Perché il potere ha perso sacralità

Il teologo interviene sulla laicità alle “Parole della politica” Qual è l’esperienza concreta da cui è sorto il concetto di laicità? Io credo che sia la consapevolezza della complessità del rapporto tra il proprio mondo mentale e quello di altri.
Intendo quindi per laicità il metodo che governa il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita: la laicità è un metodo che si applica alla relazione tra il foro interiore delle convinzioni ideali e il foro esteriore della convivenza con chi è diverso da noi.
Questa precisazione è essenziale per capire come agire rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili” di cui parla spesso Benedetto XVI.
A mio avviso la non negoziabilità dei principi si dà a livello di foro interiore, nel senso che non si devono tradire i propri ideali, soprattutto quando si agisce in prima persona.
Ma la realtà di un mondo sempre più plurale fa sì che il foro interiore della prima persona singolare non sia mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale.
Perché si possa pronunciare un armonioso noi, ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri.
Solo a questa condizione si avrà una sinfonia e non la cacofonia del conflitto sociale.
Ne viene che a livello di foro esteriore non c’è nulla che non sia negoziabile, perché la negoziazione è l’anima del diritto e della politica nella misura in cui essi sono elaborati all’insegna della democrazia.
Quindi riassumo: nessuna negoziazione a livello interiore dove è in gioco l’anima e l’adesione alla verità; ma concrete negoziazioni a livello di foro esteriore dove è in gioco la relazione armoniosa della convivenza tra uomini sempre più diversi.
Riuscire a mediare queste due dimensioni significa praticare la laicità.
Quanto detto finora però non è sufficiente.
La modernità è stata l’epoca delle distinzioni: la spiritualità dalla religione, la religione dall’etica, l’etica dal diritto, il diritto dalla politica.
Occorreva farlo per fondare su basi razionali la convivenza sociale.
Alla fine però ne è risultata una politica separata dalla spiritualità, dall’etica e ora sempre più anche dal diritto.
Per questo io penso che occorra qualcosa di diverso.
Guardando alla nostra società, a me pare infatti che più laica di così, più priva di sacralità di così, la politica non potrebbe essere.
Separata dalla spiritualità e dall’etica, la politica oggi si ritrova del tutto priva di sacralità, completamente profana, anzi così profana da essere ormai profanata.
Aristotele scriveva che «il vero uomo politico è colui che vuole rendere i cittadini persone dabbene e sottomessi alle leggi» (EN, 135).
Quanti sono i politici così? È stato messo in piedi un meccanismo che esclude quasi automaticamente chi si vorrebbe avvicinare alla politica con questi ideali, una specie di selezione naturale al ribasso.
A mio parere il nostro tempo ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica.
Non sto certo auspicando il ritorno alle teocrazie, meno che mai collateralismi neoguelfi di sorta e presenze di cardinali a cene di uomini di potere.
So solo che le grandi civiltà del passato non conoscevano la rigida separazione tra Cesare e Dio e l’avrebbero trovata innaturale.
Sono certo che neppure Gesù l’avrebbe praticata se sulla moneta ci fosse stata l’effigie del re Davide e non quella di un re straniero.
E quando Roma perse la sua sacralità e si laicizzò al punto da risultare del tutto profana agli occhi dei cittadini, perse anche la sua forza politica e militare.
Scriveva Hegel due secoli fa: «Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso…
Come Pilato domandò: “che cos’è la verità?”, così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato.
È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva.
Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva».
Nella stessa prospettiva oggi Eugenio Scalfari parla dei contemporanei come di barbari: «I contemporanei sono i nostri barbari».
Al cospetto di una politica ormai priva di sacralità, io avverto il bisogno di un movimento contrario rispetto alla laicità come separazione: c’è bisogno di reciproca fecondazione tra dimensione spirituale e politica.
Se la politica vuol tornare a essere capace di toccare la mente e il cuore degli uomini (e non solo le loro tasche) deve ricollegarsi organicamente al diritto, all’etica, alla religione, alla spiritualità.
Come debba fare non so perché non sono un politico, ma credo che il vero problema da affrontare non siano le piccole rivendicazioni del neoguelfismo all’italiana.
Queste sono manovre di poco conto, a loro volta segno di decadenza.
Il vero problema è il nichilismo che dilaga nelle anime, il bisogno dell’uomo di sacralità e la politica che non sa più neppure cosa sia la sacralità.
L’anima della nostra civiltà è malata, intendendo con anima della civiltà ciò che tiene unite le persone al di là degli interessi immediati, quel senso ideale per cui il singolo percepisce di essere al cospetto di una realtà più importante di lui nella quale però si identifica e quindi serve con onestà.
Di fronte a questa situazione penso che ogni persona responsabile debba cercare di capire in che modo la propria area di appartenenza possa servire il paese con equità.
E al riguardo mi permetto di ritenere inadeguata l’impostazione della Chiesa cattolica.
Essa infatti pensa i cattolici come interessati solo ad alcuni aspetti della vita quali bioetica, scuole cattoliche, famiglia, e non invece all’insieme della società.
Che le questioni ricordate siano importanti è ovvio, ma esse non possono rappresentare l’unico punto di vista in base al quale giudicare la politica perché il cristiano deve essere fedele al mondo nella sua integralità e non crearsi un mondo a parte.
Dietro l’impostazione del Magistero c’è invece l’idea che i cattolici siano una realtà estranea rispetto al mondo e vi si rapportino solo per trarne più benefici possibili per il loro piccolo mondo particolare.
Questo però è teologicamente sbagliato perché significa trasformare i cattolici in una delle tante lobby del mondo e far perdere sapore al sale: «ma se il sale perde il sapore, a null’altro serve che a essere gettato via» (Mt 5,13).
in “la Repubblica”del 14 luglio 2010

2010-2020, boom di dati digitali

Immaginate 75 miliardi di iPad che riempiono il tunnel del monte Bianco avanti e indietro per ben 84 volte.
O 41 stadi di Wembley pieni fino all’ultima poltroncina delle tavolette Apple, in lungo e in largo, erba e panchine inclusi.
O se preferite, lo stadio nazionale di Pechino per 15,5 volte.
O ancora, immaginate ogni uomo, donna o bambino sulla Terra che, ininterrottamente e per 100 anni, invii tweet (i brevi messaggi tipici del microblogging e in particolare di Twitter).
Ecco qual è la mole di dati digitali che nascono solo nel corso del 2010 per venire poi scambiati, stampati, archiviati, dimenticati e forse distrutti.
Un totale inimmaginabile che supererà per la prima volta nella storia digitale una nuova unità di misura: si tratta di 1,2 zettabyte di informazioni.
Tradotto nelle unità di misura usate fino a oggi, uno zettabyte corrisponde a mille miliardi di gigabyte.
LA RICERCA – A raccontare lo stato del mondo digitale è per la quarta volta negli ultimi anni la società di ricerca IDC, con uno studio commissionato dall’azienda EMC, che sul suo sito fornisce anche un contatore – l’Information Growth Ticker – da scaricare sul proprio Pc che aggiorna in tempo reale sulla quantità di dati creati a partire dal primo gennaio 2010.
Stupiscono i tassi di crescita previsti per il futuro.
Nel 2020 la nostra personale odissea tra i dati digitali ci vedrà immersi in un universo quasi 50 volte più grande di quello attuale.
Complici di questo aumento saranno i passaggi all’universo dei bit di voce, tv, radio e stampa, dunque tutto il mondo oggi ancora per larga parte in analogico.
NUVOLE – L’universo sarà dunque sempre più sommerso dal digitale, e la Rete continuerà ad avere un ruolo di primo piano, per via di tutti i documenti nati e utilizzati nella «nuvola» del cloud computing.
Dice infatti la ricerca di IDC che, entro il 2020, più di un terzo di tutte le informazioni digitali create ogni anno (private o pubbliche che esse siano) risiederà o transiterà nella nuvola di tecnologie informatiche disponibili online.
Ancora una volta, la ricerca denuncia anche l’overload di informazioni e mette al centro il problema della ricerca dei dati che più interessano da parte degli utenti, visto che già oggi i contenuti creati sono superiori del 35 per cento alle capacità di archiviarli e questo dato aumenterà anche del 60 per cento nei prossimi anni.
Corriere della sera  08 06 2010

Una meditazione pittorica sul Corpus Domini

Una straordinaria immagine seicentesca invita a meditare il mistero, al contempo sacramentale ed ecclesiale, del “Corpo di Cristo”, nonché la collocazione liturgica della solennità del Corpus Domini dopo la domenica della Santissima Trinità:  la pala della Trinità di Gasparo Narvesa, eseguita come pala d’altare per l’omonima chiesa della città natale dell’artista, Pordenone, su commissione di una confraternita pure essa dedicata al Dio uno e trino.
Ideata per un altare, la pala fa vedere – subito sopra il livello della mensa su cui il dipinto doveva poggiare – un sacerdote in ginocchio che indossa i paramenti liturgici e tiene in mano l’ostia consacrata; intorno a lui, similmente inginocchiati, sono i membri della confraternita nel loro saio rosso, con lo stendardo e i ceroferari professionali.
Quando si celebrava la messa, all’elevazione dell’ostia si veniva così a creare una doppia immagine:  il celebrante vero all’altare vero e i confratelli nella chiesa vera, e poi gli stessi raffigurati in preghiera intorno al sacerdote in adorazione del Corpus Domini sacramentale.
 L’intera parte inferiore della pala “fotografava” cioè l’orante raccoglimento dei confratelli e del sacerdote davanti al Cristo eucaristico, rendendo manifesta la loro fede cattolica nella sua reale presenza.
Del resto l’opera fu eseguita appena cinquant’anni dopo il concilio di Trento, nel 1611, e a Pordenone, cioè in un Veneto allora preoccupato di contrastare l’avanzata del protestantesimo.
Nonostante il loro atteggiamento adorante, però, il sacerdote e diversi dei confratelli non guardano l’ostia; alzano piuttosto gli occhi al cielo dove contemplano Cristo inchiodato a una croce presentata al Padre da angeli.
Il volto sofferente del Figlio è girato verso quello compassionevole del Padre e i loro sguardi s’incrociano, mentre appena sopra le due teste aleggia lo Spirito Santo in forma di colomba.
È a questo secondo livello della composizione, infatti, che il vero messaggio dell’immagine diventa chiaro:  non solo la fede eucaristica dei confratelli, ma la messa celebrata all’altare sottostante come espressione terrena di una liturgia celeste in cui il corpo crocifisso del Figlio è per l’eternità offerto al Padre in sacrificio gradito.
Il carattere specificamente “sacrificale” dell’offerta di sé compiuta da Cristo – e quindi anche della messa che ne rende presente il contenuto nel pane e vino – viene sottolineato poi dal piviale sacerdotale indossato da Dio Padre.
L’evidente attualità di quest’enfatizzazione dottrinale – della presentazione dell’Eucaristia come “sacrificio” in un’epoca che vedeva contestata tale definizione in ambito protestante – non è però l’elemento nuovo della pala d’altare di Narvesa.
Nuovo piuttosto è l’intenso rapporto interpersonale tra Figlio e Padre visibile sopra l’ostia in mano al sacerdote nel dipinto, e sopra l’ostia e il calice veri ogni volta che si diceva messa davanti all’immagine.
In un periodo in cui il protestantesimo tacciava la messa cattolica di spettacolarità, Gasparo Narvesa presenta l’ostia adorata dai confratelli come reale presenza dell’obbedienza del Figlio, che aveva pregato perché gli venisse tolto il calice della passione, accettando però la volontà del Padre (Luca, 22, 42); e dell’amore di Questi, che al suo Figlio rifiutò tale grazia.
San Paolo spiegherà il rifiuto del Padre della preghiera di Gesù dicendo che lo stesso Dio che aveva risparmiato Isacco, figlio di Abramo, “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi” (Romani, 8, 32), e il quarto Vangelo specificherà che “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto ma abbia la vita eterna” (Giovanni, 3, 16).
Non a caso, nel dipinto di Narvesa Dio Padre tiene una grande sfera di cristallo davanti al Figlio come per dire a Lui:  “Ti chiedo di accettare la morte perché il mondo che ho creato possa vivere!”.
Così l’Eucaristia, che è il soggetto palese della pala, è rivelata come luogo della preghiera non solo dei cristiani ma di Cristo stesso e perfino del Padre:  luogo di profonda e spesso sofferta comunione.
Il sacerdote nella parte inferiore del dipinto, e quelli tra i confratelli che alzano gli occhi, capiscono che l’ostia eucaristica racchiude tutto il mistero di Dio:  del Padre che chiede la vita al Figlio; del Figlio che la dà; e dello Spirito che li unisce e che nel dipinto è la forma visibile della loro comunione.
Lo Spirito.
Nella messa un tempo celebrata davanti al dipinto sembrava scendere sulle offerte – sul pane e sul vino – come anche sugli offerenti:  sul celebrante e sui confratelli cioè.
Anche a questo si riferiscono gli sguardi innalzati e gli atteggiamenti di adorazione dei personaggi nella parte inferiore del dipinto alla loro attesa di ricevere lo Spirito Santo.
Ma ecco il senso pieno dell’immagine:  la messa è il luogo principe della preghiera cristiana perché nella messa scende lo Spirito, e – come afferma san Paolo – “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio” (Romani, 8, 26-27).
Nella messa lo spirito ci insegna ad avere in noi “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Filippesi, 2, 5), e, di fatto, scendendo nel pane e vino per farli diventare corpo e sangue di Cristo, scende in quanti mangiano e bevono di Cristo per farli diventare “come Cristo” e vivere così la stessa comunione con il Padre che Cristo vive, una comunione di preghiera in cui il Padre chiede certe cose a noi, e noi altre cose chiediamo a Lui, accettando tuttavia – come Cristo accettò – di fare non la nostra volontà ma quella di Dio.
Questa è preghiera vera e sicura, la preghiera di cui Gesù disse:  “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto” (Matteo, 7, 7-8).
A chi chiede di diventare come Cristo, sarà data questa grazia; chi cerca Cristo lo trova; a chi bussa alla porta che Cristo è viene aperta la via verso il Padre.
Anche l’ultimo livello del dipinto di Gasparo Narvesa rientra in questa logica “orazionale”.
Rappresenta Maria, a sinistra, raccolta in preghiera davanti a una Trinità di figure larvate, mentre a destra l’arcangelo Michele scaccia a spada tratta i demoni dal cielo.
La fonte sembra essere il capitolo dodici dell’Apocalisse, in cui l’autore, Giovanni, vede una donna incinta che grida per le doglie e un drago che minaccia di divorare il bambino appena l’avesse partorito.
Ma il bambino, un figlio maschio, quando nacque “fu rapito verso Dio e verso il suo trono”, mentre la donna fuggì nel deserto dove Dio le aveva preparato un rifugio.
“Scoppiò quindi una guerra nel cielo:  Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago.
Il drago combatteva assieme ai suoi angeli, ma non prevalse e non vi fu più posto per loro in cielo” (cfr.
Apocalisse, 12, 1-8).
Nel dipinto vediamo la donna nel “rifugio” preparatole, adorante Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito.
Vediamo la vittoria di Michele e i suoi angeli contro il “drago” con i suoi seguaci, tutti raffigurati come demoni alati.
E vediamo il figlio della donna, Gesù Cristo, “rapito verso Dio e verso il suo trono” (faccia a faccia col Padre nell’obbedienza della croce), mentre sotto il corpo di Cristo crocifisso, intorno all’ostia che racchiude questo dramma cosmico, sono i partecipanti alla sua vittoria descritti nel prosieguo del testo apocalittico:  “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio, e la potenza del suo Cristo, perché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte. Ma essi lo hanno vinto grazie al sangue dell’Agnello” (Apocalisse, 12, 11a).
I confratelli cioè, che nella messa condividono sia la lotta di Cristo che la sua vittoria, nel mistero della Communio sanctorum vengono associati anche al trionfo dei martiri; ricordiamo che l’altare, dove l’opera stava, doveva contenere reliquie di martiri dei primi secoli cristiani.
(©L’Osservatore Romano – 6 giugno 2010)

“Vaticano II ieri e oggi”

In occasione dei cento anni dalla fondazione della rivista “Recherches de Science Religieuse”, si tiene il 19 maggio all’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede un convegno sul tema “Vaticano II ieri e oggi”.
Ai lavori prendono parte tra gli altri il padre gesuita direttore e redattore capo della rivista, Christoph Theobald, e il cardinale teologo emerito della Casa Pontificia, che ha sintetizzato  per  noi  gli  argomenti trattati.
“Vaticano II ieri e oggi” è il tema di un dibattito, che si svolge il 19 maggio, nella residenza dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede.
Il punto di partenza è uno studio del padre gesuita Christoph Theobald, che propone una nuova chiave di lettura del concilio.
Come affermare la differenza cristiana di fronte al mondo contemporaneo? Nei testi conciliari, padre Theobald individua due modi giustapposti per rispondere alla domanda, senza che si veda una loro possibile sintesi.
Qual è dunque il nostro rapporto rispetto alla società e alla cultura? Questa è la domanda centrale.
 In relazione alla fede come accoglienza della Parola divina che è parola di vita, come concepire “l’immagine che ci facciamo di Cristo e la nostra relazione con Dio”? Cristo stesso, immagine del Padre, è assieme rivelatore e oggetto della rivelazione, datoci nella fede.
La ricchezza e la trascendenza del suo mistero richiedono una pluralità d’espressioni trasmesse per la maggior parte dalla Scrittura o dal Magistero.
Queste espressioni non sono esclusive, ma s’integrano  nel mistero, che il credente  vive quasi spontaneamente partecipando alla vita liturgica della Chiesa.
Giustamente, padre Theobald rileva che l’enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891) ha significato una svolta nell’atteggiamento della Chiesa di fronte al mondo moderno.
La prima reazione era stata di timore:  il declino della cristianità era percepito come una minaccia per la Chiesa stessa.
Leone XIII apre una via di collaborazione, in contrasto con il rigetto totale anteriore.
Ma il mondo “moderno”, ha anch’esso la sua storia e le sue ambiguità.
È condizionato dall’esperienza delle guerre di religione.
Una delle espressioni più caratteristiche dell’illuminismo è il deismo, nel quale s’iscrive il trattato di Locke sulla tolleranza, che mette in causa l’idea stessa di verità e la natura dei nostri doveri di fronte a essa.
Questa teoria ha fornito le premesse alle prime affermazioni sulla libertà religiosa, a tal punto che non si percepiva più la possibilità di scindere le “conclusioni” da queste premesse.
Così si spiega la prima reazione, d’indole pastorale, del Magistero.
La giustificazione della libertà di coscienza e della libertà religiosa dovuta alla Dignitatis humanae non è riducibile alle teorie dell’illuminismo.
È veramente innovatrice, in consonanza con il Vangelo.
Poco più di vent’anni separano la Rerum novarum dal concilio Vaticano i che ha trattato dei rapporti fra conoscenza di fede e conoscenza naturale, distinte ma chiamate a entrare in simbiosi.
Questa considerazione s’iscrive nel prolungamento della dottrina tradizionale della grazia, la quale guarisce la natura ferita dal peccato, la eleva alla partecipazione alla vita divina, la conduce alla sua perfezione.
 La formula è trascritta in Lumen gentium (n.
17), che padre Theobald cita.
È la chiave d’interpretazione del decreto sulle missioni Ad gentes e della dichiarazione Nostra aetate.
La missione della Chiesa deve essere considerata nella sua totalità.
Ma in questa totalità c’è un ordine prioritario dal principio alla conseguenza.
La missione principale della Chiesa è l’annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo morto per i nostri peccati e risorto nella gloria.
Questo messaggio è universale.
Ma l’annuncio del Regno al quale tutti sono chiamati non significa indifferenza per la città degli uomini.
Al contrario, appartiene al messaggio evangelico di animare e ispirare l’impegno dei cristiani nella città terrestre.
Il merito di padre Theobald è quello di attirare la nostra attenzione sui grandi cambiamenti intervenuti nella città occidentale di fronte al cristianesimo e alla Chiesa.
La conseguenza è che un principio, sempre valido, quello dell’ispirazione del temporale dalle energie evangeliche, è suscettibile, secondo le circostanze storiche, di rivestire forme assai differenziate.
Una cosa è il principio, un’altra cosa è la sua forma “intransigente, integrale, utopica” caratteristica di alcuni movimenti degli anni Trenta del Novecento.
La distinzione è sempre stata rispettata? Riferendosi a Paolo VI, padre Theobald parla d’identificazione allorché il Papa scrive “alleanza”.
Sarebbe necessario d’altronde procedere a un’analisi dei concetti di moderno e di post-moderno, dati come scontati, a partire dalle loro fonti intellettuali.
Inoltre, la rilettura del concilio non può non tener conto del contesto storico stesso dell’avvenimento.
Quando i padri parlano d’ateismo, hanno in mente la Chiesa del silenzio e l’ateismo di Stato con il dominio assoluto dell’educazione e dell’informazione e il fatto che molti vescovi dell’est furono impossibilitati ad andare a Roma.
Più radicalmente, il numero 21 di Gaudium et spes che tratta del tema, si conclude con l’affermazione di Agostino, nelle Confessioni, Fecisti nos ad te (Domine) et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te.
Abbiamo qui una traduzione diretta della visione biblica dell’uomo.
Se questo è vero, come lo è, l’esistenza secolarizzata non può rappresentare una forma compiuta d’umanesimo.
Lo studio di Dignitatis humanae conduce a distinguere nell’insegnamento conciliare un’altra maniera di considerare la relazione con la cultura contemporanea:  la “via evangelica” di Gesù, caratterizzata da un “rispetto assoluto dell’interlocutore”.
Questo rispetto dell’alterità e dell’unicità della coscienza altrui ha portato il Signore ad accettare la croce piuttosto d’imporre con la forza la verità ai suoi interlocutori.
Padre Theobald ha certamente ragione d’insistere sulle esigenze evangeliche della qualità dei mezzi di trasmissione del messaggio.
Ma applicata alle vie pastorali proposte dal concilio, ci si può chiedere se l’alternativa croce e violenza, dell’autore, sia pertinente.
Il progetto qualificato di “riconquista” era necessariamente una pressione sulle coscienze, una violenza? L’applicazione non mi pare adeguata quando si tratta di esperienze  come quelle dell’Azione Cattolica.
Un’analisi più sottile della storia del movimento, mi sembra necessaria.
Lo studio di padre Theobald merita comunque attenzione per il tema centrale che egli tratta.
(©L’Osservatore Romano – 19 maggio 2010)

Sudario (Shroud)

Ho numerose ragioni per essere grato all’Uomo della Sindone.
Ho prodotto il mio primo documentario sull’argomento, The Silent Witness, (titolo italiano:  Il testimone silenzioso) nel 1977.
Ateo convinto e consapevole dell’esistenza di numerose reliquie false, avevo deciso di scoprire e mostrare come e da chi era stata contraffatta la Sindone.
Non potevo pensare che ci fosse un’altra spiegazione.
In quell’epoca pre-internettiana era possibile che ci fossero speciali gruppi di interesse isolati totalmente ignari dell’esistenza di altri che, altrove, si occupavano dello stesso argomento.
Come avrei poi scoperto, c’erano molti gruppi e singoli individui interessati a diversi aspetti degli studi sulla Sindone.
I miei viaggi di ricerca per il documentario hanno contribuito a metterli in contatto fra loro e, nel corso dell’operazione, le varie prove hanno cominciato a combaciare perfettamente.
Per esempio, lo storico Ian Wilson, utilizzando la sua conoscenza delle raffigurazioni artistiche di Cristo, ha formulato idee sul collegamento con il Mandylion di Edessa.
Max Frei, botanico e perito giudiziario, ha completato la sua identificazione dei tipi di polline presenti sulla Sindone, che appartenevano anche ad alcune piante della regione di Edessa.
Il mio documentario ha mostrato, per la prima volta, le prove raccolte da quei gruppi e, lungi dal rivelare la contraffazione, è divenuto un argomento affascinante per la probabile autenticità della Sindone.
Il documentario ha vinto il British Academy Award e molti altri premi internazionali.
Avevo ventisei anni e quel lavoro fece decollare la mia carriera.
Questo è un buon motivo per essere grato all’Uomo della Sindone.
Scoprire e raccontare questa storia mi ha portato in Medio Oriente, in Anatolia, a Istanbul e in varie città europee e statunitensi.
Mi sono fatto numerosi amici (e alcuni nemici) e ho raccolto storie da narrare.
Il mio breve libro sulla produzione del documentario è divenuto un best seller nel Regno Unito.
Ecco, dunque, altri motivi di gratitudine.
La Sindone è entrata a far parte del corso di studi in molte scuole.
Il documentario è divenuto un prerequisito per studi religiosi nel Regno Unito e altrove.
Quale miglior modo per affascinare i bambini del grande giallo della Sindone? Storia, fisica, religione, chimica, biologia, anatomia, arte, tessitura e molte altre materie entrano in gioco e, al centro della storia, ci sono due domande valide.
La persona impressa sul tessuto chi potrebbe essere se non il fondatore del Cristianesimo? E il processo che ha prodotto l’immagine potrebbe essere forse niente di meno che una funzione dell’evento che ha cambiato il mondo, la Resurrezione? È stato “un dono dal cielo” per gli insegnanti.
Noterete da come mi esprimo che nel corso della produzione sono divenuto credente e cristiano.
È difficile studiare la Sindone per tanto tempo senza diventarlo.
Questo non riguarda tanto aspetti oggettivi, sebbene siano piuttosto impressionanti, quanto soggettivi.
La sua sottile immagine monocromatica è un’opera di genio sublime nel comunicare l’essenza del momento storico in cui è nato il Cristianesimo, attraverso le azioni di Gesù di Nazaret.
Se un giorno, in un angolo della Sindone si scoprissero le iniziali del contraffattore, nulla cambierebbe nella mia fede.
Questo è il motivo più importante per cui sono grato all’Uomo della Sindone.
(Dovrei aggiungere anche che nella Chiesa ho conosciuto mia moglie!).
Nel 2008 ho prodotto un nuovo documentario per la Bbc e per la Rai sulla tensione attuale fra i risultati del test del c14, risalente a vent’anni fa, e i nuovi studi sulla Sindone.
A Torino mi è stato permesso di avere un accesso privilegiato alla Sindone per filmarla in alta definizione per la prima volta.
Poco dopo mi è stato chiesto di girare il documentario ufficiale per commemorare l’esposizione attuale:  l’ho intitolato Shroud.
La rivoluzione digitale ha reso possibile a un regista concepire una serie di immagini e sapere che la tecnologia, in mani esperte, può renderle reali.
La Sindone è un soggetto unico e adatto a essere ripresa in 3d perché contiene già in se elementi tridimensionali.
Il nuovo documentario si pone la domanda legittima:  è questa l’epoca per la quale è nata la Sindone? Il mio prossimo obiettivo sarà trovare un modo per portare la storia della Sindone a un pubblico più ampio in tutto il mondo.
(©L’Osservatore Romano – 19 maggio 2010)

“Modernità e ambivalenza”

ZYGMUNT BAUMAN, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino 2010, ISBN: 8833920496, pp.350,  € 25,00 “Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno”.
Dare un nome equivale dunque a cercare di ordinare, classificare, archiviare, controllare: null’altro ha fatto la modernità, se non coltivare il progetto di imprimere un ordine artificiale al mondo, per contrastare l’ambivalente, l’oscuro, l’indistinto o l’indefinibile, di cui percepiva la minaccia.
Compito votato al fallimento, secondo Bauman, perché è l’ambivalenza, e non l’univocità, la condizione normale del linguaggio.
Se si ammette soltanto l’alternativa rigida tra l’ordine e il caos, ci si condanna a essere inadeguati, aprendo la strada all’intolleranza.
Ma l’ambivalenza può anche costituire una trappola.
Accadde, tra Otto e Novecento, con il percorso di integrazione degli ebrei di lingua tedesca, ossia con la loro fuoriuscita sociale e culturale dal ghetto; la modernizzazione estirpò stili di vita, parlate, costumi, e produsse la categoria ambivalente degli ebrei assimilati, estranei sia alla comunità di provenienza sia alle élite nazionali.
Tra rischi e rivincite, l’ambivalenza attraversa gli ultimi due secoli e invade la postmodernità.
Dobbiamo imparare a convivere con questo scandalo della ragione.
l’autore Zygmunt Bauman (Poznán, 1925), di origine ebraica, all’invasione tedesca della Polonia è fuggito con la famiglia in Unione Sovietica.
Rientrato in patria alla fine della guerra, ha studiato sociologia e filosofia all’Università di Varsavia, dove poi ha insegnato fino al 1968.
In quell’anno ha perso l’insegnamento, in seguito alla sua presa di distanza dalle posizioni antisemite del Partito comunista polacco, ed è riparato all’estero.
Ha ottenuto la cattedra di Sociologia all’Università di Leeds, di cui è dal 1990 professore emerito.
Gran parte della sua opera è tradotta in italiano.
Presso le nostre edizioni ha pubblicato La decadenza degli intellettuali.
Da legislatori a interpreti (1992).
Nel 1989 ha vinto il Premio Amalfi e nel 1998 l’Adorno – Preis.

“Testimoni digitali”

Benedetto XVI parlando ai partecipanti al convegno «Testimoni digitali», promosso dalla Cei, ha indicato le potenzialità e i rischi dei nuovi supporti mediatici.
L’informazione digitale secondo il Papa è una grande opportunità, anche di evangelizzazione, ma se perde la centralità e il rispetto della persona, rischia di diventare strumento «di omologazione e controllo, di relativismo intellettuale e morale».
«La Rete manifesta una vocazione aperta, tendenzialmente egualitaria e pluralista, ma nel contempo segna un nuovo fossato: si parla, infatti, di digital divide.
Esso separa gli inclusi dagli esclusi e va ad aggiungersi agli altri divari, che già allontanano le nazioni tra loro e anche al loro interno», ha poi detto il Pontefice.
«Aumentano pure i pericoli di omologazione e di controllo, di relativismo intellettuale e morale…
Si assiste allora a un ‘inquinamento dello spirito», ha aggiunto il Papa, sottolineando il rischio di «smarrire la percezione della profondità delle persone e appiattirci sulla loro superficie».
Per evitare questi rischi, ha detto Papa Benedetto XVI, occorre che i media “siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità, del bene e della fraternità naturale e soprannaturale”.
Allegati: IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DEL PAPA Un umanesimo dà luce al mondo digitale di Alessandro Zaccuri Un nuovo umanesimo digitale L’intervento del cardinal Bagnasco Generazione di protagonisti

Walter Kasper: “È questa la tolleranza zero annunciata dal Santo Padre”

Cardinale Kasper, Presidente del Pontificio consiglio per l´unità dei cristiani, ma anche membro di altri importanti dicasteri (Dottrina della Fede, Supremo Tribunale per la Signatura apostolica, Testi legislativi, Cultura), il cardinale Walter Kasper (77 anni) è il tedesco più potente in Vaticano dopo papa Ratzinger ed il suo fido segretario personale, monsignor George Gaenswaen.
Cardinale Kasper, tre vescovi costretti a dimettersi negli ultimi 2 giorni per lo scandalo della pedofilia.
Questo significa che il pugno di ferro della Santa Sede incomincia a farsi sentire? «No, niente pugni.
E´ semplicemente l´applicazione di quella tolleranza zero più volte annunciata con fermezza dal Santo Padre ed ora applicata senza esitazione.
E´ la Chiesa cattolica che fa pulizia al suo interno, che si purifica, che chiede perdono.
E´ la risposta concreta ad un dramma tanto grave come la pedofilia che ha colpito tante vittime innocenti per colpa di sacerdoti che hanno tradito la loro promessa di servire Dio aiutando i più deboli».
Di fronte alle notizie sulle dimissioni a catena di vescovi travolti dai casi di pedofilia, non sembra sorpreso: «E´ la prova – dice – che la Chiesa è decisa a combattere un male tanto orribile non solo a parole, ma con fatti ed atti concreti».
Ieri un vescovo irlandese ed uno tedesco.
Il giorno precedente un altro presule americano.
E sempre per lo stesso motivo.
Nei prossimi giorni ci saranno altre dimissioni forzate? «Non posso commentare i singoli casi perché sono vicende che non conosco in prima persona.
E, tantomeno, preannunziare cosa succederà in un futuro più o meno prossimo.
E´ bene lasciare lavorare gli organi preposti della Santa Sede e le Chiese locali.
Il futuro si vedrà.
Ma una cosa è certa, la Chiesa non lascerà nulla di intentato per estirpare al suo interno una metastasi tanto orribile e vergognosa come è la pedofilia tra il clero.
E´, in sostanza, l´applicazione di quella tolleranza zero più volte annunciata ed invocata».
Tolleranza zero voluta da papa Ratzinger, malgrado qualche tentativo di opposizione di una parte del collegio cardinalizio? «E´ proprio quella fermezza che vuole il Santo Padre, il quale quando chiede perdono per gli abusi sulle vittime e invoca la giustizia per i colpevoli non lo fa solo a parole, ma con fatti ed interventi concreti.
Come stiamo vedendo proprio in questi giorni.
Ma non dimentichiamo mai che il Santo Padre sa che è circondato dal calore di tutta la Chiesa, dove non c´è nessuno che non gli sia grato per la sua grande opera di pulizia e di purificazione avviata per depurarla dalle scorie degli scandali».
Eppure c´è ancora chi accusa il Vaticano e Benedetto XVI di non aver fatto molto, sia ieri che oggi, per estirpare i preti pedofili dal corpo della Chiesa.
«Non è vero che il Papa parla soltanto e non fa niente di concreto.
I fatti di questi giorni lo stanno a dimostrare.
E´ vero, invece, che la Chiesa cattolica, sotto la guida di Benedetto XVI, è fermamente intenzionata a fare pulizia, chiarezza, penitenza, isolando i colpevoli e facendo un salutare percorso di purificazione.
Senza mai dimenticare il dolore e le sofferenze che sacerdoti infedeli hanno inferto a piccole vittime innocenti.
La Chiesa cattolica lo sta facendo alla luce del sole.
Ma sarebbe necessario che anche altre istituzioni facessero altrettanto se veramente si vuole combattere la pedofilia».

Risurrezione

Il significato.
  Insomma nella risurrezione Cristo ricupera in pienezza la quotidianità dell’esperienza vissuta con i Suoi; anzi la fa vibrare di una intensità singolare.
Rivela finalmente il senso di misteriose allusioni che il discepolo prediletto si è preoccupato di raccoglie e segnalare lungo l’intero arco della sua vita terrena.
Quando sarò elevato attirerò tutti a me.
La morte in croce ha segnato il vertice dell’ascesa umana; il compimento di questo sinuoso e talora atroce percorso che l’uomo va conducendo: a Lui possono guardare tutti coloro che vivono la passione per la propria dignità e realizzazione.
Che cercano a tentoni di orientarsi, di cogliere un barlume di verità, che rischiari il proprio cammino: sono venuto per rendere testimonianza alla verità… La sua risurrezione offre il sigillo della’autenticità a tutta la vicenda terrena: nulla di quanto Gesù ha vissuto va perduto; anzi, tutto assume conferma e splendore.
Nella risurrezione rifulge di nuova e imprevedibile luce  il senso vero dell’esistenza e del travaglio che l’accompagna.
Tutti i segni che hanno accompagnato la vita terrena di Cristo ritornano; erano espressione di una rivelazione iscritta nel tempo, in un certo senso destinati a tramontare con il tempo: il segno della risurrezione si iscrive nell’eternità, supera il tempo e lo redime con una conferma che ha il carattere della definitività.
Dunque la risurrezione porta per eccellenza il suggello della vita, non perché Gesù ritorna alla vita, ma perché imprime nella vita il segno nuovo dell’immortalità.
Nella ridda concitata di incontri che i Vangeli raccontano con sobrietà ed emozione i primi testimoni fanno un’esperienza sconvolgente: sono proiettati nel tempo nell’intronizzazione di Cristo che li ha salvati oltre il tempo.
Cosicché l’esistenza dell’uomo, tutta la sua esistenza, trova il senso che Dio solo è in grado di imprimervi.
 Risurrezione   I fatti.
  Gesù si ritrova con i Suoi.
Oltre il dramma, la delusione, l’amarezza è la felicità: la corsa al Sepolcro di Pietro e Giovanni, il ritorno concitato dei discepoli da Emmaus, lo stupore dell’ incontro nelle diverse situazioni di vita: in pianto alla tomba, raccolti in preghiera, sul monte  del commiato… Anche più realistica la concreta partecipazione alle consuete esperienze di vita: pace a voi, avete qualcosa da mangiare, avvicinati, tocca il mio costato… E’ Lui, proprio Lui; quello che hanno veduto e toccato per gli anni duri e luminosi della missione.
E se tratta con qualcuno di loro in particolare, è toccante l’intensità dell’incontro.
Giovanni e Luca ne danno la misura.
L’incontro con Maria di Magdala è di una intensità umana incomparabile.
Maria, suona il richiamo affettuoso alle sue spalle; Rabbunì risponde di slancio appassionato la prima donna che lo vede risorto.
E nessuno sa narrare la felicità di quel momento nella novità di una presenza, che esalta l’attesa di una donna che ama e contemporaneamente sconvolge la vicenda di ogni uomo che dopo di lei è chiamato ad incrociarlo.
Così il ritorno concitato dei due discepoli da Emmaus verso Gerusalemme con in cuore una notizia sconvolgente: E’ risorto; ha cenato con noi! Come è difficile misurare la forza rinnovatrice del dialogo di Pietro con Gesù sulle sponde del lago di Tiberiade, al momento della Consegna.
Dalla consolazione di sentirsi di nuovo interpellato sulla passione che ormai brucia la sua vita: mi ami? All’insistenza garbata da cui affiora l’ombra amara del tradimento, alla consegna che gli restituisce intatta la fiducia del Maestro.