Fao: «Più di un miliardo gli affamati nel mondo»

Rischio paesi ricchi.
Anzi: persino nei Paesi ricchi registriamo un aumento degli affamati del 15,4% rispetto allo scorso anno.
È il principale risultato contenuto nell’edizione 2009 dello Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo (Sofi 2009) che lancia oggi alla vigilia della Giornata mondiale dell’alimentazione che si celebra domani.
Che segnala un’amara sorpresa: percentualmente sono i Paesi ricchi ad aver visto il numero delle persone che hanno fame crescere di più, registrando un aumento del 15,4% e raggiungendo la quota assoluta di 15 milioni di affamati.
Il record negativo di insicurezza alimentare lo mantiene la regione Asia-Pacifico con 642 milioni di persone che hanno fame (+10,5%), seguita dall’Africa Subsahariana con 265 milioni (+11,8%), dall’America Latina con 53 milioni (+12,8%) e infine dal Nord ed est Africa con 42 milioni (+13,5%).
100 milioni di persone affamate in più.
«Rispetto allo scorso anno oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini in più, un sesto di tutta l’umanità hanno fame nel 2009 – scrivono nell’introduzione il direttore generale della FAO Jacques Diouf e la direttrice esecutiva del PAM Josette Sheeran, che per le Nazioni Unite -.
La crisi dei prezzi delle materie prime alimentari del 2006-2008 ha portato fuori dalla portata del reddito di queste persone tutti gli alimenti di base e nonostante i ribassi alla fine del 2008 erano in media ancora del 17% più alti di due anni prima della crisi.
Questo ha costretto molte famiglie povere a scegliere tra cure sanitarie, scuola e cibo».
L’importanza dell’agricoltura.
Il messaggio lanciato al nuovo Vertice per la sicurezza alimentare vedrà i Capi di Stato e di Governo nuovamente a Roma dal 16 al 18 novembre prossimi è molto chiaro: c’è bisogno di una strategia a due tempi: un intervento d’emergenza, con voucher alimentari, aiuti e reti di sicurezza e welfare immediato, e a medio termine un vero programma di sostegno all’agricoltura contadina.
«Nei tempi di crisi passati si è sempre assistito a una riduzione degli interventi pubblici a sostegno dell’agricoltura.
Ma l’unico strumento efficace per vincere la povertà – avvertono i due responsabili delle Nazioni Unite – è assicurarsi un settore agricolo in piena salute».
Avvenire 14 ottobre 2009 Nel mondo nel 2009 siamo arrivati ad avere 1.02 miliardi di persone affamate.
È la prima volta che accade dal 1970 e, mentre nel Vertice per la sicurezza alimentare di due anni fa i capi di Stato e di Governo avevano confermato l’obiettivo assunto con la Dichiarazione del Millennio di dimezzare il numero di chi ha fame entro il 2015, oggi l’obiettivo è definitivamente archiviato. 

Il paradosso dei cattolici

L’esistenza nella galassia cattolica di “cattolici democratici” è di per sé stessa la dimostrazione di una difficoltà non risolta nel rapporto tra democrazia e cattolicesimo.
Se la difficoltà non ci fosse, l’aggettivo specificativo sarebbe superfluo.
Il fatto che vi siano cattolici che si auto-definiscono democratici significa sì che il cattolicesimo è compatibile con la democrazia, ma anche che la democrazia non è coessenziale al cattolicesimo, perché esso contempla anche l’antidemocrazia.
Se poi consideriamo che i cattolici democratici, per loro stesso riconoscimento, nel loro mondo sono oggi minoranza, la conclusione preoccupante è che, dalla maggioranza, le regole della democrazia, se sono accettate, lo sono non per adesione, ma per sopportazione o per opportunità: se e finché non si prospettino convenienze migliori.
Queste affermazioni possono sembrare temerarie, considerando il contributo cattolico alla lotta di liberazione, all’elaborazione della Costituzione e alla partecipazione alla vita democratica nei decenni che ne sono seguiti.
Ma, per l’appunto, il mondo cattolico è una galassia dove c’è di tutto e quel contributo alla democrazia, che nessuno potrebbe negare o sminuire, si accompagna al permanere di atteggiamenti d’altro genere, riserve mentali e aperte contraddizioni.
Una frattura profonda ha separato, fin dalle origini, la democrazia moderna dal mondo cattolico e questa frattura, evidentemente, non è completamente sanata.
La ricorrente accusa di “relativismo” rispetto ai “valori” è solo una denuncia aggiornata dei “deliramenti” democratici d’un tempo (enciclica Diuturnum illud del 1881).
Nel contesto di questa diffidenza antica si sviluppa la testimonianza che Rosy Bindi, una delle voci più impegnate a difendere l’identità e l’eredità dei cattolici democratici, ha reso in un libro-intervista con Giovanna Casadio (Quel che è di Cesare, Laterza, pagg.
144, € 10).
È una testimonianza di quel che la fede cristiana può portare come contributo all’ethos democratico.
Ma è anche la prova della tensione che deriva non – come talora erroneamente si dice – dall’essere cittadino e credente al tempo stesso (come se la democrazia dovesse essere necessariamente atea o agnostica), ma dall’essere al tempo stesso cittadino e membro della Chiesa cattolica, quando essa – per così dire – si pone (in misura più o meno stringente, si è sempre posta) come organizzazione dell’obbedienza nelle cose temporali.
Non sono le fedi, laiche o religiose, a creare difficoltà.
Esse, in quanto vissute nella libertà e nella responsabilità, non impediscono la democrazia, anzi l’arricchiscono.
È nella duplice appartenenza allo Stato democratico e alla Chiesa come potere disciplinare, la radice della difficoltà.
Due lealtà possono entrare in conflitto; doveri diversi possono contrapporsi.
Il cittadino, per rispettare se stesso, dovrebbe negare il credente; il credente, per non contraddire il suo vincolo confessionale, dovrebbe negare il cittadino.
Non è vero, infatti, che le due appartenenze si completino a vicenda.
Il conflitto è in agguato.
La democrazia presuppone l’apertura al dialogo fecondo, cioè non per finta, in vista di accordi e, ove occorra, di compromessi.
Esige, in una parola, atteggiamenti non dogmatici ma laici.
L’appartenenza alla Chiesa può invece creare situazioni drammatiche di aut-aut: o dentro o fuori, o obbedienza o tradimento e scomunica.
Due logiche che, quando si scontrano radicalmente, creano difficoltà e sofferenze che possono risolversi solo con la capitolazione di una delle due parti.
Anche il famoso caso, citato anche nell’Intervista, di Alcide De Gasperi che resiste al Diktat politico del Papa minacciando le dimissioni da presidente del Consiglio, ne è la riprova.
Fu Pio XII a recedere, cioè a capitolare.
Non fosse stato così, le dimissioni di De Gasperi, dal punto di vista dei suoi doveri civili sarebbero state non una dimostrazione di laicità, ma a sua volta una capitolazione di fronte a una pretesa clericale.
Tra i doveri civili, non c’è infatti quello di lasciare il proprio posto, se la Chiesa si inalbera.
La riflessione di Rosy Bindi tocca molti problemi, di teoria e di pratica politica, e li tocca in modo tale da mostrare le possibilità d’integrazione del cattolicesimo democratico nella vita politica comune, al di là dello steccato confessionale.
E mostra altresì il contributo di umanità, giustizia e solidarietà ch’esso è in grado di dare, un contributo al quale i non cattolici non possono essere indifferenti.
Ma questa riflessione non tace le difficoltà che derivano dalla posizione politica che la Chiesa Cattolica è venuta assumendo negli ultimi anni, con l’allontanamento progressivo dallo spirito del Concilio Vaticano II.
È un regresso, le cui conseguenze sono denunciate a chiare e brucianti lettere, con espliciti riferimenti alla politica della CEI del cardinal Ruini: «Purtroppo, smarrita la memoria storica e rimossi i fondamenti della Costituzione e del Concilio Vaticano II, siamo finiti dentro la contraddizione strumentale che la destra sta facendo della religione.
C’è un ritorno al passato, abbiamo bruciato un secolo di storia».
C’è solo da aggiungere due cose: che “quest’uso blasfemo della fede” non è solo della “destra” e trova spesso la calda riconoscenza della gerarchia ecclesiastica.
Gli ambienti curiali, cattolici e atei, denigrano questo genere di considerazioni come trita lamentazione sul “concilio tradito”.
Non è così.
È invece la puntuale registrazione di una strategia fatta innanzitutto di irrigidimenti disciplinari nei confronti dei fedeli, frequentemente richiamati all’ordine gerarchico perfino in occasioni elettorali, e poi di accordi di potere tra vertici della Chiesa e vertici politici, dove l’obbedienza prestata dai cattolici alla gerarchia diventa strumento di pressione, se non di ricatto, nei confronti dell’autorità civile.
Tutto questo si è visto all’opera con i “non possumus”, i “richiami impegnativi”, l’appoggio o il ritiro dell’appoggio a questa o quella formazione politica, a questo o quel governo, fino a condizionarne l’esistenza o la sopravvivenza.
Una Chiesa così potrà pure richiamarsi, davanti al popolo dei suoi credenti, alla propria funzione di traghettatrice delle loro anime nel mondo che ha da venire; ma, per l’intanto nel mondo che c’è, essa è una struttura di potere (cioè di peccato), che divide gli animi e fa della fede religiosa, usata in quei modi, una ragione di conflitto.
Rosy Bindi cita un insegnamento di Pierre Claverie, il domenicano ucciso nel 1996 in Algeria, a causa del suo impegno alla comprensione tra i popoli, un insegnamento che contiene la chiave per comprendere come una fede religiosa può integrarsi nella democrazia, cioè in una “vita buona” per tutti: «Esiste solo un’umanità plurale e quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare in nome della verità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione.
Nessuno possiede la verità, ognuno la cerca (…) spigolando nelle altre culture, negli altri tipi di umanità, ciò che anche gli altri hanno compreso, hanno cercato nel loro cammino, verso la verità: Sono credente, credo che c’è un Dio, ma non pretendo di possedere quel Dio.
Non si possiede Dio.
Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità degli altri».
Questo è l’atteggiamento di umiltà e, al tempo stesso, di fiducia negli esseri umani e di disponibilità al lavoro comune che costituiva l’anima del Concilio Vaticano II, di cui la Gaudium et spes è l’espressione: la libertà dei credenti in re sociali, accanto agli uomini di buona volontà, la loro responsabilità di fronte a Dio e ai propri fratelli, il divieto di invocare l’autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, divieto che, simmetricamente, non poteva non implicare l’astensione della Chiesa stessa da interventi vincolanti la coscienza dei cattolici.
La presenza cattolica nelle società umane era concepita come lievito che opera dall’interno, dipendendo dalla forza persuasiva della testimonianza che può venire dalla vita cristiana, vissuta con coerenza.
C’è un’immagine, nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) del papa Paolo VI che esprime bene quest’idea: i centri concentrici in cui si diffonde la testimonianza cristiana, fino a raggiungere l’intera umanità.
Nell’insegnamento del Concilio, quella che, legittimamente, per i credenti è verità si trasforma, nei confronti della società nel suo complesso, in esempio, carità.
È l’unico modo per porsi in posizione amichevole.
Invece, ora assistiamo, nell’insegnamento del papa Benedetto XVI, all’insistenza sempre più marcata sulla verità unita in binomio alla ragione: la verità della Chiesa è unica verità di ragione, e la ragione è universale.
Così, la verità cattolica pretende che non solo i credenti ma anche i non credenti pieghino il ginocchio.
Quest’audace operazione teologica si trasforma in una pretesa universalistica della Chiesa.
I non credenti, per così dire, impenitenti, diventano nemici non solo della verità, ma anche della ragione.
Un innegabile capovolgimento del Concilio.
In questo contesto si spiega l’invito che il papa Benedetto XVI rivolge ai non credenti affinché essi, per quanto privi di fede, si adattino ad agire veluti si Deus daretur, come se Dio (anche per loro) esistesse.
Non sarebbe la fede a esigerlo, ma la ragione.
A questo detto papale Bindi, nelle pagine finali, esprime la sua adesione.
Questo è forse l’unico mio punto di dissenso, tra le tante cose che l’intervista ci dice e che testimoniano dell’appassionata ricerca dell’Autrice circa il modo d’essere, senza contraddizione, cristiana e cittadina, insieme.
Gli inviti al come se sono inaccettabili.
L’agire come se Dio esistesse è una provocazione nei confronti dei non credenti.
Essi dovrebbero contraddire la loro coscienza e seguire non la loro ragione, ma quella proclamata dalla Chiesa come verità.
Il rispetto reciproco non è compatibile con questo genere di inviti.
in “la Repubblica” del 6 ottobre 2009

A Barack Obama il Nobel per la pace

È Barack Obama il premio Nobel per la pace 2009.
La commissione di Oslo ha deciso di assegnare il riconoscimento al presidente degli Stati Uniti, insediatosi alla Casa Bianca da meno di un anno.
La motivazione è legata agli sforzi per il dialogo mostrati dal presidente nel corso dei primi mesi del suo mandato: «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli».
Hanno pesato a favore della scelta gli appelli di Obama per la riduzione degli arsenali nucleari e il suo impegno per la pace globale MOTIVAZIONE).
Primo afro-americano a rivestire la carica più alta del paese, Obama ha chiesto il disarmo nucleare e sta lavorando dall’inizio del suo mandato per riavviare le trattative di pace in Medio Oriente.
Il riconoscimento di 10 milioni di corone svedesi (1,4 milioni di dollari) sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre.
Il portavoce del presidente americano, Robert Gibbs, ha comunicato che Obama devolverà in beneficenza l’intera somma, senza però specificare a quale istituzione il denaro sarà consegnato.
DECISIONE ALL’UNANIMITA’ – La decisione è stata presa all’unanimità, ha detto il presidente della commissione norvegese per il Nobel, Thorbjoern Jagland.
La commissione ha riconosciuto gli sforzi del presidente statunitense per ridurre gli arsenali nucleari e lavorare per la pace nel mondo.
«Obama ha fatto molte cose» ha detto Jagland durante la conferenza stampa a Oslo, «ma è stato riconosciuto soprattutto il valore delle sue dichiarazioni e degli impegni che ha assunto nei confronti della riduzione degli armamenti, della ripresa del negoziati in Medio Oriente e la volontà degli Stati Uniti di lavorare con gli organismi internazionali».
Non deve invece avere pesato il fatto che Obama ha rifiutato nei giorni scorsi di incontrare un altro past-laureate per la pace, il Dalai Lama (che lo vinse nel 1989), leader del governo tibetano in esilio, per evitare di compromettere i rapporti con la Cina in vista della prossima visita ufficiale che il capo della Casa Bianca effettuerà a Pechino.
«SONO ONORATO» – La notizia è arrivata quando negli Usa era notte fonda e Obama è stato svegliato dai suoi collaboratori che gli hanno comunicato le decisioni dell’accademia norvegese del Nobel.
Il presidente si è detto «onorato» della decisione, anche «se non sono sicuro di meritarlo»: ricevo il premio «con umiltà», ha aggiunto, facendo poi sapere che andrà personalmente a Oslo per ritirare il riconoscimento.
Più tardi una breve conferenza del presidente Usa: «Sono sorpreso e profondamente commosso.
Non sono sicuro di meritare di essere al fianco delle persone straordinarie che hanno ispirato me ed il mondo intero.
Accetto questo premio come chiamata all’azione per tutte le nazioni di fronte alle sfide del ventunesimo secolo.
Un premio non per i risultati ma per gli ideali» I PRECEDENTI – Obama non è il primo inquilino (o ex inquilino) della Casa Bianca a ricevere il riconoscimento.
Nel 1906 toccò infatti a Theodor Roosevelt (e l’anno successivo sarebbe stato assegnato al primo e unico italiano a conquistare questo tipo di riconoscimento, il giornalista e scrittore pacifista brianzolo Ernesto Teodoro Moneta) e nel 2002 a Jimmy Carter.
Nel 2007 venne invece assegnato ad Al Gore, vicepresidente ai tempi di Clinton.
Altro esponente di primo piano dell’amministrazione usa insignito del premio è stato all’ex segretario di Stato Henry Kissinger nel 1973, assieme al vietnamita Le Duc Tho (quest’ultimo tuttavia, unico caso fino ad ora nella storia del premio per la pace declinò il riconoscimento per la difficile situazione che viveva allora il suo Paese).
I CASI CONTROVERSI – Attorno alle nomination per il Nobel per la pace, l’unico tra i premi in memoria dello scienziato svedese che viene assegnato a Oslo e non a Stoccolma (un retaggio di quando, ai tempi in cui visse Nobel, la Norvegia era ancora sotto la monarchia svedese), si scatenano spesso dubbi e polemiche.
Basti pensare che in passato tra i candidati a riceverlo ci fu anche Stalin (nominato due volte, nel 1945 e nel 1948, ufficialmente per l’impegno nel far finire la seconda guerra mondiale), che però non lo vinse mai.
E la candidatura l’ha mancata per poco Adolf Hitler: era stato nominato nel 1939 da un parlamentare svedese che poi però cambiò idea e ritirò la sua proposta.
E’ invece rimasta, ma senza seguito, la nomination di Benito Mussolini.
Per contro, tra coloro che non lo ottennero mai nonostante ne avesse chiaramente i requisiti, ci fu il mahatma Gandhi, che non a caso viene definito il «missing laureate»: di nomitanion ne ricevette diverse, in almeno cinque anni diversi, e probabilmente sarebbe stato anche insignito del premio.
Ma è morto assassinato nel 1948 prima che una decisione in tal senso potesse essere presa e per statuto il Nobel non può essere assegnato a persone decedute.
L’APPLAUSO DEL GOVERNO ITALIANO – La notizia dell’assegnazione del premio a Obama ha raggiunto anche il governo italiano, riunito in Consiglio dei ministri.
E lo stesso Silvio Berlusconi, nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha rivelato che l’esecutivo ha tributato un applauso in onore del presidente usa.
Un presidente destinatario di tale premio, ha detto il premier, « È un investimento sul futuro, perchè è un presidente Nobel per la Pace sarà tenuto a un comportamento assolutamente ecumenico nei confronti di tutti».
Il Nobel a Obama, ha poi sottolineato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, «non è una forzatura in nessun modo, ma è solo la testimonianza che la comunità internazionale è tutta accanto a lui per incoraggiarlo ad andare avanti con più forza, proprio contro i suoi detrattori».
Al.
S.
09 ottobre 2009 Corriere della Sera Grande è stato lo stupore e la meraviglia all’annuncio che il Premio Nobel per la pace per il 2009 è stato assegnato al giovane, semplice, religioso Presidente nero degli USA, quel Barak Obama che già tanta ammirazione ha suscitato per il suo comportamento spontaneo e le sue dichiarazioni politiche che si possono così sintetizzare: disarmo e non proliferazione, promozione della pace, preservazione del pianeta e un’economia che offra opportunità a tutti..
E’ presidente degli Stati Uniti dal novembre del 2008, dopo una clamorosa vittoria contro lo sfidante repubblicano, John McCain divenendo – così- il primo presidente afroamericano nella storia degli States.
La speranza e l’idealismo unificatore sono i grandi temi che hanno richiamato grandi folle ad ogni sua apparizione pubblica, evocando paragoni con Martin Luther King e John F.
Kennedy.
L’atmosfera intensa dei comizi di Obama, che spinge qualcuno ad ascoltare a mani giunte le sue parole, non è dovuta solo alla sua indubbia abilità oratoria, ma anche al contenuto del suo messaggio.
La promessa di “cambiare” le cose a Washington è per lui solo il primo passo verso il progetto ben più audace ed ambizioso di “cambiare l’America e poi il resto del mondo”.
A porlo sulla mappa politica degli Stati Uniti e nel cuore della gente fu uno straordinario discorso alla Convention Democratica del 2004, intitolato “L’Audacia della Speranza”, dove l’idealismo di impronta kennedyana era esaltato da una oratoria alla King(per forza, è stato un buon predicatore della sua chiesa cristiana) Senza dimenticare che la speranza per un mondo migliore è una “radice” molto profonda del Vangelo e Obama(= Benedetto)la sta mettendo in pratica.
Nulla lo spaventa o lo intimorisce e non ha paura di correre incontro ai “nemici”.
Proprio come suggerisce Gesù.
La sua infanzia è stata difficile, come grande è la sua carriera.
Nato il 4 agosto 1961 a Honolulu (Hawaii) da un padre di colore (giunto negli Usa dal Kenya con una borsa di studio) e da una madre bianca (nata in Kansas e poi trasferita nelle Hawaii con i genitori) Barack Hussein Obama ha avuto una infanzia instabile: a due anni ha perso la figura del padre (andato via da casa per studiare ad Harvard), a sei anni è finito in Indonesia (col nuovo marito della madre), a dieci anni è tornato da solo nelle Hawaii per vivere con i nonni materni.
Bravissimo negli studi, entra poi alla Columbia University a New York, lavora come assistente sociale a Chicago, viene accettato alla prestigiosa Harvard Law School.
Rifiuta le offerte d’impiego delle corporation di New York per tornare a Chicago per inseguire una missione sociale e anche l’amore: qui vive infatti Michelle Robinson, la ragazza che dopo un paio di anni diventerà sua moglie e la madre delle loro due bambine, Malia e Natasha.
A Chicago svolge opera di assistenza legale per i poveri ed insegna legge.
Ma i suoi obiettivi sono più ambiziosi.
Nel 1996 viene eletto al Senato dell’Illinois.
Nel 2000 si candida al Congresso Usa come deputato ma viene battuto.
Nel 2004 ci riprova, stavolta per il Senato Usa, e vince alla grande diventando il quinto senatore nero nella storia del Congresso americano.
Nel 2007 si candida alla Casa Bianca: l’annuncio ufficiale arriva il 10 febbraio dalla stessa piazza davanti al Campidoglio di Springfield (Illinois) dove Abramo Lincoln quasi 150 anni prima aveva pronunciato uno storico discorso sulla necessità di restare uniti.
Un simbolismo perfetto.
Il 4 novembre del 2008 la trionfale vittoria che lo conduce alla Casa Bianca, da dove, in pochi mesi, rilancia il dialogo con il mondo musulmano, affronta il delicato tema dei rapporti con l’Iran, avvia una intensa campagna contro la proliferazione nucleare, solo per citare i principali temi della sua azione in ambito internazionale.
Questo nostro mondo, così difficile e complicato, con immensi problemi, eppure con lui troverà la strada verso la pacificazione e – probabilmente, sebbene sia ancora un obiettivo tanto lontano- la fratellanza.

Una scomoda croce nel deserto

Il caso della croce della riserva naturale del Mojave è arrivato alla Corte Suprema degli Stati Uniti dopo otto anni di controversie, nate quando Frank Buono, già assistente alla soprintendenza del parco, ha avanzato richiesta formale al National Park Service (Nps) – cui la Riserva fa parte – di rimuovere la croce lì impiantata sin dal 1934.
Trovandosi su un terreno appartenente al Governo degli Stati Uniti – è la tesi di Buono – la sua esistenza costituisce una violazione del principio di imparzialità del Governo rispetto alle diverse fedi, violando così la establishment clause del primo emendamento della Costituzione.
L’intera vicenda giudiziaria è emblematica e ricca di spunti di riflessione.
Nel 1934 l’associazione Veterans of Foreign War, un’organizzazione privata, decise di onorare i caduti della prima guerra mondiale impiantando una croce di legno alta otto piedi in cima a un’altura rocciosa, Sunrise Rock, su un terreno pubblico che ora fa parte appunto della riserva naturale del Mojave.
Nel corso degli anni, altri gruppi privati e singoli individui hanno sostituito la vecchia croce di legno con altre più nuove, fino a quella corrente, eretta nel 1998 da Henry Sadoz, un privato cittadino.
Nel 1999, un residente dello Utah ha chiesto all’Nps, l’organo che sovrintende alla gestione dei parchi negli Stati Uniti, il permesso di erigere uno stupa, una sorta di memoriale buddista, vicino alla croce.
L’Nps ha respinto la richiesta, affermando che la legge proibisce ai privati di installare memoriali e altri impianti permanenti su proprietà federali senza autorizzazione delle autorità pubbliche.
Rifiutando il memoriale buddista, l’Nps ha inoltre annunciato l’intenzione di rimuovere la croce da Sunrise Rock, la quale, fra l’altro, non sarebbe mai stata formalmente autorizzata.
Le dichiarazioni dell’Nps hanno da subito innescato una serie di polemiche e accesi dibattiti.
Nel dicembre del 2000 è intervenuto il Congresso degli Stati Uniti, che, attraverso un provvedimento legislativo ha di fatto vietato di rimuovere la croce, proibendo l’uso di fondi federali a tale scopo.
La controversia però non si è esaurita.
Nel marzo del 2001, l’ex assistente alla soprintendenza Buono ha adito le vie legali presso la corte distrettuale del distretto centrale della California sostenendo che l’Nps dovesse rimuovere la croce.
Nel gennaio del 2002, mentre il caso Buono giaceva ancora presso la corte distrettuale, il Congresso degli Stati Uniti è intervenuto nuovamente, dichiarando la croce memoriale nazionale e inserendola in un ristretto gruppo formato da altri 45 memoriali nazionali, tra i quali i famosi Washington Monument e il Jefferson Memorial.
Poco dopo, nel luglio 2002, la corte distrettuale ha sentenziato che la croce del Mojave costituisce una violazione dell’establishment clause e ha ordinato all’Nps di rimuoverla.
Anche in questo caso il Congresso ha deciso di intervenire, con un altro provvedimento, proibendo la rimozione e, nel 2003, approvando un’altra legge con la quale si è stabilito di cedere la proprietà di cinque acri della riserva nazionale del Mojave, attorno alla croce in questione, alla Veterans of Foreign War.
Sandoz, a sua volta, ha poi donato alla stessa riserva cinque acri confinanti di sua proprietà.
La legge a ogni buon conto ha stabilito che se usati per finalità diverse da quelle del mantenimento del memoriale, i cinque acri tornino nella proprietà del Governo.
Nel giugno del 2004, la corte d’appello del nono circuito, in un’opinione informale scritta dal giudice Alex Kozinski, confermava la sentenza della corte distrettuale, in quanto la croce viola l’establishment clause.
Il Governo non ha presentato opposizione.
Ciononostante, l’Nps ha proseguito nei passi per il trasferimento della proprietà di Sunrise Rock all’associazione dei veterani, causando la reazione di Buono, che ha chiesto alla corte distrettuale un’ingiunzione, in seguito accordata, di rimozione della croce e di proibizione al trasferimento della proprietà.
Un nuovo ricorso alla Corte d’appello si è risolto con la conferma della decisione della corte distrettuale e quindi la vicenda è approdata, nel febbraio scorso, alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Essendo il National Park Service sotto la giurisdizione del Dipartimento degli interni, il cui segretario è Ken Salazar, la causa è appunto fascicolata con il titolo Salazar vs Buono.
Nella sua memoria presentata alla Corte Suprema, Salazar ha puntato soprattutto su due argomentazioni.
In primo luogo ha sollevato un’eccezione di competenza della corte distrettuale a seguito della mancanza di titolo giuridico da parte di Buono, il quale, secondo la legge, deve dimostrare di avere sofferto un qualche danno, cosa ardua, essendo fra l’altro, un cattolico praticante.
Riguardo al merito della questione, invece, Salazar afferma che, non essendo più su terreno governativo, a seguito della decisione del Congresso del 2003, la croce non costituisce un endorsement del Governo rispetto al messaggio religioso e quindi non viola più l’establishment clause.
La posizione di Buono è invece la seguente: il suo diritto a rivolgersi alla corte è affermato da precedenti disposizioni della Corte Suprema che riconoscevano tale diritto a chiunque avesse avuto “un diretto e non voluto contatto con un simbolo religioso in una proprietà pubblica”.
Nel suo caso, Buono si sarebbe sentito offeso nell’imbattersi nella croce come cittadino, perché la croce testimonia la preferenza del Governo per una fede a scapito delle altre.
Inoltre, Buono contesta la possibilità da parte della Corte Suprema di esprimere sentenza riguardo al fatto che la croce violi o no l’establishment clause, perché sul punto si è già espressa la Corte d’appello nel 2004, senza che il Governo abbia fatto ricorso.
Secondo Buono, la Corte Suprema può solo giudicare se il provvedimento del Congresso del 2007, con il quale veniva trasferita la proprietà di Sunrise Rock all’associazione di veterani ponga fine o meno a tale violazione.
Chiaramente, secondo Buono la violazione persiste, perché anzitutto il Governo ha consentito a creare un memoriale nazionale prevedendo come unico simbolo la croce e non anche altri simboli religiosi.
In secondo luogo perché in realtà tale proprietà non è pienamente trasferita, in quanto condizionata proprio al mantenimento del memoriale.
Il Governo dunque rimane, per così dire, complice del messaggio religioso.
Il caso, quale ne sia l’esito, avrà, come detto, conseguenze importanti.
Se la Corte Suprema deciderà a favore di Buono, tale decisione imporrà ai Governi locali, statali e federale di rimuovere molti simboli religiosi dai memoriali disseminati nel territorio degli Stati Uniti.
Al contrario, se l’Alta corte afferma che la croce non viola l’establishment clause, molti Governi potrebbero essere autorizzati a dare preferenza a un gruppo religioso rispetto a un altro in parchi ed edifici pubblici.
Se infine la Corte Suprema decidesse che Buono non ha titoli per adire le vie legali si avrebbero conseguenze evidenti sulla possibilità dei cittadini di presentare reclami su argomenti simili.
La decisione della Corte Suprema è importante poi, come accennato, anche per un altro motivo: consentirà di osservare qual è la posizione del nuovo giudice Sonia Sotomayor sul rapporto fra Stato e religione, dopo che questa ha preso il posto di David Souter, considerato un fervente partigiano dell’assoluta indipendenza dello Stato dalle confessioni religiose.
(©L’Osservatore Romano – 8 ottobre 2009) Sono previste per oggi, 7 ottobre, le audizioni, presso la Corte Suprema degli Stati Uniti, delle parti coinvolte nel procedimento Salazar vs Buono, un caso che, partendo dalle dispute attorno a una piccola croce posta all’interno della riserva naturale del Mojave – nella contea di san Bernardino, in California – è arrivato a coinvolgere il tema della libertà religiosa negli Stati Uniti.
La decisione della Corte sarà importante anche per verificare la condotta del nuovo giudice Sonia Sotomayor sui delicati temi religiosi e sul rapporto fra Stato e religione.

L’antisemitismo cristiano ha origini pagane

Ma alla fine del regno di Nerone le cose cambiarono.
Nel maggio del 66 con un banale pretesto— gli abitanti avevano rifiutato di andare in processione a salutare due coorti dell’imperatore — il procuratore romano della Giudea, Gessio Floro, scatenò le sue truppe contro il mercato superiore di Gerusalemme provocando in un solo giorno tremilaseicento morti, la maggior parte donne e bambini.
Energica fu la reazione giudaica, che portò alla costituzione di uno Stato indipendente; anche se gli abitanti di Gerusalemme restarono divisi tra coloro che volevano riprendere un percorso di pace e quelli intenzionati a insistere sul terreno delle armi.
La situazione, però, in quel momento era ancora recuperabile.
A provocare la rottura di questo equilibrio fu, nel giugno del 68, la morte di Nerone.
Quando l’imperatore fu ucciso dal liberto Epafrodito, Tito Flavio Vespasiano, un soldato assai capace (ma niente di più) che si era distinto vent’anni prima nella conquista della Britannia, colse l’occasione derivatagli dall’essere comandante in campo della guerra in Giudea per sfruttare la guerra stessa e con essa dare la scalata al potere nella capitale dell’impero sconvolta dalle divisioni per la successione tra Galba, Otone e Vitellio.
Vespasiano riuscì nel suo intento (69) grazie anche ai consigli di Giuseppe, un sacerdote gerosolimitano che, dopo aver comandato le truppe ribelli in Galilea, era stato catturato dai romani e si era messo a disposizione del futuro imperatore vaticinando per lui fin dal 67 (cioè ben prima della morte di Nerone) l’ascesa al sommo incarico.
Giuseppe avrebbe poi spiegato nei sette magnifici libri della Guerra giudaica di cui si è detto all’inizio — scritti nel 70 quando il figlio di Vespasiano, Tito, distrusse la città e il Tempio — come i suoi antichi correligionari si erano fatti sopraffare.
Nonostante le successive sollevazioni in Cirenaica e in Egitto (72) e l’ultimo tentativo di resistenza a Masada (73).
E qui si arriva alla parte più interessante del libro di Goodman, dove si approfondisce quel che rese per così dire definitiva la crisi del 70.
La Storia dell’antisemitismo scritta da Léon Poliakov a ridosso del processo di Norimberga e pubblicata poi negli Anni Cinquanta (in Italia da Sansoni) dedica un numero di pagine davvero limitato alla origine dei sentimenti di ostilità nei confronti degli ebrei che pure si registrano prima dell’età cristiana: «Non scopriamo nell’antichità pagana—scrisse Poliakov—quelle reazioni passionali collettive che in seguito renderanno la sorte degli ebrei così dura e precaria».
Riconosceva, Poliakov, che si deve fare un’eccezione per la città di Alessandria, dove esisteva una grande comunità ebraica e i conflitti tra gli ebrei e la popolazione greca erano «frequenti e acuti» così che dovettero registrare ripetute «esplosioni di collera popolare contro gli ebrei».
Ma, aggiungeva, «come regola generale l’Impero romano dell’epoca pagana non ha conosciuto l’antisemitismo di Stato».
E con questo ridimensionava del tutto le espressioni antiebraiche che troviamo in abbondanza negli scritti di Diodoro Siculo, Filostrato, Pompeo Trogo, Giovenale, Tacito, Orazio, Valerio Massimo e Seneca.
Qualche decennio dopo Peter Schäfer in Giudeofobia.
L’antisemitismo nel mondo antico (Carocci) si è soffermato—in base a un’ampia documentazione — su un’indicazione che il re greco di Siria Antioco VII ricevette dai suoi consiglieri all’epoca dell’assedio di Gerusalemme (135 a.C.) secondo cui non ci si doveva limitare a espugnare la città ma sarebbe stato opportuno «estirpare completamente la razza dei giudei ».
A partire da ciò Schäfer ha sostenuto che si può parlare di antisemitismo in pieno rigoglio «ben prima dell’avvento del cristianesimo ».
Ne è nato un dibattito dalle evidenti implicazioni.
E furono in molti a polemizzare — sia pure tra le righe — con Schäfer.
Uno per tutti lo studioso di Oxford Jasper Griffin il quale (recensendo Giudeofobia su «La Rivista dei libri», settembre 1999) riconobbe che sì, anche in età precristiana «ci furono casi in cui si proiettarono sugli ebrei fantasie di sacrifici umani e giuramenti ratificati con sangue umano» ma, aggiunse, «sono storie rare, che si narravano anche al riguardo di altri gruppi, druidi, cristiani, congiurati di Catilina e non erano dunque prerogativa esclusiva degli ebrei».
Adesso la discussione è destinata a riaprirsi per merito di un voluminoso saggio di Martin Goodman, la cui parte conclusiva prende in esame lo scontro che oppose Roma a Gerusalemme tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo dopo Cristo.
Una resa dei conti spietata che, secondo le stime contenute nella Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, provocò oltre un milione e centomila morti.
Cifra sbalorditiva per l’epoca.
Era inevitabile, si chiede l’autore, l’urto tra romani e giudei che ebbe come esito, nel 70 d.C., quella carneficina e soprattutto la distruzione del Tempio di Gerusalemme? O quantomeno era inevitabile che quel conflitto assumesse un tratto per così dire definitivo? Assolutamente no.
Anzi, la tesi di tutta la prima parte del libro di Goodman Roma e Gerusalemme.
Lo scontro delle civiltà antiche, che Laterza sta per mandare in libreria nell’impeccabile traduzione di Michele Sampaolo, è che quei due mondi avrebbero potuto benissimo coesistere come avevano fin lì coesistito: fu la lotta per il potere a Roma che provocò la catastrofe.
In che senso? L’occupazione romana della regione si era protratta per oltre un secolo (dal 37 a.C.) senza che mai si dovessero affrontare crisi di quelle proporzioni.
Dapprima per effetto della repressione messa in atto da Erode; successivamente (dal 6 al 66 d.C.) non ci fu bisogno neanche di quella.

Dibattito sul Bullismo

Il ministro inglese dell’istruzione, il laburista Ed Balls, all’indomani del recente discorso tenuto dal primo ministro Gordon Brown ai membri del proprio partito, in occasione dell’avvio della campagna elettorale che porterà alle urne i cittadini britannici alla fine della prossima primavera, è tornato su uno dei punti cruciali del programma che i laburisti intendono proporre e che riguarda problematiche educative nelle scuole.
A fronte del fatto che una scuola inglese su 5 è stata al centro di episodi di comportamento antisociale da parte dei suoi studenti, l’amministrazione ha intenzione di lanciare una vera e propria sfida per ricondurre i comportamenti dei ragazzi a livelli accettabili.
All’associazione dei genitori che si rifà al partito laburista è stato ricordato il dovere di sostenere il lavoro della scuola, specialmente ora che si sta aprendo un nuovo, inquietante fronte legato alle attività di gruppi razzisti, in grado di influenzare pericolosamente i giovani.
Il prossimo gennaio è infatti attesa la presentazione di una relazione chiesta dal ministro per l’istruzione al responsabile del servizio ispettivo centrata su alcuni punti chiave: -se le misure di salvaguardia contro il diffondersi della mentalità razzista fra i giovani siano sufficienti, -se siano necessarie ulteriori misure per aumentare, nell’opinione pubblica, la fiducia negli insegnanti, al fine di proteggere i giovani dai rischi dell’indottrinamento e della discriminazione, in particolare tramite l’affiliazione ad associazioni di stampo razzista, -se le attuali misure di salvaguardia debbano essere più ampiamente diffuse nel paese attraverso i lavoratori della scuola.
Il problema appare tanto più pressante alla luce dei risultati di recenti inchieste in cui sembrano coinvolti un numero imprecisato di docenti, i cui nominativi non sono conosciuti, i quali sarebbero a loro volta affiliati ad organizzazioni razziste.
Al riguardo, l’amministrazione sta prendendo in considerazione l’opzione di sollevarli dall’insegnamento, non appena vengano identificati.

“Ma lui non si lascia tirare per la giacca”

L’intervista Andrea Riccardi (storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio), il Papa a Praga fa il «tagliando» all’Europa a vent’anni dalla caduta del Muro? «Benedetto XVI sente che la sua missione è parlare al cuore e alla ragione d’Europa.
La battaglia di Wojtyla era rivolta all’Est comunista, la sua è impedire che il vecchio continente perda il suo sapore cristiano ed esca dalla storia per irrilevanza.
Ratzinger non punta a un nuovo imperialismo, ma affida all’Europa una missione vitale di fede e umanesimo».
Il colloquio con Berlusconi alla partenza per Praga ha fatto discutere.
Franceschini lo definisce un semplice saluto (“gli incontri importanti non avvengono davanti alle telecamere”), Di Pietro una “furbata del premier”.
Qual è la sua opinione? «Il Papa non si fa strumentalizzare, né tirare da una parte o dall’altra.
Poi, certo, Ratzinger stringe la mano, ti fissa negli occhi, ma guarda lontano.
Sa parlare al mondo, e in questi colloqui tocca problemi generali.
Benedetto XVI non è l’uomo della cronaca, però non è avulso né estraneo alle persone che incontra.
Non sta sull’ultimo avvenimento ed è concentrato sulle correnti profonde della storia.
Come papa e come uomo, però, non è strumentalizzabile, non si fa coinvolgere in strategie altrui.
Non è prigioniero del momento, mira oltre la situazione contingente per spingere a quello che conta, difendere i principi non negoziabili e comunicare il Vangelo».
E’ un Papa che teme il progresso scientifico? «No.
Vuole unire la scienza e l’economia all’umanesimo e al valore dell’elemento umano che non si compra e vende sul mercato.
Il suo messaggio è un orizzonte unitario.
Per questo scrive libri su Gesù, la porta d’accesso a tutto è l’annuncio, la passione cristiana.
Sia parlando pubblicamente al mondo accademico sia conversando privatamente con un capo di governo, non lo preoccupa negoziare posizioni o fissare paletti, ma proporre la sua testimonianza.
Non è un crociato, sa di parlare a società fortemente secolarizzate.
Però è consapevole che a cercare di spingere Dio fuori dall’Europa sono stati il nazismo e il comunismo ieri e oggi la ricerca selvaggia del profitto.
Non a caso ha scelto Praga per lanciare il suo monito e non Cracovia o Budapest».
Perché? «Le contraddizioni dell’angolo più secolarizzato d’Europa consentono a Ratzinger di dimostrare quanto le questioni di fede e la dimensione spirituale incidano sulla qualità della vita.
Lui chiama alla responsabilità, alla cooperazione internazionale contro la crisi, avverte che i destini sono legati e pone istanze a nome della Chiesa.
Per questo ha voluto un incontro ecumenico a Praga: per dire che la costruzione del futuro non può riguardare solo l’economia e la politica».
E’ troppo teologo e poco pastore? «E’ un Papa teologo ma appassionato all’umano.
Dopo la caduta del Muro, anche Ratzinger come Wojtyla, si è subito preoccupato della giustizia sociale e non ha mai pensato che bastasse il mercato per garantire la democrazia, la libertà e lo sviluppo.
Non lo hanno mai sfiorato il provvidenzialismo mercatista e la cieca fiducia nell’accumulo della ricchezza che si autogoverna, come dimostrano i forti messaggi lanciati a Praga e l’enciclica sociale.
Benedetto XVI si appella all’amore, al rispetto per l’altro e guida la Chiesa sulla strada del dialogo per favorire l’intesa tra diverse culture, tradizioni e sapienze religiose».
Qual è il senso dell’incontro a Praga con le altre confessioni? «Confrontarsi con esponenti di diverse Chiese, comunità ecclesiali e religioni è già un gran segno di pace.
Serve a parlare con realismo, a guardarsi in faccia, a superare le distanze, a fronteggiare l’allontanamento di Dio dalla vita dell’uomo.
Incontrarsi non risolve miracolosamente i problemi, ma crea una prospettiva nuova per vederli.
Trent’anni fa si pensava che magicamente le secolari lacerazioni tra cristiani si sarebbero composte, adesso sappiamo che serve gradualità.
E Benedetto XVI punta su un comune sentire, rifiuta la religione come pretesto per la violenza e indica la via del vivere insieme».
in “La Stampa” del 28 settembre 2009

A Praga il papa in difesa della ricristianizzazione

Per il suo tredicesimo viaggio all’estero, papa Benedetto XVI arriva sabato 26 settembre in uno dei paesi più scristianizzati d’Europa.
La sua venuta nella Repubblica ceca coincide con il 20° anniversario della “rivoluzione di velluto” che vide il crollo del regime comunista.
Questa visita di tre giorni non avrà il carattere storico di quella che il suo predecessore Giovanni Paolo II aveva effettuato nel 1990, incontrando il presidente ceco di allora, Vaclav Havel.
Ma Benedetto XVI dovrebbe ricordare lì l’importanza delle radici cristiane e della democrazia in Europa.
La Repubblica ceca “che si trova geograficamente e storicamente nel cuore dell’Europa, dopo aver attraversato i drammi del secolo scorso, ha bisogno di ritrovare le ragioni della fede e della speranza, come tutto il continente”, ha detto Benedetto XVI domenica 20 settembre.
Questo viaggio dà anche l’occasione di ritornare sul ruolo, contrastato, delle Chiese cristiane nei processi di democratizzazione degli ex paesi dell’Est e sul loro posto attuale.
“Bisogna distinguere diverse situazioni”, avverte lo storico Krysztof Pomian.
“Le Chiese ortodosse sono sempre state delle Chiese ‘statalizzate’, tanto in Russia che in Romania o in Bulgaria.
E, se una forma di dissidenza religiosa” appare negli anni ’70, essa è portata avanti solo da individui, sconfessati dalla gerarchia”, spiega lo storico polacco.
Anche all’interno dei paesi cattolici, le situazioni variano.
Per ragioni storiche, la Chiesa è debole nella Repubblica ceca: la rivolta religiosa del XV secolo, condotta dal riformatore Jan Hus, condannato a morte, ha lasciato profonde tracce.
“Imposta dal potere imperiale germanofono, la Chiesa cattolica vi è percepita, soprattutto a partire dal risveglio nazionale, come una religione straniera”, ricorda Pomian.
“Questo substrato creerà d’altronde una certa ricettività alla corrente socialdemocratica poi al comunismo ceco dopo la prima guerra mondiale”, aggiunge.
Durante il periodo comunista, la Chiesa conoscerà forti persecuzioni e le sue possibilità d’azione saranno limitate.
Negli anni ’80, certe chiese diventeranno comunque luoghi di raccolta della dissidenza.
Durante tutto questo periodo, la Polonia cattolica resta un caso a parte.
“È rimasta una potenza che potere comunista ha cominciato col trattare con riguardo, spiega Krysztof Pomian.
Poi sono venute le persecuzioni e l’internamento nel 1953 del cardinale primate di Polonia.
Dopo la sua liberazione nel 1956, si è installata una sorta di coabitazione conflittuale.
A partire dagli anni ’70, cambiamento di politica: la Chiesa diventa un interlocutore quasi ufficiale del potere.
Ciò non le impedisce di criticarlo, in particolare attraverso delle lettere pastorali lette nelle chiese.
Nel contesto dell’epoca, la Chiesa incarna una forza liberatrice.” L’elezione del papa polacco, Giovanni Paolo II, nel 1978 accentuerà questa dimensione.
“Sostenuta da un laicato cattolico forte, si può dire che la Chiesa polacca abbia accompagnato il movimento di contestazione.
Ma sicuramente non lo ha preceduto.
Del resto ha svolto il ruolo di moderatrice e di mediatrice tra le parti in campo”, aggiunge Pomian.
Nella Germania protestante, le parrocchie accoglieranno la contestazione nella seconda metà degli anni ’80.
Ma, come sottolinea lo storico, “nel regime comunista, ogni manifestazione di credenza religiosa acquisiva un significato politico.
I pastori hanno quindi svolto un ruolo di opposizione spirituale al regime.” Vent’anni più tardi, sembra che le Chiese non abbiano profittato appieno dell’avvento della democrazia.
La Repubblica ceca, con il suo 40% di atei, ne è un esempio.
E, anche in Polonia, dove, secondo Pomian, “la Chiesa come istituzione ha beneficiato della transizione democratica oltre i suoi meriti reali e dove mantiene un’influenza politica in certe regioni, si constata un riflusso e in particolare una diminuzione del numero di seminaristi e della pratica domenicale”.
“Il rinnovamento religioso atteso dopo il 1989 non sembra essere avvenuto”, dichiara lo storico.
in “Le Monde” del 27 settembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

‘Italiano e Religione cattolica fanno identità e integrazione’

La scuola “ha sempre di più il compito di assolvere ad una funzione di integrazione, per questo stiamo puntando su insegnamento della lingua italiana ai bambini stranieri e sull’educazione alla cittadinanza”.
Lo afferma il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, intervenendo alla presentazione del rapporto curato dal comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini.
Ma la scuola “rappresenta anche un luogo in cui si difende l’identità del Paese”, continua Gelmini, “da qui deriva la mia difesa dell’ora di religione e della presenza del crocefisso”.
E si deve “difendere l’identità perchè  il rispetto dell’altro non significa un resa; su questo bisogna essere chiari, altrimenti non si garantisce l’integrazione nè si fornisce ai nostri ragazzi la possibilità di avere un patrimonio culturale che è quello del loro Paese”.

Lettera ai cercatori di Dio nella prospettiva della educazione religiosa scolastica

CEI – Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, ed.
San Paolo, Torino  2009 A modo di premessa, la presentazione della lettura analitica della Lettera ai cercatori di Dio, in tempi di declamata e controversa “emergenza educativa”, intende proporsi con discrezione e pacatezza per un servizio di informazione critica, al fine di favorire l’interesse generale sul rapporto tra cultura religiosa ed educazione-scuola, e specificamente a beneficio degli Insegnanti di Religione (IdR).
Molti degli IdR risultano coinvolti sul piano della ricerca teorica, della sperimentazione didattica e dell’innovazione dei linguaggi, oltre che impegnati in varie attività ed esperienze formative di tipo scolastico, comunitario o associativo, e troppo spesso si vedono paternalisticamente sollecitati ad iniziative continue dall’attivismo degli uffici scuola o investiti da facili ironie e discredito sulla presunta fase di “imborghesimento” e “demotivazione” dopo la immissione in ruolo della categoria.
 In profondità, oltre le ricorrenti polemiche giudiziarie e giornalistiche sull’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) in Italia, vengono chiamati in questione e vanno affrontati alle radici la fragilità della legittimazione giuridica concordataria, una certa indefinitezza epistemologica, la trasformazione in senso pluralistico e multireligioso della società europea, le incertezze della “via” italiana alla “laicità”, la indefinita dinamica tra l’educazione religiosa ecclesiale e del sistema scolastico civile, l’evoluzione del rapporto tra cultura religiosa con le sue scienze di riferimento e progetto educativo pubblico, il “sospetto” ancora gravante sul ruolo della teologia nei saperi e nelle istituzioni culturali pubbliche.
       Il collegamento estrinseco con l’attività dell’IRC emerge dichiaratamente nei “Suggerimenti per l’utilizzazione” forniti da mons.
Bruno Forte, curatore e firmatario nella qualità di Presidente della Commissione CEI, all’annuale Convegno Nazionale degli Uffici Catechistici Diocesani (“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”, UCN, Reggio Calabria 15-18 giugno 2009), articolati in più direzioni: dove si individua l’IR tra gli interlocutori privilegiati; si sottolinea l’esigenza di “promuoverne la conoscenza tra Catechisti e Insegnanti di Religione”; se ne sottolineano le potenzialità dell’impiego come “strumento sussidiario” nella scuola.
L’utilizzo nell’ambito scolastico s’inquadra poi in orizzonti più ampi, che negli auspici degli estensori possono interessare ad es.
l’apostolato biblico per la riscoperta della Bibbia come “grande codice”; gli itinerari del Catecumenato degli adulti o di preparazione alla Cresima ed al Matrimonio, quali occasioni di nuova evangelizzazione ove si apportino le dovute mediazioni; la diffusione nel mondo universitario e della pastorale della cultura, per il dialogo e l’introduzione alla conoscenza basilare del cristianesimo; un’offerta credibile di strumento per la ricerca personale, da accompagnare con la elaborazione di qualche forma di ipertesto e di collegamento ad altre fonti ed ad altri linguaggi.
 Implicitamente l’Educazione Religiosa scolastica, richiamata più volte – ora positivamente ora criticamente –  dagli interventi in assemblea e nei gruppi di lavoro, viene chiamata in causa sullo sfondo della ricerca e della prassi del “progetto educativo ecclesiale” e del “progetto culturale”; mentre rimane, a parere di molti, da precisare e ridefinire in termini corretti e adeguati ai segni dei tempi nuovi, la natura della relazione (unità dell’oggetto, finalità, strumenti, ambiti, processo, soggetto, persona del destinatario, laicità e confessionalità…) tra “Catechesi” (“testimonianza”, educazione religiosa-cristiana ecclesiale, familiare, associativa…) e Ir (“disciplina”, pedagogia religiosa scolastica), evolutasi storicamente dalla confusione alla correlazione, alla complementarità nella distinzione, alla integrazione…                 Il piccolo Testo,  propedeutico ad ulteriori approfondimenti (ai quali rinvia la sintetica bibliografia in appendice) e non inteso ad esaurire l’integralità del discorso religioso-cristiano, ma a “suggerire, evocare, attrarre”, si indirizza sia ai credenti aperti a domande sempre nuove, che ai non credenti (“pensanti”) che continuano ad interrogarsi sulla fede, sia a “chi non si sente in ricerca” rispettandone con atteggiamento di “amicizia e simpatia” la libertà e la coscienza.
Accostandosi a tutti coloro che chiedono le “ragioni della speranza”,  con la “dolcezza e rispetto” raccomandati dall’Epistola di Pietro 3,15-16.
Volto perciò a provocare reazioni, suscitare nuove domande, integrazioni e critiche, si ispira dichiaratamente al dinamismo della comunicazione interattiva configurandosi, fin dalla intitolazione inconsueta ai “Cercatori”, nella tensione a nuovi approcci fin dalla scelta d’impronta antropologica della categoria culturale applicata ai destinatari, appartenenti ad un orizzonte molto vasto  tendenzialmente di adulti, rispetto alle formulazioni più classiche di “primo annuncio”, “un mondo che cambia”…   Concepito in tre sezioni:  a partire dal terreno umano-sociale comune del vissuto quotidiano-storico sui grandi perché “che ci uniscono”(p.
I);  per proseguire (p.
II) con la proposta (“testimonianza” e “ragioni della speranza”) essenziale del messaggio cristiano e della risposta di fede, imperniata nella chiave cristologica (volto umano del Mistero e della Presenza), di Dio Trinità e relazione d’amore, fino alla Chiesa quale comunità di fratelli e icona dell’amore trinitario, presentati con il ricorso al linguaggio narrativo; e concludere propositivamente (p.
III) con l’ipotesi di un itinerario sul dove e come, segnato dai “luoghi” (preghiera, ascolto della Parola, sacramenti e vita nuova, servizio e dono di sé, attesa della vita eterna, desiderio della bellezza divina…), per aiutare a passare dalla ricerca alla pienezza dell’incontro “vero” con il “Dio di Gesù Cristo”, in cui l’incontro si pone nel senso dell’ospitalità, dell’ascolto, dello stimolo alla reciprocità, della serietà dell’esperienza di una relazione tra persone.
  Nella sua genesi risulta prodotto da un lavoro collegiale svolto a livello di cooperazione tra episcopato, teologi, pastoralisti, catecheti, esperti della comunicazione,… (e perché non anche di IdR qualificati?).
Il sobrio corredo  delle immagini si presenta di un certo interesse educativo.
Tratto dalle opere artistiche di V.
Vitali, in copertina, S.
Di Stasio e M.
Paladino all’interno, già ricorrenti e sperimentati in altre pubblicazioni ufficiali della CEI (Nuovo Lezionario ecc.), rappresenta il tentativo di contribuire a rinnovare il genere espressivo delle miniature tipiche dei testi religiosi e magisteriali.  Nei capitoli si ripropongono unitamente a rappresentazioni pittoriche significative dell’esperienza umana-religiosa, delle “perle” costituite da brani  biblici, letterari e del pensiero tratte dalla sapienza di autori pure non cristiani (es.
G.
Marcel, E.
Montale, S.
Kierkegaard, insieme a S.
Francesco, S.
Agostino, T.
Bello…), presentati in funzione “ermeneutica” simile a quanto avvertono necessario per la comprensione  e comunicazione del discorso religioso, anche gli educatori religiosi attraverso il ricorso al “documento”.
  Rispetto ad altri Documenti magisteriali e pastorali che iniziano con una ricognizione sulla realtà storico-socio-culturale del nostro tempo, con qualche attenzione alla situazione, contesto, realtà, bisogni, istanze, la Lettera (genere di respiro biblico, originale ed efficace nella comunicazione religiosa e pastorale della Chiesa Italiana) più incisivamente dedica la Prima Parte (la più interessante ed intrigante per l’attività degli IdR) all’ascolto degli interrogativi che attraversano eventi e persone, esperienze di gioia e di limite riconoscibili nella vita di ognuno a livello individuale e collettivo, ed in particolare imperniate sull’esperienze vitali positive di felicità e speranza, apertura al futuro ed alla “Terra promessa” o negative di fragilità, problemi di convivenza giusta e pacifica con la natura e la società… Si viene così a recepire la categoria della “inquietudine”, di agostiniana memoria ed elemento caratterizzante di tanta antropologia e filosofia contemporanea, e dell’”invocazione” come cifra dell’esistenza e del cammino dell’uomo.
Confrontandosi da ultimo e con franchezza (oltre la cd.
“morte di Dio” e il “tramonto del sacro” da un lato e il bisogno di “segni ad ogni costo” e di “riti” di certa spiritualità dall’altro) con la questione capitale della trascendenza “presente nel cuore di molti”: “Dio chi sei per me? E io chi sono per Te?”.
L’importanza di sapere “ascoltare le domande” (tema del XLIII Convegno dell’UCN) che ci rendono tutti “pellegrini e cercatori dell’Altro”, manifestazioni della tensione e riflesso dell’alterità che definisce e costruisce l’identità della persona, fa da guida e da anima dell’intero  percorso del Documento della CEI, memore dell’assunto del pensatore ebraico E.
Jabès, rappresentante del “pensiero nomade” e citato da B.
Forte: “Il mio nome è una domanda, e la mia libertà è nella propensione alle domande”.
Così delineando un profilo essenziale dell’identità umana, che riguarda l’essere prima che l’agire, colto nella sua esistenza di “mendicante del cielo” e di “lottatore” per  riuscire a dare un senso ed una verità alle cose di ogni giorno e della storia.
L’impostazione dialogica, cerca di farsi carico di istanze diffuse nella mentalità corrente e nella cultura, ponendosi il problema di non cadere nel corto circuito dell’affermazione dottrinale e assertiva, nella logica delle risposte semplificatorie e preconfezionate, delle ricette spirituali rassicuranti, sempre incombenti.
Davanti alla problematicità ed al travaglio di coscienza su tante questioni “ultime”, matura la convinzione che la fede non sia “dare risposte già pronte, ma contagiare “l’inquietudine della ricerca”, non risolvere tante possibili oscurità ma aiutare a “portarle ad un Altro e insieme con lui”.
Pur presentandosi nello stile ancora troppo “ecclesiastico” e poco “laico”, da Chiesa “docente” piuttosto che compagna di strada, di certi passaggi ed affermazioni legate a concezioni dottrinali tradizionali, oggi messe a prova dalla discussione della ricerca teologica  (es.
p.
24: “Perché allora, permette il dolore, l’invecchiamento, la morte?”, laddove il verbo “permettere” – sulla questione della teodicea – risente di una concezione improntata ad un’idea assoluta di onnipotenza…), il Testo costituisce  un interessante, anche se incompiuto, paradigma Kerygmatico, in materia del cd.
“primo annuncio” e incontro tra fede e culture.
Mira infatti a farsi carico della interiorità profonda e della sensibilità spirituale di chi  attualmente in  maniera esplicita o implicita avverta l’importanza della ricerca di senso, “laicamente” non si chiuda aprioristicamente all’ipotesi della trascendenza ed all’esperienza del Mistero, rimanendo nella sostanza “cercatori di Dio” e desiderosi di vedere il Suo volto, pur percorrendo le vie religiose differenti offerte nella realtà del villaggio globale.
  Sulla problematica delle “domande”, l’impostazione della ricerca ermeneutica nell’educazione religiosa potrà misurarsi e confrontarsi utilmente, nell’ordine del metodo, del processo psico-pedagogico e della tipologia delle esperienze privilegiate (felicità e dolore, amore e fallimenti, lavoro e festa, sfide della fede), come più rispondenti alla radicale domanda religiosa e dell’orientamento umano verso il mistero, portando il discorso ancora “oltre la domanda di senso e di speranza” , verificando la “ragionevolezza” del “credere”  e le potenzialità della sua elaborazione culturale, pedagogica, didattica.
  A conclusione dell’excursus va ribadito che la Lettera si propone quindi non come punto d’arrivo ma stimolo e strumento per l’inizio di cammini auspicabilmente plurimi, a servizio della vita spirituale nascente (sorta di “aurora”dell’anima) di coloro che sanno aprirsi all’oltre e al nuovo di Dio; o di chi si pone alla ricerca, anche se credente che riconosce di sentirsi “un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere”.
Consapevoli tutti, pastori ed educatori o comunità ecclesiale e civile, che oggi le vere questioni di senso della vita e della storia o di fede non contrappongono “ideologie” né dividono gli uomini in “laici e cattolici” nel modo tradizionale e standard, ma segnano il crinale tra “pensanti e non pensanti”, tra uomini e donne con il coraggio di vivere la fragilità e continuare a cercare per credere, sperare ed amare, e uomini e donne rinunciatari a lottare, rinchiusi nell’”orizzonte penultimo”, incapaci di accendersi di desiderio, speranza e nostalgia dell’Altro.
Verso questi nostri contemporanei, di tutte le età della vita e specie nei confronti delle nuove generazioni, in superficie apparentemente indifferenti, nelle quali suscitare per potere educare la maturazione della “domanda”, l’Educazione Religiosa deve sentirsi empaticamente debitrice di “verità” intesa come significatività umana della fede e nella prospettiva di“carità intellettuale” a servizio della libertà, non come detentrice di “risposte”,  sapendosi fare compagna di viaggio discreta e paziente.
  Giorgio Bellieni