La vita umana è bella Anche se avvolta dal mistero della sofferenza

La vita umana è bella Anche se avvolta dal mistero della sofferenza  Cari fratelli e sorelle, la Giornata Mondiale del Malato, che ricorre il prossimo 11 febbraio, memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes, vedrà le Comunità diocesane riunirsi con i propri Vescovi in momenti di preghiera, per riflettere e decidere iniziative di sensibilizzazione circa la realtà della sofferenza.
L’Anno Paolino, che stiamo celebrando, offre l’occasione propizia per soffermarsi a meditare con l’apostolo Paolo sul fatto che, “come abbondano le sofferenze del Cristo in noi, così per mezzo di Cristo abbonda anche la nostra consolazione” (2 Cor 1, 5).
Il collegamento spirituale con Lourdes richiama inoltre alla mente la materna sollecitudine della Madre di Gesù per i fratelli del suo Figlio “ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata” (Lumen gentium, 62).
Quest’anno la nostra attenzione si volge particolarmente ai bambini, le creature più deboli e indifese e, tra questi, ai bambini malati e sofferenti.
Ci sono piccoli esseri umani che portano nel corpo le conseguenze di malattie invalidanti, ed altri che lottano con mali oggi ancora inguaribili nonostante il progresso della medicina e l’assistenza di validi ricercatori e professionisti della salute.
Ci sono bambini feriti nel corpo e nell’anima a seguito di conflitti e guerre, ed altri vittime innocenti dell’odio di insensate persone adulte.
Ci sono ragazzi “di strada”, privati del calore di una famiglia ed abbandonati a se stessi, e minori profanati da gente abietta che ne viola l’innocenza, provocando in loro una piaga psicologica che li segnerà per il resto della vita.
Non possiamo poi dimenticare l’incalcolabile numero dei minori che muoiono a causa della sete, della fame, della carenza di assistenza sanitaria, come pure i piccoli esuli e profughi dalla propria terra con i loro genitori alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Da tutti questi bambini si leva un silenzioso grido di dolore che interpella la nostra coscienza di uomini e di credenti.
La comunità cristiana, che non può restare indifferente dinanzi a così drammatiche situazioni, avverte l’impellente dovere di intervenire.
La Chiesa, infatti, come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est, “è la famiglia di Dio nel mondo.
In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario” (25, b).
Auspico, pertanto, che anche la Giornata Mondiale del Malato offra l’opportunità alle comunità parrocchiali e diocesane di prendere sempre più coscienza di essere “famiglia di Dio”, e le incoraggi a rendere percepibile nei villaggi, nei quartieri e nelle città l’amore del Signore, il quale chiede “che nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno” (ibid.).
La testimonianza della carità fa parte della vita stessa di ogni comunità cristiana.
E fin dall’inizio la Chiesa ha tradotto in gesti concreti i principi evangelici, come leggiamo negli Atti degli Apostoli.
Oggi, date le mutate condizioni dell’assistenza sanitaria, si avverte il bisogno di una più stretta collaborazione tra i professionisti della salute operanti nelle diverse istituzioni sanitarie e le comunità ecclesiali presenti sul territorio.
In questa prospettiva, si conferma in tutto il suo valore un’istituzione collegata con la Santa Sede qual è l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, che celebra quest’anno i suoi 140 anni di vita.
Ma c’è di più.
Poiché il bambino malato appartiene ad una famiglia che ne condivide la sofferenza spesso con gravi disagi e difficoltà, le comunità cristiane non possono non farsi carico anche di aiutare i nuclei familiari colpiti dalla malattia di un figlio o di una figlia.
Sull’esempio del “Buon Samaritano” occorre che ci si chini sulle persone così duramente provate e si offra loro il sostegno di una concreta solidarietà.
In tal modo, l’accettazione e la condivisione della sofferenza si traduce in un utile supporto alle famiglie dei bambini malati, creando al loro interno un clima di serenità e di speranza, e facendo sentire attorno a loro una più vasta famiglia di fratelli e sorelle in Cristo.
La compassione di Gesù per il pianto della vedova di Nain (cfr.
Lc 7, 12-17) e per l’implorante preghiera di Giairo (cfr.
Lc 8, 41-56) costituiscono, tra gli altri, alcuni utili punti di riferimento per imparare a condividere i momenti di pena fisica e morale di tante famiglie provate.
Tutto ciò presuppone un amore disinteressato e generoso, riflesso e segno dell’amore misericordioso di Dio, che mai abbandona i suoi figli nella prova, ma sempre li rifornisce di mirabili risorse di cuore e di intelligenza per essere in grado di fronteggiare adeguatamente le difficoltà della vita.
La dedizione quotidiana e l’impegno senza sosta al servizio dei bambini malati costituiscono un’eloquente testimonianza di amore per la vita umana, in particolare per la vita di chi è debole e in tutto e per tutto dipendente dagli altri.
Occorre affermare infatti con vigore l’assoluta e suprema dignità di ogni vita umana.
Non muta, con il trascorrere dei tempi, l’insegnamento che la Chiesa incessantemente proclama: la vita umana è bella e va vissuta in pienezza anche quando è debole ed avvolta dal mistero della sofferenza.
È a Gesù crocifisso che dobbiamo volgere il nostro sguardo: morendo in croce Egli ha voluto condividere il dolore di tutta l’umanità.
Nel suo soffrire per amore intravediamo una suprema compartecipazione alle pene dei piccoli malati e dei loro genitori.
Il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo ii, che dell’accettazione paziente della sofferenza ha offerto un esempio luminoso specialmente al tramonto della sua vita, ha scritto: “Sulla croce sta il “Redentore dell’uomo”, l’Uomo dei dolori, che in sé ha assunto le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell’amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi” (Salvifici doloris, 31).
Desidero qui esprimere il mio apprezzamento ed incoraggiamento alle Organizzazioni internazionali e nazionali che si prendono cura dei bambini malati, particolarmente nei Paesi poveri, e con generosità e abnegazione offrono il loro contributo per assicurare ad essi cure adeguate e amorevoli.
Rivolgo al tempo stesso un accorato appello ai responsabili delle Nazioni perché vengano potenziate le leggi e i provvedimenti in favore dei bambini malati e delle loro famiglie.
Sempre, ma ancor più quando è in gioco la vita dei bambini, la Chiesa, per parte sua, si rende disponibile ad offrire la sua cordiale collaborazione nell’intento di trasformare tutta la civiltà umana in “civiltà dell’amore” (cfr.
Salvifici doloris, 30).
Concludendo, vorrei esprimere la mia vicinanza spirituale a tutti voi, cari fratelli e sorelle, che soffrite di qualche malattia.
Rivolgo un affettuoso saluto a quanti vi assistono: ai Vescovi, ai sacerdoti, alle persone consacrate, agli operatori sanitari, ai volontari e a tutti coloro che si dedicano con amore a curare e alleviare le sofferenze di chi è alle prese con la malattia.
Un saluto tutto speciale è per voi, cari bambini malati e sofferenti: il Papa vi abbraccia con affetto paterno insieme con i vostri genitori e familiari, e vi assicura uno speciale ricordo nella preghiera, invitandovi a confidare nel materno aiuto dell’Immacolata Vergine Maria, che nel passato Natale abbiamo ancora una volta contemplato mentre stringe con gioia tra le braccia il Figlio di Dio fatto bambino.
Nell’invocare su di voi e su ogni malato la materna protezione della Vergine Santa, Salute degli Infermi, a tutti imparto di cuore una speciale Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 2 Febbraio 2009 (©L’Osservatore Romano – 8 febbraio 2009) Vanno potenziate le leggi in favore dei bambini malati e delle loro famiglie “Occorre affermare con vigore l’assoluta e suprema dignità di ogni vita umana”, che “è bella e va vissuta in pienezza anche quando è debole ed avvolta dal mistero della sofferenza”.
È quanto ribadisce Benedetto XVI nell’annuale messaggio in occasione della Giornata mondiale del malato, che si celebra l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Maria Vergine di Lourdes.

Numeri e fede/4: Se Dio si cela nella teoria dei giochi

«Come fece Pascal anche il matematico valuta i pro e i contro e arriva a credere per ‘convenienza’».
Parla Marco Andreatta.
«Con Ennio De Giorgi penso che il mistero sia più una condizione necessaria che un ostacolo alla verità della religione.
Chi crede accetta con facilità l’etica scientifica».
«È di pochi giorni la noti­zia che un giovane, laureato in fisica nella mia facoltà, è stato ordinato dia­cono dal vescovo di Trento.
Sono molti i colleghi e amici che, scien­ziati (anzi soprattutto matematici) di professione, hanno,come me, una fede.
Anche se – ovviamente – non per tutti è una fede cristiana».
Marco Andreatta, è professore or­dinario di geometria, e preside della Facoltà di Scienze all’ateneo tridentino.
Per lui, matematica e fede sono due aspetti del pensiero umano che operano in ambiti so­stanzialmente separati ma che al­le volte si intersecano con conse­guenze molto interessanti.
Intervista al Professor Marco Andreatta, Che cosa hanno in comune? «Il matematico è forse il ragiona­tore razionale per antonomasia; da Galileo in poi, di ogni nuova teoria si dice che è scientifica se si basa sulla matematica e sui suoi procedimenti logico-deduttivi.
Ma questo non impedisce a un matematico né, ad esempio, di in­namorarsi (attività non sempre ‘razionale’) né di provare senti­menti di solidarietà, passioni poli­tiche, nè di credere in una religio­ne e nei suoi dogmi di fede.
E, d’altro canto, come una donna può innamorarsi di un matemati­co, per il suo ‘sapere’, il suo mo­do di fare e di pensare, così la fede può entrare nell’ animo del mate­matico ».
Alcuni matematici, nel corso del­la storia, per spiegare il loro esse­re uomini di fede, hanno addotto argomentazioni provenienti dalla loro esperienza di scienziati.
«Personalmente non mi ha mai entusiasmato la prova ontologica di Anselmo (che un matematico come Cartesio sintetizza affer­mando che ‘l’esistenza di Dio è compresa nella sua essenza’ e che il logico-matematico Kurt Gödel ha formalizzato nel secolo scorso).
Mi ha sempre colpito inve­ce l’argomento di Pascal, riconducibile a quella che oggi si definisce ‘teoria dei giochi’: dopo un’accurata analisi dei pro e dei con­tro, il filosofo-matematico francese (inventore del calcolo delle probabilità) sostiene che la scelta di credere in Dio e in una vita eterna sia più ’conveniente’.
Non ho mai dato troppo peso all’aspet­to utilitaristico, ma ho sempre pensato che sotto questo ragiona­mento razionale ci fosse la spe­ranza che la fatica terrena avrà, per i più sfortunati e per gli ultimi, un senso superiore».
Per alcuni, accettare il mistero è la via migliore per arrivare a un approdo.
«Tra i tanti punti di vista, il mio preferito è sicuramente quello del matematico italiano Ennio De Giorgi, così espresso in un impor­tante intervento sull’Osservatore Romano del 18 novembre 1978: ‘operando come matematico mi sono forzato ad ammettere che: non solo le cose che esistono sono, come è ovvio, più di quelle che conosco, ma per poter parlare del­le cose conosciute sono costretto a fare riferimento a cose scono­sciute ed umanamente inconosci­bili; …perciò il fatto che la religio­ne preveda il mistero appare (al matematico) più come condizio­ne necessaria per la sua credibilità che non come ostacolo all’accet­tarla’.
Ma attenzione, ammonisce più avanti De Giorgi, ‘Dio non può essere ridotto al primo ente autocomprensivo’.
Abbiamo allo­ra la sensazione di non poter ap­plicare categorie puramente logi­che (pensiamo all’umiltà di ascol­to, al ‘beati i puri di cuore’…)».
Nella sua vita c’è un evento che l’ha spinto a credere? «Ho un ricordo personale, forse semplice, ma per me di intenso si­gnificato: a sette anni frequentavo la catechesi per la prima comunione, insegnata da un giovane e brillante sacerdote, don Giampao­lo.
Disegnò sulla lavagna non il so­lito triangolo con l’occhio al cen­tro ma un magnifico cerchio e dis­se: così come capite che il cerchio non ha un punto di inizio e uno di fine, così potete anche capire che Dio è tutto, è inizio e fine al tempo stesso.
Ho sempre pensato che questa lezione sia tra le cose che mi hanno spinto da grande ad oc­cuparmi di quella parte della ma­tematica che è la geometria».
Qui abbiamo il caso della fede che spinge verso la matematica.
«Penso che anche in questo caso De Giorgi avesse ragione quando affermava ‘che è più facile per chi crede accettare il principio fonda­mentale dell’etica scientifica, cioè la ricerca appassionata della ve­rità’, e quindi accettare muta­menti culturali in questa direzio­ne.
Con l’attenzione a tenere ben chiari i vincoli del ragionamento scientifico, perché, citando Gali­leo, ‘non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi co­me ogni effetto di natura’.
Lo scienziato ha obblighi-vincoli ri­gorosi nel ragionare: gli derivano dal comportamento della natura dal quale non può prescindere; la mela cade dall’albero, non vola in alto.
Richard.
Feynman, illustre fi­sico teorico, diceva che una cosa è pensare e discutere di un angelo custode, che ognuno può immagi­nare un po’ come vuole; altra cosa è pensare ad esempio al campo e­lettrico, che è soggetto a talmente tante specifiche…».
Oggi si può ancora dire che la matematica è l’anima delle scien­ze e che da essa dipende in gran parte il futuro dell’umanità? «Certo.
Si pensi ad esempio alla possibilità di controllare gli eventi provocati dai cambiamenti clima­tici e ai sofisticati modelli mate­matici necessari per questo, la matematica delle singolarità e del caos.
Proprio la centralità del futu­ro dell’uomo come argomento di fondo della ricerca matematica dovrebbe portare il credente a in­teressarsi della matematica, per­ché questa disciplina fornisce buona parte delle regole interne a tutta la ricerca scientifica.
Indub­biamente il vorticoso sviluppo tecnologico, più che la scienza stessa, ha in questi anni fatto na­scere un’enorme quantità di que­stioni.
Nel mio campo basti pen­sare ai formidabili e irrisolti pro­blemi legati alla complessità ma­tematica intrinseca nelle nuove tecnologie: dalla biologia alla rete mondiale dell’informazione, tutti oggi chiedono alla matematica paradigmi e strumenti concettuali nuovi ed efficienti per poter gesti­re, condividere e sviluppare le nuove scoperte.
Anche per questo la matematica odierna è una scienza ricchissima di nuovi svi­luppi e molti pensano che i pros­simi anni saranno prodigiosi in questo campo.
Problemi in ambiti diversi vengono posti all’umanità dalle nuove tecnologie: sono quel­li riguardanti la libertà e la respon­sabilità: questioni inedite, che an­che la Chiesa, con ragione, solle­va, e sulle quali è possibile e au­spicabile un dialogo aperto e co­struttivo, dato che, citiamo ancora Galileo, ’due verità non possono mai contrariarsi’.
Spero che la fede possa condividere con la scienza la fiducia nelle capacità razionali dell’uomo sulle quali, in buona parte, si fondano le nostre speran­ze di pace e di progresso».
Luigi Dell’Aglio

Globalizzazione della Croce

Professore, il cristianesimo si scoprì iconofilo, “amico” delle immagini, solo in modo progressivo.
Perché? «Ancor oggi, la rappresentazione di Dio nell’arte cristiana è vista come una sorta di paradosso.
Tanto più dagli altri monoteismi, più scettici o addirittura ostili verso le immagini.
Il teologo ebreo Martin Buber ha scritto che “al contempo senza immagine e immaginato è il Dio dei cristiani”.
Parla dell’immagine di un Dio che dovrebbe non avere immagini.
Il dogma cristiano ha infatti sempre sottolineato che per ogni pittore la raffigurazione di Dio è un’impresa impossibile.
L’imitazione del reale, la mimesis, non può essere impiegata, dato che Dio non ha una forma, essendo un Essere puramente spirituale.
Al contempo, a partire dall’arte paleocristiana, Dio è stato espresso progressivamente da un capitale di figure antropomorfe molto familiari e sempre più abituali.
Ma queste immagini, come sottolinea Buber, sono soprattutto un elemento del presente vissuto dei credenti».
In che epoca, la raffigurazione divina acquistò piena legittimità? «Molte residue diffidenze si dissiparono dopo il secondo concilio di Nicea (787).
Grazie anche all’eredità dei Padri della Chiesa, il concilio sostenne in un testo molto preciso che quando si crede nel Verbo incarnato non vi è ragione di rifiutare la sua icona.
Ciò si tradurrà in un diritto di creazione, d’esposizione e di venerazione delle immagini di Cristo, della Vergine, degli Angeli e dei Santi.
Grazie a un chiarimento dogmatico straordinario, verrà stabilita una sorta di piattaforma definitiva sulla legittimità dell’iconografia cristiana».
Quali fattori influenzeranno la proliferazione d’immagini in epoca medievale? «Non ho mai creduto alla teoria del bisogno, fondata su un’opposizione fra autorità e fedeli.
Ovvero, a un bisogno d’immagini rivendicato dal popolo dei fedeli e al quale le autorità ecclesiastiche dovettero cedere.
Di fatto, sono numerosi gli esempi di grandi vescovi teologi che ebbero il gusto delle immagini.
Credo molto più a ciò che definirei il dinamismo espressivo delle forti intuizioni.
Una religione vissuta in modo intenso da una civiltà deve essere espressa.
E dopo le parole, il cristianesimo ha conquistato in modo logico altri registri espressivi, dalle arti plastiche al teatro, dalla musica alla letteratura.
Hanno poi influito fattori più specifici, come la riflessione su certi passaggi evangelici, in particolare di Giovanni, in cui Gesù impiega il verbo “vedere”».
L’arte cristiana porta in sé le tracce dei grandi sconvolgimenti storici? «È molto difficile imporre all’insieme delle rappresentazioni di Dio una periodizzazione fondata sulla storia politica, demografica, economica e persino ecclesiastica.
Fra uno sconvolgimento epocale come la grande peste e le immagini sacre, ad esempio, non vi fu una stretta correlazione.
In un’epoca in cui tutti associavano la peste a una punizione divina, non si osserva un incupimento dello stile.
Questa storia iconica sembra dunque possedere una certa autonomia, un altro ritmo legato alle permanenze profonde del senso della fede».
Quali sono state le epoche di maggiore fioritura? «Fra l’estrema fine dell’XI secolo e la prima metà del XII secolo, in epoca romanica, vengono creati i 5 grandi schemi iconografici della Trinità ancor oggi noti.
Un’altra fase che definirei miracolosa copre la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento.
In queste epoche, gli stili godranno del favore di tutti gli strati della popolazione.
Non si può parlare di un’iconografia delle élite, di un’altra dei borghesi o ancora dei ceti popolari».
L’epoca contemporanea segnerebbe la crisi dell’arte sacra.
Condivide? «In Europa, a partire dalla fine del Seicento, i grandi artisti cominciano ad interessarsi ad altri temi.
Ma non senza momenti di tormento.
Nel suo Autoritratto con Cristo giallo, Gauguin sembrerà dire: come artista autonomo di una nuova generazione, fingo di occuparmi solo di me stesso, ma in realtà continuo a pensare a Lui.
Al contempo, l’immagine sacra migra sempre più negli altri continenti, conoscendo spesso fuori dall’Europa un successo ancor oggi crescente».
In che modi si esprime questa nuova vitalità? «Per fare un solo esempio, l’iconografia della Trinità conosce oggi in Messico un successo senza precedenti.
Ed anche in altri Paesi, si assiste a una sorta di euforia nell’arte sacra.
Inoltre, viviamo nell’epoca della globalizzazione della crocifissione.
Il successo senza precedenti di questo tema pare legato in ogni continente al bisogno di denunciare le ingiustizie e gli orrori del nostro tempo: Nagasaki, la Shoah, il Ruanda, le spoliazioni dei contadini sudamericani e tanto altro.
I drammi contemporanei trovano nell’uomo in croce un’immagine dall’eloquenza insuperabile.
E nessuno poteva prevederlo».
«Le immagini cristiane riguardano soggetti coi quali entrare in relazione intersoggettiva.
In fondo, l’icona è una presenza in vista di un incontro.
A ben guardare, non si tratta di una verità, né dell’illustrazione di un tema, né della presentazione di una tappa o di una storia.
L’icona scavalca l’illustrazione e la narrazione».
Lo storico e teologo domenicano François Boespflug, docente all’Università di Strasburgo, ha maturato questa convinzione dopo oltre 30 anni di ricerche sulla rappresentazione divina lungo la storia del cristianesimo.
Un lavoro adesso condensato nel vasto volume Dieu et ses images.
Une histoire de l’Eternel dans l’art (Dio e le sue immagini.
Una storia dell’Eterno nell’arte), edito in Francia da Bayard.

Un «supermotore» della cultura italiana

Nel mondo ci sono quattro milioni di cittadini italiani (fonte Migrantes) e almeno sessanta milioni di oriundi.
Un’altra Italia, interessatissima alla cultura del nostro Paese, spesso innamorata e ammaliata quando dalla Roma dei Cesari, quando dagli intrighi della Firenze rinascimentale, quando dagli eroismi risorgimentali.
E che ci guarda da lontano, quasi sempre grazie a Internet, con entusiasmo e grande difficoltà.
Perché riuscire a discriminare tra milioni di pagine web, spesso di qualità scadente, con informazioni false o superficiali, è impossibile.
È quella che i sociologi chiamano information overload.
SUPERMOTORE SEMANTICO Nasce anche per fare un po’ di chiarezza nell’agitatissimo Mare Nostrum digitale, il progetto del supermotore di ricerca semantico della cultura italiana che è stato appena approvato e finanziato dal Miur.
L’obiettivo è quello di realizzare un meta motore semantico, cioè un sistema capace di interrogare tutti i search engines del mondo e anche di estrapolare il sapere seguendo schemi di intelligenza artificiale.
«E dunque creare un catalogo dei website migliori – spiega Marco Santagata, ordinario all’Università di Pisa e coordinatore scientifico del progetto -, una bussola della cultura italiana con la quale chiunque, ma soprattutto chi vive all’estero, può orientarsi per ottenere le giuste informazioni senza dispersioni e perdite di tempo».
Capofila del progetto, dal valore di 1,4 milioni di euro, è il Diparimento di studi italianistici dell’Università di Pisa, con il quale collaborano Cnr, Ministero dei Beni culturali, Dipartimento di Informatica dell’ateneo pisano e Icon, un consorzio di 21 università italiane, primo al mondo ad aver realizzato Icon (www.italicon.it) un portale sulla cultura italiana che permette anche a residenti all’estero di laurearsi in italianistica con un titolo di studio riconosciuto ufficialmente in Italia e all’estero.
TRADUZIONI IN TEMPO REALE Grazie all’impiego di algoritmi di intelligenza artificiale è prevista la realizzazione di un traduttore semantico italiano-inglese e inglese-italiano.
«Le pagine indicizzate nel supermotore di ricerca – continua Santagata – non saranno soltanto nella nostra lingua, ma in inglese e dunque sarà importante avere una traduzione in tempo reale.
Allo stesso tempo i documenti in italiano potranno essere convertiti in inglese per agevolare la comprensione di chiunque, anche degli oriundi di quarta generazione, che amano la nostra cultura ma non parlano la nostra lingua».
Marco Gasperetti

Chiesa 2.0: pescatori di uomini in Rete

Per don Pompili, i responsabili dei siti internet delle diocesi e delle altre realtà cattoliche debbono chiedersi anche se «è giusto continuare a contrapporre il virtuale al reale? E, d’altra parte, in che modo le due esperienze, obiettivamente diverse, possono integrarsi?».
«Non vi è dubbio – sottolinea – che ci siano in giro difensori entusiasti del virtuale che tendono a minimizzare il suo impatto, così come vi sono ostinati detrattori del virtuale che vorrebbero descriverlo necessariamente come antitesi all’umano».
Un altro interrogativo riguarda il nuovo individualismo che cresce: «In che modo questo individualismo interconnesso ridisegna il territorio umano e, dunque, la dinamica relazionale?».
Ma la questione centrale «è quella che si muove tra identità e linguaggi».
In questi anni, ricorda il sacerdote, «non sono mancati pertinenti pronunciamenti da parte del Magistero.
Ultimo in ordine di tempo, l’annunciato messaggio per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia) che lascia chiaramente immaginare – e in modo dichiaratamente pro-positivo – che in questo ambito si gioca una partita importante dell’umano».
Il boom di internet in parrocchia.
Pescatori di uomini sì, ma nella Rete delle reti, evitando di rimanere intrappolati però nei meandri di internet.
Con più di duemila anni di storia e il Vangelo da annunciare al mondo la Chiesa e la sua missione salvifica potrebbe sembrare distante dal world wide web, un ambiente virtuale ed elettronico che ha avuto la sua ampia diffusione popolare non più di quindici anni fa.
Eppure andando sui browser e nei motori di ricerca si scopre che on line c’è una marea di pagine personali, blog, siti parrocchiali, di associazioni e movimenti che crescono di giorno in giorno confermando come il cristianesimo nelle diverse fasi storiche, compresa quella che stiamo vivendo, si è sempre incarnato e inserito nelle culture del suo tempo.
In Italia fino al marzo 2008 il numero di siti cattolici ha raggiunto quota 12mila secondo la lista www.siticattolici.it curata da Francesco Diani.
Di questi il 24,2 per cento sono riconducibili a siti di comunità parrocchiali mentre il 20 per cento ad associazioni e movimenti, il 7 per cento ai siti personali.
Un dato che conferma la ricerca dell’Università di Perugia condotta da Paolo Mancini, docente di sociologia della comunicazione, su un campione di 1338 persone: quasi l’86 per cento delle parrocchie italiane posseggono un computer e nel 70 per cento dei casi esiste una connessione a internet; circa il 62 per cento delle comunità parrocchiali ha un indirizzo di posta elettronica e «ciò avviene nonostante l’età piuttosto avanzata della maggior parte dei parroci italiani – dice la ricercatrice Rita Marchetti che ha collaborato all’indagine –.
Basta pensare che quasi il 50 per cento di essi ha più di sessant’anni».
La ricerca sarà presentata tra oggi e domani proprio al convegno “Chiesa 2.0”, rivolto principalmente ai responsabili diocesani della comunicazione internet, e in cui ci si interroga sul futuro della relazione tra virtuale e reale, e sull’individualismo che deriva dall’uso della rete, per capire se è possibile per la Chiesa e i cattolici essere presenti nel web mantenendo la propria lingua e la propria identità.
Alcuni esempi.
Per Daniel Arasa, docente di struttura dell’informazione e comunicazione digitale presso la Pontificia Università della Santa Croce, «qualsiasi istituzione che desideri trasmettere una sua immagine pubblica d’accordo con l’identità di se stessa, non può fare a meno dell’uso di internet e, concretamente, di avere un sito web».
Il problema quindi, secondo Arasa, che è autore di Church communications through diocesan websites.
A model of analysis, non è tanto se avere un sito web oppure non averlo, ma quale tipologia di sito costruire.
«Il web 2.0 – aggiunge – ha fatto sì che questi elementi siano sottomessi ad una nuova dinamica: alla diffusione dell’informazione si sono aggiunti lo scambio e il feedback».
È il caso del sito www.religione20.net, più di un semplice blog curato da Luca Paolin, che fa parte della comunità virtuale promossa da alcuni insegnanti di religione.
Ad oggi raccoglie più di cento membri attivi in tutta Italia all’indirizzo http://ircduepuntozero.ning.com/.
Il sito offre spunti e suggestioni dall’attualità, aree di documentazione e link di approfondimento.
Si propone come una raccolta di strumenti utili e segnalazioni per una didattica della religione in stile web 2.0.
Il sito de La vita cattolica di Udine (www.lavitacattolica.it) è un esempio di convergenza cooperativa, perché il settimanale della diocesi si integra con la radio e il sito dell’arcidiocesi stessa, mentre su www.diocesinoto.it, il sito internet istituzionale della diocesi siciliana, è possibile percorrere un itinerario multimediale delle Chiese barocche.
Nel portale dell’arcidiocesi di Napoli (www.chiesadinapoli.it) invece le parrocchie hanno un’area a loro dedicata in cui comunicare gli orari delle Messe, gli incontri delle varie pastorali, le date dei pellegrinaggi e dei ritiri spirituali.
«Parrocchie Map» permette inoltre di cercare la parrocchia più vicina alla propria abitazione.
Il portale ha infatti lo scopo di collegare in rete il tessuto di parrocchie e realtà ecclesiali della diocesi partenopea.
Una sfida accolta.
Un impegno, quello di essere presenti su internet, che mette in evidenza come la Chiesa abbia accettato dal Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del decreto Inter Mirifica, le sfida provenienti dai mezzi di comunicazione e in seguito anche dei nuovi media.
«Non basta usarli per diffondere il messaggio cristiano, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna» scriveva nella Redemptoris missio Giovanni Paolo II.
Nel ’99 il convegno promosso dalla Cei ad Assisi, «Chiesa in rete.
Nuove tecnologie e pastorale», testimoniava un interesse per le nuove tecnologie applicate alla comunicazione e alla trasmissione del Vangelo.
A Milano, nel 2002, l’Università Cattolica prese spunto dalla 36esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che aveva come tema Internet: un nuovo forum per proclamare il Vangelo, puntando ad accendere i riflettori sul fenomeno internet come un nuovo forum, nel senso attribuito a questo termine nell’antica Roma, cioè di uno spazio pubblico dove si conducevano politica e affari, dove si adempivano i doveri religiosi, dove si svolgeva gran parte della vita sociale della città e dove la natura umana si mostrava al suo meglio e al suo peggio.
Il 22 febbraio 2002 il Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali pubblica La Chiesa e internet e Etica in internet.
Due documenti utili per orientarsi nel mare del web, così come il Direttorio sulle comunicazioni sociali della Cei.
Infatti, per quanto potenti ed affascinanti possano essere questi nuovi strumenti occorre comprendere che restano in mano all’uomo e alla sua responsabilità.
Allora anche internet diventa terreno di scontro tra bene e male, dibattito tra entusiasti e critici, tra verità e menzogna, spazio di dialogo, di contatto, di relazioni umane, di incontro tra culture, ma anche strumento di frodi e di abusi.
Per questo risulta interessante e c’è attesa per il messaggio di Benedetto XVI in occasione della 43esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2009, sul tema «Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia».
Tema su cui riflettere anche per via dell’espansione dei social network, ossia di quelle «reti sociali» che hanno traghettato il web in una nuova fase: il web 2.0.
«In che modo è possibile avere in Rete una fisionomia riconoscibile senza per questo assumere linguaggi scontati o peggio indecifrabili?».
A porsi questa domanda è il direttore dell’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni Sociali e portavoce della Cei, don Domenico Pompili, che ha aperto oggi a Roma il convegno nazionale “Chiesa in rete 2.0” promosso insieme al Servizio Informatico della Chiesa Italiana.
«Non vi è dubbio – rileva Pompili – che è cresciuto il rapporto con la Rete, ma la domanda resta: come dobbiamo essere noi stessi, fino in fondo, senza per questo assumere uno stile linguistico desueto, quando non tautologico, cioè ripetitivo?».

Numeri e fede/ 2: Matematica, il fascino della verità

INTERVISTA Professor Pistone, tra tutte queste cause di “irreligion”, qual è la predominante? «La gente parla di religione ma non sa nulla circa le cose di cui parla.
Ignora l’immenso patrimonio culturale accumulato in duemila anni di cristianesimo.
Crede che la preghiera si riduca a poche frasette pie o formule superstiziose.
Non ha alcuna idea di che cos’è la Rivelazione, il Credo, la liturgia, la Bibbia.
A dire il vero, con molti scienziati, ricercatori, persone dotate di un’elevata abitudine all’argomentazione razionale, non ho difficoltà a parlare di fede.
Trovo ascolto.
Invece, fuori dalle mura dell’accademia, avviene ciò che non finisce mai di ferirmi: spesso mi trovo di fronte persone, specialmente tra gli anziani, che provano una netta avversione per la fede.
In Italia ha lasciato tracce profonde l’illuminismo francese, programmaticamente ateo e rivoluzionario, molto diverso dell’illuminismo di tipo americano che non è affatto antireligioso.
Negli Usa, lo abbiamo visto nella propaganda per le elezioni presidenziali, spesso i discorsi di Obama e di McCain seguivano i canoni della predicazione.
I politici americani sono soliti manifestare in pubblico la loro fede religiosa.
Da noi invece la fede è considerata un fatto privato.
E poi, in Italia, appena si comincia a parlare di religione, la conversazione è minata da un grosso equivoco».
Quale equivoco? «Spesso io vorrei parlare di teologia ma mi accorgo che i miei interlocutori, quando dicono ’religione’ pensano alla politica, e basta.
Si confonde la fede con le posizioni che le chiese legittimamente assumono nel dibattito politico e civile.
Pensiamo, ad esempio, alla mancata visita del Papa all’università di Roma.
Ritengo che il Papa avrebbe dovuto parlare alla Sapienza e che molti degli autorevoli accademici che hanno firmato la lettera contro la sua visita siano stati mossi da un pregiudizio politico e da immotivate paure, in un quadro completamente falsato.
Ora poi si sta formando una cultura fortemente antireligiosa dalle cui pubblicazioni esce un leit-motiv martellante: attenti alla religione perché è “pericolosa”, “fanatica”, “scatena odii e guerre”, dato che “chi crede in qualcosa disprezza gli altri che non credono”.
Tutto questo da un lato è vero, in certi casi, come dimostra la cronaca quotidiana dal mondo.
D’altro lato, nel concreto della situazione italiana, questi allarmi sono senza fondamento.
Dalle nostre parti, ad esempio, le accanite lotte del passato sono assopite e sostituite da polemiche accese ma pacifiche; perfino nelle edizioni per la catechesi dei bambini c’è collaborazione fra la nostra casa editrice e quella salesiana».
Nel suo caso, è nato prima il matematico oppure il credente? «Vengo da un ambiente di campagna, sono nato a Chieri da una famiglia proveniente dalle Langhe.
I miei appartenevano al mondo artigiano, in un contesto aperto ma religioso.
In famiglia c’era sempre stato un certo numero di evangelici.
E anche molti sacerdoti.
Come in tanti altri casi, questa tradizione, che alcuni consideravano oppressiva, si è persa.
Quasi tutta la mia vita è passata senza pensiero di fede: studi di matematica, famiglia e poco altro.
In me il credente è nato dopo i 50 anni.
Non per un evento particolare ma per un’evoluzione progressiva.
Quando arrivano dei momenti di crisi – e arrivano per tutti – succede qualcosa: quello che per noi evangelici è la “chiamata”.
Il Signore ti cerca sempre e, quando sei in fondo al pozzo, lo riconosci».
E come ha reagito alla “chiamata”? «Facendo quello che so fare, cioè studiando.
Se si leggono le opere degli scienziati inglesi contemporanei di Newton, si scopre che erano tutti credenti, alcuni anche apologeti.
Leggendo le loro opere appare chiaro che per loro non c’era contraddizione tra scienza e fede; anzi erano convinti che scienza e fede non siano due cose diverse.
Non vedevano alcuna differenza tra scoprire teoremi e aver fede».
Ma qual è la ragione principale per cui non v’è contraddizione tra scienza e fede? «Come dice la Bibbia, e poi la Chiesa di tutti secoli, “se si guarda con fiducia la creazione, si vede il Creatore”.
I matematici poi sentono particolarmente il fascino della verità.
Studiano oggetti che considerano perfetti e che sono, inoltre, applicabili alla descrizione della natura.
Ciò che affascina lo scienziato è che il mondo sia stato non solo creato, ma creato comprensibile.
E il fatto che il mondo sia intelligibile è un dato a priori.
È l’attestato del ruolo che il Creatore ripone nella scienza dell’uomo.
Chi si occupa tutti i giorni di scienza si domanda: com’è possibile che una persona – sia pure geniale come Einstein – che lavora all’Ufficio Brevetti di Zurigo – capisca com’è fatto il mondo, e che le sue teorie vengano poi confermate sperimentalmente?».
Lei è appena arrivato da Hanoi, dove ha parlato in un convegno di Statistica.
E sta per partire per Berkeley in California.
La verità cui la matematica anela è universale, passa attraverso culture e tradizioni diverse…
«Hanoi è la capitale di un paese socialista, il Vietnam, con tante difficoltà da superare, e una cultura molto distante dalla nostra.
Ma, quando parliamo della nostra scienza, non c’è differenza che tenga.
La matematica cinese e quella di Euclide sono la stessa cosa.
Altri campi della cultura umana non hanno questa caratteristica».
Luigi Dell’Aglio Se «No Drama» è divenuto anche il motto della «Generation Obama» il merito è dello stesso neo-eletto presidente che tenne i nervi a posto in due momenti roventi della sua campagna: a metà gennaio quando perse in New Hampshire subito dopo il trionfo iniziale in Iowa e tre mesi dopo, allorché gestì le dichiarazioni razziste anti-bianchi del reverendo nero Jeremiah Wright riuscendo a trasformare la questione razziale da svantaggio in vantaggio elettorale.
Egli poi si ispira ad Abramo Lincoln, il presidente che seppe guidare un governo composto di ministri fra loro rivali grazie all’abilità nel rimanere calmo in momenti di crisi politica aggravati dalla Guerra Civile, come ricostruisce Doris Kearns Goodwin nel libro «Team of Rivals» che Barack ha confessato di tenere sul comodino.
Il richiamo al «No Drama« di Lincoln, si spiega con le sfide terribili che Obama ha di fronte: la recessione e due guerre aperte.
Per affrontarle e superarle con successo serviranno nervi molto saldi.
Però non bisogna dimenticare che il Dream Team 2009(l’insieme dei ministri ed esperti che compongono il suo gruppo di governo) ha saputo cogliere questo semplice ed efficacissimo detto dal No More Drama, che potrebbe diventare il motto per il mondo intero che è stanco di guerre, tragedie, razzismo, non solo nel 2009, ma nel futuro: “No drama (no more drama in my life) No more, no more, No more, no more No more tears (no more tears, no more cryin every night) No more fears (no more waking up in the morning) No drama, no more in my life No more drama, no more drama No more drama, no more drama No more drama, no more drama No more drama, no more drama No more drama in my life So tired, tired of this drama”(Cfr: dal singolo R&B di Mary J.
Blige).
Per il politologo Bill Schneider, volto di rilievo della tv Cnn, dietro «No Drama Obama» c’è l’identità di un leader riassunta da «tre C» ovvero «casual, cool, connected» (casual, calmo, connesso elettronicamente) che rispondono ad altrettante caratteristiche che ha chi lo ha votato.
Egli si sta preparando «con una calma alla Obi-Wan Kenobi» (il Maestro Jedi di Guerre Stellari) ad affrontare una terrificante lista di problemi planetari(così «Time» ritrae Barack Obama raccontando la «Persona dell’anno 2008»).
E noi “speriamo che se la cavi”.
Come speriamo che se la cavi l’altrettanto famoso “tiratore di scarpe”, divenuto anche lui un simbolo del cambiamento dei prossimi anni, in cui non si useranno armi, ma oggetti per colpire i tiranni.
Dopo il suo exploit, il giornalista iracheno Muntazer al-Zaidi, che ha tentato di colpire il presidente americano George W.
Bush lanciandogli contro le scarpe, i potenti temono eventuali “imitazioni” del gesto: chiunque parteciperà a una conferenza stampa sarebbe così tenuto rigorosamente d’occhio, onde impedirgli di levarsi le calzature e farne un uso che è stato definito “improprio”.
Ma non è meglio tirare una scarpa che sparare? Molti dicono che è il minimo che un iracheno potesse fare a uno come Bush, il tiranno criminale che ha ucciso due milioni di persone in Iraq e in Afghanistan.
Infatti, Muntazer, sebbene sia stato punito severamente dalle autorità irachene per la “cattiva figura” che hanno fatto di fronte al mondo, è diventato un eroe per le tante e le troppe popolazioni affamate e martoriate dalle guerre.
Per lui, per difenderlo si sono offerti gratis più di 200 famosi avvocati e pure in Italia ha trovato subito “copioni”(un esponente del partito Italia dei valori, ha deposto un vecchio mocassino infiocchettato davanti a Palazzo Chigi: per le parole e non i fatti del governo Berlusconi).
Ma la cosa più simpatica e anche divertente che potrebbe diventare una regola nei prossimi anni , è lo “scambio” avvenuto tra i soldati americani e capi tribù musulmane di stanza in medio oriente: il Viagra in cambio di preziose informazioni per snidare i guerrafondai! Figuriamoci, con tutte le mogli che hanno, avranno toccato il cielo con un dito, altro che chiamare Allah o i fondamentalisti armati per soddisfarle! Così, semplicemente, possiamo dire che Il “dream team” di Obama, Le scarpe di Muntazer al-Zaidi, il Viagra dei soldati americani, non sono che piccolissimi segni di un’umanità che vuole, fortissimamente vuole un cambiamento nella modernità che ha sostituito delle costrizioni visibili, individuabili, con alienazioni astratte e coercizioni strutturali, pretendendo di rendere l’uomo meno dipendente, ma lo ha isolato, reso più vulnerabile, più estraneo che mai ai suoi simili.
Convinta delle virtù pacificatrici dell’uguaglianza e del commercio, ha gettato l’uomo in una corsa mimetica infinita.
Alle disuguaglianze legate alla nascita, ha rimpiazzato l’oligarchia del denaro.
Ha provocato la distruzione dell’ambiente, l’omogeneizzazione attraverso l’economia e la tecnoscienza, la folclorizzazione dei popoli, la generalizzazione della solitudine e dell’anonimato.
Nel mondo postmoderno, il cambiamento avviene per implosione.
La vita comincia a cambiare quando un sufficiente numero di cittadini si distoglie dal gioco istituzionale perché ritiene che la vera vita sia altrove.
Oggi non abbiamo bisogno di rivoluzionari – figure emblematiche della modernità – ma di “creativi intelligenti”.
Come, appunto, lo sono le persone che ho citato e che dimostrano, ancora una volta, che l’umanità vuole camminare verso un domani migliore per tutti.
«Ho l’impressione che la percentuale di credenti sia più alta nel Dipartimento di Matematica, al Politecnico di Torino, dove lavoro, che tra le persone che incontro camminando per la strada o viaggiando in treno.
Alcuni dei miei colleghi non solo sono credenti ma fanno parte di movimenti, come ad esempio quello dei Focolari.
Però credo che non sia questione di percentuali da calcolare.
C’è una differenza più profonda, che salta all’occhio.
Tra i miei colleghi di università, credenti o no, incontro persone disposte a parlare, e anche a discutere, di fede.
Invece per la strada o in treno, se nella conversazione accenno a un argomento di fede, vengo guardato come un fenomeno da baraccone, con stupore più che con indifferenza.
E, se apro un giornale o una rivista, specie nelle pagine di scienza, genetica o medicina, come credente mi sento circondato da ostilità e rancore», riferisce il professor Giovanni Pistone, ordinario di Probabilità al Politecnico di Torino, membro della Chiesa Valdese.

Il razzismo

Il razzismo si è insinuato a tutti i livelli della vita sociale, negli atteggiamenti individuali e collettivi, macchiando la storia dell’umanità con l’infamia del razzismo di sfruttamento (apartheid, sfruttamento dei neri negli USA) e del razzismo di sterminio (olocausto e Germania Nazista).
Il razzismo ha continuato la sua triste marcia sino ai giorni nostri.
Ora in Italia all’antica diffidenza tra settentrionali e meridionali è stata sostituita dall’aversione verso gli immigrati.
Cresce sempre più il rifiuto nei riguardi dei diversi, il problema della xenofobia, che compromette la tendenza biologica, storica e morale dell’umanità verso l’integrazione universale.
Dalla vastissima filmografia che affronta il tema del razzismo, segnaliamo tre titoli: Concorrenza sleale, 2001, regia di Ettore Scola. Roma, 1938: Umberto  e Leone sono due commercianti di stoffa che lavorano sulla stessa via.
Il primo, cattolico prepara abiti su misura, mentre il secondo, ebreo, vende capi confezionati.
Il film narra le vicende di questi due uomini e delle loro famiglie attraverso le difficoltà del periodo storico, dalla promulgazioni delle leggi razziali per la conservazione della razza alla privazione delle libertà fondamentali ai cittadini ebrei.
In my country, 2004, regia di John Boorman. Il giornalista americano Langston Whitfield viene mandato in Sud Africa per eseguire un reportage sulla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, istituita dopo l’abolizione dell’apartheid. Qui incontra la poetessa afrikaans Anna Malan , che seguendo questi processi è colpita dalle macabre torture e sevizie a cui erano sottoposti i discriminati.
I due personaggi vengono così in contatto ed indagano loro stessi sulle atrocità commesse.
La generazione rubata, 2002, regia di Philip Noyce. Il film narra la drammatica vicenda di tre bambine.
Strappate alle rispettive mamme per ordine di un provvedimento governativo, teso alla “rieducazione” degli aborigeni australiani, le ragazzine decidono di tornare a casa.
Per giorni e intere notti camminano per piu’ di 1500 chilometri, sfuggendo alla polizia, e raggiungono infine il loro paese.
Segnaliamo inoltre dei testi: L’amico ritrovato, di Fred Uhlman, Feltrinelli.
L’amicizia tra due ragazzi bruscamente interrota dall’avvento del Nazismo.
Età di Ferro, di J.M.
Coetzee, Einaudi.
Gli ultimi mesi di vista di Elizabeth Curren, insegnante di lettere classiche ormai in pensione e malata di cancro.
L’incontro con Vercueil, il misterioso barbone che l’accompagna sino all’ultimo istante, e sullo sfondo la rivolta delle Township sudafricane.
Il corpo di Mrs Curren, divorato dal male, diviene metafora del Sudafrica lacerato dal razzismo.
Da madre a madre, di Sindiwe Magona, edizioni Gorée.
Una ragazza bianca viene uccisa nella Township e la madre dell’assassino scrive alla madre della vittima e tenta, parlando del suo dolore, di ottenere la comprensione per suo figlio dal racconto sia della vita di questi che della propria in un mondo condizionato dall’apartheid.
Home, di Larissa Behrendt, Baldini e Castoldi.  Candice, la protagonista, è la pronipote di Garibooli, una bimba portata via con la forza dal campo di eualayai.
A distanza di settant’anni, ritorna con il padre Bob nei luoghi dove venne rapita la nonna.
Insieme ai ricordi che affiorano e attraverso i luoghi e i volti, si ricompone la vita di Garibooli, ribattezzata Elisabeth.
Violenze, diritti violati, ferite non rimarginabili.
per ulteriori approfondimenti, confronta Bibiani Cocchi, Per il mondo che vogliamo, percorsi per l’IRC, SEI 2007.
Nel 1876 lo Stato italiano accettava la teoria dell’esistenza di almeno due razze in Italia: la razza eurasiatica (padana e ariana) e quella euroafricana (centro-meridionale e negroide).
Alfredo Niceforo, presidente della Società Italiana di Antropologia e Criminologia, scriveva: La razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiono d’Italia dovrebbe essere trattata ugualmente col ferro e col fuoco-dannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa e dell’Australia.
L’europa conosce il periodo di razzismo più vergognoso durante il periodo Nazista.
Di seguito riportiamo alcuni articoli delle leggi razziali naziste (leggi di Norimberga, emanate il 14 Novembre 1935), che in particolare definiscono lo status di cittadino ebraico e lo escludono da qualunque diritto politico e civile.
Articolo IV 1.
Un ebreo non può essere cittadino del Reich.
Egli non può esercitare il diritto di voto e non può ricoprire cariche pubbliche.
Articolo V 1.
Si considera ebreo chiunque discenda da almeno tre nonni di razza ebrea.
2.
Si considera ebreo anche chi discende da due nonni interamente ebrei, qualora: a) sia membro della comunità ebraica al momento dell’entrata in vigore della presente legge o vi aderisca successivamente.
b) contragga matrimonio con persona ebrea al momento dell’emanazione della presente legge o successivamente, c) nasca dal matrimonio con persona ebrea, considerata tale ai sensi di quanto stabilito al Paragrafo 1, che sia stato contratto dopo l’entrata in vigore della Legge per la promozione e conservazione del sangue tedesco del 15 Settembre 1935.
d) sia il frutto di una relazione extra-coniugale con una persona ebrea, considerata tale ai sensi di quanto stabilito nel Paragrafo 1 e nasca dopo il 31 luglio 1936.
Il regime Fascista in Italia promulgò le leggi razziali, che sostanzialmente ricalcavano quelle tedesche.
proponiamo alcuni articoli del Manifesto della razza, redatto da dieci scienziati italiani, accademici di varie università, e pubblicato il 14 Luglio 1938, in cui si affermava la “purezza” della razza italiana e la necessità di individuare e poi successivamente isolare gli elementi estranei ad essa:  IV La popolazione dell’Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana.
Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane.
L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.
V È una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici.
Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione.
Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l’Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio.
VI Esiste ormai una pura “razza italiana”.
Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia.
Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
VII È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti.
Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo.
Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza.
La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose.
La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico.
Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa.
Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità.
VIII È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra.
Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.
IX Gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto.
Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia.
Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
X I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.
L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri.
Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
In sudafrica vigeva sino a pochissimo tempo fa (le prime elezioni democratiche nel paese si sono tenute nel 1994) il regime dell’apartheid (dall’inglese apart “separato” e l’olandese heit “condizione”), un complesso di leggi che discrimanva la maggioranza nera della popolazione.
Tra i decreti emanati vi erano: la proibizione dei matrimoni interrazziali; la legge secondo la quale avere rapporti sessuali con una persona di razza diversa diventava un reato penalmente perseguibile; la legge che imponeva ai cittadini di registrarsi come bianchi, neri; la legge che proibiva alle persone di diverse razze di entrare in alcune aree urbane; la legge che proibiva a persone di colore diverso di utilizzare le stesse strutture pubbliche (fontane, sale d’attesa, marciapiedi etc.); la legge che prevedeva una serie di provvedimenti tutti tesi a rendere più difficile per i neri l’accesso all’istruzione; la legge che sanciva la discriminazione razziale in ambito lavorativo; la legge che istituiva i bantustan, una sorta di “riserve” per la popolazione nera, nominalmente indipendenti ma in realtà sottoposti al controllo del governo sudafricano; la legge che privava della cittadinanza sudafricana e dei diritti a essa connessi gli abitanti dei bantustan.
Nel 1956 la politica di apartheid fu estesa a tutti i cittadini di colore compresi gli asiatici.
Negli anni ’60 3,5 milioni di neri, chiamati Bantù, furono sfrattati con la forza dalle loro case e reinsediati nelle “homeland del sud”.
I neri furono privati di ogni diritto politico e civile.
Potevano frequentare solo l’istituzione di scuole agricole e commerciali speciali.
I negozi dovevano servire tutti i clienti bianchi prima dei neri.
Dovevano avere speciali passaporti interni per muoversi nelle zone bianche, pena l’arresto o peggio.
In Australia, sino agli anni ’70 del Novecento, gli aborigeni non godevano dello stauts di cittadini australiani.
Considerati dei selvaggi, vennero rinchiusi in apposite riserve.
Dal 1860 sino al 1967, i bambini frutto di unioni miste (tra madre aborigena e padre bianco, per lo più si trattava di stupri), venivano tolti alle madri e “avviati alla civilizzazione”: affidati a famiglie adottive o allevati in orfanotrofio.
Ancora oggi i cosiddetti bambini della “generazione rubata”, ormai adulti, non sanno chi siano i loro veri genitori e le speranze di scoprirlo sono scarsissime, data la totale assenza di documenti.
Solo negli anni ’90 fu avviata la prima inchiesta commissionata dal governo.
In un rapporto di 600 pagine basato su lunghi colloqui con le famiglie e le vittime della separazione, enti governativi, chiese e altri gruppi, l’inchiesta descrisse la pratica come «genocidio» e «crimine contro l’umanità» collegandola direttamente alla disintegrazione delle famiglie, all’abuso di alcol e droghe, alla violenza e l’angoscia che affliggono ancora oggi le comunità aborigene.
Oltre 500 persone raccontarono di essere state separate dai genitori, metà delle quali quando avevano fra uno e cinque anni.
Uno su sei ha riferito di aver subito percosse e punizioni eccessive, uno su cinque abusi sessuali in istituti o da parte delle famiglie adottive.
I documenti ufficiali dell’epoca citati nel rapporto offrono numerosi esempi dell’evidente razzismo delle intenzioni delle autorità.
«Alla fine del 19° secolo – scrive il rapporto – si ritenne che benchè la popolazione indigena purosangue fosse in declino, quella di discendenza mista fosse in aumento.
Il fatto che avessero sangue europeo significava che per loro vi era posto nella società bianca, sia pure uno molto umile».
Il termine razzismo indica la teoria che afferma la superiorità biologica di una razza e si traduce in atteggiamenti di intolleranza (minacce, discriminazione,violenza e perfino assassinio) rivolti a gruppi di persone a causa della loro eazza, del colore della loro pelle o della loro origni etnica.
Può manifestarsi contro qualsiasi razza, colore della pelle o origine etnica.
Storicamente il razzismo è un fenomeno relativamente recente, che si è sviluppato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
Durante l’epoca coloniale, gli stati europei si trovarono a dover giustificare la conquista dei territori situati oltremare, ricchi di materie prime e manodopera, e a risolvere la divergenza tra i valori cristiani di uguaglianza e lo sfruttamento delle popolazioni indigene.
Le scoperte delle scienze naturali e sociali furono utilizzate per dare un fondamento scientifico alla teoria di dell’esistenza di una razza superiore.
Questa teoria faceva rifermento in modo assolutamente improprio alle teorie evoluzionistiche di Chrales Darwin.
Si affermava che gli esseri umani sono classificabili in razze diverse, con gradi diversi di di evoluzione le une rispetto alle altre, creando così una sorta distinzioni tra razze superiori ed inferiori.
La razza bianca era, secondo questa teoria, quella superiore a tutte le altre, avendo raggiunto il massimo grado di evoluzione.
1-Nel 1951 l’Unesco mise a punto una dichiarazione, frutto di una commissione di cinque genetisti e sei antropologi, che confutava ogni giustificazione scientifica del razzismo.
Nella dichiarazione si afferma che: gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e culturali non possono essere definiti razze, poichè le loro caratteristiche non possono essere trasmesse per via ereditaria; non vi è alcuna relazione tra l’apparteneza a una razza e lo sviluppo intellettuale e culturale: le differenze genetiche non hanno alcun peso nel determinare differenze sociali e culturali fra individui e gruppi.
non ci sono, e probabilmente non ci sono mai state razze “pure”, il che sancisce definitivamente il fatto che la cultura non ha una base biologica.
2- Dopo la fine dell’apartheid e dopo le prime libere elezioni, in Sudafrica venne istituita la Truth and Reconciliation Commission (La commissione per la verità e la riconciliazione), presieduta dall’arcivescovo Desmond Tutu, che si propose come strumento innovativo per guidare il paese nel difficile momento di transizione tra il segregazionismo dell’apartheid e la nuova democrazia.
La commissione organizzò una serie di processi pubblici (i trials), in cui ogni persona che sentiva di essere stata oggetto di violenza negli anni dell’apartheid aveva l’opportunità di essere ascoltata.
L’ elemento più importante della TRC risiede però nel trattamento dei responsabili della violenze: i rei confessi avevano la possibilità di ottenere l’amnistia, in linea con la posizione di Nelson Mandela, che sosteneva che il perdono dovesse essere la principale risposta dei neri a ciò che avevano subito durante l’apartheid.
La TRC aveva come scopo principale una ricostruzione quanto più accurata possibile dei fatti avvenuti, e non la punizione dei colpevoli.  Il tribunale, con la sua vasta eco mediatica, fu anche per molti afrikaner il momento in cui per la prima volta vennero a conoscenza degli abusi perpretrati negli anni passati dalla polizia e dalle forze dell’ordine sudafricane.
Questa fatto sancì la morte politica delle forze legate al National Party, che conobbero un crollo di consensi anche presso diversi ambienti della società dei sudafricani bianchi.
3-L’Australia chiede scusa agli aborigeni.
«Oggi onoriamo i popoli indigeni di questa terra, le più antiche culture ininterrotte nella storia umana.
Riflettiamo sui passati maltrattamenti.
Riflettiamo in particolare sui maltrattamenti di coloro che erano le generazioni rubate, questo capitolo vergognoso nella storia della nostra nazione.
È venuto il tempo che la nazione volti pagina nella storia d’Australia, correggendo i torti del passato e avanzando così con fiducia nel futuro.
Chiediamo scusa per le leggi e le politiche di successivi parlamenti e governi, che hanno inflitto profondo dolore, sofferenze e perdite a questi nostri fratelli australiani.
Chiediamo scusa in modo speciale per la sottrazione di bambini aborigeni e isolani dello stretto di Torres dalle loro famiglie, dalle loro comunità e le loro terre.
Per il dolore, le sofferenze e le ferite di queste generazioni rubate, per i loro discendenti e per le famiglie lasciate indietro, chiediamo scusa.
Alle madri e ai padri, fratelli e sorelle, per la distruzione di famiglie e di comunità chiediamo scusa.
E per le sofferenze e le umiliazioni così inflitte su un popolo orgoglioso e una cultura orgogliosa chiediamo scusa.
Noi parlamento d’Australia rispettosamente chiediamo che queste scuse siano ricevute nello spirito in cui sono offerte come contributo alla guarigione della nazione.
Per il futuro ci sentiamo incoraggiati nel decidere che ora può essere scritta questa nuova pagina nella storia del nostro grande continente.
Noi oggi compiamo il primo passo nel riconoscere il passato e nel rivendicare un futuro che abbracci tutti gli australiani.
Un futuro in cui questo parlamento decide che le ingiustizie del passato non debbano accadere mai, mai più.
Un futuro in cui si uniscano la determinazione di tutti gli australiani, indigeni e non indigeni, a chiudere il divario fra di noi in aspettativa di vita, educazione e opportunità economiche.
Un futuro in cui abbracciamo la possibilità di nuove soluzioni per problemi duraturi, dove i vecchi approcci hanno fallito.
Un futuro basato su mutuo rispetto, comune determinazione e responsabilità.
Un futuro in cui tutti gli australiani, di qualsiasi origine, siano partner veramente alla pari, con pari opportunità e con un pari ruolo nel dare forma al prossimo capitolo nella storia di questo grande paese, l’Australia».
Discorso del premier laburista Kevin Rudd.
 fonte www.lastampa.it ISLAM Il concetto di razza non ha senso perchè si tratta di una religione tradizionalmente universalistica.
EBRAISMO Non attribuisce alcun valore al concetto di razza.
La definizione di popolo eletto non è da ricondurre a nessuna etnia, dal momento che chiunque può convertirsi all’ebraismo.
CRISTIANESIMO San Paolo, nella prima lettera ai Corinti richiama all’unità delle nazioni, delle culture, delle razze e dei sessi: Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo spirito Cor,12,13.
 Papa Benedetto XVI ha sottolineato quanto sia importante «soprattutto nel nostro tempo, che ogni comunità cristiana approfondisca sempre più questa sua consapevolezza, al fine di aiutare anche la società civile a superare ogni possibile tentazione di razzismo, di intolleranza e di esclusione e ad organizzarsi con scelte rispettose della dignità di ogni essere.
Una delle grandi conquiste dell’umanità è infatti proprio il superamento del razzismo.
Purtroppo, però, di esso si registrano in diversi Paesi nuove manifestazioni preoccupanti, legate spesso a problemi sociali ed economici, che tuttavia mai possono giustificare il disprezzo e la discriminazione razziale.
Preghiamo perché dovunque cresca il rispetto per ogni persona, insieme alla responsabile consapevolezza che solo nella reciproca accoglienza di tutti è possibile costruire un mondo segnato da autentica giustizia e pace vera».