Numeri e fede/ 2: Matematica, il fascino della verità

INTERVISTA Professor Pistone, tra tutte queste cause di “irreligion”, qual è la predominante? «La gente parla di religione ma non sa nulla circa le cose di cui parla.
Ignora l’immenso patrimonio culturale accumulato in duemila anni di cristianesimo.
Crede che la preghiera si riduca a poche frasette pie o formule superstiziose.
Non ha alcuna idea di che cos’è la Rivelazione, il Credo, la liturgia, la Bibbia.
A dire il vero, con molti scienziati, ricercatori, persone dotate di un’elevata abitudine all’argomentazione razionale, non ho difficoltà a parlare di fede.
Trovo ascolto.
Invece, fuori dalle mura dell’accademia, avviene ciò che non finisce mai di ferirmi: spesso mi trovo di fronte persone, specialmente tra gli anziani, che provano una netta avversione per la fede.
In Italia ha lasciato tracce profonde l’illuminismo francese, programmaticamente ateo e rivoluzionario, molto diverso dell’illuminismo di tipo americano che non è affatto antireligioso.
Negli Usa, lo abbiamo visto nella propaganda per le elezioni presidenziali, spesso i discorsi di Obama e di McCain seguivano i canoni della predicazione.
I politici americani sono soliti manifestare in pubblico la loro fede religiosa.
Da noi invece la fede è considerata un fatto privato.
E poi, in Italia, appena si comincia a parlare di religione, la conversazione è minata da un grosso equivoco».
Quale equivoco? «Spesso io vorrei parlare di teologia ma mi accorgo che i miei interlocutori, quando dicono ’religione’ pensano alla politica, e basta.
Si confonde la fede con le posizioni che le chiese legittimamente assumono nel dibattito politico e civile.
Pensiamo, ad esempio, alla mancata visita del Papa all’università di Roma.
Ritengo che il Papa avrebbe dovuto parlare alla Sapienza e che molti degli autorevoli accademici che hanno firmato la lettera contro la sua visita siano stati mossi da un pregiudizio politico e da immotivate paure, in un quadro completamente falsato.
Ora poi si sta formando una cultura fortemente antireligiosa dalle cui pubblicazioni esce un leit-motiv martellante: attenti alla religione perché è “pericolosa”, “fanatica”, “scatena odii e guerre”, dato che “chi crede in qualcosa disprezza gli altri che non credono”.
Tutto questo da un lato è vero, in certi casi, come dimostra la cronaca quotidiana dal mondo.
D’altro lato, nel concreto della situazione italiana, questi allarmi sono senza fondamento.
Dalle nostre parti, ad esempio, le accanite lotte del passato sono assopite e sostituite da polemiche accese ma pacifiche; perfino nelle edizioni per la catechesi dei bambini c’è collaborazione fra la nostra casa editrice e quella salesiana».
Nel suo caso, è nato prima il matematico oppure il credente? «Vengo da un ambiente di campagna, sono nato a Chieri da una famiglia proveniente dalle Langhe.
I miei appartenevano al mondo artigiano, in un contesto aperto ma religioso.
In famiglia c’era sempre stato un certo numero di evangelici.
E anche molti sacerdoti.
Come in tanti altri casi, questa tradizione, che alcuni consideravano oppressiva, si è persa.
Quasi tutta la mia vita è passata senza pensiero di fede: studi di matematica, famiglia e poco altro.
In me il credente è nato dopo i 50 anni.
Non per un evento particolare ma per un’evoluzione progressiva.
Quando arrivano dei momenti di crisi – e arrivano per tutti – succede qualcosa: quello che per noi evangelici è la “chiamata”.
Il Signore ti cerca sempre e, quando sei in fondo al pozzo, lo riconosci».
E come ha reagito alla “chiamata”? «Facendo quello che so fare, cioè studiando.
Se si leggono le opere degli scienziati inglesi contemporanei di Newton, si scopre che erano tutti credenti, alcuni anche apologeti.
Leggendo le loro opere appare chiaro che per loro non c’era contraddizione tra scienza e fede; anzi erano convinti che scienza e fede non siano due cose diverse.
Non vedevano alcuna differenza tra scoprire teoremi e aver fede».
Ma qual è la ragione principale per cui non v’è contraddizione tra scienza e fede? «Come dice la Bibbia, e poi la Chiesa di tutti secoli, “se si guarda con fiducia la creazione, si vede il Creatore”.
I matematici poi sentono particolarmente il fascino della verità.
Studiano oggetti che considerano perfetti e che sono, inoltre, applicabili alla descrizione della natura.
Ciò che affascina lo scienziato è che il mondo sia stato non solo creato, ma creato comprensibile.
E il fatto che il mondo sia intelligibile è un dato a priori.
È l’attestato del ruolo che il Creatore ripone nella scienza dell’uomo.
Chi si occupa tutti i giorni di scienza si domanda: com’è possibile che una persona – sia pure geniale come Einstein – che lavora all’Ufficio Brevetti di Zurigo – capisca com’è fatto il mondo, e che le sue teorie vengano poi confermate sperimentalmente?».
Lei è appena arrivato da Hanoi, dove ha parlato in un convegno di Statistica.
E sta per partire per Berkeley in California.
La verità cui la matematica anela è universale, passa attraverso culture e tradizioni diverse…
«Hanoi è la capitale di un paese socialista, il Vietnam, con tante difficoltà da superare, e una cultura molto distante dalla nostra.
Ma, quando parliamo della nostra scienza, non c’è differenza che tenga.
La matematica cinese e quella di Euclide sono la stessa cosa.
Altri campi della cultura umana non hanno questa caratteristica».
Luigi Dell’Aglio Se «No Drama» è divenuto anche il motto della «Generation Obama» il merito è dello stesso neo-eletto presidente che tenne i nervi a posto in due momenti roventi della sua campagna: a metà gennaio quando perse in New Hampshire subito dopo il trionfo iniziale in Iowa e tre mesi dopo, allorché gestì le dichiarazioni razziste anti-bianchi del reverendo nero Jeremiah Wright riuscendo a trasformare la questione razziale da svantaggio in vantaggio elettorale.
Egli poi si ispira ad Abramo Lincoln, il presidente che seppe guidare un governo composto di ministri fra loro rivali grazie all’abilità nel rimanere calmo in momenti di crisi politica aggravati dalla Guerra Civile, come ricostruisce Doris Kearns Goodwin nel libro «Team of Rivals» che Barack ha confessato di tenere sul comodino.
Il richiamo al «No Drama« di Lincoln, si spiega con le sfide terribili che Obama ha di fronte: la recessione e due guerre aperte.
Per affrontarle e superarle con successo serviranno nervi molto saldi.
Però non bisogna dimenticare che il Dream Team 2009(l’insieme dei ministri ed esperti che compongono il suo gruppo di governo) ha saputo cogliere questo semplice ed efficacissimo detto dal No More Drama, che potrebbe diventare il motto per il mondo intero che è stanco di guerre, tragedie, razzismo, non solo nel 2009, ma nel futuro: “No drama (no more drama in my life) No more, no more, No more, no more No more tears (no more tears, no more cryin every night) No more fears (no more waking up in the morning) No drama, no more in my life No more drama, no more drama No more drama, no more drama No more drama, no more drama No more drama, no more drama No more drama in my life So tired, tired of this drama”(Cfr: dal singolo R&B di Mary J.
Blige).
Per il politologo Bill Schneider, volto di rilievo della tv Cnn, dietro «No Drama Obama» c’è l’identità di un leader riassunta da «tre C» ovvero «casual, cool, connected» (casual, calmo, connesso elettronicamente) che rispondono ad altrettante caratteristiche che ha chi lo ha votato.
Egli si sta preparando «con una calma alla Obi-Wan Kenobi» (il Maestro Jedi di Guerre Stellari) ad affrontare una terrificante lista di problemi planetari(così «Time» ritrae Barack Obama raccontando la «Persona dell’anno 2008»).
E noi “speriamo che se la cavi”.
Come speriamo che se la cavi l’altrettanto famoso “tiratore di scarpe”, divenuto anche lui un simbolo del cambiamento dei prossimi anni, in cui non si useranno armi, ma oggetti per colpire i tiranni.
Dopo il suo exploit, il giornalista iracheno Muntazer al-Zaidi, che ha tentato di colpire il presidente americano George W.
Bush lanciandogli contro le scarpe, i potenti temono eventuali “imitazioni” del gesto: chiunque parteciperà a una conferenza stampa sarebbe così tenuto rigorosamente d’occhio, onde impedirgli di levarsi le calzature e farne un uso che è stato definito “improprio”.
Ma non è meglio tirare una scarpa che sparare? Molti dicono che è il minimo che un iracheno potesse fare a uno come Bush, il tiranno criminale che ha ucciso due milioni di persone in Iraq e in Afghanistan.
Infatti, Muntazer, sebbene sia stato punito severamente dalle autorità irachene per la “cattiva figura” che hanno fatto di fronte al mondo, è diventato un eroe per le tante e le troppe popolazioni affamate e martoriate dalle guerre.
Per lui, per difenderlo si sono offerti gratis più di 200 famosi avvocati e pure in Italia ha trovato subito “copioni”(un esponente del partito Italia dei valori, ha deposto un vecchio mocassino infiocchettato davanti a Palazzo Chigi: per le parole e non i fatti del governo Berlusconi).
Ma la cosa più simpatica e anche divertente che potrebbe diventare una regola nei prossimi anni , è lo “scambio” avvenuto tra i soldati americani e capi tribù musulmane di stanza in medio oriente: il Viagra in cambio di preziose informazioni per snidare i guerrafondai! Figuriamoci, con tutte le mogli che hanno, avranno toccato il cielo con un dito, altro che chiamare Allah o i fondamentalisti armati per soddisfarle! Così, semplicemente, possiamo dire che Il “dream team” di Obama, Le scarpe di Muntazer al-Zaidi, il Viagra dei soldati americani, non sono che piccolissimi segni di un’umanità che vuole, fortissimamente vuole un cambiamento nella modernità che ha sostituito delle costrizioni visibili, individuabili, con alienazioni astratte e coercizioni strutturali, pretendendo di rendere l’uomo meno dipendente, ma lo ha isolato, reso più vulnerabile, più estraneo che mai ai suoi simili.
Convinta delle virtù pacificatrici dell’uguaglianza e del commercio, ha gettato l’uomo in una corsa mimetica infinita.
Alle disuguaglianze legate alla nascita, ha rimpiazzato l’oligarchia del denaro.
Ha provocato la distruzione dell’ambiente, l’omogeneizzazione attraverso l’economia e la tecnoscienza, la folclorizzazione dei popoli, la generalizzazione della solitudine e dell’anonimato.
Nel mondo postmoderno, il cambiamento avviene per implosione.
La vita comincia a cambiare quando un sufficiente numero di cittadini si distoglie dal gioco istituzionale perché ritiene che la vera vita sia altrove.
Oggi non abbiamo bisogno di rivoluzionari – figure emblematiche della modernità – ma di “creativi intelligenti”.
Come, appunto, lo sono le persone che ho citato e che dimostrano, ancora una volta, che l’umanità vuole camminare verso un domani migliore per tutti.
«Ho l’impressione che la percentuale di credenti sia più alta nel Dipartimento di Matematica, al Politecnico di Torino, dove lavoro, che tra le persone che incontro camminando per la strada o viaggiando in treno.
Alcuni dei miei colleghi non solo sono credenti ma fanno parte di movimenti, come ad esempio quello dei Focolari.
Però credo che non sia questione di percentuali da calcolare.
C’è una differenza più profonda, che salta all’occhio.
Tra i miei colleghi di università, credenti o no, incontro persone disposte a parlare, e anche a discutere, di fede.
Invece per la strada o in treno, se nella conversazione accenno a un argomento di fede, vengo guardato come un fenomeno da baraccone, con stupore più che con indifferenza.
E, se apro un giornale o una rivista, specie nelle pagine di scienza, genetica o medicina, come credente mi sento circondato da ostilità e rancore», riferisce il professor Giovanni Pistone, ordinario di Probabilità al Politecnico di Torino, membro della Chiesa Valdese.

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