Viaggio all’origine dell’Universo

Nel superacceleratore Lhc del Cern di Ginevra sono riusciti a riprodurre le condizione dell’Universo quando aveva appena 10 milionesimi di secondo; cioè un battito di ciglia dopo il Big Bang, il grande scoppio iniziale da cui tutto ha avuto origine.
«È un autentico record mondiale», spiega Paolo Giubellino, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare alla guida dell’esperimento Alice, «perché mai prima d’ora si erano realizzate condizioni simili».
Si tratta di un plasma formato da gluoni e quark, costituenti di protoni ed elettroni, e l’hanno ottenuto scontrando fra loro 208 nuclei di piombo riuniti in due fasci che correvano l’uno contro l’altro ciascuno con un’energia di 2,75 Tev.
Nell’impatto i nuclei si sono schiantati così violentemente da sbriciolarsi nei loro componenti di base, quark ed elettroni appunto, creando il plasma osservato registrando una temperatura centomila volte superiore a quella esistente nel cuore del nostro Sole.
Questo passaggio i fisici lo chiamano «transizione di fase»; un processo analogo a quello che possiamo realizzare anche noi quando mettiamo l’acqua nel freezer per formare i cubetti ghiaccio.
L’ESPERIMENTO – «In passato si era prodotto qualcosa di simile nei laboratori americani di Brookhaven», precisa Giubellino, «ma l’energia da noi raggiunta è stata 14 volte superiore la loro e ciò è determinante perché consente di riprodurre e di conseguenza vedere più in dettaglio quel mondo primordiale che vogliamo indagare per comprendere le fasi iniziali della nascita del cosmo».
Le prime immagini dovrebbero essere diffuse lunedì assieme ai comunicati ufficiali dopo una seconda notte di test compiuti in modo più completo con tutti i rilevatori in funzione.
E si continuerà così per altre quattro settimane raccogliendo dati che saranno analizzati approfonditamente nei mesi prossimi.
Ma intanto il risultato è stato conquistato ed è quello che volevano gli scienziati impegnati con Alice, che è uno dei quattro esperimenti installati nell’anello sotterraneo di 27 chilometri a cavallo del confine franco-svizzero e che forma l’acceleratore Lhc.
Anche gli altri due esperimenti Atlas e Cms hanno ricavato le stesse informazioni, ma per loro l’obiettivo è diverso dovendo arrivare alla stessa meta scontrando fra loro solo protoni.
E poi giungere all’identificazione del bosone di Higgs, vale a dire la famosa «particella di Dio».
<a href=”http://oas.rcsadv.it/5c/corriere.it/scienze/L19/1142319844/Bottom1/RCS/CONSUME15_COR_ALL_RCT_081110/CONSUME15_COR_ALL_RCT_081110.html/57574878776b734367486f4144443873?http://clk.atdmt.com/MII/go/271700617/direct/01/1142319844″ target=”_blank”><img border=”0″ src=”http://view.atdmt.com/MII/view/271700617/direct/01/1142319844″ /></a> OBIETTIVO – «Il nostro obiettivo, invece», nota Paolo Giubellino, «è un altro.
Alice è stato concepito e costruito proprio per riprodurre e studiare le proprietà della materia nello stato in cui si trovata immediatamente dopo il big bang».
Al Cern si lavora a ritmi sostenuti prima di doverlo spegnere per interventi di sistemazione.
«Ma gli ultimi passi compiuti già ci proiettano», sottolinea Sergio Bertolucci, direttore delle ricerche al centro ginevrino, «in una eccitante nuova frontiera».

lo scultore giapponese Etsuro Sotoo che lavora alla Sagrada Familia

L’intervista “Ho iniziato a guardare Gaudí per imparare ad essere uno scultore, finché ho capito che per raggiungerlo dovevo guardare dove guardava lui” spiega Etsuro Sotoo, lo scultore giapponese che dal 1978 lavora alla Sagrada Familia.
Ha completato la facciata della Natività, l’unica costruita in vita dall’artista e, guardando dove guardava il maestro, ha abbracciato la fede cattolica.
Questa intervista per “L’Osservatore Romano” ci permette di conoscere dalla voce di uno dei suoi protagonisti, la vita di questo tempio in costruzione, gioiello dell’architettura mondiale ed espressione preziosa della fede nel terzo millennio.
 Come è arrivato alla  Sagrada  Familia? Nel 1977, appena laureato in Belle Arti dall’università di Kyoto, insegnavo arte in sei scuole di Osaka e Kyoto.
Costretto a spostarmi da un posto all’altro, non avevo tempo per la scultura.
Un giorno, mentre stavo mangiando un panino in macchina fermo ad un semaforo, ho visto un operaio che montava sul cordolo del marciapiede dei pezzi di pietra.
Quell’episodio è stato un capovolgimento nella mia vita; sentivo una chiamata particolare dalla pietra, che mi rubava l’anima e mi costringeva a cambiare direzione.
Qualunque oggetto in pietra mi attirava.
Ho deciso di lasciare l’insegnamento e di cercare un luogo dove dominasse una “cultura scolpita nella pietra”.
Andai in Europa.
Quando sono arrivato a Barcellona e ho visto la Sagrada Familia per la prima volta mi ha fortemente attratto.
Volevo lavorare in quel posto! L’allora direttore dei lavori, Isidre Puig Boada, mi ha fatto fare una prova e mi hanno assunto.
Desideravo conoscere a fondo quel maestro dell’architettura che lavorava la pietra in modo così affascinante.
Come è cresciuta questa conoscenza lungo questi 32 anni? Ho conosciuto poco a poco Gaudí realizzando sculture, cercando, chiedendomi il significato delle cose.
Il primo lavoro che feci fu il coronamento delle mura dell’abside, i pinnacoli.
Dovevo costruire una ringhiera di foglie.
Secondo i miei calcoli, il muro avrebbe dovuto avere lo spessore di un centimetro, che a me sembrava troppo poco.
Ho dovuto affrontare due problemi:  una struttura così sottile era troppo debole e dovevo decidere dove collocare le foglie.
Avevo appena iniziato ed ero totalmente inesperto sul senso del simbolismo.
Osservando i pinnacoli fatti in vita da Gaudí trovai la soluzione:  collocare le foglie nei punti deboli della struttura, in modo che venisse rinforzata.
Questo fu il mio primo incontro con lui, perché Gaudí sempre cercava un’unica soluzione a diversi problemi, sintetizzando in una forma la struttura, il simbolismo e la funzione.
Con l’espressione estetica dei frutti e delle foglie ci parla di come la Parola di Dio accompagna la storia degli uomini:  i frutti nascono grazie alla luce del sole che arriva alle foglie di ogni pianta.
Più tardi ha scolpito gli scudi che sorreggono i finestroni.
Gaudí volle raffigurare in queste pietre le iniziali JMJ (Jesús, María, José).
Come ha impostato la loro realizzazione? Non esistevano disegni di questi scudi, ho dovuto inventarli.
Per esempio, per lo scudo dedicato alla carpenteria ho deciso di rappresentare gli arnesi, ma disordinati, con i trucioli.
 Volevo  riflettere  l’ambiente  reale  di  ogni  mestiere,  qual- cosa di vivo.
Questo l’ho imparato da Gaudí:  non inventava niente, usava modelli esistenti e cercava sempre di plasmare un momento della vita.
Nel 1980 Puig Boada le chiese di restaurare il Portale del Rosario, distrutto nel 1936, durante la guerra civile.
È l’unico portale di accesso al chiostro che l’architetto fece in vita:  con esso voleva indicare come dovevano essere gli altri.
Come ha affrontato questo compito? Presiedono il portale l’immagine della Madonna con Gesù Bambino in braccio e le immagini di santa Caterina da Siena e di san Domenico di Guzman ai lati.
Il Portale del Rosario è anche conosciuto come “la cappella delle tentazioni”, poiché a destra e sinistra sono rappresentate le tentazioni del potere e del denaro.
Sulla destra del Portale, guardando verso l’immagine della Madonna, Gaudí collocò la scultura di un anarchico, simbolo della tentazione del potere.
Dietro di lui, un lucertolone con la bocca aperta, raffigurante il demonio, lo induce alla violenza.
Ho dovuto rifarla perché era distrutta.
Gaudí ci invita – è uno dei suoi “testamenti” – a porci delle domande sul bene e sul male.
Mi sono chiesto il perché di quella figura ed ho immaginato una storia.
Il demonio gli dice:  “Tu lavori più di dieci ore al giorno e non riesci a mangiare, ma c’è gente che senza lavorare, mangia e vive bene.
Non è giusto! Prendi questa bomba e distruggi questo mondo per costruirne un altro”.
È la tentazione di voler cambiare la società usando la violenza.
Gaudí ha sofferto su di sé le conseguenze di questa violenza, poiché la donna che amava è morta al Teatro del Liceu di Barcellona a causa di una bomba.
Rappresentò la tentazione di conquistare il potere con la violenza in questa piccola scultura, senza rancore, senza odio.
Il lavoratore tocca la bomba soltanto con il mignolo e guarda verso la Madonna come se si chiedesse “faccio bene o faccio male?”.
Gaudí ci rende coscienti del fatto che la nostra libertà decide.
Di fronte a tutte le tentazioni c’è una possibilità più umana, che ci salva dalla tentazione:  l’umiltà è lo scudo più forte.
 Nel 1983 Puig Boada le chiese di realizzare la sua prima scultura per la facciata della Natività (per mancanza di fondi, solo una):  la figura di un angelo intento a suonare uno strumento.
Poi le affidarono anche le sculture dei bambini del coro, che completano la Facciata della Natività.
Era un compito difficile perché mancavano i dati di riferimento, neppure era chiaro il numero dei bambini da collocare.
Nelle fotografie che ho trovato non c’era nessun gruppo completo.
Ho deciso di farne nove perché nella facciata della Natività tutto gira intorno alla Sacra Famiglia, tre persone; quindi le figure che li lodano e li adorano dovevano essere multipli di tre:  sei angeli che suonano strumenti musicali, nove angeli che cantano il Gloria in excelsis Deo e così via.
Quando avevo finito l’opera ed era già stata collocata, nell’ultimo Natale del ventesimo secolo, sono state ritrovate delle fotografie (appartenenti all’architetto Sugrañes, discepolo di Gaudí) di modelli completi di questi bambini del coro.
Erano nove! La mia intuizione, cercando di seguirlo, si è rivelata giusta.
Una volta individuato il numero delle figure, ciò che ho curato di più nella rappresentazione di questi bambini è stata la naturalità e la vita, che i bambini esprimono più di tutti, perché non fingono, sono spontanei.
Se vogliono cantare, cantano.
Ho immaginato che in quel momento uno dei bambini avesse voglia di accarezzare Gesù Bambino e l’ho rappresentato cercando di scendere verso il Bambino, cantando.
Una bambina più grande lo prende dalla spalla; anche lei continua a cantare, ma ha l’aria di dirgli:  “Non scendere”.
Le figure hanno movimento, sorridono.
Attraverso Gaudí è arrivato al “Maestro interiore”.
Lavorando alla Sagrada Familia ho iniziato a sentire un profondo bisogno di conoscere il senso del simbolismo cattolico che mi trasmetteva, poiché le sue idee architettoniche nascono dalla sua fede.
Con un amico architetto, José Manuel Almuzara, abbiamo iniziato ad incontrarci assiduamente per studiare i suoi insegnamenti attraverso la sua opera, il simbolismo delle sue forme e figure, leggendo attentamente sia i testi biblici sia i commenti ed i testi dei collaboratori.
Durante un viaggio in aereo ho notato una donna con un bambino in braccio e mi sono commosso vedendo l’amore con cui lo curava.
Ho pensato:  “Se questo è l’amore umano, cosa non sarà l’amore divino?”.
Fu la spinta di cui avevo bisogno:  volevo ricevere il Battesimo per essere partecipe di questo amore.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2010)

Quattro priorità per la scuola del XXI secolo

l 4 e 5 novembre 2010 si è svolta a Parigi la riunione dei ministri dell’educazione dei 33 Paesi attualmente membri dell’OCSE, cui hanno partecipato anche rappresentanti di altri Stati (tra cui la Russia) candidati a far parte della prestigiosa organizzazione intergovernativa creata nel 1947 per promuovere la cooperazione e lo sviluppo economico tra le nazioni industrialmente più avanzate.
“Investing in Human and Social Capital: New Challenges” era il tema dell’incontro, i cui esiti sono stati riassunti in un breve documento predisposto dalla presidenza a tre (Austria, Messico, Nuova Zelanda) ma ovviamente, come sempre accade in riunioni del genere, concordato con tutte le rappresentanze nazionali.
I temi discussi corrispondono alle quattro priorità individuate: fronteggiare gli effetti della crisi sui sistemi educativi; adeguare le competenze lavorative ai nuovi bisogni; formare insegnanti preparati per il XXI secolo; rafforzare le positive ricadute sociali dello sviluppo dei sistemi educativi.
Sul primo punto l’accento è caduto sulla prevenzione della dispersione, un obiettivo che va raggiunto non tanto aumentando la spesa quanto concentrando i piani di studio sulle competenze chiave e rendendo più efficaci i metodi di insegnamento e i sistemi di valutazione.
Sul secondo punto si è insistito sulla necessità di prevedere per tempo e anticipare i fabbisogni di nuove competenze adeguando tempestivamente i contenuti dei curricoli.
Sulla formazione di buoni insegnanti molti Paesi hanno evidenziato l’ostacolo costituito dalla più difficile educabilità dei giovani di oggi, accompagnata dal declino del prestigio sociale dei docenti.
Problemi che l’OCSE suggerisce di fronteggiare migliorando la formazione iniziale (essenziale il tirocinio) ma soprattutto incrementando le opportunità di carriera dei docenti.
Quanto alle ricadute sociali del miglioramento dei sistemi educativi, che l’OCSE da tempo considera assai importanti (più produttività, minore criminalità, maggiore partecipazione e impegno politico, più tolleranza e così via), il documento insiste sulla necessità di sistemi più inclusivi e che offrano reali opportunità a tutti.
Da questo punto di vista, conclude l’OCSE, non basta rafforzare le competenze di base (Literacy and foundation skills).
Occorre valorizzare anche le competenze a carattere non cognitivo (non-cognitive skills) come la creatività, il pensiero critico, il problem solving e la capacità di lavorare in gruppo: competenze importanti sia per lo sviluppo economico che il buon funzionamento delle società.
tuttoscuola.com

Intervista a Dionigi Tettamanzi: L´immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società.

L’intervista «L´Italia di oggi è malata, come lo era Milano ai tempi di San Carlo e della peste.
Ogni giorno leggendo i giornali si è portati a pensare che si stia sprofondando sempre più in basso.
L´immoralità è dilagante, a tutti i livelli della società.
Purtroppo, è diffusa l´idea che la vita debba essere per forza spensierata e allegra e talvolta si finisce per stordirsi sino all´ebbrezza.
L´opinione pubblica sembra distratta da frivolezze, non avvertendo la gravità del momento.
Ho però la speranza che prima o poi la nostra società trovi la forza di reagire e di rinnovarsi».
Non si preoccupa di celare l´amarezza, il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, alla vigilia della messa in Duomo nella solennità di San Carlo Borromeo, in occasione della quale leggerà una lettera di papa Benedetto XVI.
Ed è proprio pensando a quelle che definisce le «miserie dell´attualità» che il porporato decide di sottolineare l´attualità dell´esempio di San Carlo, il grande teorico del rigore nella società e moralizzatore dei costumi.
Eminenza, che cosa pensa di quel che si legge in questi giorni sulle vicende private del presidente del Consiglio? «Il problema non è quello che provo io, in questo clima di insipienza diffusa.
Il problema più grave lo vivono i genitori che devono spiegare che cosa sta succedendo ai propri figli, alle figlie che hanno la stessa età di quelle che si vedono in foto sui quotidiani in questi giorni.
Di fronte a questo scadimento dei costumi bisognerebbe occuparsi di quel che filtra nel quotidiano delle persone, bisognerebbe dare voce al grave disagio che vive una società bombardata da messaggi distraenti e edonistici, in cui tutto si misura solo sulla base del divertimento, dello scherzo greve.
Panem et circenses, si diceva ai tempi dei Romani».
Che cosa pensa che recepisca la gente? «Si parla tanto di valori, si brandisce questa parola come un programma e uno scudo.
Ma poi ci si comporta ispirandosi a principi molto diversi, si contribuisce a diffondere modelli educativi vuoti e pericolosi, soprattutto per le nuove generazioni».
Allude a chi in pubblico parla del valore della famiglia e poi in privato ha altre priorità? «Non si deve scindere mai l´aspetto privato da quello pubblico.
Soprattutto quando si hanno particolari responsabilità, in ogni ambito, il privato e il pubblico coincidono.
E bisogna comportarsi in modo coerente con quel che si dice.
Spesso alcuni mi dicono che mi dovrei interessare solo delle anime, ma sono convinto che devo occuparmi della persona nella sua integralità: anima e corpo insieme.
E che quando si parla di valori, bisogna anche impegnarsi a creare le condizioni necessarie per realizzarli, altrimenti il discorso è inutile se non controproducente».
In questa situazione lei pubblica un libro dedicato a San Carlo («Dalla tua mano», Rizzoli).
Non le sembra una figura “inattuale” da proporre alla società di oggi? «Me lo sono chiesto anch´io.
Penso però che San Carlo sia quanto mai attuale, non solo perché proponeva uno stile di vita fortemente evangelico e umanizzante, ma perché la sua figura oggi ci inquieta, ci chiede di non accontentarci di quel che appare di facile conquista, di quel che viene comunemente accettato dalla società.
Lui ci sprona ad essere presi dall´ansia del bene e del vero, per contagiare anche gli altri».
Lei ha parlato «dell´immoralità e disonestà che lacera la vicenda umana».
«La convivenza civile è minata dalla ricerca del successo a tutti i costi, è manipolata per strapparne il consenso, è tradita quando non è aiutata a cercare il bene comune.
Bisogna amare instancabilmente, perdonando, donando tutto di sé, preferendo i poveri e gli ultimi.
Il Borromeo attraversava la città ferita dalla peste, stava in mezzo alla gente, specie se povera e provata, non per essere populista, per guadagnare consenso e plauso, ma per vivere relazioni autentiche».
La Chiesa dà voce al disagio per la situazione politica italiana.
Ma il vostro allarme non viene recepito.
Lei stesso è stato spesso attaccato per le sue posizioni.
Non si sente isolato? «L´unico criterio per me è il Vangelo e la fedeltà ad esso.
Anche quando è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare, anche quando la fedeltà relega a posizioni di minoranza o porta ad incomprensioni o irrisioni.
Anche San Carlo diceva cose “inattuali” al suo tempo.
Oggi viviamo una frazione di storia nella quale ci pare di essere al colmo del male, dove il bene non si vede e non riesce a crescere, a contagiare, a rinnovare.
Ma penso che avere uno sguardo più ampio e profondo possa esserci di grande aiuto.
Quel che ora non fruttifica domani può germogliare».
in “la Repubblica” del 4 novembre 2010

Da Berlinguer a Gelmini. La scuola che (non) cambia.

Esce oggi, pubblicato da Tuttoscuola, un volume di Orazio Niceforo dedicato all’analisi delle vicende della politica scolastica dal 1996 al 2010, intitolato Da Berlinguer a Gelmini.
La scuola che (non) cambia.
L’opera, corredata di schede e grafici, passa in rassegna l’attività dei sette governi, con cinque diversi ministri dell’istruzione, succedutisi a partire dal primo governo Prodi del 1996 per arrivare alla riforma dell’istruzione secondaria attuata dal ministro Gelmini (settembre 2010).
Il volume, oltre a ricostruire la storia della scuola italiana nel periodo considerato, offre una chiave interpretativa delle difficoltà  e delle resistenze che hanno finora bloccato le riforme della scuola sia con i governi di centro-sinistra che con quelli di centro-destra, espressione di schieramenti alternatisi alla guida del Paese per circa sette anni ciascuno.    Niceforo, redattore di Tuttoscuola e docente di ‘Sistemi scolastici contemporanei’ presso l’università di Roma – Tor Vergata, ha dedicato alla politica scolastica italiana numerosi articoli, saggi e volumi.
Il libro può essere acquistato, al prezzo di 13 euro, direttamente presso l’Editoriale Tuttoscuola, in via della Scrofa 39 – 00186 Roma, oppure chiedendone l’invio a domicilio, (attraverso questo buono d’ordine) con addebito delle spese postali, oppure ancora ordinandolo tramite il sito di Tuttoscuola www.tuttoscuola.com (a questo indirizzo).
Per informazioni telefonare al n.
06.68307851.

Islam e cristiani un dialogo è possibile

Dalle folcloristiche provocazioni del colonnello Gheddafi riguardo all'”ineludibile” conversione dell’Europa all’Islam, alle continue, deliranti dichiarazioni di al-Qaeda, fino agli eventi legati alle commemorazioni dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, si è parlato molto di Islam e Cristianesimo in queste settimane.
Il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, che si è concluso ieri in Vaticano, ne ha fatto oggetto di una necessaria riflessione, focalizzando l’attenzione piuttosto sul rapporto concreto fra le due fedi e i credenti che vi si riconoscono.
Il dibattito sulle politiche di integrazione, accesosi dopo le dichiarazioni della cancelliera Merkel, ha poi mostrato come non si tratti di discussioni accademiche, ma di problemi che ci riguardano tutti.
C’è chi fa previsioni apocalittiche di prossimi e sempre più duri “scontri di civiltà”, c’è chi sembra rassegnato a un preteso, inevitabile “declino” della cultura segnata dal Cristianesimo di fronte all’avanzata numerica del mondo musulmano, che non conosce la denatalità propria delle società economicamente avanzate.
E c’è chi, come i padri sinodali, fa riferimento al laboratorio vivente dei luoghi in cui – spesso da quattordici secoli – cristiani e musulmani convivono, fra amicizia e intolleranza, convivenza pacifica e sfida dell’integralismo.
La molteplicità degli approcci alla questione mostra da sé come essa non sia né semplice, né scontata nei risultati.
Ciò che soprattutto differenzia le società islamiche dalla cultura europea è il forte senso dell’appartenenza, aspetto qualificante dell’Islam: la “umma” – comunità, nazione, etnia – è il grembo materno della vita di chi riconosce in Maometto il profeta del Dio unico (non a caso la radice del termine è la stessa della parola “umm”, madre).
Alla ritualità della “umma” il musulmano partecipa con naturalezza, dai momenti di preghiera quotidiana pubblica alla celebrazione del “ramadan”, il mese del digiuno diurno, al pellegrinaggio alla Mecca.
Il senso di massificazione” che alcuni di questi rituali danno a una sensibilità plasmata dalla cultura occidentale del soggetto, è del tutto estraneo alle culture dei paesi musulmani.
Al di là della facile critica dell’illuminista di turno, che vede in queste forme una semplice abdicazione alla libertà e all’originalità della coscienza individuale, c’è un fascino dell’appartenenza forte che non va banalizzato (si pensi solo ai fenomeni di massa così determinanti nella storia del nostro Novecento e alla geniale analisi ad essi dedicata da Elias Canetti in Massa e potere).
Proprio alla luce di questa complessità, l’approccio dei padri sinodali mi appare illuminante: in primo luogo, esso si rifà alle indicazioni del Concilio vaticano II, secondo cui «la Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini.
Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale la fede islamica volentieri si riferisce…
Così pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno» (dichiarazione Nostra Aetate, n.
3).
Diverse voci al Sinodo non hanno, tuttavia, nascosto le difficoltà reali che incontra la minoranza cristiana nei paesi islamici: costrizioni, limiti alla libertà di coscienza e di esercizio della propria fede in Cristo, atti di violenza e di intimidazione.
«A partire dagli anni Settanta, constatiamo l’avanzata dell’Islam politico, che comprende diverse correnti religiose.
Esso colpisce la situazione dei cristiani, soprattutto nel mondo arabo.
Vuole imporre un modello di vita islamico a tutti i cittadini, a volte con la violenza.
Costituisce  dunque una minaccia per tutti, e noi dobbiamo, insieme, affrontare queste correnti estremiste» (patriarca copto di Alessandria d’Egitto, Antonios Naguib, Relatio post disceptationem al Sinodo).
Innegabili sono le distanze fra alcune conquiste della civiltà europea e l’esistenza quotidiana nelle società a maggioranza islamica: esse riguardano l’identità dell’uomo, la condizione femminile, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità, concetto tanto centrale, quanto complesso nelle applicazioni.
Di fronte a queste sfide la linea d’azione proposta al Sinodo è anzitutto quella del dialogo della vita, «che offre l’esempio di una testimonianza silenziosa eloquente e che è talvolta l’unico mezzo per proclamare il Regno di Dio…
Nel dialogo sono importanti l’incontro, l’accoglienza della differenza altrui, la gratuità, la fiducia, la comprensione reciproca, la riconciliazione, la pace e l’amore…
Il dialogo è la strada della non violenza.
L’amore è più necessario ed efficace delle discussioni.
Non bisogna discutere con i musulmani, ma amarli, sperando di suscitare nel loro cuore la reciprocità.
Prima di scontrarci su ciò che ci separa troviamoci su ciò che ci unisce soprattutto per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore» (ib.).
Trasponendo queste indicazioni nel contesto della cultura occidentale, e in particolare europea, non si può far a meno di osservare come esse siano in sintonia con le sue grandi radici: da una parte i valori della democrazia, con l’attenzione fondante ad ascoltare le ragioni dell’altro, come mostra il ruolo del teatro e della tragedia nell’antica Atene, dall’altra le conquiste rappresentate dal diritto romano e dall’incommensurabil e patrimonio di civiltà connesso all’idea di persona e della sua dignità assoluta, maturata all’interno dell’eredità ebraico-cristiana.
Proprio questa sintonia fra scelta della via del dialogo e anima profonda della identità europea – nonostante tutte le smentite della storia – mostra come non sarà facile integrare l’idea islamica di appartenenza con la nostra civiltà.
E poiché l’apporto dato all’Europa  dalla radice ebraica è innegabile, inseparabile com’è dall’influenza del “grande Codice” che è la Bibbia, si comprende come sia proprio il Medio Oriente la cartina da tornasole del futuro destino dell’incontro.
Costruire lì una giusta pace attraverso la via del dialogo, della giustizia e della riconciliazione, specie nel conflitto israelo-palestinese, vuol dire porre le basi per una convivenza pacifica per tutti nell’epoca del villaggio globale.
Anche così il nostro domani si costruisce nella città «dove tutti siamo nati» (Salmo 87): Gerusalemme.
in “Il Sole 24 Ore” del 24 ottobre 2010

intervista a Jean-Louis Tauran: “Nessuno scandalo dirsi la verità aiuta il confronto”

«E dove è la novità? Da sempre si sa che nel Corano è prevista anche l’uccisione di cristiani con la spada.
Il vescovo Raboula Antoine Beylouni lo ha semplicemente ricordato senza tradire nessuna verità.
Non sono questi i motivi che mettono a rischio i rapporti cristiano-islamici».
Il cardinale francese Jean-Louis Tauran (67 anni), presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, non sembra preoccupato che nel Sinodo si sia ricordato che è lo stesso libro sacro dei musulmani a prevedere l’eliminazione dei cristiani.
«Purtroppo è così e se si fa finta di niente si fa un cattivo servizio alla verità storica», puntualizza il porporato che in Vaticano, dopo il Papa, è la massima autorità sull’Islam.
Cardinale Tauran, ma lei non teme che il dialogo con l’Islam ora sia più difficile? «No.
Chi conosce il Corano sa che in quelle pagine c’è veramente scritto che i cristiani possono essere uccisi.
Basta semplicemente leggere il testo sacro ai musulmani.
Per questo non penso che il dialogo con l’Islam possa essere compromesso da quanto è stato ribadito al Sinodo.
Non è la conoscenza della verità che può mettere in crisi i rapporti tra fedeli di religioni diverse».
Eppure, quando Benedetto XVI nel 2006 in Germania toccò gli stessi argomenti i musulmani si sentirono offesi e fu costretto a chiedere scusa.
«Sono due vicende diverse.
A Ratisbona il Santo Padre fu vittima di un colossale equivoco amplificato dai lanci di agenzie stampa che si limitarono a diffondere solo brevi stralci della sua lectio magistralis.
Equivoco prontamente chiarito dallo stesso Santo Padre, come in seguito hanno preso atto tanti leader musulmani ricevuti in Vaticano o incontrati durante i viaggi apostolici.
Altra cosa è l’intervento di monsignor Beylouni al Sinodo, dove il presule ha semplicemente ricordato quanto realmente è scritto nel Corano».
Lei non crede che rilanciando verità storiche tanto scomode il dialogo tra cristiani e musulmani si complichi a vantaggio di estremisti e fanatici? «Mi rendo conto che toccare certi argomenti a volte può far male.
Ma se si vuole veramente promuovere il dialogo interreligioso le verità, anche quelle scomode, non vanno nascoste.
L’importante è conoscersi e dialogare.
La vera sfida è un’altra: quanti in Medio Oriente hanno saputo che al Sinodo sono intervenuti un sunnita e uno sciita? E chi è a conoscenza degli sforzi comuni che leader cristiani e musulmani fanno in difesa della vita? La vera sfida è far conoscere alle masse islamiche tutti questi piccoli importanti passi.
Solo così il dialogo potrà crescere e fruttificare».
in “la Repubblica” del 23 ottobre 2010

Cristiani nel Medio Oriente

Il sinodo speciale per il Medio Oriente che è in corso da dieci giorni in Vaticano getta luce su una porzione di cristianità in drammatico movimento, in più direzioni e dal futuro incerto.
L’esodo dei cristiani da quelle terre è una parte importante di questo movimento.
Ma non è un fenomeno nuovo.
Nella prima metà del Novecento lo sterminio e la cacciata degli armeni, e poi dei greci, dalla Turchia furono di colossali proporzioni.
Oggi l’esodo continua da più luoghi e in varia misura.
Sta di fatto che a fronte dei dodici milioni di fedeli delle antiche Chiese d’Oriente che oggi vivono tra l’Egitto e l’Iran, circa sette milioni vivono ormai fuori.
Gli armeni sono da molti decenni più numerosi nella diaspora che nella terra d’origine.
I maroniti libanesi hanno diocesi di loro emigrati negli Stati Uniti, in Canada, Messico, Brasile, Argentina, Australia.
I siro ortodossi hanno una eparchia in Svezia.
Gli iracheni hanno creato una “Chaldean Town” nell’area metropolitana di Detroit.
I cristiani di Betlemme emigrano per la gran parte in Cile.
Contemporaneamente, però, è in atto nel Medio Oriente anche un movimento inverso.
Nella sola penisola arabica – stando a quanto hanno detto in sinodo i due vicari apostolici della regione, Paul Hinder e Camillo Ballin – i cattolici venuti da fuori in cerca di lavoro sono già tre milioni, per la maggior parte dalle Filippine e dall’India.
I paesi arabi del Golfo “hanno grande bisogno di manodopera”, ha spiegato il vescovo indiano di rito siro-malabarese Bosco Puthur, dalla cui regione sono partiti in 430 mila.
Ma l’avventura di questi emigranti è molto amara, se misurata sulle libertà religiose e civili.
L’arcivescovo di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel, ha detto che le migliaia di donne che partono ogni anno dall’Etiopia per il Medio Oriente, come lavoratrici domestiche, per ottenere i visti d’ingresso “cambiano i loro nomi cristiani in nomi musulmani e si vestono come musulmane, così indirettamente forzate a rinnegare le loro radici”, e in ogni caso vanno incontro a una vita di “sfruttamento e abusi”.
Nel descrivere la condizione in cui vivono i cristiani nei paesi musulmani del Medio Oriente i vescovi hanno usato parole comprensibilmente prudenti.
Con poche eccezioni.
Uno dei più crudi è stato il rappresentante in Giordania del patriarcato dei caldei iracheni.
Ha detto che c’è “una deliberata campagna per cacciare i cristiani.
Ci sono piani satanici dei gruppi fondamentalisti estremisti contro i cristiani non solo in Iraq ma in tutto il Medio Oriente”.
L’iraniano Thomas Meram, arcivescovo di Urmya del Caldei, non ha esitato a citare il salmo di Davide: “Per te ogni giorno veniamo massacrati”.
E ha proseguito: “Ogni giorno i cristiani si sentono dire, dagli altoparlanti, dalla televisione, dai giornali, che sono infedeli e per questo vengono trattati come cittadini di seconda categoria”.
Tutto l’opposto di quanto ha asserito in aula lo stesso giorno, giovedì 14 ottobre, l’ayatollah iraniano Seyed Mostafa Mohaghegh Ahmadabadi, ospite del sinodo, secondo il quale “in molti paesi islamici, soprattutto in Iran, i cristiani vivono fianco a fianco in pace con i loro fratelli musulmani.
Essi godono di tutti i diritti legali come ogni altro cittadino ed esercitano liberamente le proprie pratiche religiose”.
Ma il sinodo è più che una semplice ricognizione sullo stato di vita dei cristiani nel Medio Oriente.
Dal dibattito sono emersi giudizi critici sulla Chiesa cattolica in quei paesi e proposte di cambiamento.
CRISTIANI DIVISI Un primo giudizio critico riguarda la disunione della Chiesa cattolica nel Medio Oriente.
Le cinque grandi tradizioni a cui essa si richiama – alessandrina, antiochena, armena, caldea, bizantina – e gli ancor più numerosi riti in cui si articola producono spesso divisione, incomprensioni e chiusure, invece che arricchimento reciproco.
“Una Chiesa etnica e nazionalistica si oppone all’opera dello Spirito Santo”, ha ammonito l’arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou.
E ne aveva i motivi.
Il vescovo egiziano di Assiut dei copti, Kyrillos William, si è scagliato in aula contro i confratelli di rito latino poiché, celebrando anch’essi in arabo le loro liturgie, “attirano i nostri fedeli e li distaccano dalla nostra Chiesa”.
Anche il vescovo dei greco-melchiti d’Australia, Issam John Darwich, ha lamentato la “crescente intolleranza fra le Chiese cattoliche orientali”.
E ha portato ad esempio “la triste situazione del Libano, dove ogni Chiesa sembra essere interessata a ottenere benefici politici per se stessa e più delle altre Chiese”.
In effetti il Libano è sì un paese nel quale i cristiani godono di libertà maggiori che in altri paesi del Medio Oriente, ma è anche quello così descritto in sinodo da un suo vescovo greco-melchita, Georges Nicolas Haddad: “La libertà di religione e di coscienza resta appannaggio delle 18 comunità storicamente riconosciute (12 cristiane, 4 musulmane, una drusa e una ebrea).
Chiunque non ne faccia parte è escluso da ogni diritto all’esercizio delle sue libertà.
Ogni tentativo caratterizzato da un proselitismo da parte dell’una o dell’altra comunità può provocare reazioni estreme e talvolta violente.
Ogni conversione è percepita come un colpo profondo inferto alla comunità d’origine del convertito e costituisce una rottura sociale”.
Muhammad Al-Sammak, consigliere del Gran Mufti del Libano e altra personalità musulmana invitata a parlare nel sinodo, non ha detto molto di diverso quando ha dichiarato – in aula – che “la presenza cristiana in Oriente è una necessità sia cristiana che islamica” e – fuori dall’aula, in una conferenza stampa – che “il credere è materia di coscienza ma quando il cambiare religione è anche cambiare ‘parte’ diventa un atto di tradimento dello stato e così deve essere trattato”.
Su questo sfondo, numerose voci si sono levate nel sinodo per raccomandare più unità tra le Chiese cattoliche della regione, e tra queste e le Chiese ortodosse e le confessioni protestanti.
In particolare, si è proposto di concordare al più presto una data comune per la celebrazione della Pasqua.
Alcuni hanno esortato al dialogo con i musulmani “illuminati”, disposti a una “lettura critica del Corano” e a una “interpretazione delle leggi musulmane nel loro contesto storico”.
PIÙ POTERI AI PATRIARCHI Una seconda serie di proposte ha riguardato la cura pastorale dei fedeli delle Chiese cattoliche del Medio Oriente emigrati all’estero, il ruolo dei patriarcati e il loro rapporto con la sede di Roma.
Di norma, i patriarchi e i vescovi hanno giurisdizione sui rispettivi territori, non sui fedeli emigrati in paesi lontani.
Ma in alcuni casi questi ultimi sono ormai più numerosi dei fedeli rimasti in patria.
E se lasciati senza cura, tendono ad abbandonare le tradizioni delle loro Chiese d’origine.
Parecchie voci, nel sinodo, hanno quindi chiesto di dare autorità ai patriarchi e ai vescovi sull’intero gregge dei loro fedeli, dovunque essi siano, in patria e all’estero.
Assieme a questa richiesta, alcuni hanno anche rivendicato la libertà di inviare dei sacerdoti sposati per la cura pastorale dei fedeli orientali in diaspora.
In Occidente, infatti, dove il clero è celibe, non è consentita la presenza con incarichi pastorali di sacerdoti orientali sposati.
Ma aumentando il numero degli emigrati ed essendo il basso clero delle Chiese orientali quasi tutto sposato, è sempre più difficile per i patriarchi e i vescovi orientali trovare dei sacerdoti celibi da inviare all’estero per la cura dei loro fedeli.
Da cui la richiesta di far cadere il divieto.
Quanto al ruolo dei patriarcati, è affiorata più volte nel sinodo la richiesta di “restituire” loro l’autorità che avevano nei primi secoli della Chiesa, in rapporto al papa.
In particolare dando loro più autonomia nel nominare i vescovi del luogo.
E anche associandoli “ipso facto” al collegio che elegge il sommo pontefice, “senza la necessità di ricevere il titolo latino di cardinali”.
Insomma, assegnando al papa “una nuova forma di esercizio del primato ispirata alle forme ecclesiali del primo millennio”, con il ruolo dei patriarchi rafforzato.
Tutto questo anche al fine di avvicinare le posizioni della Chiesa cattolica a quelle delle Chiese ortodosse d’Oriente.
IN MISSIONE TRA I MUSULMANI Un terzo blocco di proposte ha riguardato la “necessità di ricuperare l’aspetto missionario della Chiesa”.
Una proposta nuova e coraggiosa in paesi a dominante musulmana, da parte di Chiese che per ragioni storiche e per motivi di sopravvivenza si sono in larga misura chiuse su se stesse.
Il vescovo egiziano di Luqsor dei copti, Youhannes Zakaria, ha detto che nonostante le difficoltà e i pericoli “la nostra Chiesa non deve avere paura né vergogna, e non deve esitare a obbedire al mandato del Signore, che le chiede di continuare la predicazione del Vangelo”.
E l’arcivescovo iraniano di Teheran dei caldei, Ramzi Garmou, è andato ancora più al fondo di questa esigenza.
Dopo aver detto che “un nuovo soffio missionario” è vitale “per far cadere le barriere etniche e nazionaliste che rischiano di asfissiare e rendere sterili le Chiese d’Oriente”, ha richiamato “l’importanza fondamentale della vita monastica per il rinnovamento e il risveglio delle nostre Chiese”.
E così ha proseguito: “Questa forma di vita, nata in Oriente, è stata all’origine di un’espansione missionaria straordinaria e di una testimonianza ammirevole delle nostre Chiese nei primi secoli.
La storia ci insegna che i vescovi venivano scelti tra i monaci, vale a dire tra uomini di preghiera e di vita spirituale profonda, con una grande esperienza delle ‘cose di Dio’.
Oggi purtroppo la scelta dei vescovi non obbedisce agli stessi criteri e ne constatiamo i risultati, che non sempre sono positivi.
L’esperienza bimillenaria della Chiesa ci conferma che la preghiera è l’anima della missione; è grazie a essa che tutte le attività della Chiesa sono rese feconde e danno molti frutti.
D’altronde, tutti coloro che hanno partecipato alla riforma della Chiesa e le hanno restituito la sua bellezza innocente e la sua giovinezza eterna sono stati fondamentalmente uomini e donne di preghiera.
Non per nulla nostro Signore ci invita a pregare incessantemente.
Constatiamo con rammarico e amarezza che i monasteri di vita contemplativa, fonte di abbondanti grazie per il popolo di Dio, sono quasi scomparsi dalle nostre Chiese d’Oriente.
Che grande perdita! Che peccato!”.
È facile ravvisare in queste parole l’eco della tesi di papa Joseph Ratzinger secondo cui il segreto del buon governo della Chiesa – e della sua riforma – è il “pensiero illuminato dalla preghiera”.
ISRAELE “CORPO ESTRANEO”? In un sinodo dedicato al Medio Oriente c’era infine da aspettarsi un importante riferimento a Israele e agli ebrei.
Quasi nessuno, invece, ne ha parlato.
L’unico padre sinodale che vi ha dedicato l’intero intervento è stato, l’11 ottobre, il vicario patriarcale di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, il gesuita David Neuhaus, il quale ha auspicato più comunione, in Israele, tra i cattolici di lingua araba e quelli ebreofoni.
Questi ultimi, si sa, sono considerati da molti confratelli arabi un corpo estraneo.
E la Santa Sede non li aiuta, rinunciando a nominare un vescovo che si dedichi alla loro cura.
Il 13 ottobre ha preso la parola nel sinodo, in qualità di invitato, il rabbino David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele.
Il suo è stato un intervento di ampio respiro, molto positivo e di grande apprezzamento dell’opera dell’attuale papa e del suo predecessore.
Ma dopo di lui nessuno, nel sinodo, ha dato seguito alle sue parole di dialogo tra ebrei e cristiani.
Rimanendo l’aula in quasi totale silenzio sul tema, ha così avuto maggior risonanza un documento fatto circolare fuori dell’aula sinodale: un documento intitolato “Kairòs – Un momento di verità” e sfrenatamente anti-israeliano nei contenuti.
In esso l’occupazione da parte di Israele dei territori è definita “un peccato contro Dio e l’umanità” e la stessa fondazione dello stato ebraico è fatta risalire a un senso di colpa dell’Occidente a motivo dell’Olocausto, per sanare il quale si sarebbe occupata la terra dei palestinesi.
Il documento termina con l’invito a boicottare Israele.
La genesi di “Kairòs” risale a diversi mesi fa.
Quando fu reso pubblico per la prima volta, l’11 dicembre 2009 a Betlemme, il documento recava le firme del patriarca emerito di Gerusalemme dei latini, Michel Sabbah, dell’arcivescovo greco-ortodosso Atallah Hanna (acerrimo rivale del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III), del vescovo luterano di Gerusalemme Munib Younan e di tredici altri esponenti arabo-cristiani.
Il suo più attivo propagatore era il luterano Younan.
Questi coinvolse con successo il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raggruppa 349 denominazioni cristiane di tutto il mondo, con sede a Ginevra.
E infatti, quando il 15 ottobre è stato letto nel sinodo un messaggio del segretario generale del CEC, Olav Fykse Tveit, il documento “Kairòs” vi era citato e raccomandato.
Ma Younan e gli altri autori del documento fecero pressione, nei giorni successivi alla sua pubblicazione, anche su tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, per ottenerne l’appoggio.
Quello che ottennero, il 15 dicembre 2009, fu una dichiarazione di poche righe, senza alcun riferimento esplicito a “Kairòs”, che iniziava con queste parole: “Noi, i patriarchi e capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme, abbiamo ascoltato il grido di speranza che i nostri figli hanno lanciato in questi tempi difficili che stiamo vivendo in questa Terra Santa.
Noi li sosteniamo”.
Niente di più.
Ma da lì in poi il documento “Kairòs” è stato fatto sempre circolare con in testa questa dichiarazione, come se fosse il suo prologo, e con le firme di tutti i leader delle Chiese cristiane a Gerusalemme, compreso il patriarca latino Fouad Twal e il custode di Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa, come se fossero loro i veri autori dell’intero documento Per chi conosce e ha letto gli scritti di padre Pizzaballa, una sua adesione alle tesi di “Kairòs” e al boicottaggio di Israele è semplicemente impensabile.
Eppure anche la Custodia di Terra Santa, da lui presieduta, ha contribuito assieme ad altre associazioni cattoliche, come Pax Christi, e al patriarca emerito di Gerusalemme Sabbah a dare pubblicità al documento, il 19 ottobre, in un salone di proprietà del Vaticano, a pochi passi dall’aula del sinodo.
Non solo.
Il 14 ottobre è intervenuto nel sinodo l’arcivescovo maronita Edmond Farhat, già nunzio apostolico e rappresentante ufficiale della politica vaticana.
E i giudizi da lui espressi fanno pensare che per la Santa Sede – che pure accetta l’obiettivo di due stati per ebrei e palestinesi – continua a valere il presupposto che la causa ultima di tutti i mali del Medio Oriente sia proprio quel “corpo estraneo” che è Israele.
Ha detto il nunzio Farhat: “La situazione del Medio Oriente oggi è come un organo vivente che ha subito un trapianto che non riesce ad assimilare e che non ha avuto specialisti che lo curassero.
Come ultima risorsa l’Oriente arabo musulmano ha guardato alla Chiesa credendo, come dentro di sé pensa, che sia capace di ottenergli giustizia.
Non è stato così.
È deluso, ha paura.
La sua fiducia si è trasformata in frustrazione.
È caduto in una crisi profonda.
Il corpo estraneo, non assimilato, lo corrode e gli impedisce di occuparsi del suo stato generale e del suo sviluppo.
Il Medio Oriente musulmano nella sua schiacciante maggioranza è in crisi.
Non può farsi giustizia.
Non trova alleati né sul piano umano né sul piano politico, meno ancora sul piano scientifico.
È frustrato.
Si rivolta.
La sua frustrazione ha avuto come effetto le rivoluzioni, il radicalismo, le guerre, il terrore e l’appello (da’wat) al ritorno agli insegnamenti radicali (salafiyyah).
Volendo farsi giustizia da solo il radicalismo ricorre alla violenza.
Crede di fare più scalpore se si attacca ai corpi costituiti.
E il più accessibile e il più fragile è la Chiesa”.
Se un proposito delle autorità vaticane era di “moderare” l’intransigente avversione a Israele delle Chiese arabe del Medio Oriente, le parole del nunzio Farhat hanno fatto l’opposto.
__________ I documenti del sinodo nel sito del Vaticano: > Assemblea speciale per il Medio Oriente, 10-24 ottobre 2010

La scuola cambia: dai libri al computer

Netbook al posto dei libri di testo.
Succede all’istituto Pacioli, che diploma ragionieri, geometri e corrispondenti in lingue estere.
In tutto 1.600 studenti, che – da qui ai prossimi cinque anni – avranno tutti un loro computer e lasceranno lo zaino a casa.
La prima tranche di consegna, che ha riguardato le 15 classi prime, è avvenuta ieri mattina e di fatto segna un record per l’istituto scolastico cremasco: è il primo in Italia.
La dotazione sarà completa entro la fine di novembre.
Gli studenti che hanno iniziato a prendere confidenza con i loro netbook sono 430: da adesso in poi seguiranno le lezioni con il computer anzichè con il libro di testo.
Nella memoria di ogni portatile sono infatti stati caricati i contenuti didattici, messi a disposizione gratuitamente dalla scuola.
Libri di testo a casa, computer nello zaino.
L’obiettivo che si era prefissato il preside Giuseppe Strada giusto un anno fa, abbozzando il progetto dopo aver verificato di persona l’uso della nuova didattica che veniva fatta in scuole soprattutto all’estero.
Un anno di lavoro per individuare il fornitore e i fondi necessari.
Il risultato si è concretizzato ieri.
Per gli studenti, oltre alla novità che – assicurano – fungerà da stimolo, anche un risparmio.
Innanzitutto meno disagio: il volume dei libri di testo non è nemmeno da paragonare a quello di un net book e poi il minore esborso economico.
Certo, l’apparecchio viene pagato dagli studenti, ma a rate e a un prezzo scontato.
Computer che poi rimarrà in dotazione ai ragazzi.
E poi, come accennato, l’aspetto didattico, per nulla secondario.
I docenti sono certi che il metodo sarà più coinvolgente.
Le lezioni troveranno spiegazione attraverso un videoproiettore e una lavagna interattiva, ognuna per le 15 classi prime.
Quanto illustrato sarà poi memorizzato nel net book.
A casa, invece dei soliti e classici compiti, lo studente potrà scaricare il tutto e studiarselo.
La novità è stata accolta favorevolmente dagli allievi che già ieri mattina hanno iniziato a prendere confidenza con il nuovo metodo di insegnamento.
Novità che non è passata inosservata.
Altri istituti scolastici hanno preso informazioni sul progetto denominato «1×1» e che, fin dall’inizio, era stata considerata una sfida.
Vinta a quanto pare.
R.
Lom.

Credito formativo per l’IRC.

Con Ordinanza n.
4588 del 14 ottobre 2010 il Tar ha fissato al 20 dicembre prossimo la trattazione di merito del ricorso presentato alcuni mesi fa da una pluralità di soggetti laici contro l’ordinanza ministeriale n.
44/2010 sugli esami di Stato.
Promotori del ricorso, tra gli altri, la Consulta romana per la laicità delle istituzioni e altre associazioni laiche, il Cidi, il Coordinamento genitori democratici, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la Tavola Valdese.
Motivo del contendere è il credito formativo riconosciuto a favore degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica e che va a integrare il credito scolastico assegnato dal consiglio di classe negli istituti di istruzione secondaria superiore in funzione dell’esame di Stato.
Il peso del credito formativo a favore degli studenti che si avvalgono dell’IRC era stato riconosciuto da un decreto del ministro Fioroni e confermato successivamente dal ministro Gelmini.
Già contestato nel 2009 con un precedente ricorso che aveva ottenuto la sospensiva da parte del Tar, poi cassata dal Consiglio di Stato, quel credito formativo era stato legittimato dal Regolamento sulla valutazione (dpr 122/2009) e quindi recuperato in pieno nella ordinanza per gli esami di Stato.
I ricorrenti hanno nuovamente impugnato la disposizione ottenendo, questa volta, una attenzione diversa da parte del Tar che con l’ordinanza 4588 del 14 ottobre scorso ha fissato l’udienza di merito, affermando che Considerato che da un primo sia pur sommario esame dei motivi di ricorso sono emersi profili favorevolmente apprezzabili, adeguatamente tutelabili a mezzo di una sollecita definizione nel merito.
Sul credito formativo riconosciuto all’IRC si profila, dunque, una sentenza di merito a favore dei ricorrenti con una probabile bocciatura (momentanea perché c’è sempre la possibilità di impugnare la sentenza davanti al Consiglio di Stato) che potrebbe aprire nuovamente una pesante polemica sull’insegnamento della religione cattolica.
tuttoscuola.com