possono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele. A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede. Se credi, hai lo spirito di sapienza.

Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6,7). Per casa possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi. Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare. Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come se dovessi giudicarti. Parla per strada, per non essere mai ozioso. Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via. In cammino parla a tè stesso, parla a Cristo.

Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato. Senti come Cristo ti sveglia. La tua anima dice: «Un rumore! È il mio diletto che bussa», e Cristo dice: «Aprimi sorella mia, mia amica» (Ct 5,2). Senti come tu devi svegliare Cristo. L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlio di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3,5). L’amore è Cristo.

(S. Ambrogio di Milano).

La guarigione del sordomuto e la nostra liberazione

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Il percorso tracciato da Marco è molto significativo: con una lunga deviazione Gesù sceglie un itinerario che congiunge città e territori estranei alla tradizione religiosa di Israele; percorre le frontiere della Galilea, alla ricerca di quella parte comune ad ogni uomo che viene prima di ogni frontiera, di ogni divisione politica, culturale, religiosa, razziale.

Scrivo queste parole dalla Mongolia, da una piccola, giovanissima chiesa ad Arvaheer, dove risuonano vere; dove, nella fede sorgiva delle origini, senti che Gesù è davvero l’uomo senza confini, che lui è il volto alto e puro dell’uomo, e che per il cristiano ogni terra straniera è patria.

Gli portarono un sordomuto. Un uomo imprigionato nel silenzio, vita a metà, ma “portato” da una piccola comunità di persone che gli vogliono bene da colui che è Parola e liberazione, che parla come nessuno mai, che è l’uomo più libero passato sulla terra. E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più di ciò che gli è chiesto, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare la umanità e l’eccedenza, la sovrabbondanza della risposta di Dio. Allora Gesù lo prese in disparte, lontano dalla folla. In disparte, perché ora conta solo quell’uomo colpito dalla vita. Immagino Gesù e il sordomuto occhi negli occhi, che iniziano a comunicare così. E seguono dei gesti molto corporei e insieme molto delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Secondo momento della comunicazione, il tocco delle dita, le mani parlano senza parole. Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti dò qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo insieme al respiro e alla parola, simboli dello Spirito. Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo di incontro con il Signore. Gesù guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: Effatà, cioè: Apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua del cuore, quasi soffiando l’alito della creazione: Apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole. Apriti dalle tue chiusure, libera la bellezza e le potenzialità che sono in te. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite. E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Ed è un simbolo eloquente. Sa parlare solo chi sa ascoltare. Gli altri innalzano barriere quando parlano, e non incontrano nessuno. Gesù non guarisce i malati perché diventino credenti o si mettano al suo seguito, ma per creare uomini liberi, guariti, pieni. «Gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo), l’uomo tornato a pienezza di vita.

(Ermes Ronchi)

La liberazione dalla schiavitù babilonese è descritta da Isaia con immagini che parlano di vita ritrovata, di vita che sgorga là dove c’era morte: sorgenti d’acqua scaturiscono nel deserto; i ciechi riacquistano la vista, i muti ritrovano la capacità di parola; i sordi possono ascoltare. Marco riprende le immagini del testo isaiano per narrare la guarigione di un sordomuto ed esprimere così l’avvento di una liberazione ancor più radicale: la liberazione messianica. L’espressione tradotta in italiano con “sordomuto” (Mc 7,32) indica una persona sorda che si esprime a fatica, con difficoltà, balbuziente. Tanto che la sua guarigione è espressa dicendo che egli “parlava correttamente” (Mc 7,35). Incapace di ascoltare, egli non sa neppure esprimersi correttamente e perde la capacità comunicativa trovandosi in un isolamento doloroso. È l’incapacità di comunicare che affligge così gravemente quest’uomo privandolo della sua soggettività: egli è totalmente passivo. Condotto da altri a Gesù, è oggetto di gesti e parole da parte di Gesù finché viene liberato dai vincoli che lo imprigionavano impedendogli di comunicare. Ed è interessante e significativo che, per guarire dalla sua incomunicabilità e ritrovare la sua soggettività, egli debba essere separato dalla folla e portato in disparte: lì può essere restituito a se stesso e diventare soggetto della sua parola. Lì avviene l’incontro personale con Cristo.

Quest’uomo simbolizza la situazione per cui la “salvezza” è fondamentalmente esperienza di alterità, è apertura e affidamento a un altro, passa attraverso un altro. Così come investe la corporeità: il testo presenta un incontro in cui la fisicità è centrale. Gesù comunica soprattutto con il corpo: il testo parla di mani, dita e tatto, di ascolto e di orecchi, di lingua, saliva e parola, di occhi e di sguardo. Se il corpo è il nostro modo di essere al mondo e di comunicare con il mondo, Gesù deve svegliare la vita corporea di quest’uomo, deve ridestarne i sensi perché egli possa ritrovare il senso del vivere. Lo spirituale avviene sempre grazie alla mediazione del corporeo. La guarigione del sordo balbuziente, connessa alla guarigione del cieco di Betsaida (cf. Mc 8,22-26), che presenta elementi letterari e tematici molto simili, svela certamente una dimensione simbolica. Le due pericopi inquadrano episodi in cui Gesù si confronta con l’incomprensione e con l’inintelligenza dei suoi discepoli (cf. Mc 8,4.14-21) che “hanno orecchi e non ascoltano, hanno occhi e non vedono” (cf. Mc 8,18), con l’ostilità dei farisei (cf. Mc 8,11-13), mentre moltiplica contatti salvifici con pagani (cf. Mc 8,1-9; anche il nostro episodio si svolge in terra pagana). Insomma, la sordità che impedisce di parlare correttamente riguarda i discepoli e significa un non-ascolto della Parola che conduce a non annunciarla correttamente o a non confessare adeguatamente la fede (come Pietro in Mc 8,27-33). Solo un ascolto della Parola assiduo e profondo genera un annuncio autentico e efficace; solo una ecclesia audiens può essere ecclesia docens. Fuori di questo ascolto, di questa apertura vivificante e sanante alla Parola, l’annuncio della chiesa si riduce a balbettio o addirittura a sproposito.

In questo senso, il gesto terapeutico di Gesù di mettere le dita negli orecchi dell’uomo acquista una valenza spirituale nella linea delle espressioni bibliche che parlano di circoncidere gli orecchi (cf. Ger 6,10), forare gli orecchi (cf. Sal 40,7), ovvero aprire il canale attraverso cui la rivelazione raggiunge il cuore dell’uomo e gli consente di lodare Dio e di annunciare le sue azioni (cf. il rapporto tra “risveglio” degli orecchi e lingua ben istruita in Is 50,4).

Uno solo è guarito, ma l’acclamazione della folla universalizza il gesto di Gesù parlando di muti e sordi al plurale (cf. Mc 7,37). L’esperienza di Dio conosciuta da qualcuno una volta nella storia può essere confessata nella sua estensione universale e nella sua dimensione di eternità nell’azione di grazie, massimamente nella celebrazione liturgica (cf. il salmo 136).

(Luciano Manicardi)

Preghiera

Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio,

per l’amore che hai mostrato a noi

in Gesù Cristo nostro Signore.

In Lui, che ci ha amati sino alla fine,

noi siamo vincitori sul dolore,

l’angoscia, la persecuzione, la fame,

la miseria, e pericoli e la morte violenta.

Nel silenzio dell’abbandono e della solitudine

Tu elargisci le ricchezze della tua benedizione

e sfami la fame di compagnia con l’abbondanza della Tua Parola e del Tuo Corpo.

Ti rendiamo grazie,

perché Tu ascolti il silenzio dei nostri cuori,

Tu agisci in noi con la tua potenza,

ci guarisci dall’incomunicabilità,

sciogli la nostra lingua

e metti sulle nostre labbra il nome

di Gesù tuo Figlio.

Fa’ che possiamo testimoniarTi

come nostro unico Salvatore, sempre più uniti

in una sola fede e in un solo Battesimo.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Deuteronomio 4,1-2.6-8

         Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo. Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”.  Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».  
  • La prima lettura ci presenta Mosè che parla al popolo e lo esorta a mettere in pratica la legge del Signore: esortazione, che costituisce il tema fondamentale del Deuteronomio (Dt 4,l; cf. 5,1; 6,1; 8,1; 11. 8-9).

     I versetti iniziali del capitolo quattro sono costruiti con termini e forme linguistiche tipiche dello stile deuteronomistico: «Ora, Israele (Shemá Israel); «Signore, Dio dei vostri padri»; «i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo». Questi versetti sono come un preludio musicale, nel quale vengono anticipati i motivi dell’intera composizione (cf. N. Lohfink, Ascolta Israele, Esegesi di testi del Deuteronomio, Paideia Brescia 1965, p. 106).

     Mosè invita con insistenza il popolo a mettere in pratica gli ordinamenti che egli ha ricevuto da Dio ed insegna al popolo. La conseguenza della pratica dei comandamenti è la vita: Israele, attraverso l’obbedienza ai comandamenti è introdotto nella sfera della vita del Signore. La libertà piena sarà raggiunta nella terra «che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri e alla loro discendenza» (Dt 11,9; cf. Dt 8,1). Anche la vita libera e serena nella terra è legata all’obbedienza ai precetti. La disobbedienza può comportare la perdita della terra, come è il caso di Israele in esilio, quando il Deuteronomio viene scritto. Allora sorge una domanda angosciante; Israele che non ha più la terra, non ha più il tempio, può ancora distinguersi come popolo di fronte alle altre nazioni? I versetti 6-8 del capitolo 4, insieme con tutto il libro del Deuteronomio, rispondono: «Israele senza terra e senza tempio è ancora una nazione distinta dalle altre, perché la sua identità di popolo di Dio gli è data dalla Tôrà del Signore, che contiene ordinamenti più saggi e più giusti di tutti quelli degli altri popoli. Questa risposta del Deuteronomio sarà molto preziosa anche dopo la distruzione del secondo tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte dei romani. Intorno alla Tôrà si ricostituirà l’identità del popolo e la testimonianza al Dio unico, peculiare missione di Israele fra le genti, si esprimerà nella pratica dei precetti, l’osservanza dei precetti della Tôrà costituisce la saggezza e l’intelligenza di Israele «agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt 4,6).

     Israele, oltre che per gli ordinamenti, si distingue per la particolare vicinanza a Dio. In ebraico c’è un gioco di parole fra «vicino» (qarob) e «invocare» (qarà).

     Israele, in esilio, apparentemente abbandonato dal suo Dio, lo ha ancora così vicino, che lo ascolta ogni volta che lo invoca, la vicinanza di Dio non è per Israele legata a un luogo, ma all’ascolto della sua Parola, che deve essere messa in pratica sempre e dovunque. Dopo la colpa, c’è la possibilità del ritorno (teshuvà) «perché il Signore tuo Dio è un Dio mise-ricordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 4,31).

     In questa luce si capisce l’entusiasmo del Deuteronomio e di altre pagine bibliche, in particolare i Salmi, per i decreti e gli ordinamenti della Tôrà, che costituisce il patrimonio prezioso di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende vicino a Dio in un modo del tutto peculiare.

Seconda lettura: Giacomo 1,17-18.21-22.27

         Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature. Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi. Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.  
  • I quattro versetti del primo capitolo della lettera di Giacomo (17-18.21.27) che la liturgia ci fa leggere oggi fanno parte della pericope 1,17-27, che è un’esortazione ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio, perfettamente in linea con la prima lettura.

     Giacomo si rivolge a discepoli di Gesù ebrei con un linguaggio a loro familiare. Dio è Padre della luce e Padre di coloro che «per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità» (Gc 1,18). I figli da lui scelti devono rispondergli con l’obbedienza, segno dell’accettazione dei suoi doni, che sono permanenti e perfetti, non caduchi come quelli degli uomini (Gc 1,17). Perfetta è la legge, che è il dono di Dio per eccellenza; essa è «la legge della libertà» (Gc 1,25).

     La lettera di Giacomo, entrata nel canone allo stesso titolo delle lettere paoline, può aiutarci a mantenere un atteggiamento equilibrato nei confronti della Tôrà di Mosè, che gli ebrei religiosi del tempo di Gesù e dei secoli posteriori fino ad oggi hanno sempre cercato di mettere in pratica e di insegnare ai figli di generazione in generazione.

     La presenza della lettera di Giacomo nel canone, ci ricorda che non possiamo farci una rivelazione su misura. La Bibbia presenta spesso pagine che sembrano a una prima lettura in contraddizione, non dobbiamo di fronte alle difficoltà scegliere una pagina, ignorando l’altra. Non possiamo parlare di grazia senza la legge; la legge (Tôrà) è il dono gratuito di Dio per eccellenza, come dice il Deuteronomio, il segno del patto di alleanza, che costituisce Israele nella realtà di popolo di Dio e lo fa vivere come tale. I cristiani, se provenienti dal giudaismo, come dovevano essere quelli a cui Giacomo scriveva, devono continuare a seguire la legge di Dio «perfetta e legge della libertà», come ha dato l’esempio Gesù stesso. Paolo stesso, nella lettera ai Romani dice: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati» (Rom 2,13). Anche i cristiani venuti dal paganesimo, non sono esonerati dal mettere in pratica la Parola di Dio, l’esempio di Gesù vale anche per loro. Resta la problematica dell’interpretazione e del modo di applicazione, che si fa acuto per i cristiani provenienti dal paganesimo, come ne costatiamo il riflesso nella pagina evangelica.

Vangelo: Marco 7,1-8.14-15.21-23

        In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».    

Esegesi

     La pericope evangelica Mc 7,1-23, di cui leggiamo oggi i versetti 1-8, 14-15.21-23 è costruita intorno alla problematica fondamentale di come distinguere il «comandamento di Dio», dal «precetti degli uomini». Non è messa in discussione la Tôrà (insegnamento, legge) data da Dio a Mosè  sul Sinai, ma la sua interpretazione e le modalità della sua messa in pratica. Gesù si scaglia in maniera molto polemica contro «le tradizioni degli uomini», che possono far dimenticare le esigenze fondamentali dei precetti divini, non contro quest’ultimi, che invece devono essere eseguiti, come lui stesso da l’esempio.

     I personaggi messi in scena dal brano sono nel primo quadro: i farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli (vv. 1-13); nel secondo: Gesù e la folla, chiamata da lui (14-15.[16]); nel terzo: Gesù e i discepoli rientrati in casa (17-23).

     La cornice è poco attendibile storicamente, è un pretesto per fissare l’attenzione sulle problematiche discusse. Farisei e scribi, infatti, arrivati addirittura da Gerusalemme, pongono a Gesù una domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,5) e poi scompaiono di scena, senza rispondere all’invettiva polemica di Gesù, nei loro confronti.

     Dobbiamo rilevare che non è Gesù a commettere un’infrazione rituale (cf. Mc 2,23), ma solo i discepoli non seguono la regola, presentata come facente parte della «tradizione degli antichi» (Mc 7,3).

     Il desiderio di purificazione, che si manifestava nei bagni rituali, nelle immersioni, aspersioni e abluzioni varie era diffuso nelle popolazioni antiche, non solo in Israele. Il Vangelo di Marco presenta la regola di lavarsi le mani prima di prendere cibo come comune sia ai farisei sia a tutti i giudei (Mc 7,1-3). Una affermazione, dice Piero Stefani nel suo commento al brano, che «appare difficilmente valida se situata all’epoca di Gesù. Il lavaggio delle mani (e dei piedi) si presenta, infatti, come esplicito precetto biblico solo nel caso del sacerdote che deve seguirlo prima di entrare nel luogo sacro per compiervi un’offerta (Es 30,17-21; cf. Dt 21,6-7), (ma nulla era richiesto, neppure al sacerdote, in relazione alla consumazione del cibo comune). All’epoca di Gesù, però, particolari gruppi di ebrei (detti chaverini), che si proponevano di realizzare la santificazione di ogni aspetto della vita, e che perciò tendevano a comportarsi nelle loro case come i sacerdoti nel tempio, adottarono la prassi di lavarsi ritualmente le mani prima di mangiare. È proprio quest’estensione della sacralità, tanto accentuata da farla in un certo senso coincidere con la profanità, indicò una delle vie che consentiranno all’ebraismo di proseguire la propria vicenda anche dopo la distruzione del secondo tempio. Tuttavia questi gruppi (di cui non è neppure universalmente condivisa l’identificazione con i farisei) rappresentavano solo una piccola minoranza della popolazione, non certo «tutti i giudei» (Mc 7,3). Solo dopo la distruzione del

tempio (in una data incerta, ma anteriore alla metà del II secolo), tale norma fu estesa a tutti e integrata nella codificazione della Mishná; in tal modo essa, secondo lo spirito proprio della tradizione ebraica, divenne, nonostante fosse stata promulgata dai maestri, tanto valida come se provenisse direttamente dal Signore, cosicché tuttora, quando si compie questa abluzione (detta notilat judalm), si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, o Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comandato il lavaggio delle mani». È però assai difficile ritenere che all’epoca di Gesù qualcuno potesse recitare una simile benedizione.

     Sullo sfondo di queste precisazioni, risulta quanto meno strano che in Marco (ma non in Matteo 15,1-20) il discorso sulla purità prosegue fino a sfociare in una presa di posizione relativa alla stessa esistenza di cibi ritualmente puri (kasher). «Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non entra nel cuore, ma nel ventre e va fino alla fogna? Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,18-19). Non vi è dubbio infatti che le norme sulle purità del cibo non possono in alcun modo ritenersi «tradizioni degli uomini» (o degli antichi) (cf. Mt 15,2.2.6; Mc 7,8.9.13); al contrario, esse devono venir considerate solidamente fondate sulla Tôrà scritta (Pentateuco) (cf. Lv 11; Dt 14,3-20). Né vi è alcuna indicazione che Gesù e i suoi discepoli (almeno prima della pasqua) non si attenessero a questi precetti (stando a quanto pronunciato da Pietro nel libro degli Atti se ne dedurrebbe anzi il contrario, cf. At 10,14; 11,8). La disputa sui cibi divenne argomento di dibattito e tensione entro le comunità cristiane di origine pagana (cf. Gai 2,11-14; Rm 14,1-6), perciò si è ragionevolmente proposto di veder proiettati sulle pagine evangeliche i motivi propri di tali dispute.

     Subito dopo la discussione sull’impurità, Marco afferma che Gesù «partito di là, andò nel territorio di Tiro e Sidone» (Mc 7,24; cf. Mt 15,21); espressione quest’ultima che nel suo indicare una terra pagana assume un significato non tanto geografico quanto teologico (cf. 1Re 17,8-16; Le 4,25-26). Nella grande sezione del libro degli Atti (10, 1- 11,18), le tre volte avvenuta e le due volte raccontata visione di Pietro indicano chiaramente che il non considerare più impuro nessun cibo, in quanto tutto è purificato, deve ritenersi come grande metafora del rapporto (profondamente mutato dalla vicenda pasquale) tra figli d’Israele e figli delle genti; tant’è vero che Pietro stesso riassume il senso della sua visione con queste parole: «Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano (koinos) e immondo (kathartos) (At 10,28). Ai nostri giorni perciò, quando le polemiche interne a quelle primitive comunità sono ormai lontane, è legittimo (o addirittura richiesto) sostenere che la possibile partecipazione universale, attraverso la fede in Cristo, alla discendenza di Abramo da parte dei figli delle genti (cf. Gal 4,29) non solo non esclude, ma anzi addirittura comporta che i figli di Israele, popolo sacerdotale (Es 19,6), la cui elezione non è stata tolta (Rom 11,29), continuino ad essere assoggettati a norme più rigide a motivo della propria e altrui santificazione.

     Si è detto che il giudaismo, così come vissuto dai farisei (e/o dai chaverim), affrontava il problema della santificazione d’Israele (e santificare qui significa separare), e questo compito si distingue marcatamente dalla dinamica tipica della predicazione del regno e del buon annuncio di salvezza tipico di Gesù e degli apostoli. Per più aspetti tale affermazione

appare convincente, ma ciò non dovrebbe impedire di comprendere adeguatamente le regole insite in tale santificazione, che non coincidono affatto, come una superficiale lettura di qualche passo evangelico indurrebbe a credere (cf. Mt 15,1-20; 23,1-36; Mc 7,1-23; Lc 15,38-52), con un ipocrita tentativo di sostituire un’osservanza puramente esteriore all’ese-cuzione di più gravi e precisi precetti etici.

     Per comprenderlo basterebbe tenere presente l’ovvia quanto dimenticata distinzione che «ritualmente impuro» non equivale affatto a «moralmente riprovevole». Non a caso la maggior parte delle regole bibliche sulla purità indicano la maniera di purificare un’impurità contratta in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come ad esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf. ad es. Lv 12,1-8; 15,1-27; Num 19,11-22; Lc 2,22). Una tipica espressione rabbinica per indicare la canonicità di un testo sacro è quella di sostenere che esso «rende impure le mani» (cf. m. Jadaim 3,5); tale espressione sarebbe da sola sufficiente ad indicare l’ambito in cui il giudaismo colloca la sfera dell’impurità o della purità, sfera che ha a che fare non con l’eticità (e ancor meno con l’igiene), bensì con una santificazione della vita compiuta secondo una procedura che non dovrebbe venir schernita, non foss’altro a motivo della millenaria fedeltà con cui è stata osservata da Israele» (P. STEFANI, Sia santificato il tuo nome. Commenti ai Vangeli della domenica. Anno B, Marietti Genova 1987, p. 163-166).

     Se è dall’interno di noi che hanno inizio gli impulsi malvagi o quelli buoni, nel nostro stato di creature corporee abbiamo bisogno anche di segni esterni; proprio il gesto del lavaggio rituale delle dita, con la recita di un versetto di un salmo («Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato». Sal 51,4) è il gesto che il sacerdote compie nel rito della

messa subito dopo la preparazione delle offerte, prima di iniziare la grande preghiera eucaristica.

Meditazione

     Spesso, nei racconti evangelici, ci imbattiamo in lunghe ed aspre polemiche che vedono a confronto Gesù, il suo comportamento e la sua parola, con l’élite più rappresentativa e impegnata della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi. Questi, alcune volte contestano a Gesù o ai suoi discepoli un comportamento non conforme alle pratiche religiose comunemente e tradizionalmente accolte nel mondo giudaico; altre volte, invece lo interrogano su questo o quell’aspetto della Scrittura per sapere ciò che realmente pensa. In ogni caso questi incontri producono sempre tensione, scontro e si rimane stupiti dalla durezza con cui spesso Gesù reagisce di fronte a quel mondo spirituale e giuridico di cui i farisei erano rappresentanti. Soprattutto ciò che sembra irritare maggiormente Gesù non è tanto l’interpretazione della Scrittura che caratterizzava la visione religiosa di questi uomini, quanto piuttosto la loro sfacciata incoerenza che nascondeva, sotto una apparenza di perfezione, una autosufficienza idolatrica, quella radicale doppiezza di vita che si concentra nel titolo con cui spesso i farisei sono chiamati: ipocriti.

     È il caso della situazione presentata nel capitolo 7 di Marco il brano proposto in questa domenica (anche se la liturgia presenta solo una scelta di versetti per dare maggiore unita-rietà al contenuto). «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (v. 5). L’interrogativo stupito e irritato che gli scribi e i farisei pongono a Gesù è dunque motivato da un comportamento ‘spavaldo’ dei discepoli, i quali sembrano non tener in nessun conto le prescrizioni della legge. Il rap-porto tra Scrittura e Tradizione/tradizioni (vv. 6-13) e la relazione tra puro e impuro (vv. 14-23) che caratterizzano il dibattito che segue a questa domanda, mettono a fuoco un aspetto fondamentale. Ciò che è in questione in questa polemica, non sono tanto delle pratiche religiose, la loro validità o meno. Al centro c’è la relazione con Dio, la scoperta del luogo profondo e vero in cui questa relazione prende forma e da qualità a tutta la vita.

     Ma, proprio a partire da questo testo di Marco, ci si può domandare: erano realmente così i farisei? Citando il testo di Isaia 29,13, Gesù si rivolge ai farisei in questi termini: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti… Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (v. 6). L’ipocrisia è una prerogativa dei farisei oppure è qualcosa che si nasconde nel cuore dell’uomo? E perché, in ogni caso, l’ipocrisia poteva essere un rischio di questa categoria dei persone? Farisei e scribi di fatto rappresentavano la parte religiosamente più impegnata di Israele, seriamente preoccupata di tradurre nella vita concreta quel rapporto con Dio, quella saggezza che sgorgava dalla parola e che caratterizzava l’unicità del popolo dell’Alleanza.

La responsabilità personale, l’interiorità della decisione morale, il profondo senso della santità e dell’alterità di Dio, la consapevolezza del dono ricevuto nella Legge orientavano questi uomini nella ricerca di una sincera e radicale fedeltà alla volontà di Dio. Ma correvano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata. È il rischio che porta a una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attraverso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri. La gratuità di una relazione, lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà. Gesù smaschera questo pericolo mettendo a confronto ciò che l’uomo cerca (in questo caso ciò che i farisei difendono) e ciò che Dio desidera dall’uomo. 

     E c’è un primo confronto che colpisce. Il testo del Deuteronomio mette in bocca a Mosè queste parole: «…quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7). Colui che è il Santo, la cui trascendenza sembra rendere la creatura molto lontana da un incontro, è il Dio vicino, sempre disponibile quando lo si invoca, è il Dio che ha deciso di fare storia con l’uomo, di camminare con lui. Pur restando irriducibile alla creatura, si lascia trovare ogni giorno e la sua vicinanza si trasforma in fedeltà all’uomo e alla sua storia. Dio non è lontano; è l’uomo che spesso cammina per altre vie e colloca il suo cuore in luoghi diversi da quelli in cui può scoprire il volto di Dio.

E Gesù ricorda la parola di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6). Ecco il pericolo: la pretesa di accostarsi a Dio, rimanendo tuttavia estranei a Lui, lontani. E questo avviene quando il cuore della vita non aderisce veramente a Dio e alla sua parola, anche se si pretende di rendere un culto che è, alla fine, pura apparenza.

     Ma c’è un luogo in cui questa vicinanza si fa presenza efficace, parlante: è la Parola stessa di Dio contenuta nella Scrittura. Ancora Mosè ricorda al popolo di Israele: «Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica, perché viviate… quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza» (Dt 4,1.6). A Israele, il Signore chiede di ricambiare la fedeltà di cui Egli ha dato prova lungo il cammino di liberazione attra-verso il deserto, con l’obbedienza e l’ascolto di una Parola di vita e di saggezza. Ed ecco allora un altro contrasto: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini… Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13). L’uomo ha bisogno di attualizzare una obbedienza alla parola di Dio: è la legge della Incarnazione. Ma deve sempre tenere presente questo: che la parola di Dio resta continuamente aperta, anzi è la porta per un incontro vivo e personale con il Signore. Non basta osservare un precetto, se poi non si incontra veramente il volto del Signore. E questo avviene quando si va al cuore della Parola, al luogo dove si rivela ciò che Dio vuole da noi. E su questo punto Gesù è molto chiaro: il rischio che si incontra nell’assolutizzare un modo concreto di tradurre la Parola, è quello di non riuscire più ad andare al cuore di essa.

     Come il cuore della Parola ci rivela la volontà di Dio, ce lo fa incontrare, così è il cuore dell’uomo il luogo che deve essere custodito nella verità e nella purezza. Ecco il terzo contrasto che Gesù ci presenta. L’impurità che ci impedisce di accostarci a Dio o la purezza che ci permette di entrare nel luogo dove abita, non sono da ricercare fuori dell’uomo. E se c’è un comportamento esterno che ostacola il nostro rapporto con Dio o con i fratelli, in ogni caso il punto di partenza è sempre nel cuore dell’uomo: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male…»(v. 21). Il cuore dell’uomo non purificato è il covo di vizi che causano la rovina (cfr. Lc 6,45). E Gesù ci offre anche un elenco di ‘propositi di male’ (dialogismoi kakoi): dodici vizi, sei al plurale e sei al singolare che manifestano lo stato negativo del cuore attraverso un errato rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, con gli altri. L’ultimo vizio, la stoltezza, e la sintesi di un cuore intaccato dalla impurità e la fonte di ogni altro vizio: lo stolto è l’uomo che «non conosce Dio», l’uomo che dimentica e disprezza Dio, l’uomo lontano da Dio. «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (v. 20): non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio in chissà quale luogo perfetto e irreale; ci si deve purificare dal peccato che portiamo dentro di noi. È il cuore malvagio che ci rende incapaci di avvicinarci a Dio; ciò che unisce ed avvicina a Dio è il cuore nuovo, il cuore puro che Dio stesso crea nell’uomo, in tutti, peccatori e giusti, giudei e pagani. I farisei si accontentavano di prendere il pane con mani lavate; Gesù ci dice che per ‘afferrare’ il pane non servono mani pure, ma il cuore ‘secondo il Signore’. Il pane, il cibo, sono i simboli della vita, il simbolo della parola che è vita e che Gesù stesso ci dona. Per ricevere da lui questo pane di vita si deve avere un cuore nella verità, un cuore che ama, un cuore buono, che desidera la vita. Subito dopo questa disputa, Marco colloca l’episodio della donna siro-fenicia (Mc 7,24-30). A questa donna, pagana e perciò impura, Gesù dirà: «Non è bene prendere il pane di figli e gettarlo ai cagnolini» (v. 27). Così risponderà la donna: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli». La consapevolezza umile di una lontananza da Dio rende il cuore di quella donna puro e lo avvicina a Dio: può sedersi alla mensa ed afferrare il pane che vi è posto sopra, il pane del Figlio.

L’immagine della domenica

Il Cristo delle Nevi (Frontignano di Ussita (MC)     –     2021   

«Salite su una collina al tramonto. Tutti hanno bisogno, ogni tanto, di una prospettiva, e lì la troverete».

( Rob Sagendorph)

Casella di testo: Deuteronomio 4,1-2.6-8
Giacomo 1,17-18.21-22.27
Marco 7,1-8.14-15.21-23

Dalle circostanze più diverse Gesù enuncia insegnamenti di viva attualità. Nel testo evangelico di questa domenica sono i giudei che si avvicinano a Gesù per porre una questione: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?»

Tutto motivato perché i discepoli di Gesù non si attengono ad alcune norme rituali diffuse nel contesto giudaico. In concreto il fatto di lavarsi prima di prender il cibo; oppure fare le abluzioni dopo che uno è tornato dal mercato. 

Per noi sono cose che sembrano secondarie. Non era così allora. Di fatto, la Chiesa primitiva conoscerà la prima grande crisi appunto quando deve decidere se concedere valore permanente a certe norme giudaiche oppure dichiararne superate dalla novità del Cristo.
Non si può ignorare che il popolo d'Israele era il popolo della legge; una legge che, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, portava alla libertà, legge del deserto, dell'esodo per arrivare alla libertà...Però con il passare degli anni, questa legge non era più libera… ma costituiva un fardello pesante legato sulle spalle della gente. Allora il ritualismo assorbì l'adesione della mente e del cuore; il formalismo esteriore prese il posto della fede interiore; la purità legale sostituì quella morale; il gesto ripetitivo sostituì la coscienza. 
Gesù conobbe molto bene questa situazione e risponde con le parole del profeta Isaia: "Questo popolo mi onora con le lebbra, ma il suo cuore è lontano da me".
Ecco Dio vede nell’intimo del cuore, i gesti hanno la loro verità nel profondo del cuore; è nell’intimo della nostra coscienza che rispondiamo a Dio; è la nostra coscienza lo spazio della libertà, ma anche della nostra responsabilità, e questa coscienza non può fare a meno di Dio......perché soltanto la verità vi farà liberi, e Cristo è la Verità.

Preghiere e racconti

Questo popolo mi onora con le labbra

Fratelli, siamo umili, deponendo ogni vanagloria, vanità, stoltezza, ira e adempiamo ciò che sta scritto; lo Spirito santo dice, infatti: «Il saggio non si vanti della sua saggezza, né  il forte della sua forza, né il ricco della sua ricchezza, ma chi si vanta si vanti nel Signore, di cercarlo e di praticare il diritto e la giustizia» (cfr. Ger 9,22-23; 1Re 2,10; 1Cor 1,31; 2Cor 10,17). Ricordiamoci soprattutto delle parole del Signore Gesù, quando ci insegnava la benevolenza e la grandezza d’animo. Così diceva: «Siate misericordiosi per ottenere misericordia; perdonate per essere perdonati, come farete, così sarà fatto a voi; come date, così sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata con voi; la misura con la quale misurate, verrà usata con voi» (cfr. Mt 6,14-15; 7,1-2; Lc 6,31.36-38).

Attacchiamoci saldamente a questo comandamento e a questi precetti per procedere umili e obbedienti nelle sue sante parole; dice infatti la sua santa Parola: «A chi rivolgerò lo sguardo, se non al mite, al pacifico e che teme le mie parole?» (Is 66,2).

Uniamoci, dunque, a quelli che vivono la pace nella fede, non a quelli che fingono di volerla con ipocrisia. Dice infatti: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; Mc 7,6). E ancora: «Con la loro bocca benedicono, con il loro cuore maledicono» (Sal 61 [62] ,5). E ancora: «Lo amavano con la bocca e con la lingua gli mentivano, il loro cuore non era retto con lui, né rimanevano fedeli alla sua alleanza» (Sal 77 [78] , 36-37). […] Cristo appartiene agli umili e non a quelli che si elevano sopra il suo gregge. Lo scettro della maestà di Dio, il Signore Gesù Cristo, non è venuto nella vanagloria e nell’orgoglio, anche se avrebbe potuto, ma nell’umiltà, come lo Spirito santo aveva detto di lui. Sta scritto infatti: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il braccio del Signore a chi fu rivelato? Noi l’abbiamo annunciato in sua presenza: è come un bambino, come una radice in terra arida; non ha apparenza, né gloria» (Is 53,1-2). Vedete, carissimi, quale modello ci è dato!

(CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinti 13.15-16, SC 167, pp. 120-126).

L’umiltà

«Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l’abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).

«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra abiezione, ma nell’amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).

Verità e umiltà

Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce all’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.

Per tanti anni, per troppi anni, mi sono battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza. Il più sovente l’ho nascosta, preferendo apparire in pubblico con una bella maschera di sicurezza. E’ l’orgoglio che non vuole accettare l’impotenza, è la superbia che non fa accettare di essere piccolo; e Dio, poco alla volta, me l’ha fatto capire.

Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.

E’ un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il catechismo, avrei guadagnato quarant’anni. Ora l’impotenza mia la metto tutta in faccia all’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza. E mi pare essere giunto il momento d’un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare insieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito. Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.

E in questo incontro fra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.

E’ lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.

E’, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.

E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’ è verità, e senza verità non c’ è umiltà. 

(Carlo Carretto)

Quel rischio di una fede dal «cuore lontano» piegata all’esteriorità

Si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate (…), quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me (…)”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «(…) Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro (…)». E diceva ai suoi discepoli: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male (…)».

Gesù viveva le situazioni di frontiera della vita, incontrava le persone là dov’erano e attraversava con loro i territori della malattia e della sofferenza: dove giungeva, in villaggi o città o campagne, gli portavano i malati e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccavano venivano salvati (Mc 6,56). Da qui veniva Gesù, portando negli occhi il dolore dei corpi e delle anime, e insieme l’esultanza incontenibile dei guariti. Ora farisei e scribi lo provocano su delle piccolezze: mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti! Si capisce come la replica di Gesù sia decisa e insieme piena di sofferenza: Ipocriti! Voi avete il cuore lontano! Lontano da Dio e dall’uomo.

Il grande pericolo, per i credenti di ogni tempo, è di vivere una religione dal «cuore lontano», fatta di pratiche esteriori, di formule recitate solo con le labbra; di compiacersi dell’incenso, della musica, della bellezza delle liturgie, ma non soccorrere gli orfani e le vedove (Giacomo 1,27, II lettura). Il pericolo del cuore di pietra, indurito, del «cuore lontano» da Dio e dai poveri è quello che Gesù più teme.

«Il vero peccato per Gesù è innanzitutto il rifiuto di partecipare al dolore dell’altro» (J. B. Metz), e l’ipocrisia di un rapporto solo esteriore con Dio. Lui propone il ritorno al cuore, per una religione dell’interiorità. Non c’è nulla fuori dall’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, sono invece le cose che escono dal cuore dell’uomo… Gesù scardina ogni pregiudizio circa il puro e l’impuro, quei pregiudizi così duri a morire. Ogni cosa è pura: il cielo, la terra, ogni cibo, il corpo dell’uomo e della donna. Come è scritto: «Dio vide e tutto era cosa buona». Gesù benedice di nuovo le cose, compresa la sessualità umana, che noi associamo subito al concetto di purezza e impurità, e attribuisce al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.

Il messaggio festoso di Gesù, così attuale, è che il mondo è buono, che le cose tutte sono buone, che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che devi custodire invece con ogni cura il tuo cuore perché è la fonte della vita. Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale, che lui chiama «tradizione di uomini». Libero e nuovo ritorni il Vangelo, liberante e rinnovatore. Che respiro di libertà con Gesù! Apri il Vangelo ed è come una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, ovvii discorsi. Scorri il Vangelo e ti sfiora il tocco di una perenne freschezza, un vento creatore che ti rigenera, perché sei arrivato, sei ritornato al cuore felice della vita.

(Ermes Ronchi)

Dove risiede il male che l’uomo compie e che lo rende ai suoi occhi e a quelli altrui panno immondo: in lui o al di fuori di lui? A questo interrogativo che da sempre assilla la mente umana offre spiragli di luce la pagina evangelica, una controversia tra alcuni farisei, scribi e Gesù a proposito delle leggi di purità rituale (Mc 7,1-13).

Diatribe usuali tra le varie scuole rabbiniche dedite a consumare il tempo in dissertazioni, disputando e dando avvio a casistiche mai concluse. Il caso in questione nasce da una osservazione sfociata in una domanda da parte di farisei e alcuni scribi: «Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate… interrogarono Gesù: Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,2.5). Ove per «tradizione degli antichi» si intende la legislazione orale fatta risalire a Mosè stesso e aggiunta alla Legge scritta, mentre l’espressione «mani impure» rimanda al sistema del puro e dell’impuro dotato di una sua ritualità e attento a separare l’uno dall’altro come il bene dal male e il male dal bene. Così è male e fonte di contaminazione, quindi impuro, il toccare un lebbroso, il mangiare certe carni, il prendere cibo con le mani sudicie e su stoviglie non lavate. Male perché contraddice usanze in ultima istanza fatte risalire a Dio per il bene dell’uomo. E bene, quindi puro, sono la cura alimentare e igienica.

2. Gesù non si nega a una risposta a più riprese: a scribi e farisei (Mc 7,6-13), alla folla (Mc 7,14-15) e in privato ai discepoli (Mc 7,17-23). Ai primi, dopo averne sottolineata l’ipocrisia di obbedienti a Dio a parole e di distanti da Dio con il cuore (Is 29,13), tipico di una religiosità ridotta a formalismo rituale, ricorda l’urgenza di mai dimenticare la distinzione tra «parola di Dio» (Mc 7,13) e «dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,7.13). Opera a cui Gesù si è interamente dedicato rimandando al perno attorno a cui tutto ruota, la parola divina dell’amore in mitezza e umiltà di cuore. Questo il suo dolce giogo e il suo peso leggero che libera l’uomo da dottrine e prassi imposte in nome di Dio ma in realtà pura invenzione umana (Mt 11,18-20). E’ da Dio ogni volontà di bene solidale con il diritto del bisognoso (Mc 7,10-13), questo rende puro l’uomo; non è da Dio ogni dottrina che in suo nome attenta al primato della cura del povero mondo, sia pure per ragioni di culto quando non di bottega: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (Gc 1,27). Questo dice Gesù a farisei e scribi di ogni religione e Chiesa, e questo dice rivolto alla folla: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro» (Mc 7,14-15). Discorso ripreso e approfondito con i suoi discepoli: «Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male…cose cattive che rendono impuro l’uomo» (Mc 7,21.23).

L’insegnamento è chiaro. Il porsi di una vita in termini di bene, pura quindi, in definitiva non dipende da ciò che è «esterno» all’uomo. Si tratti di cibi: «Così rendeva puri tutti gli alimenti» (Mc 7,19) dichiarando che tutto è dono di cui ringraziare, da usarsi con misura e da condividere. Si tratti di preoccupazioni igieniche, il Vangelo sa bene che dietro un vestire lussuoso, nitori in ogni angolo della casa e corpi profumati possono nascondersi lupi rapaci, sepolcri imbiancati e cadaveri ambulanti. Belli fuori e sporchi dentro. Si tratti infine di identificare la fonte del male solo fuori di sé, l’altro da te singolo o gruppo. «Ma il Gesù di Marco non condivide questa illusione: l’interiorità dell’uomo è preda del male. Paolo direbbe: Giudei e greci, tutti sono sotto il dominio del peccato (Rm 3,9). Solo dall’esterno dell’uomo, cioè dalla parola autorevole di Gesù, può venire la liberazione» (E. Cuvillier).

3. L’invito è a scendere nel proprio cuore per apprendere chi e che cosa lo abita, pensieri impuri resi palesi dal corpo che rendono contaminato l’intero esistere dell’uomo, distorta la sua relazione con il cibo (gola), con la sessualità (lussuria), con l’avere (avarizia), con il tempo e lo spazio (accidia o nausea), con il prossimo (ira, gelosia e invidia) e con Dio (superbia e orgoglio). Questa è la realtà interiore dell’uomo, una diagnosi disincantata e un disoccultamento delle sue oscure profondità a cui è terapia la parola illuminatrice e sanatrice di Colui che vuole nascere in noi per farci nascere alla nostra verità di uomini, creature nelle quali pulsi un cuore di carne che adora Dio e che si prende cura del prossimo nel retto uso della propria corporeità, dei propri beni e del proprio tempo. Ove la stessa igiene e la stessa attenzione ai cibi divengono atti di amore del prossimo graditi a Dio.

(Giancarlo Bruni)

Preghiera

Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia. Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito perseguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli. Permettici di riconoscere le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’autenticità della nostra relazione con te e fra di noi.

Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi. Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare. Ci impegniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.

Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di diventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Montecchi

PER L’APPROFONDIMENTO:

IL PODCAST: Portiamo la fede in vacanza


Riccardo Maccioni

Avvenire

È l’estate del cristiano il tema al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste, podcast dedicato a cosa crede chi crede. Cosa fare per evitare di mandare in ferie, cioè di dimenticare, la fede.

L’estate è, per eccellenza un tempo che chiama al riposo, allo svago, in cui, chi ha la possibilità, si concede qualche giorno al mare o in montagna. Ma il cristiano come deve vivere le vacanze? Molti, infatti, sottolineano il rischio che d’estate si mandi in ferie anche la fede, dimenticando per esempio la preghiera e la partecipazione alla Messa. Il tema è al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste che si interroga su come conciliare Vangelo e tempo libero, visto che la parola vacanza nelle Scritture non c’è. Insomma, il credente è chiamato a vivere in modo particolare il periodo estivo? Deve organizzarsi in modo diverso dagli altri? Tra gli spunti di riflessione, il decalogo preparato dai vescovi francesi sulle vacanze cristiane, le parole dei Papi, il testamento spirituale di padre Jacques Hamel, parroco transalpino ucciso da due terroristi islamici.

Taccuino celeste è il podcast di Avvenire dedicato ai temi della fede e della religione, a cosa crede chi crede. Nelle ultime settimane si è occupato, tra l’altro, di Purgatorio (esiste davvero?), delle false dicerie su Maria Maddalena, di cosa sono gli scismi e le eresie, di quando dovrebbe durare un’omelia, del culto delle reliquie.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it

Ps: Taccuino celeste si ferma un attimo per la pausa estiva. Tornerà con un nuovo episodio l’11 settembre.

XVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Esodo 16,2-4.12-15

         In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine». Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”».     La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».        
  • Dopo l’epica trionfale del passaggio del mar Rosso, celebrata nel c. 15 dal canto dei figli d’Israele, i lunghi anni di peregrinazioni nel deserto vedono i ripensamenti, le mormorazioni, le ribellioni del popolo, e la paziente cura con cui Dio lo assiste. È una lunga pedagogia attraverso la quale il popolo dovrà imparare che solo da Dio viene la salvezza e la vita.

     È il tema della «tentazione» e della «prova»: il popolo «tenta» Dio con le sue accuse, perché non si fida; Dio «mette alla prova» il popolo per temprarlo a dargli forza.

     Nel racconto prevale la redazione dovuta alla fonte sacerdotale (P), la più recente, che con uno stile più involuto e barocco insiste sugli aspetti anche rituali della vita della comunità, presenta Aronne accanto a Mosè, richiama la legge del sabato (anche se non è stato ancora consegnato il decalogo).

1. NOTE ESEGETICHE

     vv. 2-4 — A Mara l’intervento del Signore ha reso dolce e potabile l’acqua; nel deserto di Sin gli Israeliti patiscono la fame. Tutta la comunità si lamenta: singolare questa sottolineatura di una unanimità nella ribellione. È più facile compattare il popolo nella sterile protesta, che far nascere una comunione di spiriti concorde nella sequela del Signore.

     Termine della protesta non è il Signore, ma i suoi portavoce: Mosè e Aronne. La libertà costa cara, è un dono che va anche guadagnato passo dopo passo nella lunga traversata del deserto: il popolo non regge al peso.

     Il ricordo della schiavitù si sbiadisce e cede il posto al ricordo del cibo assicurato.

     Il Signore parla a Mosè, prima ancora che questi abbia potuto trasmettergli le lamentele del popolo: previene l’intercessione, che pure è un compito che Mosè assolve di frequente a favore del popolo (cf. 14,13-15).

     Il Signore farà piovere il pane dal cielo: è la gratuità assoluta del dono, intervento miracoloso dall’alto; ma il popolo dovrà ogni giorno — con l’eccezione del sabato — «uscire» e «raccogliere» la razione quotidiana.

     È richiesta quindi anche una attività, per così dire, di cooperazione al dono divino.

     Uscire (jatsa’) è il verbo usato per l’uscita, cioè la liberazione, dall’Egitto: il popolo, materialmente già liberato con il passaggio del mare, deve ora liberarsi spiritualmente, smettere di rimpiangere la terra di schiavitù e accogliere consapevolmente e responsabilmente la difficile condizione di libertà.

     Raccogliere (laqat) è il lavoro del contadino, ma anche la spigolatura (cf. Rut): lavoro sì quindi, ma reso possibile da un’offerta e da una disponibilità gratuita, accolto con umiltà.

     La razione del giorno allontana ogni tentazione di accumulo e di possesso; il termine è diverso (la LXX traduce tò tès emèras, e non epioùsios), eppure forte è la valenza evocativa del «pane quotidiano» del Padre nostro.

     Il dono è anche una prova (nasah) per verificare l’osservanza della Legge da parte del popolo. Dio non «mette alla prova» mandando chi sa quali sventure, ma donando il necessario per vivere: accettare la vita come dono di Dio è un atto di fede non sempre così scontato.

     v. 12 — Ed ecco ancora ripetute le parole del Signore che preannunciano il duplice prodigio: la carne al tramonto e il pane al mattino, con il consueto ritornello: così il popolo saprà che il Signore è il suo Dio.

     vv. 13-15 — Viene descritta ora la realizzazione del prodigio. Come avviene per il passaggio del mare, si tratta di fenomeni naturali (i forti venti che provocano le secche nel «mare dei giunchi», il passaggio periodico degli uccelli migratori, la resina che si forma sulle tamerici del deserto), che assumono tuttavia la forma del miracolo per l’eccezionalità con cui si verificano e la corrispondenza alla parola del Signore. L’apparire della manna al mattino è descritto con stupore sacrale: qualcosa di granuloso, fine come la brina, che gli Israeliti non avevano mai visto. E questo stupore rimane nel nome: la domanda «cos’è?» (man hu) è un’etimologia popolare della parola «manna». Mosè dà la risposta giusta, det-tata dalla fede e non dalla botanica: è il pane che il Signore ha promesso e dato, è il «pane dal cielo» di cui Gesù darà una nuova lettura nel cap. 6 del vangelo di Giovanni.

Seconda lettura: Efesini 4,17.20-24

         Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri. Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.  
  • Vicina per tema e per stile alla lettera ai Colossesi, quella agli Efesini è stata paragonata alle variazioni infinite e alle concatenazioni di un’opera musicale barocca. Piuttosto che una lettera ai cristiani di Efeso, è probabilmente una circolare diretta alle assemblee della Frigia. Indicata fra le «lettere della prigionia», potrebbe risalire agli anni 65/70, per mano di uno dei discepoli di Paolo, forse dopo la scomparsa dell’Apostolo.

1. NOTE ESEGETICHE

     Il capitolo 4 apre la parte parenetica della lettera.

     v. 17 — Dopo aver fortemente richiamato la centralità di Cristo, il capo da cui tutto il corpo ecclesiale trae linfa vitale «in modo da edificare se stesso nella carità» (v. 16), l’esortazione si fa più precisa. Essa poggia su una serie di opposizioni fra ieri e oggi, fra i pagani e coloro che hanno «imparato a conoscere il Cristo», fra l’umanità antica e quella nuova.

     L’autore prende le distanze dallo «ieri» dei pagani per esortare alla scelta di un comportamento «nuovo».

     vv. 20-21 — «Avete imparato a conoscere il Cristo» significa lasciarsi istruire da lui a vivere secondo l’abito nuovo, quello del battesimo. Emàthete (avete imparato) è la stessa radice di mathetès (discepolo).

     vv. 22-24 — L’uomo vecchio, che si corrompe seguendo illusorie chimere, deve essere abbandonato: nel battesimo siamo «sepolti» con Cristo (Rm 6,4). L’uomo nuovo, che corrisponde al disegno della creazione, esige un rinnovamento della mentalità: una metanoia, una conversione. «Rivestire Cristo» e «nuova creatura» sono temi ricorrenti nell’epistolario paolino (cf. Ef 2,15; Rm 13,14; 2Cor 5,17; Col 3,10).

Vangelo: Giovanni 6,24-35

            In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».  Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».  Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».  

Esegesi

     Il capitolo 6 del vangelo di Giovanni è dedicato alla moltiplicazione dei pani e al lungo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, in cui egli si identifica nel «pane disceso dal cielo». La tradizione dottrinale e liturgica della Chiesa ha da sempre applicato questo discorso al mistero dell’eucarestia.

     Compiuto il miracolo, Gesù sfugge alla folla che vorrebbe farlo re e si ritira solo sul monte: non è un messianismo trionfalistico il suo, ed è necessaria una lunga catechesi perché gli stessi discepoli possano essere condotti ad accettare la via della croce. Segue l’episodio di Gesù che cammina sulle acque, segno anticipatore della risurrezione, alla luce della quale soltanto i discepoli potranno comprenderlo.

     La pericope che qui commentiamo contiene la rivelazione di Gesù, vero pane di vita.

     vv. 24-25 — La folla attraversa il lago in direzione di Cafarnao, alla ricerca di Gesù. Il tema della ricerca è costante nei Vangeli: si tratta spesso di una ricerca iniziale, inconsapevole, non riflessa, che scaturisce da esigenze primarie e immediate, come il bisogno di pane. Gesù non respinge questa esigenza elementare e non disdegna di soddisfarla, come ha mostrato con il miracolo; ma altro è il dono che egli porta.

     I due versetti sono prospettici: il v. 24, che introduce la ricerca (zetèo), rinvia al 26 (mi cercate…), mentre il v. 25, in cui si chiede «come mai» (pote) Gesù è arrivato oltre il lago, rinvia al 52: «come (pos) costui può darci da mangiare la sua carne?».

     v. 26 — Gesù conosce i cuori degli uomini e sa che lo cercano perché vogliono saziare la loro fame.

     Non hanno ancora compreso che il miracolo non è un prodigio che mira a sorprendere, un modo per risolvere a buon mercato i problemi quotidiani, una soddisfazione materiale o un atto di potenza; il miracolo è segno, indica al di là di sé una verità più profonda, ed è quella che bisogna cercare. Non hanno visto il segno, si sono fermati al pane: da qui parte Gesù per la grande catechesi eucaristica, per rivelare quale è il pane vero che dà la vita eterna. E solo pochi sapranno intendere le sue parole (cf. vv. 66-69).

     I vv. 26-27, riferiti alla moltiplicazione dei pani, sono come la proposizione del tema: Gesù (il Figlio dell’uomo) da un cibo che non perisce.

     vv. 27-30 — Il tema qui introdotto è la fede, e la parola-chiave che lega questi versetti è operare/opera (ergàzein/ergon): l’opera di Dio è credere.

     L’esortazione di Gesù al v. 27, «procuratevi (ergàzesthe) il cibo che rimane», è ripresa nella domanda del v. 28: «cosa dobbiamo fare per compiere (ergazòmetha) le opere di Dio?» L’aporia che sembra sussistere tra un’attività tesa a procurarsi il cibo, e il fatto che questo cibo sia un dono (il Figlio dell’uomo ve lo darà), viene risolta al v. 29: l’opera consiste nel credere (pistèuete) in colui che Dio ha mandato. Le opere di cui i discepoli non hanno ancora capito il senso (erga) del v. 28 —; pensano infatti a precetti da osservare, a opere meritorie da compiere — diventano in bocca a Gesù un’unica opera (ergon): la fede, decisione radicale che coinvolge la libertà dell’uomo e trasforma la vita, è l’opera di Dio che apre alla possibilità della vita eterna (il cibo che rimane per la vita eterna).

     v. 30 — La domanda è legata a ciò che precede («cosa fai?», tì ergathe) e a ciò che segue, il ricordo della manna che provoca la spiegazione/rivelazione di Gesù. Cominciano a intuire di non aver percepito i «segni» di cui parla Gesù («non perché avete visto dei segni», v. 26), ma chiedono ancora il «segno» come una prova, una garanzia miracolistica che svuoterebbe la decisione di fede dal coinvolgimento libero, responsabile e personale.

     v. 31 — L’espressione di Gesù (che crediate in colui che Egli ha mandato) è chiaramente messianica, e coerentemente i suoi uditori si richiamano all’Esodo, figura di liberazione e di salvezza.

     vv. 32-35 — Il tema è ora il discorso di rivelazione: Gesù è il pane del cielo, il vero pane di Dio. Gesù infatti interpreta il miracolo della manna: non Mosè, ma Dio dà il pane del cielo; e il pane vero, di cui la manna è semplice figura, è quello che scende dal cielo (preesistenza del Figlio) e dà la vita al mondo (missione universale di Gesù).    

     La richiesta del v. 34 ricalca quella della Samaritana (cf. 4,15), con lo stesso fraintendimento tra il livello del cibo e dell’acqua materiali e il livello del segno salvifico. La conclusione di Gesù è il discorso di rivelazione, introdotto dalla formula «Io sono». Gesù si identifica con «il pane di vita», la fede in lui è ciò che dà la salvezza, libera dalla fame e dalla sete, non solo in senso materiale. Questa è la novità sconvolgente, su cui il discorso di Cafarnao continua, fino a provocare scandalo (v. 61) e scissione nella comunità: «da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro» (v. 66). La salvezza consisterà nel riconoscere nella fede le «parole di vita eterna» (v. 68).

L’immagine della domenica

MONTE TERMINILLO (RIETI)     –       2021   

«Niente di più bello

che trovare camminando

ciò che unicamente

camminando si cerca».

(in: Andrea Panont, La mia gioia sia in voi)

Casella di testo: Esodo 16,2-4.12-15
Efesini 4,17.20-24
Giovanni 6,24-35


Un Vangelo di grandi domande. Chiedono a Gesù: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Egli risponde: “Questa è l'opera di Dio, credere in colui che egli ha mandato”. Al cuore della fede sta la tenace, dolcissima fiducia che Dio ha il volto di Cristo, il volto di uno che sa soltanto amare. Nessun aspetto minaccioso, ma solo le due ali aperte di una chioccia che protegge e custodisce i suoi pulcini (Lc 13,34). È questa fiducia che ti cambia la vita per sempre, un'esperienza che se la provi anche una volta sola, dopo non sei più lo stesso: sentirti amato, teneramente, costantemente, appassionatamente, gelosamente amato. E sentire che lo stesso amore avvolge ogni creatura.

“Quale segno fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi?”. La risposta di Gesù: “Io sono il Pane della vita”. Un solo segno: io nutro. Nutrire è fare cosa da Dio. Offrire bocconi di vita ai morsi dell'umana fame, quella del corpo e quella che il pane della terra non basta a saziare. Pane di cielo cerca l'uomo, cibo per l'anima: vuole addentare la vita, goderla e gioirne in comunione, saziarsi d'amore, ubriacarsi del vino di Dio, che ha il profumo stordente della felicità. Come un tempo ha dato la manna ai padri vostri nel deserto, così oggi ancora Dio dà. 
“Dio dà”. Due parole semplicissime eppure chiave di volta della rivelazione biblica. Dio non chiede, Dio dà. Dio non pretende, Dio offre.  Dio non esige nulla, dona tutto.
Meditazione

     Nel Vangelo di Giovanni i segni che Gesù opera sono sempre accompagnati e interpretati dai suoi discorsi. Se il segno conferma l’efficacia della Parola, sigillandone la rivelazione, è la Parola che consente di non fraintendere il segno. Non è pertanto ‘vedere’ il segno a generare la fede, piuttosto è credere nella parola di Gesù che consente di ‘vedere’ nel modo giusto il segno e di accoglierlo nel suo significato più vero e fecondo per la nostra vita. Questa dinamica caratteristica del IV Vangelo ritorna evidente al capitolo sesto, dove il discorso nella sinagoga di Cafarnao interpreta il gesto con cui Gesù ha sfamato le folle. Quanto accade nel racconto di Giovanni è peraltro ciò che si ripete in ogni celebrazione eucaristica, nella quale siamo invitati ad alimentare la nostra fede personale e la nostra vita comunitaria all’unica mensa della Parola e del Corpo di Cristo, secondo la suggestiva espressione del Vaticano II (cfr. DV 21). Questa unità tra Parola e Segno va tenuta presente anche nel leggere Giovanni 6. Secondo la tradizione sinottica, Gesù risponde alla prima tentazione del deserto citando Dt 8,3: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Mt 4,4). Anche in questo ‘deserto’ Gesù dona il cibo, ma non fa mancare la sua parola, che consente di accogliere il pane quale esso veramente è: segno di Dio che rivela se stesso prendendosi cura della vita dell’uomo. Anzi, offrendo il proprio Figlio come pane per la vita dell’uomo. Pane che nutre l’esistenza umana a condizione che ci sia una parola che porti alla luce la sua fame nascosta e più vera. Anche in Samaria la donna incontrata presso il pozzo si era vista consegnare, sempre dalla parola di Gesù, alla sua vera sete. Qual è dunque la nostra fame?

     La liturgia della parola domenicale, dopo aver proclamato il segno nella scorsa domenica, per quattro domeniche consecutive ci fa ascoltare il discorso che segue. L’inevitabile suddivisione del capitolo in cinque parti rende più difficile seguirne lo sviluppo unitario. Può essere perciò utile ricordare subito la trasformazione che, grazie al gesto e alla parola di Gesù, avviene tra l’apertura e la conclusione del capitolo. All’inizio del racconto, «lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi» (v. 2). Alla fine del capitolo solo i Dodici rimangono, professando la loro fede con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (vv. 68-69). Dal seguire Gesù perché si vedono i segni operati sui malati alla fede di chi rimane perché crede in una parola di vita; dalla fame di pane al desiderio di una comunione personale con Gesù (da chi altri andare?); dalla guarigione delle malattie alla pienezza della vita eterna: questo è il passaggio molteplice che il segno operato da Gesù, e la parola che lo interpreta, sollecitano a compiere. Non per nulla l’evangelista aveva an-notato che quanto Gesù desiderava operare celava un’intenzione precisa: mettere alla prova Filippo, e insieme a lui ogni discepolo, quelli di allora come quelli di oggi. «Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere» (v. 6). La prova biblica, soprattutto quella che caratterizza il cammino nel deserto, come ci ricorda anche la prima lettura tratta da Esodo 16, non intende solo saggiare quello che c’è nel nostro cuore o la qualità della nostra relazione con il Signore, ma anche purificare la nostra fede per renderla sempre più aderente all’opera di Dio e aperta alla sua rivelazione. Gesù sapeva quello che stava per compiere; la prova è ciò che consente al discepolo di entrare sempre più profondamente in questo suo stesso sapere. I segni che Gesù compie hanno questa duplice valenza: rivelano il mistero di Dio perché nello stesso tempo purificano la fede degli uomini. Nei dialoghi del vangelo di Giovanni la rivelazione si attua sempre secondo questa dinamica, che ritorna puntualmente anche in questo racconto: «Il segno è la moltiplicazione dei pani, letta dalla folla e letta da Gesù: è nel contrasto tra queste due letture che si rivela chi è Gesù» (B. Maggioni).

     La domanda che alla fine Gesù porrà ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» (v. 67) deve essere l’interrogativo che sentiamo rivolto alla nostra stessa fede e può illuminare la lettura dell’intero dialogo, non solo delle sue battute conclusive. Certo, rispondiamo insieme a Pietro, vogliamo rimanere! Gesù ci ricorda tuttavia qual è la condizione per farlo davvero, senza andarsene altrove come accade ai più: accettare che la sua parola ci metta alla prova, ci purifichi, ci converta.

     Nel testo che leggiamo in questa domenica la conversione si attua almeno a due livelli: è infatti relativa tanto al che cosa cercare quanto al come cercare. Il tema della ricerca è sollevato da Gesù stesso, che svela l’ambigua ricerca degli uomini: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). È superficiale anche la domanda: «Rabbì, quando sei venuto qua?» (v. 25). Non è il quando, ma il da dove e il perché, ossia verso dove e a quale fine, che consente di capire chi sia davvero Gesù. Come mostrerà l’intero discorso, Gesù è colui che viene dal Padre per dare la vita al mondo, attraverso la sua carne offerta. «Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (v. 33). Solamente nell’orizzonte di questo movimento si capisce chi è Gesù. Egli discende dal cielo perché donato dal Padre, e viene per donare al mondo la vita stessa che riceve da Dio. Non è forse questo il sigillo che Dio, il Padre, ha posto sul Figlio? Il sigillo di un dono, che fa sì che il nostro desiderio di vita venga appagato non quando cerchiamo un pane che sazia la nostra fame, colmando il nostro bisogno, ma quando, nutrendoci di questo pane di vita che soltanto Gesù offre, anzi, che egli stesso è, ci lasciamo condurre da esso in una logica diversa. Quella del dono, secondo la quale saziarne il nostro desiderio di vita (la nostra sete, la nostra fame) ogni qualvolta, anziché preoccuparci di appagare i nostri bisogni, diventiamo a nostra volta capaci di prendere in mano la nostra esistenza per consegnarla nel gesto dell’offerta. La differenza che deve convenire la nostra ricerca non consiste tanto tra un pane materiale che colma una fame corporale e un altro genere di pane o di fame. La differenza sta nella logica diversa con cui ci rapportiamo alla nostra vita e a quella degli altri. Da una parte la logica vorace del possesso, dall’altra quella eucaristica e gratuita dell’offerta di sé. Per compiere il segno Gesù non aveva forse chiesto proprio questo ai discepoli? Che divenissero capaci di offrire tutto ciò che avevano, i duecento denari o quanto quel ragazzino poteva mettere a disposizione, perché la folla ricevesse tutto ciò di cui aveva bisogno? Questo è il pane che non perisce; un pane che dura perché ha la consistenza del dono di sé, che rimane, mentre al contrario presto svanisce o si imputridisce, come accadeva alla manna nel deserto, tutto ciò che tentiamo di possedere egoisticamente per noi e per il nostro vantaggio.

     «Il pane della vita, sono io», afferma con decisione Gesù al v. 35, e «chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». Andare a Gesù, entrare in comunione con lui attraverso l’unica opera che Dio ci chiede di compiere, la fede, significa per il discepolo assumere la sua logica, o meglio lasciarsi introdurre in quel movimento di consegna che Gesù vive: donato dal Padre al fine di essere dono per il mondo. La vita che, facendosi pane, Gesù ci comunica, è la vita eterna. Una vita che dura, rimane, perché condivide la qualità stessa della vita di Dio. È la vita del mondo di Dio, del suo modo di essere, tutto attraversato e contrassegnato dalla logica del dono di sé: il dono della vita che il Padre fa al Figlio, che il Figlio accoglie e non disperde per donarla a sua volta agli uomini.

     Il «fate questo in memoria di me» che ripetiamo in ogni eucaristia assume in tal modo il suo spessore più vero. Ci nutriamo di questo pane di vita, che è Gesù, per divenire sua memoria vivente. Per saziarci di questo pane non dobbiamo fare molte opere o impegnare sforzi eccessivi: una sola è l’opera da compiere, la fede, come uno solo è il comandamento nuovo da vivere, l’amore (cfr. 13,34). La prospettiva di Giovanni è unitaria e unificante: c’è un solo pane di vita che ci sazia, il Signore Gesù; per entrare in comunione con lui è necessaria una sola opera, credere in lui, consentendo così alla vita che ci comunica di portare il suo unico frutto in noi, che è l’amore. In tal modo il dono che riceviamo non perisce, trattenendolo per noi stessi, ma rimane, come dono condiviso nella carità.

Preghiere e racconti

Il pane che ci unisce

Nello spezzare il pane insieme noi affermiamo la nostra condizione spezzata, anziché negare la sua realtà. Diventiamo più consapevoli che mai di essere presi, messi a parte come testimoni di Dio; di essere benedetti dalle parole e dagli atti della grazia; di essere spezzati, non per vendetta o per crudeltà, ma al fine di diventare un pane che può essere dato come cibo agli altri. Quando due, tre, dieci, cento o mille persone mangiano unite alla vita spezzata e versata di Cristo, esse scoprono che la loro stessa vita è parte di quell’unica vita e si riconoscono così a vicenda come fratelli e sorelle.

Vi sono pochi luoghi rimasti al mondo dove la nostra comune umanità può essere elevata e celebrata, ma ogni volta che ci riuniamo attorno ai semplici segni del pane e del vino noi abbattiamo molti muri e cogliamo un barlume delle intenzioni di Dio per la famiglia umana. E ogni volta che questo accade, siamo chiamati a preoccuparci maggiormente non soltanto del benessere dell’altro, ma anche del benessere di tutti nel mondo. Lo spezzare il pane dunque… ci mette in contatto con coloro il cui corpo e la cui mente è stata spezzata dall’oppressione e dalla tortura e la cui vita viene distrutta nelle prigioni di questo mondo. Ci mette in contatto con gli uomini, le donne e i bambini la cui bellezza fisica, mentale e spirituale rimane invisibile a causa della mancanza di cibo e di riparo…

Queste relazioni ci rendono davvero «uniti nel pane» e ci sfidano a operare con tutte le nostre energie per il pane quotidiano di tutti. In questo modo il nostro pregare insieme diventa un appello all’azione.

(Henri J.M. NOUWEN, Compassion, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 197-198).

Quelli che mangiano di me avranno ancora fame

Dice la Sapienza: «Quelli che mangiano di me avranno ancora fame, quelli che bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,29). Cristo, Sapienza di Dio, non viene ora mangiato fino saziare il nostro desiderio, ma soltanto in una misura in cui rinnova il nostro desiderio di sazietà e più gustiamo la sua dolcezza, più il nostro desiderio viene ravvivato. Per questo quelli che lo mangiano avranno ancora fame, finché non giungeranno a sazietà. Ma quando il loro desiderio sarà stato colmato dai beni celesti, non avranno più né fame né sete (cfr. Ap 7,16). Le parole: «Quelli che mangiano di me avranno ancora fame» si possono intendere come riferite al mondo futuro perché c’è in questa sazietà eterna una specie di fame che non deriva dal bisogno, ma dalla felicità. Gli invitati al banchetto desiderano sempre mangiare e non si stancano di saziarsi. La sazietà non conosce fastidi e il desiderio sospiri. Cristo infatti, sempre ammirabile nella sua bellezza, è sempre pure desiderabile, lui «nel quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo» (1Pt 1,12). Così pur possedendolo lo si desidera, e mentre lo si possiede lo si cerca come sta scritto: «Cercate sempre il suo volto» (Sal 104 [105],4). Si cerca sempre colui che si ama per possederlo sempre. Così quelli che lo trovano lo cercano ancora, quelli che lo mangiano ne hanno ancora fame, quelli che lo bevono ne hanno ancora sete. Ma questa ricerca elimina ogni preoccupazione, questa fame scaccia ogni fame, questa sete estingue ogni sete. Non è la fame dell’indigenza, ma della felicità raggiunta.

(BALDOVINO DI FORD, Il sacramento dell’altare 2,3, SC 93, pp. 252-254)

L’effimero non soddisfa

 Che cos’è l’effimero? È ciò che il mondo produce e che offre alla tua fame, senza però poterla saziare. Sono i piaceri della vita, la gloria, il potere, la ricchezza e tutto ciò che popola la fiera delle vanità che gli uomini amano frequentare. Tuttavia non tutto ciò che è effimero è da condannare. Al contrario vi sono tante cose buone, il cui uso e possesso ci è donato dalla bontà del Creatore. La creazione stessa, benché sottoposta alla caducità, è un meraviglioso dono col quale l’Onnipotente desidera rallegrare le nostra vita qui sulla terra. Eppure le cose effimere, anche quando sono buone, possono trasformarsi in un pericolo per la nostra anima e in una illusione pericolosa nella nostra ricerca della felicità.

Come può accadere questo? Le cose effimere possono darti un’apparente sazietà e una falsa felicità. Il loro possesso ti soddisfa momentaneamente e ti illude di sentirti realizzato. Si tratta invece di una sensazione che dura poco, perché l’inquietudine, che sembrava assopita, si risveglia di nuovo e la fame riprende più vigorosa di prima. Quando ci si nutre di effimero non si è mai davvero sazi. La catena delle illusioni e delle delusioni si prolunga all’infinito, finché la corsa non si esaurisce, lasciando alla delusione l’ultima fatale parola. La bestia che è in noi «mai non empie la bramosa voglia e dopo ‘l pasto ha più fame che pria» (Dante, Inferno, I, 99). L’abilità del tentatore e quella di usare le cose finite, per quanto buone e belle possano essere, per trascinarti qua e là lungo le vie del mondo in modo tale che tu perda di vista la meta dell’eternità. Ti tiene al guinzaglio presentandoti il miraggio della felicità, senza però che tu possa assaporarne la realtà. La sua insuperabile astuzia consiste nel soffocare la tua fame di assoluto con l’abbondanza delle cose finite.

Gesù, dialogando con la donna samaritana, che aveva cercato nell’amore vagabondo di dissetare la sua sete di felicità, smaschera la tentazione e mette a nudo l’inganno del falsario: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete» (Gv 4,13) afferma mettendo il dito sulla piaga. Chi di noi potrebbe negarlo? Chi potrebbe affermare di essere felice col possesso di ciò che il mondo offre? Gesù è sicuro di quello che dice perché conosce come nessun altro il cuore dell’uomo. Lui, per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte, sa bene che l’uomo è stato creato “capace di Dio” e che non può essere felice se non dissetandosi al suo amore. Perciò aggiunge subito dopo: «Ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la via eterna» (Gv 4,14). Dunque non l’acqua che si attinge fuori di noi, ma quella che zampilla dentro di noi è capace di dissetarci e di renderci felici. […] Sappi che non perderai affatto il piacere per le cose belle della terra. Anzi, le gusterai ancora di più, secondo la promessa del vero Maestro degli uomini: «cercate il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta».

(Padre Livio Fanzaga, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 16-18).

Il pane vivo

Io sono il pane vivo disceso dal cielo (Gv 6,51). Vivo precisamente perché disceso dal cielo […] I fedeli dimostrano di conoscere il corpo di Cristo, se non trascurano di essere il corpo di Cristo. Diventino corpo di Cristo se vogliono vivere dello Spirito di Cristo. Dello Spirito di Cristo vive soltanto il corpo di Cristo. Fratelli miei, capite quello che vi dico? Tu sei un uomo, possiedi lo spirito e possiedi il corpo. Chiamo spirito ciò che comunemente si chiama anima, grazie alla quale sei un uomo; sei composto infatti di anima e di corpo. E così possiedi uno spirito invisibile e un corpo visibile. Ora dimmi: qual è il principio vitale del tuo essere? E il tuo spirito che vive del tuo corpo o è il tuo corpo che vive del tuo spirito? Che cosa potrà rispondere chi vive? È il mio corpo che vive del mio spirito. Vuoi tu vivere dello Spirito di Cristo? Devi essere nel corpo di Cristo. Forse che il mio corpo vive del tuo spirito? No, il mio corpo vive del mio spirito, e il tuo del tuo. Il corpo di Cristo non può vivere se non dello Spirito di Cristo. È quello che dice l’Apostolo, quando ci parla di questo pane: Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo (ICor 10,17) . Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuoi vivere ha dove vivere, ha di che vivere. Si avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato. Non disdegni di appartenere alla compagine delle membra, non sia un membro infetto che si deve amputare. […] Rimanga unito al corpo, viva di Dio per Dio; sopporti ora la fatica su questa terra per regnare poi in cielo.

(AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni 26,13, in Opere di sant’Agostino, pp. 608-610).

Preghiera

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: 2 Re 4,42-44

       In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.  
  • Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’intervento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.

    Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a ovest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi dove abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio. Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.

    La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v. 38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguivano. La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti. L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v. 43a). Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v. 43b).                                      

    Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessario: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare» (v. 44).

Seconda lettura: Efesini 4,1-6

         Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.  
  • Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore. Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento. È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».

    Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina. La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.

    Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamento pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.

    All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sopportazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità. Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.

    Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo. Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità. Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.

    L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati ammessi quando hanno accolto la chiamata di Dio. L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza. Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo. Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.

    Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità. In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.

Vangelo: Giovanni 6,1-15

         In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.           

Esegesi

     Con una indicazione generica di tempo (v. 1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa. Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v. 2: «… e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto. Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni. Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltiplicazione dei pani. Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).

   Il monte (v. 3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea. Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù. L’interesse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).

    Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corrisponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Gesù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15). C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.

   L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’evangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.

    Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla. A differenza dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v. 5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.

    Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente. Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.

    L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è propria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).

    Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della primavera in Palestina. Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua. Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.

    Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo eucharistéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona. Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.

    Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni. I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.

    L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, come avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).

     Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’entusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia. Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusiasmo messianico della folla è di carattere politico (6,15). La folla vuole rapire Gesù per farlo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo.

L’immagine della domenica

Meta finale del Cammino di Santiago: Monte do Gozo, collina nei pressi di Santiago de Compostela – 2023   

« “Cos’è più importante”, chiese Grande Panda, “il viaggio o la meta?”. “La compagnia”, rispose Piccolo Drago».(James Norbury)

Meditazione

«C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v. 9). Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…

     Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo. Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è. O almeno, non c’è per tutti. La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete. Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa). Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.

     Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona. Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù verso altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.

     Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù. Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15). Detto altrimenti, ‘si arrangino’!

     Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condivisi principi morali e spirituali. Non lo fa nemmeno per prendere tempo. O meglio, il discorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr. vv. 22-59). Ma, appunto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare. E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v. 10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare. Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana. Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù. La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione. E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente. E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr. vv. 11-13). Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr. 1Sam 17).

     Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena. Lui desidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita. Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.

Preghiere e racconti

Sofferenza

Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito necessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.

Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio. E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp. 564-566).

Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro

«Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».

È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.

Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.

Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).

Quel lievito di un pane che non finisce

La moltiplicazione dei pani è qualcosa di così importante da essere l’unico miracolo presente in tutti e quattro i Vangeli. Più che un miracolo è un segno, fessura di mistero, segnale decisivo per capire Gesù: Lui ha pane per tutti, lui fa’ vivere! Lo fa’ offrendo ciò che nutre le profondità della vita, alimentando la vita con gesti e parole che guariscono dal male, dal disamore, che accarezzano e confortano, ma poi incalzano.

Cinquemila uomini, e attorno è primavera; sul monte, simbolo del luogo dove Dio nella Bibbia si rivela; un ragazzo, non ancora un uomo, che ha pani d’orzo, il pane nuovo, fatto con il primo cereale che matura. Un giovane uomo, nuovo anche nella sua generosità. Nessuno gli chiede nulla e lui mette tutto a disposizione; è poca cosa ma è tutto ciò che ha. Poteva giustificarsi: che cosa sono cinque pani per cinquemila persone? Sono meno di niente, inutile sprecarli. Invece mette a disposizione quello che ha, senza pensare se sia molto o se sia poco. È tutto! Ed ecco che per una misteriosa regola divina quando il mio pane diventa il nostro pane, si moltiplica. Ecco che poco pane condiviso fra tutti diventa sufficiente. C’è tanto di quel pane sulla terra, tanto di quel cibo, che a non sprecarlo e a condividerlo basterebbe per tutti. E invece tutti ad accumulare e nessuno a distribuire! Perché manca il lievito evangelico. Il cristiano è chiamato a fornire al mondo lievito più che pane (de Unamuno): ideali, motivazioni per agire, sogni grandi che convochino verso un altro mondo possibile. Alla tavola dell’umanità il cristianesimo non assicura maggiori beni economici, ma un lievito di generosità e di condivisione, come promessa e progetto di giustizia per i poveri.

Il Vangelo non punta a realizzare una moltiplicazione di beni materiali, ma a dare un senso a quei beni: essi sono sacramenti di gioia e comunione. Giovanni riassume l’agire di Gesù in tre verbi: «Prese il pane, rese grazie e distribuì». Tre verbi che, se li adottiamo, possono fare di ogni vita un Vangelo: accogliere, rendere grazie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose, le accogliamo in dono e in prestito. Se ci consideriamo padroni assoluti siamo portati a farne ciò che vogliamo, a profanare le cose. Invece l’aria, l’acqua, la terra, il pane, tutto quello che ci circonda non è nostro, sono “fratelli e sorelle minori” da custodire. Il Vangelo non parla di moltiplicazione, ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità.

(Ermes Ronchi)

Il pane

Il pane, nutrimento basilare dell’uomo mediterraneo, diviene il segno della cura che Dio ha per l’uomo e del suo amore sovrabbondante nel racconto in cui venti pani d’orzo, “secondo la parola del Signore” trasmessa dal profeta Eliseo, sfamano cento persone e ne avanza perfino (I lettura). Nel vangelo, cinque pani d’orzo e due pesci, mediante i gesti e le parole di Gesù, sfamano cinquemila persone e anche in questo caso avanza molto cibo. Più che di moltiplicazione, occorre parlare di condivisione e di dono.

L’iniziativa di sfamare le folle non viene dai discepoli (come nei sinottici), ma direttamente da Gesù. Non è motivata neppure dalla compassione nei confronti di folle stanche o smarrite (come in Mc 6,34; 8,2; Mt 15,32). Il gesto di Gesù è sovranamente gratuito: è un’azione, non una reazione. Nasce solo dal suo sguardo sulla folla in quel tempo prossimo alla Pasqua (cf. Gv 6,4). E così il gesto appare rivelativo: sia in rapporto al Dio che nella Pasqua compirà il suo amore sovrabbondante per l’uomo donando il suo stesso Figlio per la vita del mondo, sia in rapporto all’uomo e alla sua fame non dovuta a particolari circostanze, ma fondamentale, costitutiva. Questa fame non è una disgrazia, ma la verità umana ordinata alla verità di Dio che la precede e la fonda e che è il desiderio di Dio di consegnarsi all’uomo per aver comunione con lui e perché l’uomo abbia la vita in abbondanza.

Il pane è il simbolo più adeguato per esprimere il bisogno dell’uomo e l’amore di Dio. Tutta la storia di salvezza può essere riassunta nel gesto con cui Dio “dà il pane a ogni creatura” (Sal 136,25). Realtà umanissima, il pane è simbolo di vita e riunisce in sé il riferimento alla natura e alla cultura, alla terra, al lavoro dell’uomo, alla sua corporeità, alla sua fondamentale povertà, alle dimensioni della convivialità e dell’incontro, della socialità e della comunione, insomma di tutto ciò che dà senso alla vita sostentata dal pane. Il pane simbolizza tutto ciò che è essenziale per la vita. Il gesto eucaristico di Gesù (“prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì”: Gv 6,11) indica sia l’eucaristia come luogo di incontro di Dio con l’uomo sotto il segno della gratuità, dell’amore sovrabbondante ed eccessivo, del dono che non può essere contraccambiato, sia l’essenzialità del ringraziamento che l’uomo è chiamato a fare prima di mangiare, di fronte a ogni cibo, come confessione di fede che la vita non viene da lui ma è dono. Nel momento dello sfogo dell’appetito basilare della creatura, il ringraziamento immette una distanza tra sé e il proprio bisogno che restituisce l’uomo alla propria verità confessando il Dio signore della vita. La folla coglie correttamente il gesto di Gesù come segno che rivela qualcosa della sua identità profonda (cf. Gv 6,14), ma ne trae conseguenze che Gesù rigetta in modo netto. Sapendo che volevano farlo re, Gesù si ritira in solitudine sulla montagna (cf. Gv 6,15). La sua regalità è altra e apparirà nella paradossale gloria del Crocifisso. Gesù rifiuta la logica mondana di re e governatori che chiede potere e legittimazione del proprio dominio in cambio di elargizioni di mezzi di sussistenza.

Gesù si rifiuta di umiliare la fame “ontologica” dell’uomo, il bisogno umano, sfruttandolo per sé, e di attentare alla gratuità di Dio, facendone mercato. Gesù si ritira, “fa anacoresi”, persino “fugge”, secondo alcuni testimoni della tradizione manoscritta (Gv 6,15). Fugge chi di un profeta vuole fare un re, chi da un gesto di amore e di rivelazione vuole trarre un’istituzione politica. Fugge chi lo applaude e lo acclama, fugge persino i propri discepoli, mostrando che a volte l’arte della fuga è l’unica possibilità di salvaguardare la qualità e la dignità della propria vita e l’evangelicità della propria fede. Gesù fugge, ma non per isolarsi, bensì per trovarsi insieme con il Padre. Fugge nella solitudine abitata della sua comunione con il Padre. Gesù è “tutto solo” (Gv 6,15). Ma dice altrove Gesù: “Io non sono solo, perché il Padre è con me” (Gv 16,32).

(Luciano Manicardi)

Offerta al mondo

Noi cittadini e cittadine del mondo,

gente del cammino, gente che cerca,

eredi del legato di antiche tradizioni,

vogliamo proclamare:

– che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia;

 che la natura è la nostra madre e il nostro focolare,

 e che dev’essere amata e preservata;

– che la pace dev’essere costruita con sforzo,

 con la giustizia, col perdono e la generosità;

– che la diversità di culture

 è una grande ricchezza e non un ostacolo;

– che il mondo ci si presenta come un tesoro

 se lo viviamo in profondità,

 e le religioni vogliono essere dei cammini

 verso tale profondità;

– che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso

 nell’apertura al Mistero inafferrabile;

– che fare comunità ci aiuta in questa esperienza;

– che le religioni possono essere un punto di accesso

 alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo,

 ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato;

– che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose

 vogliamo dialogare tra di noi;

– che vogliamo condividere con tutti

 la lotta per fare un mondo migliore,

 per risolvere i gravi problemi dell’umanità:

 la fame e la povertà,

 la guerra e la violenza,

 la distruzione dell’ambiente naturale,

 la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita,

 la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza;

– e che vogliamo condividere con tutti

 i frutti della nostra ricerca

 delle aspirazioni più alte dell’essere umano,

 nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è

 e col proposito di poter vivere tutti insieme

 una vita degna di essere vissuta.

(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).

Rese grazie per insegnarci a rendere grazie

Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui. E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui. Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). […] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi. Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr. Lc 24,44-45). I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20). […] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie. Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale. […] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti. «Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr. Mc 6,43). Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere. Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale. Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp. 195-198).

Preghiera

Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.

Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà. Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre. Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di essere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza. Tu mi ripeti, Gesù, che proprio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.

Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Amos 7,12-15

        In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».      
  • Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere. Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena consapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.

     Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.

     vv. 12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa. Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.

     Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi. Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svolge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese. Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa. Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vivere; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.

     vv. 14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica. Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina. Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.

     È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf. Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.

     Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v. 14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini. Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame. Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.

Seconda lettura: Efesini 1,3-14

       Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.   In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,  avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.  
  • La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosiddette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.

     Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera. È una benedizione, secondo la prassi liturgica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.

     Il v. 3 – la formula di benedizione — è introduttivo. Il verbo benedire (euloghein) è ripetuto due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio). Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.

     La prima parte – vv. 4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio:

     1. l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv. 4-6a)

     2. la grazia della redenzione (vv. 6b-7)

     3. la conoscenza del piano salvifico (vv. 8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio. Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvezza, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia. «Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.

     La seconda parte – vv. 11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi:

     1. il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv. 11-12).

     2. il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appropriazione della salvezza (v. 13).

     3. il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti. Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v. 14).

     È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifica di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,7-13

          In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.  E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.           

Esegesi

     La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù. Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani (cap. 6). Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.

     Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v. 12 si limita a un generico invito alla conversione.

     L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.

     v. 7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco. Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf. i discepoli del Battista e Paolo). Il «potere sugli spiriti immondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorcismo (9,18).

     vv. 8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi. Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.

     Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fiducia in Dio. Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quotidiane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.

     vv. 10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione. Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele. Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di accogliere il messaggio evangelico.

     L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambiamento del cuore, della mentalità: una conversione. Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».

     vv. 12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco. Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i malati, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.

L’immagine della domenica

LITORALE ROMANO  –   2018 

«Perché non c’è niente di più bello del modo in cui tutte le volte il mare cerca di baciare la spiaggia, non importa quante volte viene mandato via».

(Sarah Kay)

Casella di testo: Amos 7,12-15
Efesini 1,3-14
Marco 6,7-13

All'origine della nostra fede cristiana, c' è l'iniziativa di Dio che si svela, si comunica a noi e ci invita a far conoscere, a diffondere a tutti la buona notizia del regno, la salvezza dell'uomo in Gesù Cristo.

Gesù chiamò i Dodici e incominciò a mandarli a due a due. Il compito che Gesù affida ai Dodici è il compito della Chiesa tutta, di tutti noi. Perché ogni cristiano è chiamato e mandato, e la missione non riguarda solo alcuni cristiani ma tutti i battezzati, anche se diversi saranno i modi di evangelizzare e di testimoniare la fede in Cristo Signore.

La Chiesa è per natura missionaria. A ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere la fede: "nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della Chiesa può sottrarsi a questo dovere supremo: annunciare Cristo a tutti i popoli".

E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio. Se diversi sono i modi attraverso cui annunciare il Vangelo, c' è per tutti un'esigenza fondamentale: la missione comporta una dedizione sincera e una donazione totale. Solo così si annuncia il Vangelo, solo così si testimoniano il dono della fede e la grazia di Dio: con le mani non impacciate da borse, con il cuore non preoccupato di altro se non della causa del Vangelo. Il resto non solo è superfluo ma rischia di essere un peso ingombrante, anzi pericoloso, perché la preoccupazione per i mezzi e le strutture fa dimenticare che il contenuto e il protagonista della missione è Cristo stesso.
Meditazione

    Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.

    In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi. Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione. «E prese (lett. cominciò) a mandarli…» (v. 7). Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione saranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v. 30).

    Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr. 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per. Così che la missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…

    Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due». Certamente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr. At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr. Dt 19,15). Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità (cfr. Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco. Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12). E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…

    Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come devono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un determinato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé. I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, comunque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore). In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.

    Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’. Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. «Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.

    Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza. «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero. » (v. 11). Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottolineato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione. Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

Preghiere e racconti

Hanno annunciato

“Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza“. (At 4,29)

Hanno annunciato che un sapone fa primavera,

hanno proclamato che un tipo di benzina

t’assicura il coraggio e formidabile potenza.

Hanno gridato per le piazze e sui tetti

le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.

Ma hanno taciuto il Verbo

e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola:

la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.

Hanno annunciato che la pace

è fatta di tante uova di cioccolata,

e della tredicesima, e di molte banconote,

di frigoriferi colmi d’ogni bene,

e di appartamenti in città con bagni di maiolica.

Ma la violenza è esplosa per le strade

e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti

che celano nella coda mitra e bombe molotov.

O uomini e donne del nostro tempo,

noi manchiamo di vero annuncio,

perché manchiamo di conoscenza contemplativa.

Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio

perché abbiamo smarrito il silenzio,

anzi ne abbiamo paura.

E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti

a colpi di radioline e transistor.

Ma invano noi edifichiamo la città

se non è il Signore a costruirla con noi.

Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia

invano attendiamo la pace

da noi e dai nostri fratelli.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

     Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. «Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né  pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti. […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).

Il mio sì

Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo. Egli non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.

(John Henry Newman).

Chi vive in Cristo sa che tutte le persone, anche i nemici, non appaiono per casualità

È Domenica, il giorno del riposo, e siamo stanchi per “tutto quello che abbiamo fatto e insegnato”. D’accordo, magari non siamo tutti missionari, e forse questa settimana non abbiamo predicato. Probabilmente non siamo entrati nella storia come gli apostoli, senza borsa né denaro; e può darsi che stiamo covando qualche rancore, e non abbiamo nessuna voglia di riconciliarci, altro che andare “a due a due”…

Ma il Signore lo sa, e per questo, attraverso la Chiesa, ci dona questo Vangelo, una Parola che c’entra sempre con la nostra vita. Ci è predicata perché ci illumini e si compia in noi. Apostoli o no, di sicuro “non abbiamo neanche il tempo di mangiare”.

Le settimane ci scorrono sotto il naso tra ufficio, spesa, scuola, banche, ospedali, palestra, riunioni di condominio; e poi i figli, il fidanzato, i suoceri, il cane che abbaia davanti alla porta, la spazzatura che tracima come un torrente gonfiato dalla pioggia, il piccolo con la febbre alta ma è finito l’antipiretico e sono le undici e mezza, dove sarà una farmacia di turno?

Se siamo preti, ecco le messe, catechismo, consiglio pastorale, riunione in decanato e mille altri incontri. E alla fine non abbiamo mai tempo per mangiare, per riposare davvero. Ma se non ci alimentiamo, e bene, il nostro fare ci distrugge. Infatti…

Quanti figli, mogli, mariti, amici, colleghi, conducenti della macchina davanti e parrocchiani pagano i nostri isterismi da iperattivismo… Troppi. Siamo sempre stanchi, angosciati, nevrotici, stritolati in agende fittissime che neanche Obama si sogna di avere.

E per alimentarci solo un fast-food spirituale, e che vuoi che sia un hamburger di preghiere, ci basta per stare in piedi, cioè in pace, dieci minuti scarsi. Ma questa Domenica di Luglio può essere diverso. Andiamo allora con Gesù in un “luogo in disparte, solitario”, per “riposarci un po’”. Impariamo cioè dal “riposo” di Gesù e degli apostoli come “fare” le cose di tutti i giorni.

Per esempio, nella messa di questa Domenica, il luogo dove imparare a vivere “separati”, cioè “santi”. E nella liturgia, come una saetta, il Vangelo vibra una parola tra le ore indaffarate delle nostre vite: “commozione”, che nel greco del Vangelo, è una parola vicinissima a “viscere”, la fonte della vita che risiede nel seno di una madre.

Gli apostoli dunque, vanno inviati da un amore più grande, l’amore di una madre, assorbito nell’intimità con il Signore. La missione, qualunque missione, si svela nel cuore di Maria, ferito dall’amore, come quello del suo Figlio: “Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 37).

Predicano, annunciano, guariscono, ma poi tornano e si rifugiano dal loro Amato, il Signore che li “rapisce” in un luogo di riposo. Sono questi i ritmi autentici della vita, segnati dall’intimità con il Signore: da Lui, per Lui, con Lui, a Lui. Secondo la Scrittura condensata nel Vangelo di oggi, questa intimità ha un luogo, il deserto.

Questo, nella Bibbia, è il luogo della memoria dell’amore e dell’ascolto dell’Amato: è il luogo del primo amore, quello a cui ritornare sempre per non abbattersi di fronte alle difficoltà: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (Ger. 2,2).

Ma il deserto, in ebraico “midbar”, è anche il luogo-simbolo dell’ascolto della Parola, in ebraico: “dabar”; al centro della missione vi è dunque un luogo dove amare, e dove amare è ascoltare, perché ascoltare è obbedire, e dove vi è l’obbedienza vi è sempre il puro amore. Nel deserto cresce l’amore degli apostoli, nell’ascolto obbediente della parola di Gesù la fede si fa adulta.

Come Maria, come fu chiamata dai Padri, la Chiesa diviene il “deserto fiorito”, la debolezza rivestita della Grazia, l’assemblea convocata per ascoltare la Parola che ha il potere di trasformare il deserto dell’impossibile umano nel giardino del possibile di Dio.

Il deserto è così l’esperienza che si fa memoriale e fondamento per ogni missione, anche la più difficile, anche quella che conduce al martirio, sia esso quello del sangue, sia esso quello di una predicazione in una terra indifferente, o quello di un giovane che voglia vivere un fidanzamento casto, o quello di una madre e un padre che accolgono il settimo figlio, o quello di chi non resiste al male e, a scuola, in ufficio, ovunque, si lascia privare dell’onore offrendo l’altra guancia.

Il deserto infatti è anche il luogo della prova. Nel Deuteronomio è scritto: “Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire” (Dt. 8,14-16).

Si tratta delle prove conosciute da Israele nel cammino dell’Esodo, ma che evocano anche la dura prova della Donna dell’Apocalisse, perseguitata dal drago che vuole divorare il bambino appena nato. Questa donna è Maria, che ha conosciuto la prova della fede, la spada che le ha attraversato l’anima, come la lancia che ha ferito il costato del suo Figlio.

Nel deserto Maria fugge per esservi nutrita, esattamente come gli apostoli, e come la Chiesa durante i secoli. Nel mezzo delle angustie e delle persecuzioni sofferte per il Vangelo, il Signore dona a Maria e ai suoi figli le “ali della grande aquila” per volare nel deserto preparato per la Chiesa, per gli Apostoli, per ciascuno di noi, come un luogo di rifugio, un porto sicuro dove attraccare la barca della nostra vita; dove imparare l’amore nell’ascolto, dove sperimentare la potenza e la protezione di Dio, dove essere nutriti dall’unico alimento che sazia e rende capaci di qualunque cosa, come è stato per Elia che, nutrito dal cibo del Cielo, ha sfidato gli idoli uscendone vincitore.

Possiamo far mille cose, ma senza l’esperienza del deserto, senza vivere come in una cella dove essere con e per il Signore, tutto ciò che facciamo, fosse anche il miracolo più straordinario, non sarà altro che l’ennesima iniezione di fumo a riempire un vuoto abissale. Lo diceva San Paolo, si può far tutto, anche le cose più sante, ma senza la Carità, senza Cristo, è tutto fumo, vapore, vanità di vanità: “Occorre guardarsi, osservava San Bernardo, dai pericoli di una attività eccessiva, qualunque sia la condizione e l’ufficio che si ricopre, perché le molte occupazioni conducono spesso alla “durezza del cuore”, “non sono altro che sofferenza dello spirito, smarrimento dell’intelligenza, dispersione della grazia… Ecco dove ti possono trascinare queste maledette occupazioni, se continui a perderti in esse… nulla lasciando di te a te stesso” (Benedetto XVI, Angelus del 20 agosto 2006; San Bernardo, De consideratione, II, 3).

Fateci caso, anche nel riposo Gesù si “commuove”. Vuol dire che Gesù non viveva a compartimenti stagni, ma tutto quello che diceva e faceva sorgeva dalla sua “compassione”, dal suo sguardo materno che in tutti riconosceva delle “pecore senza pastore”.

Ecco, oggi il Signore ci dice che c’è un solo modo di vivere autenticamente, ed è quello di una madre che si “commuove”, cioè si “muove-con” il figlio che porta nel seno. Tutto di lei è per lui: i pensieri, i gesti, i minuti. Quando mangia sta attenta a quello che potrebbe fargli male, se c’è qualche pericolo sospende qualsiasi lavoro, perfino il riposo della notte dipende strettamente dal bimbo che porta in grembo. Non si appartiene più,è trasformata in vita da donare al suo piccolo.

Come una madre incinta, anche noi siamo chiamati a dare frutto per gli altri in tutto quello che facciamo. A “muoverci-con” le persone che Dio ci affida, ovvero ad amarle sino al punto di entrare nel loro dolore e nella loro gioia. A donare ogni frammento del nostro fare perché tutto nella nostra vita sia un segno della sollecitudine di Cristo. Anche la malattia che ti impedisce qualsiasi cosa, come il dolore, è amore che sgocciola dalle ferite del corpo e del cuore per la folla che soffre senza speranza.

Occorre allora guardarci dentro e chiederci che cosa ci muove: un’ansia che ci impedisce star fermi per non incontrare noi stessi, una nevrosi che cerca di dare senso all’inutile susseguirsi delle nostre ore vuote? oppure la commozione, le viscere stesse di Gesù che risuonano d’amore nelle nostre viscere, che ci proietta in un amore più grande? L’amore che si dimentica di se stesso, che non scrive appuntamenti sulle agende, che non fa conti, ma che, come pane spezzato, si da in pasto ad ogni uomo. Come ripeteva San Francesco: “Donandosi si riceve, dimenticando se stessi ci si ritrova”.

E questo è vero per ogni atto della nostra vita che si fa annuncio del Vangelo: sbrigare una pratica, cambiare un pannolino, fare la spesa, studiare, uscire con il fidanzato, andare al cinema o guardarsi una partita, “sbarcando” ogni giorno con Lui pieni di “commozione” di fronte a tutti quelli che “ci precedono”, dal marito o la moglie che incontriamo svegliandoci, ai figli, ai colleghi, a chi sale sulla metro con noi o sfioriamo al banco del mercato.

Ma la “compassione” nasce dall’essere stati a nostra volta oggetti della “compassione” di Gesù. Per questo oggi ci richiama all’ovile della Chiesa per “riposare” in Lui. E così, dalle “viscere” della comunità dove ci siamo ben alimentati, sapremo uscire ad annunciare le “molte cose” sperimentate a chi ancora vaga nella vita perché non ha conosciuto Cristo.

Chi vive in Cristo sa che le persone, tutte, anche quelle più moleste, anche chi si fa nemico, non appaiono nella vita per casualità: esse “precedono” i discepoli di Cristo; forse inconsapevolmente, o più realisticamente perché in qualche modo hanno intuito che nei cristiani vi è qualcosa di diverso, un barlume di speranza. Per questo un discepolo non si stupisce mai di quello che accade nella sua esistenza, perché ogni istante, ogni incontro, ogni fare è prezioso. Gli occhi della “commozione”, infatti, “capiscono” che ogni persona ci “precede” e non è lì per caso, perché “tutti cercano Lui” in noi, per non restare come “pecore senza pastore”.

(Don Antonello Iapicca)

I discepoli partono due a due, non soli

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli… Ogni volta che Dio ti chiama, ti mette in viaggio. L’ha fatto con Abramo da Ur dei Caldei (alzati e va’); con il popolo in Egitto (lo condurrai fuori, nel deserto…); con il profeta Giona (alzati e va’ a Ninive); con Israele ormai installato al sicuro nella terra promessa.

Dio viene a snidarti dalla vita stanca, dalla vita seduta; mette in moto pensieri nuovi, ti fa scoprire orizzonti che non conoscevi. Dio mette in cammino. E camminare è un atto di libertà e di creazione, un atto di speranza e di conoscenza: è andare incontro a se stessi, scoprirsi mentre si scopre il mondo, un viaggio verso un altro mondo possibile.

Partono i discepoli a due a due. E non ad uno ad uno. Il loro primo annuncio non è trasmesso da parole, ma dall’eloquenza del camminare insieme, per la stessa meta. E ordinò loro di non prendere nient’altro che un bastone. Solo un bastone a sorreggere il passo e un amico a sorreggere il cuore.

Un elogio della leggerezza quanto mai attuale: per camminare bisogna eliminare il superfluo e andare leggeri. Né pane né sacca né denaro, senza cose, senza neppure il necessario, solo pura umanità, contestando radicalmente il mondo delle cose e del denaro, dell’accumulo e dell’apparire. Per annunciare un mondo altro, in cui la forza risiede nella creatività dell’umano: «l’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande» (G. Vannucci).

Entrati in una casa lì rimanete. Il punto di approdo è la casa, il luogo dove la vita nasce ed è più vera. Il Vangelo deve essere significativo nella casa, nei giorni delle lacrime e in quelli della festa, quando il figlio se ne va, quando l’anziano perde il senno o la salute… Entrare in casa altrui comporta percepire il mondo con altri colori, profumi, sapori, mettersi nei panni degli altri, mettere al centro non le idee ma le persone, il vivo dei volti, lasciarsi raggiungere dal dolore e dalla gioia contagiosa della carne.

Se in qualche luogo non vi ascoltassero, andatevene, al rifiuto i discepoli non oppongono risentimenti, solo un po’ di polvere scossa dai sandali: c’è un’altra casa poco più avanti, un altro villaggio, un altro cuore. All’angolo di ogni strada, l’infinito.

Gesù ci vuole tutti nomadi d’amore, gente che non confida nel conto in banca o nel mattone, ma nel tesoro disseminato in tutti i paesi e città: mani e sorrisi che aprono porte e ristorano cuori. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Dio chiama e mette in viaggio per guarire la vita, per farti guaritore del disamore, laboratorio di nuova umanità.

(Ermes Ronchi)

La regola della missione è la condivisione

Quando un profeta è rifiutato a casa sua, dai suoi, dalla sua gente (cf. Mc 6,4), può solo andarsene e cercare altri uditori. Hanno fatto così i profeti dell’Antico Testamento, andando addirittura a soggiornare tra i gojim, le genti non ebree, e rivolgendo loro la parola e l’azione portatrice di bene (si pensi solo a Elia e ad Eliseo; cf., rispettivamente, 1Re 17 e 2Re 5). Lo stesso Gesù non può fare altro, perché comunque la sua missione di “essere voce” della parola di Dio deve essere adempiuta puntualmente, secondo la vocazione ricevuta.

Rifiutato e contestato dai suoi a Nazaret, Gesù percorre i villaggi d’intorno per predicare la buona notizia (cf. Mc 6,6) in modo instancabile, ma a un certo momento decide di allargare questo suo “servizio della parola” anche ai Dodici, alla sua comunità. Per quali motivi? Certamente per coinvolgerli nella sua missione, in modo che siano capaci un giorno di proseguirla da soli; ma anche per prendersi un po’ di tempo in cui non operare, restare in disparte e così poter pensare e rileggere ciò che egli desta con il suo parlare e il suo operare.

Per questo li invia in missione nei villaggi della Galilea, con il compito di annunciare il messaggio da lui inaugurato: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona notizia” (Mc 1,15). Li manda “a due a due”, perché neppure la missione può essere individuale, ma deve sempre essere svolta all’insegna della condivisione, della corresponsabilità, dell’aiuto e della vigilanza reciproca. In particolare, per gli inviati essere in due significa affidarsi alla dimensione della condivisione di tutto ciò che si fa e si ha, perché si condivide tutto ciò che si è in riferimento all’unico mandante, il Signore Gesù Cristo.

Ma se la regola della missione è la condivisione, la comunione visibile, da sperimentarsi e manifestare nel quotidiano, lo stile della missione è molto esigente. Il messaggio, infatti, non è isolato da chi lo dona e dal suo modo di vivere. Come d’altronde sarebbe possibile trasmettere un messaggio, una parola che non è vissuta da chi la pronuncia? Quale autorevolezza avrebbe una parola detta e predicata, anche con abile arte oratoria, se non trovasse coerenza di vita in chi la proclama?

L’autorevolezza di un profeta – riconosciuta a Gesù fin dagli inizi della sua vita pubblica (cf. Mc 1,22.27) – dipende dalla sua coerenza tra ciò che dice e ciò che vive: solo così è affidabile, altrimenti proprio chi predica diventa un inciampo, uno scandalo per l’ascoltatore. In questo caso sarebbe meglio tacere e di-missionare, cioè dimettersi dalla missione!

Per queste ragioni Gesù non si attarda sul contenuto del messaggio da predicare, non dà raccomandazioni di tipo dottrinale, mentre entra addirittura nei dettagli sul “come” devono mostrarsi gli inviati e gli annunciatori. Per Gesù la testimonianza della vita è più decisiva della testimonianza della parola, anche se questo non l’abbiamo ancora capito. In questi ultimi trent’anni, poi, abbiamo parlato e parlato di evangelizzazione, di nuova evangelizzazione, di missione – e non c’è convegno ecclesiale che non tratti di queste tematiche! –, mentre abbiamo dedicato poca attenzione al “come” si vive ciò che si predica.

Sempre impegnati a cercare come si predica, fermandoci allo stile, al linguaggio, a elementi di comunicazione (quanti libri, articoli e riviste “pastorali” moltiplicati inutilmente!), sempre impegnati a cercare nuovi contenuti della parola, abbiamo trascurato la testimonianza della vita: e i risultati sono leggibili, sotto il segno della sterilità!

Attenzione però: Gesù non dà delle direttive perché le riproduciamo tali e quali. Prova ne sia il fatto che nei vangeli sinottici queste direttive mutano a seconda del luogo geografico, del clima e della cultura in cui i missionari sono immersi. Nessun idealismo romantico, nessun pauperismo leggendario, già troppo applicato al “somigliantissimo a Cristo” Francesco d’Assisi, ma uno stile che permetta di guardare non tanto a se stessi come a modelli che devono sfilare e attirare l’attenzione, bensì che facciano segno all’unico Signore, Gesù.

È uno stile che deve esprimere innanzitutto decentramento: non dà testimonianza sul missionario, sulla sua vita, sul suo operare, sulla sua comunità, sul suo movimento, ma testimonia la gratuità del Vangelo, a gloria di Cristo. Uno stile che non si fida dei mezzi che possiede, ma anzi li riduce al minimo, affinché questi, con la loro forza, non oscurino la forza della parola del “Vangelo, potenza di Dio” (Rm 1,16).

Uno stile che fa intravedere la volontà di spogliazione, di una missione alleggerita di troppi pesi e bagagli inutili, che vive di povertà come capacità di condivisione di ciò che si ha e di ciò che viene donato, in modo che non appaia come accumulo, riserva previdente, sicurezza. Uno stile che non confida nella propria parola seducente, che attrae e meraviglia ma non converte nessuno, perché soddisfa gli orecchi ma non penetra fino al cuore. Uno stile che accetta quella che forse è la prova più grande per il missionario: il fallimento.

Tanta fatica, tanti sforzi, tanta dedizione, tanta convinzione,… e alla fine nulla: il fallimento. È ciò che Gesù ha provato nell’ora della passione: solo, abbandonato, senza più i discepoli e senza nessuno che si prendesse cura di lui. E se la Parola di Dio venuta nel mondo ha conosciuto rifiuto, opposizione e anche fallimento (cf. Gv 1,11), la parola del missionario predicatore potrebbe avere un esito diverso?

Proprio per questa consapevolezza, l’inviato sa che qua e là non sarà accettato ma respinto, così come altrove potrà avere successo. Non c’è da temere; rifiutati ci si rivolge ad altri, si va altrove e si scuote la polvere dai piedi per dire: “Ce ne andiamo, ma non vogliamo neanche portarci via la polvere che si è attaccata ai nostri piedi. Non vogliamo proprio nulla!”.

E così si continua a predicare qua e là, fino ai confini del mondo, facendo sì che la chiesa nasca e rinasca sempre. E questo avviene se i cristiani sanno vivere, non se sanno predicare… Ciò che è determinante, oggi più che mai, non è un discorso, anche ben fatto, su Dio, che non interessa più a nessuno; non è la costruzione di una dottrina raffinata ed espressa ragionevolmente; non è uno sforzarsi di rendere cristiana la cultura, come molti si sono illusi.

No, ciò che è determinante è vivere, semplicemente vivere con lo stile di Gesù: semplicemente essere uomini come Gesù è stato uomo tra di noi, dando fiducia e mettendo speranza, aiutando gli uomini e le donne a camminare, a rialzarsi, a guarire dai loro mali, chiedendo a tutti di comprendere che solo l’amore salva.

Così Gesù toglieva terreno al demonio (“cacciava i demoni”) e faceva regnare Dio su uomini e donne che grazie a lui conoscevano la straordinaria forza del ricominciare, del vivere e vivere ancora… Noi cristiani viviamo questo Vangelo oppure lo proclamiamo a parole senza renderci conto della nostra schizofrenia tra mente e vita? La vita cristiana è una vita umana conforme alla vita di Gesù, non una dottrina, non un’idea, non una spiritualità terapeutica, non una religione finalizzata alla cura del proprio io!

(Enzo Bianchi)

Portatrici dell’amore di Cristo

Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.

Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche cooperatrici di Cristo, le portatrici del suo amore. Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo. Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace. Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed. San Paolo).

Una Chiesa missionaria

«Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si  apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46). «La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

parola del Padre a te ci rivolgiamo.

Custodisci i nostri propositi,

ravviva il nostro servizio ecclesiale,

sorreggi le nostre fatiche,

guida i nostri passi

nella ricerca delle vie più adatte

per annunciare il tuo vangelo.

La nostra povertà è grande,

noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te:

incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.

Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo,

vivi e regni in noi nella tua Chiesa,

per tutti i secoli dei secoli. Amen.

(Paolo VI).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

“Spes non confundit”, la Bolla di indizione del Giubileo 2025


A QUANTI LEGGERANNO QUESTA LETTERA
LA SPERANZA RICOLMI IL CUORE

1. «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni. Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti, non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, «porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre, ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1).
Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma.

Una Parola di speranza

2. «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. […] La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,1-2.5). Sono molteplici gli spunti di riflessione che qui San Paolo propone. Sappiamo che la Lettera ai Romani segna un passaggio decisivo nella sua attività di evangelizzazione. Fino a quel momento l’ha svolta nell’area orientale dell’Impero e ora lo aspetta Roma, con quanto essa rappresenta agli occhi del mondo: una sfida grande, da affrontare in nome dell’annuncio del Vangelo, che non può conoscere barriere né confini. La Chiesa di Roma non è stata fondata da Paolo, e lui sente vivo il desiderio di raggiungerla presto, per portare a tutti il Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto, come annuncio della speranza che compie le promesse, introduce alla gloria e, fondata sull’amore, non delude.

3. La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo.
È infatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così permette di andare avanti nella vita. Sant’Agostino scrive in proposito: «In qualunque genere di vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare».[1]

4. San Paolo è molto realista. Sa che la vita è fatta di gioie e di dolori, che l’amore viene messo alla prova quando aumentano le difficoltà e la speranza sembra crollare davanti alla sofferenza. Eppure scrive: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Per l’Apostolo, la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti di incomprensione e di persecuzione (cfr. 2Cor 6,3-10). Ma in tali situazioni, attraverso il buio si
scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura.
Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti; osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”.[2] Riscoprire la pazienza fa tanto bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio è paziente con noi, Lui che è «il Dio della perseveranza e della consolazione» (Rm 15,5). La pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. Pertanto, impariamo a chiedere spesso la grazia della pazienza, che è figlia della speranza e nello stesso tempo la sostiene.

Un cammino di speranza

5. Da questo intreccio di speranza e pazienza appare chiaro come la vita cristiana sia un cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Mi piace pensare che un percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio. Ricordiamo, ad esempio, la grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle comunità e delle persone.
Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere intensamente l’esperienza giubilare. Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute. Le chiese giubilari, lungo i percorsi e nell’Urbe, potranno essere oasi di spiritualità dove ristorare il cammino della fede e abbeverarsi alle sorgenti della speranza, anzitutto accostandosi al Sacramento della Riconciliazione, insostituibile punto di partenza di un reale cammino di conversione. Nelle Chiese particolari si curi in modo speciale la preparazione dei sacerdoti e dei fedeli alle Confessioni e l’accessibilità al sacramento nella forma individuale.
A questo pellegrinaggio un invito particolare voglio rivolgere ai fedeli delle Chiese Orientali, in particolare a coloro che sono già in piena comunione con il Successore di Pietro. Essi, che hanno tanto sofferto, spesso fino alla morte, per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa, si devono sentire particolarmente benvenuti in questa Roma che è Madre anche per loro e che custodisce tante memorie della loro presenza. La Chiesa Cattolica, che è arricchita dalle loro antichissime liturgie, dalla teologia e dalla spiritualità dei Padri, monaci e teologi, vuole esprimere simbolicamente l’accoglienza loro e dei loro fratelli e sorelle ortodossi, in un’epoca in cui già vivono il pellegrinaggio della Via Crucis, con cui sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità. Per loro la speranza di essere amati dalla Chiesa, che non li abbandonerà, ma li seguirà dovunque andranno, rende ancora più forte il segno del Giubileo.

6. L’Anno Santo 2025 si pone in continuità con i precedenti eventi di grazia. Nell’ultimo Giubileo Ordinario si è varcata la soglia dei duemila anni della nascita di Gesù Cristo. In seguito, il 13 marzo 2015, ho indetto un Giubileo Straordinario con lo scopo di manifestare e permettere di incontrare il “Volto della misericordia” di Dio,[3] annuncio centrale del Vangelo per ogni persona in ogni epoca. Ora è giunto il tempo di un nuovo Giubileo, nel quale spalancare ancora la Porta Santa per offrire l’esperienza viva dell’amore di Dio, che suscita nel cuore la speranza certa della salvezza in Cristo. Nello stesso tempo, questo Anno Santo orienterà il cammino verso un’altra ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo così dinanzi a un percorso segnato da grandi tappe, nelle quali la grazia di Dio precede e accompagna il popolo che cammina zelante nella fede, operoso nella carità e perseverante nella speranza (cfr. 1Ts 1,3).
Sostenuto da una così lunga tradizione e nella certezza che questo Anno giubilare potrà essere per tutta la Chiesa un’intensa esperienza di grazia e di speranza, stabilisco che la Porta Santa della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre del presente anno 2024, dando così inizio al Giubileo Ordinario. La domenica successiva, 29 dicembre 2024, aprirò la Porta Santa della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano, che il 9 novembre di quest’anno celebrerà i 1700 anni della dedicazione. A seguire, il 1° gennaio 2025, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, verrà aperta la Porta Santa della Basilica papale di Santa Maria Maggiore. Infine, domenica 5 gennaio sarà aperta la Porta Santa della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Queste ultime tre Porte Sante saranno chiuse entro domenica 28 dicembre dello stesso anno.
Stabilisco inoltre che domenica 29 dicembre 2024, in tutte le cattedrali e concattedrali, i Vescovi diocesani celebrino la santa Eucaristia come solenne apertura dell’Anno giubilare, secondo il Rituale che verrà predisposto per l’occasione. Per la celebrazione nella chiesa concattedrale, il Vescovo potrà essere sostituito da un suo Delegato appositamente designato. Il pellegrinaggio da una chiesa, scelta per la collectio, verso la cattedrale sia il segno del cammino di speranza che, illuminato dalla Parola di Dio, accomuna i credenti. In esso si dia lettura di alcuni brani del presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle Chiese particolari. Durante l’Anno Santo, che nelle Chiese particolari terminerà domenica 28 dicembre 2025, si abbia cura che il Popolo di Dio possa accogliere con piena partecipazione sia l’annuncio di speranza della grazia di Dio sia i segni che ne attestano l’efficacia.
Il Giubileo Ordinario terminerà con la chiusura della Porta Santa della Basilica papale di San Pietro in Vaticano il 6 gennaio 2026, Epifania del Signore. Possa la luce della speranza cristiana raggiungere ogni persona, come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti! E possa la Chiesa essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo!

Segni di speranza

7. Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche».[4] È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.

8. Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza. Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subito? Com’è possibile che il loro grido disperato di aiuto non spinga i responsabili delle Nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno «operatori di pace saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura.

9. Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere la vita. A causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del profitto anziché la cura delle relazioni, si assiste in vari Paesi a un preoccupante calo della natalità. Al contrario, in altri contesti, «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi».[5]
L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli sposi e al loro amore. È urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti, perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera speranza.
La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote in molte parti del mondo. Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti.

10. Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi.
È un richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» (Lv 25,10). Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2). Sono le parole che Gesù ha fatto proprie all’inizio del suo ministero, dichiarando in sé stesso il compimento dell’“anno di grazia del Signore” (cfr. Lc 4,18-19). In ogni angolo della terra, i credenti, specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di perdono e di rinnovamento.[6] Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita.

11. Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili.
Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera.

12. Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!

13. Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano vanificate da pregiudizi e chiusure; l’accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel nuovo contesto sociale.
La comunità cristiana sia sempre pronta a difendere il diritto dei più deboli. Spalanchi con generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una vita
migliore. Risuoni nei cuori la Parola del Signore che, nella grande parabola del giudizio finale, ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,35.40).

14. Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono. Valorizzare il tesoro che sono, la loro esperienza di vita, la sapienza di cui sono portatori e il contributo che sono in grado di offrire, è un impegno per la comunità cristiana e per la società civile, chiamate a lavorare insieme per l’alleanza tra le generazioni.
Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede e della saggezza di vita alle generazioni più giovani. Siano sostenuti dalla gratitudine dei figli e dall’amore dei nipoti, che trovano in loro radicamento, comprensione e incoraggiamento.

15. Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo. Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli armamenti, i poveri siano «la maggior parte […], miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto».[7] Non dimentichiamo: i poveri, quasi sempre, sono vittime, non colpevoli.

Appelli per la speranza

16. Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. È necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a un sussulto di coscienza. Rinnovo l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa».[8]
Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi».[9] Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati.

17. Durante il prossimo Giubileo cadrà una ricorrenza molto significativa per tutti i cristiani. Si compiranno, infatti, 1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio Ecumenico, quello di Nicea. È bene ricordare che, fin dai tempi apostolici, i Pastori si riunirono in diverse occasioni in assemblee allo scopo di trattare tematiche dottrinali e questioni disciplinari. Nei primi secoli della
fede i Sinodi si moltiplicarono sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano, mostrando quanto fosse importante custodire l’unità del Popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo. L’Anno giubilare potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo.
Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il 20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale. I Padri conciliari vollero iniziare quel Simbolo utilizzando per la prima volta l’espressione «Noi crediamo»,[10] a testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione, e tutti i cristiani professavano la medesima fede.
Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre»,[11] che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21).
Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025. Possa essere questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale proposito.

Ancorati alla speranza

18. La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle “virtù teologali”, che esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr. 1Cor 13,13; 1Ts 1,3). Nel loro dinamismo inscindibile, la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità dell’esistenza credente. Perciò l’apostolo Paolo invita ad essere «lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sì, abbiamo bisogno di «abbondare nella speranza» (cfr. Rm 15,13) per testimoniare in modo credibile e attraente la fede e l’amore che portiamo nel cuore; perché la fede sia gioiosa, la carità entusiasta; perché ognuno sia in grado di donare anche solo un sorriso, un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito, sapendo che, nello Spirito di Gesù, ciò può diventare per chi lo riceve un seme fecondo di speranza. Ma qual è il fondamento del nostro sperare? Per comprenderlo è bene soffermarci sulle ragioni della nostra speranza (cfr. 1Pt 3,15).

19. «Credo la vita eterna»:[12] così professa la nostra fede e la speranza cristiana trova in queste parole un cardine fondamentale. Essa, infatti, «è la virtù teologale per la quale desideriamo […] la vita eterna come nostra felicità».[13] Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Se manca la base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella disperazione».[14] Noi, invece, in virtù della speranza nella quale siamo stati salvati, guardando al tempo che scorre, abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore della gloria. Viviamo dunque nell’attesa del suo ritorno e nella speranza di vivere per sempre in Lui: è con questo spirito che facciamo nostra la commossa invocazione dei primi cristiani, con la quale termina la Sacra Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).

20. Gesù morto e risorto è il cuore della nostra fede. San Paolo, nell’enunciare in poche parole, utilizzando solo quattro verbi, tale contenuto, ci trasmette il “nucleo” della nostra speranza: «A voi […] ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Cristo morì, fu sepolto, è risorto, apparve. Per noi è passato attraverso il dramma della morte. L’amore del Padre lo ha risuscitato nella forza dello Spirito, facendo della sua umanità la primizia dell’eternità per la nostra salvezza. La speranza cristiana consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, «la vita non è tolta, ma trasformata»,[15] per sempre. Nel Battesimo, infatti, sepolti insieme con Cristo, riceviamo in Lui risorto il dono di una vita nuova, che abbatte il muro della morte, facendo di essa un passaggio verso l’eternità.
E se di fronte alla morte, dolorosa separazione che costringe a lasciare gli affetti più cari, non è consentita alcuna retorica, il Giubileo ci offrirà l’opportunità di riscoprire, con immensa gratitudine, il dono di quella vita nuova ricevuta nel Battesimo in grado di trasfigurarne il dramma. È significativo ripensare, nel contesto giubilare, a come tale mistero sia stato compreso fin dai primi secoli della fede. Per lungo tempo, ad esempio, i cristiani hanno costruito la vasca battesimale a forma ottagonale, e ancora oggi possiamo ammirare molti battisteri antichi che conservano tale forma, come a Roma presso San Giovanni in Laterano. Essa indica che nel fonte battesimale viene inaugurato l’ottavo giorno, cioè quello della risurrezione, il giorno che va oltre il ritmo abituale, segnato dalla scadenza settimanale, aprendo così il ciclo del tempo alla dimensione dell’eternità, alla vita che dura per sempre: questo è il traguardo a cui tendiamo nel nostro pellegrinaggio terreno (cfr. Rm 6,22).
La testimonianza più convincente di tale speranza ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro Signore. Essi sono presenti in tutte le epoche e sono numerosi, forse più che mai, ai nostri giorni, quali confessori della vita che non conosce fine. Abbiamo bisogno di custodire la loro testimonianza per rendere feconda la nostra speranza.
Questi martiri, appartenenti alle diverse tradizioni cristiane, sono anche semi di unità perché esprimono l’ecumenismo del sangue. Durante il Giubileo pertanto è mio vivo desiderio che non manchi una celebrazione ecumenica in modo da rendere evidente la ricchezza della testimonianza di questi martiri.

21. Cosa sarà dunque di noi dopo la morte? Con Gesù al di là di questa soglia c’è la vita eterna, che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione del suo amore infinito. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà. Sant’Agostino in proposito scriveva: «Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te».[16] Cosa caratterizzerà dunque tale pienezza di comunione? L’essere felici. La felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti.
Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi». Ricordiamo ancora le parole dell’Apostolo: «Io sono […] persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).

22. Un’altra realtà connessa con la vita eterna è il giudizio di Dio, sia al termine della nostra esistenza che alla fine dei tempi. L’arte ha spesso cercato di rappresentarlo – pensiamo al capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina – accogliendo la concezione teologica del tempo e trasmettendo in chi osserva un senso di timore. Se è giusto disporci con grande consapevolezza e serietà al momento che ricapitola l’esistenza, al tempo stesso è necessario farlo sempre nella dimensione della speranza, virtù teologale che sostiene la vita e permette di non cadere nella paura. Il giudizio di Dio, che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16), non potrà che basarsi sull’amore, in special modo su quanto lo avremo o meno praticato nei riguardi dei più bisognosi, nei quali Cristo, il Giudice stesso, è presente (cfr. Mt 25,31-46). Si tratta pertanto di un giudizio diverso da quello degli uomini e dei tribunali terreni; va compreso come una relazione di verità con Dio-amore e con sé stessi all’interno del mistero insondabile della misericordia divina. La Sacra Scrittura afferma in proposito: «Hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento […] e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati» (Sap 12,19.22). Come scriveva Benedetto XVI, «nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo e in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia».[17]
Il giudizio, quindi, riguarda la salvezza nella quale speriamo e che Gesù ci ha ottenuto con la sua morte e risurrezione. Esso, pertanto, è volto ad aprire all’incontro definitivo con Lui. E poiché in tale contesto non si può pensare che il male compiuto rimanga nascosto, esso ha bisogno di venire purificato, per consentirci il passaggio definitivo nell’amore di Dio. Si comprende in tal senso la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno, solidarietà nell’intercessione orante che rinviene la propria efficacia nella comunione dei santi, nel comune vincolo che ci unisce in Cristo, primogenito della creazione. Così l’indulgenza giubilare, in forza della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano piena misericordia.

23. L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini.
Il Sacramento della Penitenza ci assicura che Dio cancella i nostri peccati. Ritornano con la loro carica di consolazione le parole del Salmo: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. […] Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. […] Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe» (Sal 103,3-4.8.10-12). La Riconciliazione sacramentale non è solo una bella opportunità spirituale, ma rappresenta un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il cammino di fede di ciascuno. Lì permettiamo al Signore di distruggere i nostri peccati, di risanarci il cuore, di rialzarci e di abbracciarci, di farci conoscere il suo volto tenero e compassionevole. Non c’è infatti modo migliore per conoscere Dio che lasciarsi riconciliare da Lui (cfr. 2Cor 5,20), assaporando il suo perdono. Non rinunciamo dunque alla Confessione, ma riscopriamo la bellezza del sacramento della guarigione e della gioia, la bellezza del perdono dei peccati!
Tuttavia, come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori, in quanto «ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio».[18]
Dunque permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato”. Essi vengono rimossi dall’indulgenza, sempre per la grazia di Cristo, il quale, come scrisse San Paolo VI, è «la nostra “indulgenza”».[19] La Penitenzieria Apostolica provvederà ad emanare le disposizioni per poter ottenere e rendere effettiva la pratica dell’Indulgenza Giubilare.
Tale esperienza piena di perdono non può che aprire il cuore e la mente a perdonare. Perdonare non cambia il passato, non può modificare ciò che è già avvenuto; e, tuttavia, il perdono può permettere di cambiare il futuro e di vivere in modo diverso, senza rancore, livore e vendetta. Il futuro rischiarato dal perdono consente di leggere il passato con occhi diversi, più sereni, seppure ancora solcati da lacrime.
Nello scorso Giubileo Straordinario ho istituito i Missionari della Misericordia, che continuano a svolgere un’importante missione. Possano anche durante il prossimo Giubileo esercitare il loro ministero, restituendo speranza e perdonando ogni volta che un peccatore si rivolge a loro con cuore aperto e animo pentito. Continuino ad essere strumenti di riconciliazione e aiutino a guardare l’avvenire con la speranza del cuore che proviene dalla misericordia del Padre. Auspico che i Vescovi possano avvalersi del loro prezioso servizio, specialmente inviandoli laddove la speranza è messa a dura prova, come nelle carceri, negli ospedali e nei luoghi in cui la dignità della persona viene calpestata, nelle situazioni più disagiate e nei contesti di maggior degrado, perché nessuno sia privo della possibilità di ricevere il perdono e la consolazione di Dio.

24. La speranza trova nella Madre di Dio la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. Come ogni mamma, tutte le volte che guardava al Figlio pensava al suo futuro, e certamente nel cuore restavano scolpite quelle parole che Simeone le aveva rivolto nel tempio: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). E ai piedi della croce, mentre vedeva Gesù innocente soffrire e morire, pur attraversata da un dolore straziante, ripeteva il suo “sì”, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore. In tal modo ella cooperava per noi al compimento di quanto suo Figlio aveva detto, annunciando che avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31), e nel travaglio di quel dolore offerto per amore diventava Madre nostra, Madre della speranza. Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come Stella maris, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare.
In proposito, mi piace ricordare che il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, a Città del Messico, si sta preparando a celebrare, nel 2031, i 500 anni dalla prima apparizione della Vergine. Attraverso il giovane Juan Diego la Madre di Dio faceva giungere un rivoluzionario messaggio di speranza che anche oggi ripete a tutti i pellegrini e ai fedeli: «Non sto forse qui io, che sono tua madre?».[20] Un messaggio simile viene impresso nei cuori in tanti Santuari mariani sparsi nel mondo, mete di numerosi pellegrini, che affidano alla Madre di Dio preoccupazioni, dolori e attese. In questo Anno giubilare i Santuari siano luoghi santi di accoglienza e spazi privilegiati per generare speranza. Invito i pellegrini che verranno a Roma a fare una sosta di preghiera nei Santuari mariani della città per venerare la Vergine Maria e invocare la sua protezione. Sono fiducioso che tutti, specialmente quanti soffrono e sono tribolati, potranno sperimentare la vicinanza della più affettuosa delle mamme, che mai abbandona i suoi figli, lei che per il santo Popolo di Dio è «segno di sicura speranza e di consolazione».[21]

25. In cammino verso il Giubileo, ritorniamo alla Sacra Scrittura e sentiamo rivolte a noi queste parole: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi» (Eb 6,18-20). È un invito forte a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio.
L’immagine dell’àncora è suggestiva per comprendere la stabilità e la sicurezza che, in mezzo alle acque agitate della vita, possediamo se ci affidiamo al Signore Gesù. Le tempeste non potranno mai avere la meglio, perché siamo ancorati alla speranza della grazia, capace di farci vivere in Cristo superando il peccato, la paura e la morte. Questa speranza, ben più grande delle soddisfazioni di ogni giorno e dei miglioramenti delle condizioni di vita, ci trasporta al di là delle prove e ci esorta a camminare senza perdere di vista la grandezza della meta alla quale siamo chiamati, il Cielo.
Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta, quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore.
Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria ora e per i secoli futuri.

Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 9 maggio, Solennità dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, dell’Anno 2024, dodicesimo di Pontificato.
FRANCESCO

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[1] Agostino, Discorsi, 198 augm., 2.
[2] Cfr. Fonti Francescane, n. 263,6.10.
[3] Cfr. Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della misericordia, 11 aprile 2015, nn. 1-3.
[4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 7 dicembre 1965, n. 4.
[5] Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, n. 50.
[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267.
[7] Francesco, Laudato si’, cit., n. 49.
[8] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, n. 262.
[9] Francesco, Laudato si’, cit., n. 51.
[10] Simbolo niceno: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 125.
[11] Ibid.
[12] Simbolo degli Apostoli: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30.
[13] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1817.
[14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, cit., n. 21.
[15] Messale Romano, Prefazio dei defunti I.
[16] Agostino, Confessioni, X, 28.
[17] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 47.
[18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1472.
[19] Paolo VI, Lettera Apostolica Apostolorum limina, 23 maggio 1974, II.
[20] Nican Mopohua, n. 119.
[21] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, 21 novembre 1964, n. 68.

10 MAGGIO 2024 https://www.chiesacattolica.it/

Insegnaci a pregare

In occasione dell’Anno della Preghiera, il Dicastero per l’Evangelizzazione ha preparato una serie di strumenti e sussidi utili per accompagnare le comunità cristiane e i singoli credenti nel percorso di preparazione al Giubileo 2025.
È disponibile il sussidio “Insegnaci a Pregare”, il cui titolo è tratto dal capitolo undicesimo del Vangelo di Luca (Lc 11,1). Il volumetto, ispirato dal magistero di Papa Francesco, vuole essere un invito a intensificare la preghiera come dialogo personale con Dio, per condurre a riflettere sulla propria fede, sull’impegno nel mondo di oggi, nei diversi ambiti in cui si è chiamati a vivere. Si propone di offrire riflessioni, indicazioni e consigli per vivere più pienamente il dialogo con il Signore, nel rapporto con gli altri. Il sussidio si compone di sezioni dedicate alla preghiera nella comunità parrocchiale, in quella familiare, altre dedicate ai giovani, alle comunità claustrali, alla catechesi e ai ritiri spirituali.

Verso il Giubileo

/ 2024 – Anno della Preghiera

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Ezechiele 2,2-5

      In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».                  
  • Nei capp. 1-3 del libro di Ezechiele troviamo raccolte alcune visioni avute dal profeta Ezechiele: la visione del «carro del Signore», che indica la mobilità di Dio che segue il suo popolo dovunque, anche in terra di esilio (1,4-28; 3,12-16) e la visione del libro, che sottolinea come le parole dette dal profeta sono in realtà parole di Dio (2.1-3,11). Si ritiene che la visione del libro fosse quella inaugurale, legata cioè alla visione di Ezechiele (nel 593 a.C.). La nostra breve I Lettura contiene appena gli inizi di questa suggestiva scena programmatica, in cui il Signore ordina al profeta di mangiare e assimilare il libro, ossia la sua Parola.

     Questi quattro versetti (vv. 2-5) andrebbero integrati nell’insieme della visione, per meglio coglierne la valenza profetica.

— Nella loro brevità, contengono preziose indicazioni sulle tre fondamentali coordinate di ogni missione: il mandante, il mandato, i destinatari.

     a) Mandante, colui che manda Ezechiele («io ti mando», v. 3) è il Signore Dio. Qui il profeta non lo contempla direttamente ma attraverso alcuni segni della sua presenza: uno spirito (= ruah) o forza divina che lo solleva e lo rende capace di ascolto (v. 2), la parola o voce (v. 3), una mano tesa contenente un rotolo (v. 9). Segni che velano la vera identità di Dio e ne sottolineano il mistero, la trascendenza.

     b) Mandato è il profeta, caratterizzato frequentemente (più di 90 volte) qui e altrove, come Figlio dell’uomo, figlio di Adamo tratto dalla terra, e pertanto essere debole, fragile, effimero. Nonostante questa sua condizione di estrema debolezza, il profeta è abilitato a parlare in nome di Dio, a riferirne le parole: Dice il Signore Dio (v. 4). Il fatto che il profeta è mandato ed esercita la sua missione («un profeta si trova in mezzo a loro», v. 5) dimostra — di per sé e indipendentemente dall’ascolto che avrà («ascoltino o non ascoltino») che Dio è presente nella storia del suo popolo e veglia sul suo piano salvifico. Il fatto stesso della presenza di un profeta prova l’interesse di Dio per il suo popolo.

     c) Destinatari della missione sono gli Israeliti, storicamente gli esuli delle 10 tribù del nord ed il resto del regno di Giuda. La storia lunga della loro infedeltà, considerata sia nel passato («i loro padri») che nel presente («di me fino ad oggi», v. 3) è caratterizzata come storia di ribelli non contro una legge o un patto, ma «contro di me» (cf. v. 5).

     Tre espressioni caratterizzano l’infedeltà degli israeliti:

— si sono rivoltati contro di me (v. 3), per la precisione si tratta del gesto arrogante con cui il suddito rifiuta il vassallaggio al proprio sovrano;

— hanno peccato (v. 3), cioè hanno trasgredito precisi obblighi e statuti che avevano con me;

figli testardi e dal cuore indurito (v. 4). Alla lettera: impudenti di faccia e duri di cuore. Il peccato si traduce in un duplice indurimento, interiore (cuore) ed esteriore (faccia), che solo un cuore di carne (cf. Ez 36,26) potrà eliminare.

Seconda lettura: 2 Corinzi 12,7-10

     Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.  
  • Ci troviamo all’interno della terza sezione della 2Cor, rappresentata dai capp.  10-13. È una sezione particolare che si può definire globalmente Apologia di Paolo (come fa la Bibbia di Gerusalemme) dai toni violenti e sferzanti: l’Apostolo difende il suo ministero contro alcuni «falsi apostoli» (11,13) che lo accusano e lo screditano davanti alla comunità di Corinto. L’Apostolo parla anche di se stesso, facendo in certo qual modo il proprio elogio. La lettura odierna rappresenta un momento importante di questa confessione autobiografica (11,22-12,13), riconoscendo che dietro la sua debolezza agisce la potenza di Dio (12,7-10).

     Siccome precedentemente ha parlato di favori e rivelazioni, Paolo parla ora di una prova particolare destinato a evitare che egli monti in superbia (v. 7).

     Il breve brano presenta alcuni punti, che vanno chiariti. Consideriamo le seguenti espressioni:

a) una spina nella carne, termine enigmatico, variamente interpretato nella storia dell’esegesi: malattia cronica, persecuzioni (padri latini e greci), tentazioni contro la castità (Gregorio Magno), ecc. Oggi si tende a vedere nella «spina» una malattia che poneva intralci e ritardi al ministero di Paolo.

b) un inviato di Satana, inteso in senso metaforico, esprime la convinzione ebraica secondo cui prove, disgrazie, sofferenze, vengono non da Dio, ma da Satana. È la stessa concezione che troviamo nel libro di Giobbe (cf. Gb 2.6).

c) mi vanterò, mi compiaccio (vv. 9.10), sono verbi che dovrebbero avere come oggetto realtà gloriose: vittorie, virtù, imprese, ecc. Paradossalmente qui hanno come oggetto delle condizioni di cui umanamente ci si vergogna: «debolezze», «infermità», «angosce», ecc.

d) quando sono debole, è allora che sono forte (v. 10). Altro noto paradosso.

     Questi paradossi esprimono questa convinzione di Paolo: è la potenza salvifica di Cristo che opera in lui quando è debole. Ecco perché non solo accetta le prove, ma addirittura si vanta e si compiace in esse.

Vangelo: Marco 6,1-6

      In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.  Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
          

Esegesi

     Dopo una serie di prodigi culminati nel racconto di una risurrezione (c. 5) si direbbe che Mc comincia a preparare il destino di condanna e di morte, cui Gesù va incontro, narrando le reazioni di scetticismo e di rifiuto che egli affronta nella sua stessa patria (6,1-6), cioè a Nazaret. È questo il brano del Vangelo di questa domenica.

— Lo stupore, in senso scettico, che l’insegnamento di Gesù desta nei suoi compatrioti, si esprime in una serie incalzante di cinque domande (vv. 2-3). Esaminiamone distintamente il senso:

     a) Prima domanda: Da dove gli vengono queste cose? (v. 2), «queste cose» sono le cose che insegna. L’insegnamento di Gesù potrebbe avere diverse origini, ed il dove? varie risposte: dal cielo o dagli uomini (cf. Mc 11,30), da Satana (3,22.30), ecc. Il fatto che, pur conoscendone il nome, i suoi compatrioti lo indichino ripetutamente dicendo «costui» esprime distanza e dubbio.

     b) Seconda domanda: dietro l’insegnamento c’è un certo tipo di sapienza che secondo gli ascoltatori egli non possiede da sé, ma gli è stata data. Questo passivo esige un completamento, un agente: sapienza data da chi? Le risposte possono essere due: o da Dio (passivo «divino»), o da Satana (passivo «diabolico»). Il fatto che i compatrioti si scandalizzino di lui (v. 3) indica che essi pensino alla seconda, non alla prima, possibilità.

     c) Terza domanda, relativa ai prodigi cui si assiste (vedi cap. 5). Se i prodigi avvengono attraverso le mani del taumaturgo, la domanda che ci si pone è: chi opera questi fatti tramite Gesù? Se si esclude che egli sia il Messia, non resta altra risposta che questa: non Dio, ma il diavolo opera questi strani miracoli.

     d) Quarta e quinta domanda, partono dall’origine di Gesù, nota a tutti, per affermare che non può essere il Messia, che invece — secondo la tradizione ebraica — non sarebbe stato conosciuto da nessuno, date le sue origini misteriose. Di Gesù si indica prima la nota professione personale, il falegname (non «il figlio del carpentiere» come in Mt 13,55), e poi le persone della sua parentela: figlio di Maria (probabilmente è avvenuta già la morte di Giuseppe), con «fratelli» e «sorelle» (congiunti) a tutti noti.

Ed era per loro motivo di scandalo (v. 3). «Scandalizzarsi» propriamente designa una caduta provocata da un inciampo (skándalon). Nel Nuovo Testamento spesso questo termine lo si indica in senso religioso, un’occasione di peccato, una seduzione all’apostasia e all’incredulità. Gesù diventa occasione di scandalo per i suoi compaesani, perché in certo senso ne provoca la caduta (peccato di incredulità) con il suo insegnamento e le sue azioni.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria (v. 4). Indirettamente e senza grosse polemiche, Gesù reagisce enunciando il principio del profeta disprezzato in patria; e non solo nel suo paese natio, ma anche tra i suoi parenti e nella sua stessa famiglia. Marco accentua questi due ultimi termini (parentela, famiglia) radicalizzando così il rifiuto che Gesù ha trovato tra i suoi (vedi 3,21). Dicendo «un profeta» e attribuendo a sè tale detto, in qualche modo Gesù rivendica la dignità e le prerogative del profeta escatologico rifiutato dagli altri.

E lì non poteva compiere nessun prodigio (5a). Frase apparentemente in contrasto con quella che segue: impose le mani a pochi malati e li guarì (5b). In realtà, l’evangelista non vuole assolutizzare il principio che l’incredulità escluda del tutto i miracoli e paralizzi la compassione di Gesù. Con il v. 5b vuole lasciarci un’impressione positiva.

Si meravigliava della loro incredulità (v. 6). Anche se ha enunciato il principio del v. 4 (un profeta non è disprezzato che…). Gesù prova un certo stupore verso l’incredulità dei suoi. Questo vuol dire che, benché sia di regola così, l’incredulità non è, per lui un fatto scontato, da accogliere con supina rassegnazione

L’immagine della domenica

LA DI PONZA (LATINA-LAZIO)  –   2018   

«Mi feci tante domande che andai a vivere sulla riva del mare e gettai in acqua le risposte per non litigare con nessuno». (Pablo Neruda)

Casella di testo: Ezechiele 2
2 Corinzi 12,7-10
Marco 6,1-6

È l'esperienza del nostro mondo: magari disposti a credere in un Dio che ci arriva a noi attraverso esperienze estraordinarie, ma incapace di credere nel Dio che si manifesta umilmente anche attraverso mediazioni umane...nel pane eucaristico....
Rinnoviamo il nostro atto di fede, di accoglienza al Signore che viene a noi...

Gesù viene tra i suoi, nella sua patria, Nazaret, tra la sua gente, e proprio qui viene respinto: "si scandalizzavano di lui". Un fallimento in tutta regola, compresa l'amarezza incredula provata da Gesù nel vedersi rifiutato da gente che pure gli era così vicina. Il fallimento si verifica non su un aspetto marginale della sua attività, ma proprio al centro, attorno a quel farsi pienamente umano -fino, appunto, all'impotenza- di Dio. Proprio là dove si era realizzata la totale condivisione da parte di Dio della realtà umana più comune -un villaggio, un lavoro, una parentela, -avviene il rifiuto, e proprio a motivo di una ferialità di Dio ritenuta eccessiva. 

Nonostante l'incomprensione dell'uomo e pur nel rispetto per la sua libertà, Dio prosegue l'opera a suo favore. Dio, infatti, non può rinnegare se stesso, e quell'andare incontro all'altro è il suo modo di essere, qual è stato rivelato in Gesù. Di conseguenza, "ascoltino o non ascoltino" gli uomini, Gesù appare, comunque, un vero profeta che dice di Dio quello che Dio è, anche soprattutto nel momento in cui viene respinto. Qui, infatti, in tutta la debolezza dell'amore, si manifesta pienamente la potenza del suo tenace attaccamento a noi.

Meditazione

    La pagina evangelica di questa domenica ci narra la visita di Gesù alla sua città natale. È la prima volta che Gesù, dall’inizio del suo ministero pubblico, fa ritorno nella sua patria. A Nazaret «era stato allevato» (Lc 4,16) e aveva trascorso i primi trent’anni della sua vita (cfr. Lc 3,23), conducendo un’esistenza segnata dall’ordinarietà e dalla condivisione del comune destino dei suoi abitanti. Gli evangelisti non ci dicono pressoché nulla di questi anni di vita ‘nascosta’ e noi non possiamo far altro che prendere atto di questo riserbo rispettando un silenzio che, forse, la dice lunga sulla ‘serietà’ di quel mistero che noi chiamiamo incarnazione.

    Possiamo immaginare la curiosità e l’animazione dei nazaretani nel rivedere un loro concittadino diventato tanto ‘famoso’ negli ultimi tempi (già dopo il primo miracolo a Cafàrnao si dice che «la sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea»: Mc 1,28). Una curiosità che si tramuta in stupore appena cominciano a sentirlo parlare nella loro sinagoga, nella consueta celebrazione liturgica sabbatica. «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?…» (vv. 2-3). L’evangelista accumula qui una serie di ben cinque domande per dare corpo a tutta la meraviglia degli abitanti di Nàzaret: come è possibile che quest’uomo parla in questo modo e compie tali cose? Lo conosciamo bene tutti: è uno di noi…! E così lo stupore iniziale cede subito il passo a un atteggiamento di scetticismo e di incredulità: «Ed era per loro motivo di scandalo» (v. 3b). È lo sconcerto di chi non riesce a mettere insieme una sapienza e una potenza che si reputa non possano venire altro che da Dio con le modeste e umili origini di colui che è conosciuto come «il falegname, il figlio di Maria» (v. 3a). Come può il divino conciliarsi con un umano così ‘umano’? Come può Dio manifestarsi in una realtà così quotidiana e familiare? La presunta conoscenza di Gesù da parte dei nazaretani è l’ostacolo più grande alla loro apertura di fede, a una fede che si apre a un ‘oltre’ che travalica l’immediatezza della propria esperienza quotidiana, pur non negandola. «La meraviglia è un pochino sempre a doppio esito: c’è la meraviglia che vuol capire, che si lascia educare a capire. […] E c’è invece la meraviglia che non nasce dall’intelligenza, cioè dalla volontà dell’uomo di capire, di piegarsi e di incontrare la verità o comunque ciò che gli si manifesta: ma è la meraviglia della ragione, che conduce a misurare questa cosa secondo il metro che sono io. Questa meraviglia conduce all’incredulità e al rifiuto, mentre la prima conduce all’ammirazione, si lascia educare dall’avvenimento, si lascia piegare» (G. Moioli).

    È  significativo che a questa meraviglia incredula faccia eco l’amara meraviglia di Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (v. 6a). Gesù non riesce a capacitarsi che si possa arrivare a un tale livello di incredulità. E proprio tra i suoi parenti, nella sua casa, nella sua patria… Sembra una costante nella storia della salvezza, ma proprio i più vicini, coloro che dovrebbero conoscere meglio l’inviato di Dio, che vantano con lui una certa familiarità, sono quelli che meno accolgono il suo messaggio, che più si chiudono alla sua azione. Ne sono testimonianza le parole disincantate che il profeta Ezechiele riceve da parte del Signore: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli… Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…» (Ez 2,3-4; prima lettura). Il detto popolare, citato da Gesù, sul profeta disprezzato tra i suoi (cfr. Mc 6,4) è una conferma di questo atteggiamento di ‘ribellione’ del popolo al quale Dio manda i suoi messaggeri. Si potrebbe dire che Gesù è sì stupito e sorpreso di questo rifiuto, ma non impreparato: conosce, infatti, la sorte di tutti i profeti che lo hanno preceduto.

    In questo clima di incredulità Gesù non può compiere alcun miracolo. La non-fede degli abitanti di Nàzaret ha il triste effetto di ridurre all’impotenza Gesù («E lì non poteva compiere nessun prodigio»: v. 5a); al contrario della fede della donna emorroissa e del capo della sinagoga Giairo (cfr. Mc 5,21-43), che permettono a Gesù di sprigionare tutta la sua potenza salvifica, capace persino di risuscitare i morti! La fede può tutto (cfr. Mc 9,23), l’incredulità invece rende impossibile ogni opera di Dio. I gesti e i prodigi che Gesù compie sono sempre in vista della fede e in risposta a essa; per questo non ha alcun senso un miracolo fuori dall’’ambito vitale’ in cui solamente esso può avvenire.

    Tuttavia, prima di lasciare la sua città, Gesù riesce a compiere qualche guarigione (cfr. v. 5b), segno che il rifiuto non è stato totale: qualche barlume di fede si è trovato anche lì, tra i suoi compatrioti. L’insuccesso sperimentato non ferma la ‘corsa’ del vangelo: a dispetto di tutto, Gesù continua a percorrere i villaggi della Galilea portando a tutti la sua parola di vita. Anche da profeta inascoltato e disprezzato continua a diffondere con fiducia il seme del vangelo.

    Un’ultima osservazione circa la ‘parentela’ di Gesù. Già in Mc 3,33 Gesù chiedeva ai suoi ascoltatori: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Conosciamo la risposta che lo stesso Gesù da subito senza aspettare la reazione dei suoi interlocutori. Qui a Nàzaret, dove Gesù giunge con i suoi discepoli (la sua ‘nuova famiglia’), si fa ancora più acuto il contrasto tra parentela ‘carnale’ e parentela ‘di fede’. La prima non è negata, né  disprezzata, ma, ai fini della comunione con il Signore, deve sfociare nella seconda. Perché il solo legame che rende ‘familiari’ del Figlio dell’uomo è l’obbedienza della fede e l’ascolto sincero della parola di Dio.

Preghiere e racconti

Viveva di fede come noi

«Quanto avrei voluto essere sacerdote per poter predicare sulla Madonna! Una sola volta sarebbe stata sufficiente per dire tutto quello che penso a questo proposito. Prima avrei fatto capire quanto poco conosciamo la sua vita. Non occorre dire cose inverosimili o che non sappiamo; per esempio che, da piccola, a tre anni, la Madonna ha offerto se stessa a Dio nel Tempio con sentimenti ardenti di amore e del tutto straordinari; mentre forse ci é andata semplicemente per obbedire ai suoi genitori… Perché una omelia sulla Madonna possa piacermi e farmi del bene, occorre che io veda la sua vita reale, non la sua vita supposta; e sono certa che la sua vita reale era molto semplice. Ce la mostrano inabbordabile, mentre bisognerebbe mostracela imitabile, fare vedere le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, dare delle prove di questo per mezzo del Vangelo in cui leggiamo: «Non compresero le sue parole » (Lc 2,50). E questa parola molto misteriosa: «I suoi genitori si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33). Questo stupirsi suppone un certo meravigliarsi, non è vero? Sappiamo bene che la Madonna è Regina del Cielo e della terra, eppure è più madre che regina, e non occorre dire a motivo delle sue prerogative, che lei eclissi la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere fa scomparire le stelle. Mio Dio! quanto questo mi appare strano! Una madre che fa scomparire la gloria dei suoi figli! Io penso tutto il contrario, ritengo che essa farà crescere molto lo splendore degli eletti. È bene parlare delle sue prerogative, ma non occorre dire soltanto questo… Forse qualche anima andrà fino al punto di sentire allora una certa lontananza con una tale creatura talmente superiore e dirà: «Se le cose stanno così, ci accontenteremo di andare a brillare in un angolino». Ciò che la Madonna aveva in più rispetto a noi, era il fatto che non poteva peccare, che era esente dalla macchia originale, ma d’altra parte, è stata meno fortunata di noi, poiché non ha avuto la Madonna da amare, e questa è una tale dolcezza per noi».

(Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa, in Ultimi colloqui, 21/08/1897). 

Lo «scandalo» di un Dio che entra nella mia casa

Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? (…)». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità (…).

Il Vangelo di oggi è chiuso tra due parentesi di stupore: inizia con la sorpresa della gente di Nazaret: Da dove gli viene tutta questa sapienza e questi prodigi?. E termina con la meraviglia di Gesù: E si meravigliava della loro incredulità. Né la sapienza né i miracoli fanno nascere la fede; è vero il contrario, è la fede che fa fiorire miracoli.

La gente passa in fretta dalla fascinazione alla diffidenza e al rifiuto. Da dove gli vengono queste cose? Non da Nazaret. Non da qui. In questa domanda «Da dove?» è nascosto il punto da cui ha origine l’Incarnazione: con il Verbo entra nel mondo un amore da altrove, “alieno”, qualcosa che la terra da sola non può darsi, viene uno che profuma di cielo. Quel mix di sapienza e potenza che Gesù trasmette, non basta alla gente di Nazaret per aprirsi allo spirito di profezia, quasi che il principio di realtà («Lo conosco, conosco la sua famiglia, so come lavora») lo avesse oscurato. Ma l’uomo non è il suo lavoro, nessuno coincide con i problemi della sua famiglia: il nostro segreto è oltre noi, abbiamo radici di cielo. Gesù cresce nella bottega di un artigiano, le sue mani diventano forti a forza di stringere manici, il suo naso fiuta le colle, la resina, sa riconoscere il tipo di legno. Ma, noi pensiamo, Dio per rivelarsi dovrebbe scegliere altri mezzi, più alti. Invece lo Spirito di profezia viene nel quotidiano, scende nella mia casa e nella casa del mio vicino, entra là dove la vita celebra la sua mite e solenne liturgia, la trasfigura da dentro. Fede vera è vedere l’istante che si apre sull’eterno e l’eterno che si insinua nell’istante.

Dice il Vangelo: Ed era per loro motivo di scandalo. Scandalizza l’umanità di Gesù, la prossimità di Dio. Eppure è proprio questa la buona notizia del Vangelo, stupore della fede e scandalo di Nazaret: Dio ha un volto d’uomo, il Logos la forma di un corpo. Non lo cercherai nelle altezze del cielo, ma lo vedrai inginocchiato a terra, ai tuoi piedi, una brocca in mano e un asciugamano ai fianchi. La reazione di Gesù al rifiuto dei compaesani non si esprime con una reazione dura, con recriminazioni o condanne; come non si esalta per i successi, così Gesù non si deprime mai per un fallimento, «ma si meravigliava» con lo stupore di un cuore fanciullo. A conclusione del brano, Marco annota: Non vi poté operare nessun prodigio; ma subito si corregge: Solo impose le mani a pochi malati e li guarì. Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’amante respinto continua ad amare anche pochi, anche uno solo. L’amore non è stanco: è solo stupito. Così è il nostro Dio: non nutre mai rancori, lui profuma di vita.

(Ermes Ronchi)

Il profeta

Il profeta incontra l’indifferenza, la diffidenza e il rigetto, ma la sua missione non dipende dall’audience, bensì dalla fedeltà alla parola di Colui che l’ha inviato. Ezechiele è mandato a un popolo ribelle ed egli dovrà svolgere la sua missione “ascoltino o non ascoltino”. La sua sola presenza e la sua parola scomoda saranno segno della premura di Dio che ha inviato un profeta al suo popolo (I lettura). Gesù, nella sua patria, conosce l’incredulità dei suoi concittadini e formula il detto: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (vangelo). Il vangelo apre uno squarcio sulla disillusione (“si meravigliava della loro incredulità”) che Gesù deve aver provato nei confronti dell’ambiente che l’ha visto crescere: la conoscenza alla maniera umana, “secondo la carne” (2Cor 5,16), diviene chiusura nei confronti dell’inviato di Dio. Per incontrare Gesù, o lasciarsene incontrare, occorre il salto della fede, il rischio della fede. Forse Gesù si meraviglia perché questa conoscenza è totalmente non dialogica: non domanda nulla, non chiede, non parla, ma giudica e rifiuta a priori, e, mentre rende Gesù oggetto di scandalo, impedisce di accedere allo straordinario che Dio può compiere in lui.

La conoscenza dell’altro non può essere fossilizzata e ingessata: l’identità di una persona è in divenire, e conoscere significa essere aperto al novum, alla sorpresa. Soprattutto quando si tratta di conoscere quel mistero inesauribile che è una persona. Nei confronti di Gesù la pur indiscutibile conoscenza delle sue origini conduce i suoi concittadini a non cogliere la sua identità profonda: essi lo omologano a loro stessi, lo riducono alla loro misura e alla loro statura. Ma l’altro è sempre più grande della conoscenza che ne abbiamo. La conoscenza che gli abitanti di Nazaret hanno di Gesù diviene inciampo, trappola, “scandalo” che impedisce la fecondità dell’incontro: “Si scandalizzavano di lui”. Questo scandalo, per cui Gesù appare come sapiente misconosciuto (Mc 6,2), come profeta disprezzato (Mc 6,5) e come medico ridotto all’impotenza (Mc 6,5), non riguarda però solo i contemporanei di Gesù, ma trova una sua rinnovata versione anche riguardo alla conoscenza di Gesù oggi. E in profondità svela la difficoltà a credere radicalmente e autenticamente il vangelo, perché solo confessando Gesù quale Signore lo si incontra anche come medico, sapiente e profeta. Medico ridotto all’impotenza. Se la fede viene ridotta a strumento di soddisfazione del bisogno umano, essa può conoscere una deriva tecnicistica e taumaturgica che la piega alla misura del destinatario il quale non compie più il movimento salvifico di apertura al mistero di Dio in Cristo. Allora la guarigione non è più segno di una salvezza escatologica, ma la salvezza diviene metafora di guarigione, essendo questa l’unica cosa sentita come importante. È la fede ridotta a farmaco, a psicoterapia o addirittura a magia. Profeta disprezzato.

La parola profetica è disprezzata quando viene usata da un’ideologia, asservita a interessi di parte. Se Gesù parla di disprezzo del profeta nella sua patria, oggi la parola profetica è disprezzata e privata dalla sua valenza escatologica se non si asservisce alla patria, se non accetta di servire da collante nazionale, se non si fa distributore di valori etici. Se non si piega ancillarmente a una parola penultima.

Sapiente misconosciuto. Ovvero la riduzione del sapere dell’altro al mio sapere. L’intolleranza verso una sapienza altra è l’intolleranza verso la legittima e necessaria pluralità di sapienze, di ermeneutiche del reale, di sensi cercati e assegnati al vivere. La sapienza che è Gesù il Signore non si identifica con una filosofia o cultura, ma è realtà transculturale che orienta l’umano. Come Gesù è stato ridotto all’impotenza da coloro che affermavano di conoscerlo meglio, così la fede può oggi essere resa insignificante proprio da coloro che pretendono di farsene paladini e difensori, ma in realtà la riducono alle proprie visioni del mondo e non accettano di lasciarsene mettere in discussione.

(Luciano Manicardi)

Secondo la fede

     Così la multiforme sapienza di Dio distribuisce la salvezza degli uomini con una molteplice e insondabile compassione e accorda il dono della sua generosità secondo la capacità di ciascuno. Per le guarigioni stesse che opera non vuole regolarsi sull’uniforme potenza della sua maestà, ma sulla fede che trova in ciascuno di noi o che egli stesso ha distribuito. L’uno crede che per essere purificato dalla lebbra basti la sola volontà di Cristo; Cristo lo guarisce con il solo assenso della sua volontà dicendo: «Lo voglio, sii guarito» (Mt 8,3). Un altro lo supplica di venire da lui e di resuscitare sua figlia imponendole le mani; entra a casa sua e gli concede l’oggetto della richiesta nella maniera sperata (cfr. Mt 9,18). Un terzo crede che la salvezza risieda nell’ordine dato con parole: «Dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8); con il comando della sua parola restituisce alle membra illanguidite il loro vigore primitivo: «Va’ e ti sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13). Altri sperano di trovare guarigione toccando la frangia del suo vestito; egli dona loro con generosità il dono della salute (cfr. Mt 9,20). Accorda agli uni la guarigione delle loro malattie su loro richiesta, ad altri offre un rimedio spontaneo, altri li esorta alla speranza dicendo: «Vuoi essere guarito?» (Gv 5,6); porta il suo aiuto ad altri che non speravano più. Sonda i desideri degli uni, prima di soddisfare la loro volontà: «Che volete che vi faccia?» (Mt 20,32). A un altro che non sa per quale via ottenere quello che desidera, dice con bontà: «Se credi, vedrai la gloria di Dio» (Gv 11,40). Su altri effuse abbondantemente la sua potenza di guarigione al punto che l’evangelista riferendosi a essa concluse: «Egli guarì tutti i loro malati» (Mt 14,14); presso altri, però, l’abisso senza limiti dei suoi benefici venne bloccato tanto che si disse: Gesù non poteva operare nessun miracolo a causa dell’incredulità (cfr. Mc 6,5-6). E così la generosità di Dio si conforma alla capacità di fede dell’uomo, al punto di dire a uno: «Ti avvenga secondo la tua fede» (Mt 9,29); a un altro: «Va’ e ti sia fatto come hai creduto» (Mt 8,13); e a un altro: «Ti sia fatto come tu vuoi» (Mt 15,28); e a un altro ancora: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34).

(GIOVANNI CASSIANO, Conferenze 13,15, SC 54, pp. 175-176).

I sepolcri imbiancati

II maestro sembrava non essere assolutamente toccato da ciò che la gente pensava di lui, pur non essendo sempre un rigorosissimo osservante. Quando i discepoli gli chiesero come avessero raggiunto questo grado di libertà interiore, egli rise forte e disse: «Fino a 20 anni non mi è importato nulla di che cosa la gente pensasse di me; dopo i 20 anni mi preoccupavo immensamente di che cosa pensassero i miei vicini; poi un giorno, dopo i 50 anni, capii improvvisamente che essi non pensavano minimamente a me».

(Racconto ebraico).

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr. Is 9,6). E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp. 564-566).

Ogni giorno è da vivere

Ogni mattina

è una giornata intera

che riceviamo dalle mani di Dio.

Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi.

Non vi è nulla di troppo e nulla di «non abbastanza»,

nulla di indifferente e nulla di inutile.

È un capolavoro di giornata

che viene a chiederci

di essere vissuto.

Noi la guardiamo come una pagina d’agenda,

segnata d’una cifra e d’un mese.

La trattiamo alla leggera

come un foglio di carta.

Se potessimo frugare il mondo

e vedere questo giorno elaborarsi

e nascere dal fondo dei secoli,

comprenderemmo il valore di un solo giorno umano.

(M. Delbrêl).

Bramo la tua voce, o Dio

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada

e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera

e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio,

sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore

carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO: