X DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Genesi 3,9-15

        Dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, il Signore Dio lo chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 
Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, 
tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
 
  • Secondo la tradizione ebraica antica, la storia dell’umanità fin dagli inizi è stata un campo di battaglia tra due forze contrapposte, il seme della donna e il seme del serpente. Adamo, il primo uomo, ma anche tutti gli uomini lungo la storia, sono stati messi di fronte a una scelta fondamentale: fare la volontà di Dio, e quindi rimanere in una stabile armonia con lui, con la prima donna, e con il mondo (Gen 2), oppure seguire la propria volontà e decidere personalmente quello che nella vita è bene e quello che è male (Gen 3).

     La situazione dell’uomo che decide la sua vita indipendentemente da Dio è tragica. La sua prima esperienza è quella della nudità. La tradizione esegetica ebraica antica spiegava che Adamo prima del peccato aveva una veste di gloria. Il dialogo con Dio lo riempiva del suo amore e di vita. Dopo il peccato è nudo di amore, di essere. Sperimenta la morte essenziale. La seconda conseguenza è la paura della morte (v. 10): non si sente più in grado di perdere la sua vita per gli altri, per la sua donna. La terza conseguenza è quindi la nascita dell’egoismo: accusa la propria moglie pur di salvare se stesso (v. 12).

     Ma il Signore dona una speranza all’umanità. È la prima Buona Notizia: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (v. 15). La tradizione biblica vedrà nel seme della donna il Messia. Is 11,8 parla di un Bambino, che «metterà la mano nel covo dei serpenti velenosi»: la vittoria del seme della donna sul seme del serpente sarà facile come un gioco di bambini. Seguendo il Messia sarà possibile il ritorno all’armonia con Dio, con i fratelli e con il mondo, perché la paura della morte è stata vinta.

Seconda lettura: 2 Corinzi 4,13-5,1

       Fratelli, animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. 
Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio. 
Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.  Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne. Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli.     
  • La chiamata all’apostolato è stata per Paolo una chiamata alla sofferenza, alle fatiche di ogni genere. Se guardiamo la sua esperienza con gli occhi del profano, Paolo sta velocemente invecchiando, consumato dall’apostolato. Sta perdendo la vita. L’apostolo invece osserva la propria vita con gli occhi di Dio, con quelli della fede: «Noi crediamo e perciò parliamo» (v. 13). È vero che fisicamente egli va progressivamente consumandosi, non così invece l’uomo interiore, che diventa sempre più giovane. C’è una realtà invisibile che a lui è dato di percepire e che lo riempie di immensa gioia. La vita in intimità con il suo Signore Gesù, che ora sta sperimentando in mezzo alle tribolazioni, un giorno si manifesterà nella gloria dell’eternità (v. 18). L’amore di Cristo che lo sta spingendo a consumarsi nell’apostolato, è anche l’unica realtà che rimane, e che può superare le barriere della morte. E se la tenda del suo corpo si sta sfasciando, il Signore gli sta preparando una dimora eterna nel mondo di Dio, un corpo non esposto alla corruzione (5,1).

Vangelo: Marco 3,20-35

       In quel tempo, Gesù venne con i suoi discepoli in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «È fuori di sé». 
Gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni». Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l’uomo forte; allora ne saccheggerà la casa. 
In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito immondo». 
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre».     

Esegesi

      L’episodio narrato dal Vangelo odierno si svolge probabilmente nella casa di Pietro a Cafarnao. È interessante notare l’atteggiamento delle persone che lo attorniano. Esse formano un triplice cerchio ideale. Fuori si fermano i parenti. Più vicini, chiamati da Gesù stanno gli scribi discesi da Gerusalemme; seduta vicino a lui la folla con gli apostoli che lo stavano ad ascoltare.

Prima scena: i parenti di Gesù (vv. 20-21 ): Sono i suoi parenti carnali che sono preoccupati della sua salute, ma anche dell’onore della famiglia, perché lo ritengono «fuori di sè», un esaltato. Meglio portarselo a casa. «Siccome non riuscivano a comprendere l’altissima sapienza che ascoltavano, credevano che egli parlasse come uno fuori di sè» (Beda, il Venerabile).

Seconda scena: gli scribi (vv. 22-30): Dalla diceria si passa ora alla terribile calunnia sparsa tra il popolo dagli scribi, gli studiosi della Scrittura, venuti da Gerusalemme: «Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demoni per mezzo del principe dei demoni» (v. 22). Di fronte alla calunnia Gesù non perde la calma, ma continua a dialogare, chiamati gli avversari vicini a sé, li fa ragionare. Egli usa parabole, esempi concreti, che potevano capire. Si richiama alla realtà dello stato e della famiglia: quando in uno stato e in una famiglia incomincia la discordia, lo stato va in rovina e la famiglia non esiste più. Ora, se Satana per mezzo di Gesù sta cacciando Satana, mettendo la discordia tra i demoni, si deve dedurre che sta tentando un suicidio, che il suo dominio è ormai alla fine e che è giunta la salvezza. L’unica spiegazione possibile è invece che nel mondo è entrato uno più forte di Satana, che lo ha legato, dando agli uomini la libertà dal male.

Gli unici che non possono partecipare a questa liberazione sono coloro che avranno «bestemmiato contro lo Spirito Santo» (v. 29), quelli che negavano che Gesù, scacciando i demoni, agiva per mezzo dello Spirito. Significa rifiutare ostinatamente di percepire nei segni dello Spirito Santo l’agire di Dio nella storia.

Terza scena: i veri parenti di Gesù (vv. 31-35): C’è un gruppo che sa discernere invece i segni che Gesù sta compiendo, perché si sono messi in una posizione in cui possono ascoltare la sua parola: sono seduti attorno a lui con l’orecchio aperto. È proprio la parola stessa di Gesù che viene a smontare tutte le dicerie che circolavano su di lui: «È un esaltato», o «È un indemoniato». Marco intravvede la nuova comunità cristiana in cui, pur rispettando il rapporto gerarchico con gli apostoli, tutti sono fratelli e sorelle che ascoltano Gesù Cristo e fanno la volontà di Dio.

Se continuiamo a leggere il vangelo, vedremo che molti di coloro che ora stanno ascoltando Gesù, si allontaneranno da lui. E nella tradizione evangelica e negli Atti degli Apostoli vedremo che la Madre di Gesù, che in questa scena appare impotente di fronte ai parenti che stanno fuori, compie un cammino di fede che la porterà a stare silenziosa davanti al Figlio sulla Croce. Anche lei discepola della parola sarà madre di Gesù in modo nuovo.

Meditazione

Nella I Lettura liturgica di questa Domenica troviamo enunciato e già articolato il tema della riflessione biblica di questa X Domenica del tempo ordinario dell’Anno liturgico: la lotta tra il bene e il male, l’esito di questa lotta, la possibile redenzione dal male con la definitiva vittoria del bene. Questi sono i problemi più importanti e fondamentali accennati nella rivelazione biblica del libro della Genesi. Fin dalle sue prime pagine – ove si tratta dell’origine del mondo e dell’universo – intravvediamo la soluzione di tutti questi problemi, con l’anticipazione rapida e sfocata di Cristo, quale Redenzione del mondo e dell’universo umano in particolare.

Questo problema del bene e del male è presente anche nelle altre tradizioni non-bibliche, alle quali il libro della Genesi si allaccia. Vi si allaccia per demitizzarle dagli aspetti arbitrari e fantastici e portarle alla luce della Parola di Dio.

Questi massimi problemi, che costituiscono il dramma dell’esistenza umana, hanno sempre attanagliato la mente e il cuore dell’uomo. Da questo punto di vista, notiamo che la rivelazione biblica non è avulsa dal contesto umano e storico delle altre tradizioni. La Genesi si immerge in esse e le traina, per così dire, nella sua scia luminosa per irradiarle e inverarle con la Parola di Dio. Perciò le parole della Genesi sono illuminanti, anche se si trovano immerse nel magma confuso e lacunoso delle tradizioni pagane, le quali fanno intravvedere talvolta soltanto la situazione drammatica e l’evento spaventoso, ma senza scampo.

Quello che troviamo nelle tradizioni non-bibliche sui fatti sconvolgenti degli inizi della storia umana, non sono in grado di introdurci e informarci in maniera veritiera. Sono solo immagini mitiche e simboliche della realtà sconvolgente che affonda nella comune esperienza dei popoli. Tutto ciò risulta anche da quello che troviamo raccontato nella Genesi: dolore, sofferenza, morte, perversione del cuore umano, imbarbarimento del mondo, ribellione contro l’Alto, confusione, disperazione, caos dell’esistenza umana.

La rivelazione biblica fa la sua comparsa con l’idea chiarificatrice che sta all’inizio dell’evento nefasto. Questo fatto concerne il gesto di ribellione contro Dio e quindi la universale perversione degli uomini tra loro, che introduce nella loro esistenza dolore, sofferenza e morte (Caino e il flagello del diluvio). Tuttavia, con la rivelazione biblica, si affaccia anche la possibilità di una conversione e di una redenzione, la quale avanza nella coscienza degli uomini e pone nel loro cuore la convinzione che Dio è in grado di superare le continue cadute e di condurre l’uomo verso una storia di salvezza.

Nel Testo sacro l’idea del peccato originale viene sempre più a configurarsi come una ribellione dell’uomo a Dio, a partire da una provocazione di un essere misterioso, intelligente, astuto e malvagio.

Ma nel piano biblico è necessario che intervenga Dio stesso perché l’uomo prenda coscienza chiara e si renda conto della ribellione e del disordine. Nella I Lett. il testo sacro racconta: «Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei? Gli rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo». La paura di Dio e la vergogna di sè sono le proprie sensazioni provate dopo il disordine introdotto dal peccato, perché l’uomo ha mangiato il frutto dell’albero proibito.

Egli cerca di difendersi, addossando la responsabilità sulla compagna: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato. Essi cercano di discolparsi a vicenda. Dio rivolge la sua parola alla donna: «Che hai fatto?». Anche essa si scusa: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Si arriva, così, all’origine del male. Dio, in fine, rovescia sul serpente la sentenza definitiva che lo colpisce radicalmente. Tutta la Liturgia della Domenica mette l’accento sulla colpa di colui che aveva provocato l’entrata del peccato nel mondo. Perciò la lotta tra il bene e il male è ingaggiata tra Dio e il serpente. L’uomo e la donna sono puniti per la disobbedienza, ma l’istigatore originario «è maledetto», ed è condannato ad una esistenza di umiliazione inarrestabile, destinato alla sconfitta totale. Di fatto si instaura una lotta tra il serpente, la donna e le loro discendenze. La donna lo colpirà alla testa, mentre lui potrà insidiargli solo il calcagno.

L’autore del racconto resta fedele al genere letterario immaginifico e simbolico, il solo adatto a manifestare la ragione profonda che sta all’origine del peccato. Essa si configura come una lotta tra due stirpi. Il serpente sarà sconfitto con lo schiacciamento del capo da parte di un discendente della stirpe della donna.

Noi cristiani conosciamo tutto intero il racconto della Salvezza e sappiamo che l’entrata del peccato nel mondo ci pone già nella prospettiva della Salvezza. Il problema del male, della sofferenza e della morte riceve una prima illuminazione dalla luce che viene dalle sue origini. Appartenevano a Dio, irradiati dalla sua grazia e dalla sua santità. Il mondo di Dio doveva rimanere la sua stabile dimora. Il peccato di origine ce ne ha separati e ci ha fatto precipitare nell’esilio terreno, dove impera l’assenza di Dio e il regno della morte. Ma Dio si è impegnato a ricuperarci al suo amore. Perciò il cielo è rimasto il punto terminale e conclusivo del nostro itinerario umano.

Dio realizza ciò attraverso il Vittorioso nato dalla stirpe della Donna. Egli non ha abbandonato l’uomo peccatore al suo destino di morte, ma lo ha soccorso per mezzo di Cristo, che è stato inviato come Salvatore, con il compito di ricondurci a Dio. Gesù è Via, Verità e Vita che ci consente di ritornare alle origini. La fede cristiana ci assicura che Egli ci riconduce al Padre. È il Figlio di Dio fatto uomo, che per primo e per tutti ha tracciato l’itinerario salvifico. Ma sappiamo che la strada è segnata dalla croce. Perché e per quale motivo ineludibile e sconcertante? Ciò è stato lo scandalo dei Giudei e l’enigma insuperabile dei pagani!

Il dolore, la sofferenza e la morte si erano introdotti nella esistenza umana come conseguenza e punizione del peccato. Dio li ha utilizzati e se ne è servito come mezzi di redenzione e di salvezza. Egli non ha creato una nuova umanità, ma ha utilizzato i residui del mondo sconvolto e disastrato e se ne è servito come mezzi di redenzione e di salvezza per restaurare l’uomo peccatore e renderlo degno di sé nella conquista di una nuova santità.

Tutto ciò ha potuto operare per mezzo di Cristo. In questa prospettiva nuova e definitiva Gesù resta il punto di vista essenziale e indispensabile di tutto l’universo rinnovato. Il peccato era stato il gesto di ribellione, che aveva creato il caos e il sovvertimento di tutta la creazione. L’obbedienza e la sottomissione amorosa a Dio dovevano ricomporre a unità e armonia l’universo sconvolto e restaurare la pace con Dio e tra gli uomini. Questa opera di ricapitolazione radicale e innovatrice poteva essere realizzata solo dall’Uomo-Dio, il solo capace di offrire a Dio un omaggio degno della sua Santità a titolo di dedizione e di gloria motivata da un amore gradito e incondizionato. Questa è l’opera di Salvezza compiuta dal Signore Salvatore.

Ma Gesù non fu compreso dal mondo e fu ostacolato fino in fondo da Satana, il cui errore (tragico per lui) fu quello di non essere stato in grado di capire le vie di Dio. Egli continuò a disseminare l’odio e l’avversione contro Cristo, sollevando una opposizione inconciliabile, secondo la logica mortale del peccato di cui è padre! Si illuse che poteva prevalere coinvolgendolo nella morte e quindi annullando così la sua opera salvifica. Gesù, invece, salvò il mondo con la sua morte redentrice, arrivando così al traguardo della gloriosa Risurrezione.

Satana è un personaggio reale e vero, anzi la personificazione del male. È l’antitesi di Dio e non poteva sospettare le vie misteriose attraverso le quali Dio avrebbe ricomposto il suo Regno, restaurando l’amore e la felicità dei cuori degli uomini. Satana, come dice la Bibbia, è il bugiardo per antonomasia. Egli è stato travolto dall’ambiguità e dall’equivoco del suo potere maligno. Infine fu travolto e annientato insieme alla sua potenza disgregatrice.

Egli continuò a confondere e deviare. Lo fece nei confronti di Cristo, sottoponendolo continuamente a tentazioni e cercando di fuorviare i suoi poteri divini verso scopi ambiziosi e di comodo per il suo prestigio e la sua affermazione, in opposizione alla Volontà del Padre. Il Vangelo è pieno di questi tentativi nefasti e assurdi. Ma Gesù mette in chiaro e denuncia questi giuochi ingenui e orrendi di Satana.

Ne abbiamo degli esempi nel Vangelo di questa Domenica. Trascinati dalle sue suggestioni, gli scribi di Gerusalemme gridano: «Costui è posseduto da Beelzebul e caccia i demoni per mezzo del principe dei demoni» (Mc 22). Gesù risponde, respingendo l’insinuazione orrenda: «Come può satana scacciare satana?… Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi… Se satana si ribella contro satana, non può resistere, ma stà per finire…» (Mc 23-27).

In effetti, la presenza di Cristo coincide con la catastrofe di satana e l’annientamento dei suoi poteri! Gesù denuncia il tentativo di coloro che cercano di identificarlo con Satana, come l’inganno radicale di satana stesso e come la bestemmia contro lo Spirito Santo, che non potrà avere perdono in eterno, e chi avrà l’audacia di compierla «sarà reo di colpa eterna» (Mc 29).

Gesù ha percorso per primo la via di ritorno al Padre e ha coinvolto tutti nello sforzo di riconquista del cielo. Ha dato anche a noi la possibilità di lottare per distruggere il potere di Satana, riconquistare la Santità di Dio e la felicità umana comunicata dall’amore.

Siamo chiamati a seguire Gesù e a dare compimento al disegno di Dio per realizzare finalmente il suo Regno, dove impera finalmente la sua gloria e la felicità di tutti. In ciò risiede il senso e il valore dell’esistenza cristiana. Siamo tutti impegnati a ricostruire il nostro futuro di gloria. La parola d’ordine, che indica il senso dell’esistenza, è questo: SEGUIRE CRISTO!

Per tenere il passo di Gesù è necessario coraggio, decisione, fedeltà, disponibilità, donazione totale, amore puro, sacrificio. L’amore del bene e la santità della vita si offrono a tutti come impegno concreto che riscattano l’esistenza dal male, orientandola a Dio come nostro Sommo Bene. Questo impegno salvifico lo ha percorso il Figlio di Dio, riconducendo l’uomo verso l’Alto nel possesso del fine beatificante.

Il mistero pasquale di Cristo risolve questo problema in maniera definitiva. Il male può essere vinto attraverso un itinerario, in cui il Bene è concretamente riaffermato, superando le vie perverse di cui è disseminata la vita. Dolore, sofferenza e morte possono essere aggrediti e spazzati via con l’impegno di esistenza in cui la volontà del Bene è fatta valere attraverso il sacrificio di tutto ciò che sollecita al male e si contrappone a Dio.

Questa è la via per fare prevalere il bene in tutte le nostre scelte. È poco? Lo sembra in quanto ci pone solo nella possibilità di fronte al bene reale! Ma è molto ed è tutto, quando riflettiamo sulle condizioni di esistenza disastrata in cui nel caso contrario saremmo abbandonati, restando risucchiati inesorabilmente nel vortice del peccato.

Eleviamo il cuore alla speranza e ringraziamo Dio per il dono della salvezza riconquistata. Il mistero pasquale di Cristo ha ricondotto la nostra vita nella prospettiva della verità e dell’amore autentico. Noi che crediamo in Cristo siamo di nuovo sollecitati e attratti dalla luce della Salvezza. Certo, è necessario il coraggio e il deciderci per la Croce di Cristo. Perciò siamo, insieme, ottimisti e realisti! Aprendo il nostro cuore alle sollecitazioni amorose del Cuore di Cristo, avremo anche la forza e il coraggio di rimanere figli fedeli del Padre.

L’immagine della domenica

Campo di grano – Pieve Torina (MC) – Italia – 2008

«Getta i semi nella terra il contadino,

poi si riposa e guarda tutto intorno;

guarda il campo, la casa e il mulino,

pensa che i semi saran pane un giorno».

(C. Del Soldato)

PREGHIERE E RACCONTI

COMBATTIMENTO, VIGILANZA E DISCERNIMENTO

«158. La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita.

Il combattimento e la vigilanza

159. Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie. Si rallegrava quando i suoi discepoli riuscivano a progredire nell’annuncio del Vangelo, superando l’opposizione del Maligno, ed esultava: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18).

Qualcosa di più di un mito

160. Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva soprannaturale. Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva. È vero che gli autori biblici avevano un bagaglio concettuale limitato per esprimere alcune realtà e che ai tempi di Gesù si poteva confondere, ad esempio, un’epilessia con la possessione demoniaca. Tuttavia, questo non deve portarci a semplificare troppo la realtà affermando che tutti i casi narrati nei vangeli erano malattie psichiche e che in definitiva il demonio non esiste o non agisce. La sua presenza si trova nella prima pagina delle Scritture, che terminano con la vittoria di Dio sul demonio. Di fatto, quando Gesù ci ha lasciato il “Padre Nostro” ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male in astratto e la sua traduzione più precisa è «il Maligno». Indica un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini.

161. Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1 Pt 5,8).

Svegli e fiduciosi

162. La Parola di Dio ci invita esplicitamente a «resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11) e a fermare «tutte le frecce infuocate del maligno» (Ef 6,16). Non sono parole poetiche, perché anche il nostro cammino verso la santità è una lotta costante. Chi non voglia riconoscerlo si vedrà esposto al fallimento o alla mediocrità. Per il combattimento abbiamo le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della Parola di Dio, la celebrazione della Messa, l’adorazione eucaristica, la Riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario. Se ci trascuriamo ci sedurranno facilmente le false promesse del male, perché, come diceva il santo sacerdote Brochero: «Che importa che Lucifero prometta di liberarvi e anzi vi getti in mezzo a tutti i suoi beni, se sono beni ingannevoli, se sono beni avvelenati?».

163. In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto, se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella. Peggio ancora se cade in un senso di sconfitta, perché «chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. […] Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male».

La corruzione spirituale

164. Il cammino della santità è una fonte di pace e di gioia che lo Spirito ci dona, ma nello stesso tempo richiede che stiamo con “le lampade accese” (cfr Lc 12,35) e rimaniamo attenti: «Astenetevi da ogni specie di male» (1 Ts 5,22); «vegliate» (cfr Mc 13,35; Mt 24,42); non addormentiamoci (cfr 1 Ts 5,6). Perché coloro che non si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi.

165. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14). Così terminò i suoi giorni Salomone, mentre il gran peccatore Davide seppe superare la sua miseria. In un passo Gesù ci ha avvertito circa questa tentazione insidiosa che ci fa scivolare verso la corruzione: parla di una persona liberata dal demonio che, pensando che la sua vita fosse ormai pulita, finì posseduta da altri sette spiriti maligni (cfr Lc 11,24-26). Un altro testo biblico usa un’immagine forte: «Il cane è tornato al suo vomito» (2 Pt 2,22; cfr Pro 26,11).

(FRANCESCO, Esortazione apostolica «Gaudete et exsultate» del Santo Padre Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2018).  

È fuori di sé!

E di nuovo si radunò tanta gente che non potevano neppure prender cibo . Come è feconda l’opera del Salvatore; come accorre con gioia la folla, mossa dal desiderio di ascoltare la parola di Dio e dall’ansia di essere da lui salvata! Ai discepoli che erano con lui non resta neppure un momento libero per sedersi a mensa, occupati come sono nell’ufficio di consolare la vita di quei miseri.

Signore Gesù, distribuisci anche ai nostri tempi tanta grazia ai tuoi fedeli, da indurli, col loro desiderio di apprendere, a costringere i loro maestri a tenersi lontano non soltanto dall’attaccamento ai piaceri del senso, ma anche, qualche volta, dallo stesso cibo quotidiano! Ma vediamo come giudichino il maestro, attorniato da questa folla straniera, coloro che stavano più vicino a lui. Continua:

E avendo udito, i suoi uscirono per impadronirsi di lui. Infatti dicevano: — È fuori di sé. Anche Gesù dice altrove: «Un profeta non è disprezzato che in patria e a casa sua» [Mt 13,57]. Per il fatto che una folla estranea corre per vederlo e desidera ascoltarlo quale creatore della vita e sapienza stessa di Dio, i suoi discepoli giudicano che egli, quasi non più padrone dei suoi atti, debba essere impedito nei suoi movimenti. Non riuscivano a comprendere l’altissima sapienza che ascoltavano e credevano che egli parlasse come uno che è fuori di sé. Seguivano il comportamento di quei tali che, non riuscendo ad accettare il mistero della sua carne che doveva essere mangiata e del suo sangue che doveva essere bevuto, dicevano: «Duro è questo linguaggio; chi lo può ascoltare?… E per questo se ne andarono via e più non lo seguivano» [Gv 6,60.66].

Ma, secondo l’allegoria, nel fatto che la folla numerosa accorra a lui, mentre è considerato pazzo dai suoi, è raffigurata la salvezza dei credenti che vengono dal paganesimo, e si sottolinea l’invidiosa perfidia dei giudei, dei quali Giovanni dice: «È venuto nella sua casa, e i suoi non l’hanno accolto» [Gv 1,11]. C’è certamente molta differenza tra coloro che non comprendono la parola di Dio per la lentezza della loro mente, e coloro che a bella posta si sforzano di bestemmiare e perseguitare ciò di cui pure comprendono il significato. Per i primi c’è infatti ancora speranza di salvezza, se riusciranno a comprendere; ma per gli altri che rifiutano di capire per evitare di comportarsi bene e «tramano il male persino nel loro letto» [Sal 36,5], quale speranza di salvezza può esserci ancora, dato che si sforzano di respingere, detestandole e perseguitandole col loro odio, anche queste verità che hanno compreso essere indispensabili alla salvezza della loro anima?

— E se Satana è insorto contro se stesso e si è diviso, non può sussistere, ma ha fine. Così dicendo voleva far intendere, secondo la loro stessa confessione, che non credendo in lui avrebbero scelto il regno del diavolo, il quale certamente non può sussistere diviso contro se stesso. Scelgano perciò i farisei ciò che vogliono. Se Satana non può scacciare Satana, non possono trovare niente da dire contro il Signore; se invece può farlo, stiano ancora di più attenti a sé stessi ed escano dal regno di colui che non può sopravvivere diviso contro se medesimo.

(BEDA IL VENERABILE (673-735), Commento al vangelo di Marco 1, 3, 20-21; 26, in Corpus Christianorum Latinorum, vol. 120, 473-476).

Il male

La tragedia infinita del male non sta, per lo più, nel fatto che noi, per natura, vorremmo realmente il male che facciamo a noi stessi ed agli altri; la vera e propria fatalità della nostra cattiveria deriva quasi sempre dal fatto che, per pura angoscia, non riusciamo a mantenere ferma la nostra intenzione originaria e, alla fine, come ipnotizzati, diventiamo infedeli al meglio che è in noi.

(E. DREWERMANN, Il Vangelo di Marco. Parte seconda, 632).

Le preghiere della vita

Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste. Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie. Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.

Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito immondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.

(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Broscia 1993).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

o serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– Comunità di S. Egidio, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

SS. CORPOE SANGUE DI CRISTO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Esodo 24,3-8

         In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».  
  • Il capitolo 24 del libro dell’Esodo narra la conclusione dell’alleanza stipulata tra il Signore Dio e Israele con la mediazione di Mosè. Questi, infatti, era stato più volte convocato da Dio sul monte per ricevere le “parole”, riferirle poi al popolo e ritornare da Dio per portare la risposta affermativa del popolo. Anche questa volta troviamo Mosè che «andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!» (24,3).

     Ricevuto l’assenso da parte del popolo, Mosè diede inizio a un rito: prima costruì un altare con dodici stele, una per ogni tribù d’Israele (cf. 24,4), poi fece offrire da alcuni giovani olocausti e sacrifici di comunione in onore del Signore (cf. 24,5). Infine, completò il rito così: «Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (24,6-8).

     Attraverso questo rito Mosè vuole quindi esprimere una profonda realtà: egli è situato tra i due contraenti: il primo è Dio, che viene rappresentato dall’altare; il secondo è il popolo, al quale viene di nuovo letto l’intero libro dell’alleanza affinché, in modo consapevole, possa pronunciare il suo sì.

     Che cosa può unire i due contraenti, per suggellare solennemente il patto? Mosè sceglie allora il segno del sangue, il quale, versato per metà sull’altare e per l’altra metà sul popolo, stabilisce tra i due una ”comunione”. Non è difficile, nelle parole del versetto 8, riconoscere l’analogia con il sangue di un’altra vittima, ben più importante di quegli animali sacrificati. Infatti, Gesù Cristo, sull’altare della croce, versa il proprio sangue con cui viene aspersa l’umanità per ritrovare, finalmente la pace e la riconciliazione con il Padre (cf. Col 1,19-20). Il sangue, tra l’altro indica anche un rapporto di “parentela”, che ci viene guadagnato da Gesù Cristo. In virtù di questo sangue, allora, non siamo «più stranieri né ospiti, ma siamo concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19), addirittura figli di adozione di un Padre eccezionale, che per farci entrare nella sua famiglia non ha esitato di mandare sulla croce il suo Figlio Unigenito.

Seconda lettura: Ebrei 9,11-15

          Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.  Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente? Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.  
  • Su questa linea si trova anche lo stupendo brano della Lettera agli Ebrei. L’autore, in poche battute, evidenzia i due grandi mezzi con i quali Cristo entra nel santuario. Egli, venuto in mezzo all’umanità in qualità di sommo sacerdote dei beni futuri per il fatto che ci ha ottenuto la redenzione eterna, entrò nel santuario «attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue» (9,11-12).

     Ma occorre chiarire bene a che cosa si riferisca l’autore con i termini ‘tenda” e “santuario”. Infatti, la tenda, più grande e perfetta, non può essere paragonata con la tenda che Mosè eresse nel deserto per custodire l’arca dell’alleanza, perché designa un’altra realtà, che era ben nota ai primi cristiani. Inoltre essa va intesa in rapporto all’altro mezzo ossia al sangue, e alle ulteriori qualificazioni, su cui bisogna fare delle precisazioni: quando si dice che la tenda è «non costruita da mano di uomo» ci si collega con Mc 14,58, dove i falsi testimoni, durante il processo, accusarono Gesù dicendo: «Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo». Benché tale affermazione si trovi in una deposizione di falsi testimoni, il suo tenore orienta chiaramente a capire che non è questo che l’evangelista considera falso, poiché un confronto con Gv 2,19 conferma che Gesù ha realmente affermato tale “profezia”. La tenda è, quindi, il corpo glorioso di Cristo, nuova creazione realizzata in tre giorni per mezzo dell’effusione del suo sangue.

     La tenda, che è il corpo glorioso di Cristo, consente all’umanità aspersa dal sangue di lui, di entrare in contatto, o meglio in comunione, con il santuario, ossia con la santità e la trascendenza di Dio Padre. Cristo ha, in altre parole, portato a compimento ciò che nell’Antico Testamento era desiderato ma impossibile da realizzare. D’altronde, se Dio si accontentava di considerare efficaci i sacrifici animali, come non doveva reputare “definitivo” quello di suo Figlio? «Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?» (9,13-14).

     In forza di tutto questo, Cristo può ben essere considerato «mediatore di una nuova alleanza, perché, essendo ormai intervenuta la sua morte per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa» (9,15).

Vangelo: Marco 14,12-16.22-26

       Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
 

Esegesi

     Il brano evangelico proposto in quest’anno liturgico ci riconduce immediatamente al contesto insieme semplice e solenne della Pasqua. Così infatti inizia Marco: «Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?» (14,12). La Pasqua rappresentava la festa più importante dell’anno liturgico ebraico: con essa il popolo d’Israele si ricollega ancora oggi all’evento salvifico vissuto con Mosè e ricorda la liberazione dalla schiavitù in Egitto, emblema di liberazione da ogni qualsivoglia forma di schiavitù e dipendenza, sia materiale che spirituale. Fondamentale risulta il patto che viene stipulato: Dio consegna la Legge e s’impegna a essere il Dio d’Israele, svolgendo anche la funzione di padre, di soccorritore, di giudice e medico, di ispiratore e difensore. Da parte sua, Israele promette fedeltà, cioè di eseguire tutto ciò che il Signore comanda. Tale alleanza viene suggellata attraverso il sangue di animali quali vittime offerte in sacrificio, come poi vedremo nella prima lettura.

     Alla festa di Pasqua ne fu associata un’altra, pur importante, tanto da divenire un tutt’uno, ossia la festa degli Azzimi. Quest’ultima era connessa all’usanza primaverile agricola di iniziare l’anno nuovo con il primo raccolto dell’orzo. Perciò tale inizio veniva espresso con l’eliminazione del vecchio lievito (durante la settimana degli azzimi gli alimenti fatti con il lievito vecchio devono sparire, perché si mangia pane non lievitato in attesa del lievito nuovo alla fine della festa). Il tutto confluisce nella cena pasquale, quando si mangia il pane azzimo, unitamente all’agnello, maschio, senza difetto e nato nell’anno (cf. Es 12,5), secondo l’usanza dei pastori per la loro festa di primavera. Con questi cibi, che indicano il rinnovarsi della vita nella tradizione pastorale e in quella agricola, Israele rammenta che la propria origine è legata all’azione salvifica e liberatrice di Dio.

     Il momento in cui i discepoli pongono a Gesù la domanda circa la preparazione della cena pasquale è quello dell’inizio della settimana degli Azzimi, il giorno in cui i sacerdoti, nel tempio, di pomeriggio, immolavano gli agnelli che sarebbero poi stati consumati a Pasqua. Marco, però, mostra che Gesù aveva già pensato al luogo della cena e, addirittura, indica ai discepoli pure a chi devono rivolgersi appena entrati in città: «Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua» (14,13-16). La pericope letta non comprende i versetti che ci presentano lo smascheramento di Giuda (vv. 17-21), per cui si passa subito al racconto dell’istituzione.

     Non è certo facile commentare in poco spazio il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, perciò è preferibile soffermarsi sul senso del sangue in rapporto all’alleanza, argomento poi da completare con la trattazione delle altre letture bibliche.

     Che cosa sia il sangue per l’uomo biblico viene chiarito da Lv 17,11.14: «Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita […]; perché la vita di ogni essere vivente è il suo sangue, in quanto sua vita; perciò ho ordinato agli Israeliti: Non mangerete sangue di alcuna specie di essere vivente, perché il sangue è la vita d’ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato». Esso è dunque un elemento vitale, necessario all’uomo per la sua vita biologica della quale, in qualche modo, segna anche il limite, la peribilità. Difatti, quando tra i giudei si voleva alludere alla fragilità della condizione umana, si usava spesso la formula basàr wadàm (carne e sangue), come Gesù stesso fece in Mt 16,17. Ma il sangue è anche elemento di trasmissione di vita da un essere a un altro. Se il sangue è legato inscindibilmente alla vita e alla sua trasmissione, l’espressione “versare il sangue”, invece, ha il significato di “uccidere”.

     Tenendo presente tutto ciò, noi ci orientiamo alla contemplazione di Gesù crocifisso, che non ha rifiutato di “versare il sangue”, ossia di venire ucciso per noi, perché egli sapeva bene che dal suo sangue sparso scaturisce l’espiazione e la vita per chi confida in Lui: «E disse loro: Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti » (14,24). Egli, dunque, è libero e sovrano nel suo donarsi a nostro favore, non solo attraverso una morte violenta, che manifesta tutto il livore dei suoi avversari, bensì anche con l’atto di imbandire una mensa con il pane-corpo e il vino-sangue, a sostegno della nostra cronica debolezza. È il banchetto eucaristico, il quale, mentre ci fa ricordare la tragica morte del Giusto per eccellenza, ci restituisce la gioia di “proclamare” la sua risurrezione, per cui egli è presente e vivo in mezzo a noi, sostenendo con fedeltà, il peso dell’alleanza.

L’immagine della domenica

Monte Etna (Sicilia)         –         2021  

«Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio». (Carlo Maria Martini)


Meditazione

     Sullo sfondo dell’ultima cena di Gesù si stende idealmente la grande scena dell’alleanza al Sinai. Nella cornice aspra e solitaria di quel monte del dialogo tra Dio e Israele si compie un rito, solennemente descritto dal capitolo 24 dell’Esodo. Il sangue è il simbolo della vita, l’altare è il segno della presenza di Dio, il popolo è tutto attorno all’altare come un’unica comunità spirituale. Il sangue sacrificale è versato da Mosè sull’altare e sul popolo, quindi su Dio e sull’uomo. Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore. È proprio a quelle parole che Gesù rimanda nell’ultima sera della sua vita terrena, quando nella «grande sala con i tappeti» del Cenacolo celebra la cena pasquale coi suoi discepoli.

Il rito pasquale giudaico entrava nel vivo con la benedizione del pane nuovo azzimo, cioè senza lievito (Esodo 12-13). «Sii lodato tu, Signore, Dio nostro, re del mondo, che hai fatto nascere pane dalla terra»; così si esprimeva l’antica benedizione del pane. A quel punto il capofamiglia spezzava la focaccia azzima e la offriva ai commensali in segno di comunione e di benedizione. Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un significato sorprendente e inedito. Decisive, infatti, sono le parole della sua “benedizione del pane”: «Prendete, questo è il mio corpo», che nel linguaggio semitico significano semplicemente e paradossalmente: «Questo sono io stesso». Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali Cristo stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo sì che essi entrassero nella sua stessa vita, nella sua morte e nella sua gloria.

Nel rito giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne del calice, che spesso veniva anche inghirlandato. Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del suo “ringraziamento” (in greco il termine è “eucaristia”): «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti». È qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo e il sangue di Cristo crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo. È un «sangue versato per molti», espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacrificata per salvare tutti gli uomini.

Gesù indirizza infine ai suoi discepoli un ultimo messaggio che si affaccia sul suo futuro: egli annunzia che, dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio. È il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, durante il quale si «eliminerà la morte per sempre e il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (25,8; vedi Apocalisse 21,4). La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi, una pregustazione di un’intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio. È per questo che l’eucaristia domenicale è celebrata sempre «nell’attesa della venuta» gloriosa del Cristo. L’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio al suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della storia, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno espulsi dalla storia. Quando celebriamo l’eucaristia dovremmo scoprire un bagliore del senso ultimo della vita nostra e dell’umanità, anche se attorno – come in quella sera – calano le tenebre della morte, si consuma il tradimento.

Preghiere e racconti

«Amen»

Celebrando l’eucaristia, la comunità ecclesiale partecipa al gesto di autoconsegna e di compassione di Gesù, lo rivive in sé e accetta di lasciarsi plasmare da esso, impegnandosi a trasformare i rapporti tra gli uomini in rapporti di consegna e di compassione.

L’eucaristia porta in sé la forza di cambiare in ciò che essa è coloro che la celebrano e mangiano di quell’unico pane e bevono di quel calice. Una prospettiva che trova il suo fondamento nell’atto stesso di istituzione dell’eucaristia ed appare tipica della patristica e della grande tradizione teologica. Basta ricordare, per tutti, uno straordinario testo di Agostino rivolto ai battezzati che, per la prima volta, si accostavano alla mensa eucaristica:                                                        alla mensa eucaristica:

«Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, il vostro mistero è deposto sulla tavola del Signore: voi ricevete il vostro proprio mistero!

Voi rispondete “Amen” a ciò che voi siete, e con la vostra risposta sottoscrivete. Sentite dire: “Corpus Christi, il Corpo di Cristo” e rispondete: “Amen”! Siate dunque membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia vero».

(S. AGOSTINO, Sermo 272, in PL 38, 1247).

«Tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4).

Queste parole di Mosè fanno riferimento alla storia d’Israele, che Dio ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù, e per quarant’anni ha guidato nel deserto verso la terra promessa. Una volta stabilito nella terra, il popolo eletto raggiunge una certa autonomia, un certo benessere, e corre il rischio di dimenticare le tristi vicende del passato, superate grazie all’intervento di Dio e alla sua infinita bontà.

Allora le Scritture esortano a ricordare, a fare memoria di tutto il cammino fatto nel deserto, nel tempo della carestia e dello sconforto. L’invito di Mosè è quello di ritornare all’essenziale, all’esperienza della totale dipendenza da Dio, quando la sopravvivenza era affidata alla sua mano, perché l’uomo comprendesse che «non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3).

Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame, una fame che non può essere saziata con il cibo ordinario. E’ fame di vita, fame di amore, fame di eternità. E il segno della manna – come tutta l’esperienza dell’esodo – conteneva in sé anche questa dimensione: era figura di un cibo che soddisfa questa fame profonda che c’è nell’uomo.

Gesù ci dona questo cibo, anzi, è Lui stesso il pane vivo che dà la vita al mondo (cfr Gv 6,51). Il suo Corpo è il vero cibo sotto la specie del pane; il suo Sangue è la vera bevanda sotto la specie del vino. Non è un semplice alimento con cui saziare i nostri corpi, come la manna; il Corpo di Cristo è il pane degli ultimi tempi, capace di dare vita, e vita eterna, perché la sostanza di questo pane è Amore.

Nell’Eucaristia si comunica l’amore del Signore per noi: un amore così grande che ci nutre con Sé stesso; un amore gratuito, sempre a disposizione di ogni persona affamata e bisognosa di rigenerare le proprie forze. Vivere l’esperienza della fede significa lasciarsi nutrire dal Signore e costruire la propria esistenza non sui beni materiali, ma sulla realtà che non perisce: i doni di Dio, la sua Parola e il suo Corpo.

Se ci guardiamo attorno, ci accorgiamo che ci sono tante offerte di cibo che non vengono dal Signore e che apparentemente soddisfano di più. Alcuni si nutrono con il denaro, altri con il successo e la vanità, altri con il potere e l’orgoglio. Ma il cibo che ci nutre veramente e che ci sazia è soltanto quello che ci dà il Signore! Il cibo che ci offre il Signore è diverso dagli altri, e forse non ci sembra così gustoso come certe vivande che ci offre il mondo.

Allora sogniamo altri pasti, come gli ebrei nel deserto, i quali rimpiangevano la carne e le cipolle che mangiavano in Egitto, ma dimenticavano che quei pasti li mangiavano alla tavola della schiavitù. Essi, in quei momenti di tentazione, avevano memoria, ma una memoria malata, una memoria selettiva.

Ognuno di noi, oggi, può domandarsi: e io? Dove voglio mangiare? A quale tavola voglio nutrirmi? Alla tavola del Signore? O sogno di mangiare cibi gustosi, ma nella schiavitù? Qual è la mia memoria? Quella del Signore che mi salva, o quella dell’aglio e delle cipolle della schiavitù? Con quale memoria io sazio la mia anima?

Il Padre ci dice: «Ti ho nutrito di manna che tu non conoscevi». Recuperiamo la memoria e impariamo a riconoscere il pane falso che illude e corrompe, perché frutto dell’egoismo, dell’autosufficienza e del peccato. Tra poco, nella processione, noi seguiremo Gesù realmente presente nell’Eucaristia. L’Ostia è la nostra manna, mediante la quale il Signore ci dona se stesso.

A Lui ci rivolgiamo con fiducia: Gesù, difendici dalle tentazioni del cibo mondano che ci rende schiavi; purifica la nostra memoria, affinché non resti prigioniera nella selettività egoista e mondana, ma sia memoria viva della tua presenza lungo la storia del tuo popolo, memoria che si fa “memoriale” del tuo gesto di amore redentivo. Amen.

(Dall’Omelia di Papa Francesco per la messa celebrata sul sagrato di San Giovanni in Laterano per il Corpus Domini, 19 giugno 2014).

Il nascondimento di Dio nell’eucaristia

Anche in questa lettera voglio tornare per un istante sul tema dell’eucaristia, perché l’eucaristia può definirsi a buon diritto il sacramento in cui Dio si nasconde. Che c’è di più comune di un po’ di pane e di un bicchiere di vino? Che c’è di più semplice delle parole: «Prendete e mangiate, prendete e bevete: questo è il mio corpo e sangue. Fate questo in memoria di me»?.

Mi sono trovato spesso con degli amici intorno a una piccola tavola, ho preso del pane e del vino e ho ripetuto le parole dette da Gesù quando si congedò dai suoi discepoli. Niente di speciale o di spettacolare, nessuna grande folla, nessun canto straordinario, nessuna formalità. Solo alcune persone che mangiano un pezzo di pane che non basta a sfamarli e bevono un sorso di vino che non basta a dissetarli. Eppure… in questo nascondimento è presente Gesù risorto e si rivela l’amore di Dio. Come Dio si fece uomo per noi nel nascondimento, così pure nel nascondimento egli si fa per noi cibo e bevanda. Tanta gente passa vicino all’eucaristia senza curarsene, eppure l’eucaristia è il più grande avvenimento che possa accadere tra noi uomini.

Durante il mio soggiorno all’‘Arca’, in Francia, ho scoperto la stretta relazione tra il nascondimento di Dio nell’eucaristia e il suo nascondimento nel popolo di Dio. Mi ricordo che una volta madre Teresa mi disse che non si può vedere Dio nei poveri, se non lo si vede nell’eucaristia. Quelle parole mi sembrarono allora un po’ esagerate; ma ora che ho passato un anno intero con gli handicappati comincio a capirne meglio il significato. Non è realmente possibile vedere Dio negli esseri umani, se non lo si vede nella realtà nascosta del pane che scende dal cielo. Fra gli esseri umani puoi vedere tipi di ogni specie: angeli e demoni, santi e bruti, anime caritatevoli e malevoli maniaci del potere. Tuttavia, è solo quando hai imparato per esperienza personale quanto Gesù si curi di te e quanto egli desideri essere il tuo cibo quotidiano, è solo allora che impari anche a vedere ogni cuore come dimora di Gesù. Quando il tuo cuore è toccato dalla presenza di Gesù nell’eucaristia, ricevi occhi nuovi, capaci di conoscere la stessa presenza nel cuore degli altri. I cuori si parlano fra loro. Il Gesù che è nel nostro cuore parla al Gesù che è nel cuore dei nostri fratelli e delle sorelle. È questo il mistero eucaristico di cui noi facciamo parte. Noi vogliamo vedere dei risultati e  se possibile – vogliamo vederli subito. Ma Dio opera in segreto e con pazienza divina. Partecipando all’eucaristia riuscirai un po’ alla volta a comprendere questa verità. E allora il tuo cuore potrà cominciare ad aprirsi al Dio che soffre in chi ti sta intorno.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 78).

Parola ed eucaristia

L’eucaristia, con tutta la realtà sacramentale che da essa promana, è memoria della Pasqua di Gesù, non nel senso psicologico del ricordo, sulla misura e secondo le leggi della memoria umana, bensì nella luce della potenza dell’amore divino manifestato nella Pasqua. In Gesù morto e risorto Dio proclama e attua la sua amorosa volontà di vicinanza all’uomo, di presenza nella storia, di perdono del peccato, di vittoria sulla morte, di inizio di una vita nuova. L’eucaristia è la concreta modalità storica con cui l’amore onnipotente di Dio, culminante nella Pasqua di Gesù, raggiunge il suo intento di rendersi realmente presente e operante in ogni momento della storia umana.

L’eucaristia è presenza viva e reale di Gesù, del suo mistero, del suo sacrificio, della sua Pasqua. Tutta la vicenda di Gesù, dall’incarnazione del Figlio preesistente alla dolorosa umiliazione del Crocifisso, alla glorificazione del Cristo risuscitato e datore dello Spirito, si ripropone a noi nell’eucaristia, in forza dell’interiore efficacia del sacrificio pasquale.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 142-143).

Diventare segni di Cristo amore

Lo Spirito di Cristo che ha parlato per mezzo dei profeti, e che nel Cristo morto e risorto ha ridato al mondo la speranza dell’amore, è presente e operante nella Chiesa, che non cessa di ripresentare all’uomo d’oggi l’istanza suprema della verità e della carità [ … ].

La Chiesa, infatti, ha la missione, umile e ardente, povera e fiduciosa insieme, di riconciliare con l’amore la società e di restituire l’unità al mondo.

Noi Chiesa, come comunione d’amore, come luogo della perfetta amicizia, siamo chiamati, partendo dalla nostra povertà, fragilità, dal nostro peccato, a essere principio da cui procede la vita autentica del singolo; siamo chiamati come Chiesa – perché Gesù ci ama – a essere il noi del mondo riconciliato che ha come legge suprema, e in un certo senso unica, la carità, cioè l’amore gratuito e autentico.

Questa Chiesa, di cui siamo grati di essere membra e servitori, ci presenta Gesù, esempio e fonte di carità perfetta principalmente nell’eucaristia. È Gesù nell’atto di dare la vita per te che ti viene proposto nel mistero della Cena.

O Gesù, Cristo amore,

manifesta la tua presenza in mezzo a noi!

Fa’ che ci accostiamo alla tua cena

non come Giuda, che pensa ai suoi trenta denari:

ma come Pietro che ti dice: Signore, purificami interamente!

Lavami piedi, testa e tutte le membra,

purifica ogni mio amore sbagliato,

rendimi capace di amore vero.

Fammi, o Signore, segno di unità

nella tua Chiesa;

fammi strumento della tua pace nel mondo!

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2009, 156-157).

Il mistero del corpo e del sangue

Concluse le antiche feste della Pasqua che si celebravano per ricordare l’antica liberazione dalla schiavitù d’Egitto del popolo di Dio, Cristo è passato alla nuova Pasqua e ha voluto che la chiesa la celebrasse in memoria della sua redenzione. Al posto della carne e del sangue dell’agnello sostituì il mistero del suo corpo e del suo sangue. […] Egli stesso spezza il pane che porge ai discepoli per dimostrare che il suo corpo sarà in futuro spezzato non contro la sua volontà, ma, come dice altrove, egli ha il potere di offrire la sua vita da se stesso e di riprenderla di nuovo (cfr. Gv 10,18). E prima di spezzare il pane, lo benedice con la grazia sicura del sacramento perché insieme con il Padre e lo Spirito santo ricolma di grazia divina la natura umana che ha assunto per sottostare alla passione. Benedisse dunque il pane e lo spezzò perché volle sottomettersi alla morte in modo da dimostrare che in lui era veramente la potenza della divina immortalità e insegnare così che il suo corpo ben presto sarebbe risorto dalla morte. «E preso un calice, rese grazie, lo diede loro e tutti ne bevvero» (Mc 14,23). Nell’imminenza della passione rese grazie dopo aver preso il pane. […] E lui che non meritò affatto di soffrire, umilmente nella sofferenza benedisse per mostrare come deve comportarsi chiunque non soffre per propria colpa. Infatti, nel momento stesso in cui per compiere ogni giustizia si addossa il peso della nostra colpa, rende ugualmente grazie al Padre proprio per mostrare in che modo dobbiamo sottometterci alla correzione. «E disse loro: Questo è il mio sangue della nuova alleanza, versato per molti» (Mc 14,24). Poiché il pane rinvigorisce il corpo, mentre il vino agisce sul sangue, misticamente il primo si riferisce al corpo di Cristo e il secondo al suo sangue. Ma poiché è necessario che noi restiamo in Cristo e Cristo in noi, il vino del Signore si mischia nei calici con l’acqua, dato che Giovanni testimonia: «Le acque sono i popoli» (Ap 17,15). A nessuno è consentito di fare offerta di sola acqua o solo vino, come neppure di grano che non sia stato impastato con l’acqua per fame pane. E questo perché non si pensi che il corpo debba essere separato dalle membra, o che Cristo abbia sopportato la passione non per amore della nostra redenzione, o che noi possiamo essere salvati e offerti al Padre senza la passione di Cristo.

(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco 4, COL 120, pp. 611-612).

La singolarità dell’eucaristia

«Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro» (Gv 21, 18). Questa comunione di mensa tra Gesù e i suoi, anche se non è un’eucaristia propriamente detta, riprende il vocabolario eucaristico del Nuovo Testamento e ci invita a riflettere sulla cena e sull’eucaristia.

L’eucaristia, così come è accolta nella fede della Chiesa, presenta un aspetto sorprendente, che sconvolge l’intelligenza e commuove il cuore. Siamo di fronte a uno di quei gesti abissali dell’amore di Dio, davanti ai quali l’unico atteggiamento possibile all’uomo è una resa adorante piena di sconfinata gratitudine.

L’eucaristia non è solo la modalità voluta da Gesù per rendere perennemente presente l’efficacia salvifica della Pasqua.

In essa non è presente soltanto la volontà di Gesù che istituisce un gesto di salvezza; in essa è presente semplicemente (ma quali misteri in questa semplicità!) Gesù stesso.

Nell’eucaristia Gesù dona a noi se stesso. Solo lui può lasciare in dono a noi se stesso, perché solo lui è una cosa sola con l’amore infinito di Dio, che può fare ogni cosa.

Certo, occorre badare anche agli strumenti umani, di cui Gesù si serve. Poiché la Pasqua rivela e insieme celebra l’amore di Dio che attrae l’uomo a sé, troviamo plausibile che Gesù nell’ultima cena abbia valorizzato la tensione alla comunione con Dio espressa nel gesto del mangiare insieme e soprattutto abbia fatto riferimento al valore commemorativo dell’alleanza, che era proprio della liturgia pasquale veterotestamentaria. È quindi normale e doveroso che la Chiesa, nel configurare concretamente la liturgia eucaristica, abbia assunto nel passato e debba assumere e aggiornare continuamente le espressioni celebrative provenienti dalla nativa spiritualità umana e dalla liturgia veterotestamentaria.

Ma tutto questo è percorso e oltrepassato da una novità assoluta: è tale la forza di camminare manifestata e attuata nel sacrificio della croce, che essa rende presente nell’eucaristia il Cristo stesso nell’atto di donarsi al Padre e agli uomini per restare sempre con loro.

Gesù, che già in molti modi attrae a sé la Chiesa con la forza del suo Spirito e della sua Parola, suscita nella Chiesa la volontà di obbedire al suo comando: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).

E quando la Chiesa, nell’umiltà e nella semplicità della sua fede, obbedisce a questo comando, Gesù, con la potenza del suo Spirito e della sua Parola, porta l’attrazione della Chiesa a sé al livello di una comunione così intensa, da diventare vera e reale presenza di lui stesso alla Chiesa: il pane e il vino diventano realmente, per quella misteriosa trasformazione che è chiamata transustanziazione, il corpo dato e il sangue versato sulla croce; nei segni conviviali del mangiare, bere, festeggiare si attua la reale comunione dei credenti col Signore; le funzioni sacerdotali si svolgono non per designazione o delega umana, ma per una reale assunzione dei ministri umani nel sacerdozio di Cristo, secondo le modalità stabilite da Cristo stesso.

L’eucaristia si presenta così come la maniera sacramentale con cui il sacrificio pasquale di Gesù si rende perennemente presente nella storia, dischiudendo a ogni uomo l’accesso alla viva e reale presenza del Signore.

Si tratta di prodigi che fioriscono su quel prodigio di inesauribile amore, che è il mistero pasquale. D’altra parte si potrebbe dire che si tratta della cosa più semplice: Dio, nell’eucaristia di Gesù, prende sul serio la propria volontà di alleanza, cioè la decisione di stare realmente con gli uomini, di accoglierli come figli, di attrarli nell’intimità della sua vita.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, vol. II: Dalla croce alla gloria, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, 91-94).

Non di solo pane vive l’uomo

Che cosa voleva dire Gesù affermando che l’uomo non vivrà di solo pane? Perché usa questa espressio­ne al futuro invece che al presente? Il Maestro ci vuo­le far comprendere che la vita vera, quella che atten­de l’uomo, non la puoi conseguire con i beni mate­riali. Essi tutt’ al più permettono alla carne e al sangue di sopravvivere nel frammento di tempo presente, ma senza le prospettive che si aprono sull’ eternità. Se vuoi vivere in pienezza, oltre i limiti dello spazio e la corrosione del tempo, devi nutrirti di un altro pane, il pane della vita, che viene dal cielo e non dalla ter­ra: «Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Caro amico, la realtà del nostro tempo è sotto i tuoi occhi. Guardati intorno ed esamina la tua situazione esistenziale. Quante sono le persone che hanno fame del pane vivo che dà la vita eterna? Quanti sono quelli che sentono il bisogno di cercare Gesù e di scoprirlo nella loro vita? I beni materiali so­no divenuti una droga, di cui hanno continuamente bisogno, ma che li irretiscono nella tela che il ragno infernale tende instancabilmente. Non attendere che la clessidra del tempo si sia svuotata del tutto per ren­derti conto dell’inganno mortale.

(Padre Livio FANZAGA, Fa’ posto a Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 9).

Nel tuo tabernacolo

Signore Gesù,

c’è grande silenzio nel tuo tabernacolo.

Dov’è la tua luce? Chi sente la tua voce?

Chi ode i tuoi passi?

Nel tuo tabernacolo, o Signore,

tutto è immobile, tutto è silenzio, tutto è mistero.

Eppure, ogni giorno la tua parola invita alla lode.

Eppure, ogni giorno, tu imbandisci una mensa

per coloro che ti amano.

Davanti al tuo santo altare

quanti hanno ritrovato la fede,

quanti hanno riacquistato la grazia,

quanti si sono votati alla tua causa!

Tu solo conosci l’intima storia di innumerevoli anime

che qui, dinanzi a te,

hanno espresso la loro gioia,

hanno versato calde lacrime,

hanno ritrovato fiducia e speranza.

Nel tuo tabernacolo, o Signore, c’è pienezza di vita.

Tu parli, o Signore.

Tu ascolti, o Signore,

Tu ami, o Signore.

Preghiera

Signore Gesù,

con gioia ci prostriamo in adorazione presso il tuo santo altare.

Con te, o Gesù,

tutto è merito di vita eterna,

tutto è luce che rischiara la vita,

tutto aiuta a proseguire il cammino,

tutto è dolcezza… anche il dolore!

Tu sei fonte copiosa di purissima gioia.

Gioia che cominciamo a gustare qui,

nella valle del pianto,

e che sarà piena quando ci svelerai la tua gloria:

al gaudio della fede subentrerà quello della visione.

Signore Gesù,

tu, pane vivo disceso dal cielo, ci basti.

Non abbiamo bisogno di altri.

Tu sei la nostra vita.

Tu sei la nostra gioia.

Tu sei il nostro tutto.

Ci affidiamo a te:

nostro conforto,

nostro gaudio,

nostra pace.

(Paolo VI).

    

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

La Giornata mondiale dei bambini è un antidoto potente contro la disperazione

Ubaldo Montisci*

Educare ed educare alla fede non è mai stato semplice. Non lo è neanche adesso. C’è bisogno di un soprassalto d’amore, perché solo l’amore è creativo. Le difficoltà non mancheranno, ma quando si ama la fantasia si scatena e le soluzioni si trovano. La Giornata mondiale dei bambini li pone al centro dell’attenzione della società e può diventare uno stimolo perché le comunità cristiane e le famiglie, in particolare, si pongano fattivamente al loro servizio per far sì che quanto si spera per loro diventi realtà e non rimanga ingenua illusione di anime sognanti

Quando a inizio millennio, nell’esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa (2003), san Giovanni Paolo II voleva dire in sintesi i problemi che affliggono il nostro Continente li riassumeva tutti nella mancanza di speranza: “L’uomo, però – egli aggiungeva – non può vivere senza speranza: la sua vita sarebbe votata all’insignificanza e diventerebbe insopportabile” (n. 10).

I bambini sono fonte di speranza. La loro presenza è presagio di futuro. La Giornata mondiale dei bambini si propone, quindi, come antidoto potente contro la disperazione, rischio sempre presente in un mondo disorientato e scoraggiato qual è il nostro.

I bambini, crescendo, diventano ciò che l’ambiente propone loro come modelli umani riusciti, interiorizzano i valori che vengono trasmessi, che respirano in famiglia e negli ambienti ordinari di vita. Questa coscienza interpella fortemente anche le comunità ecclesiali, i tanti educatori che si adoperano per la loro crescita umana e cristiana. Che cosa si può fare per consentire loro di “fiorire”, di realizzare le potenzialità di cui sono portatori, di maturare avendo come riferimento le logiche evangeliche?
Come ricorda la Gravissimum educationis (1965), la prima responsabile dell’educazione dei figli è la famiglia: la sua funzione educativa “è tanto importante che, se manca, può difficilmente essere supplita” (n. 3). Spesso i genitori, però, non si sentono all’altezza, credono di essere inadeguati per l’educazione cristiana dei propri figli.

Forse, una più esatta coscienza di ciò dovrebbero fare li renderebbe più disposti ad assumersi le proprie responsabilità. Infatti, piuttosto che di nozioni da insegnare e riti da praticare, dovrebbero preoccuparsi semplicemente di “vivere” quei valori umanizzanti come l’onestà, la solidarietà, l’accoglienza, il perdono… che sono la base su cui innestare gli insegnamenti del Vangelo.

Ciò concorre a favorire un clima famigliare favorevole all’incontro con Gesù. Il Catechismo dei bambini (1992) ricorda che “c’è un giorno, c’è un’ora nella vita di un bambino, in cui per la prima volta risuona al suo orecchio il nome: Gesù. […]  È decisivo allora che questo primo incontro con il nome di Gesù avvenga sotto il segno della vita e sia associato alla gioia e all’amore. Quando ciò avviene, tutti i successivi incontri saranno più facili, perché evocano una presenza di bene” (n. 130).

Il compito dei genitori è facilitato anche dal fatto che non risponde al vero che sia necessario “introdurre” nel bambino il bisogno di Dio perché il bambino è in sé un essere religioso. C’è una certa “connaturalità” nel rapporto tra il bambino e Dio; è un legame già esistente che va solo custodito dai genitori.

Se il bambino ha bisogno di Dio – vale anche per lui ciò che dice il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992): “Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa” (n. 27) – il compito dei genitori è quello di nutrire quest’esigenza prendendo seriamente in considerazione le domande grandi dei piccoli.
E le risposte saranno all’insegna della semplicità e dell’essenzialità: per comunicare con i bambini basta uno sguardo, un sorriso, una voce, un canto, uno scambio di messaggi. Quelle alle domande religiose potranno essere date, ad esempio, valorizzando la bellezza della natura, che rimanda a un progetto meraviglioso d’amore da parte di Dio; raccontando la vicenda terrena di Gesù; coltivando dei piccoli gesti e preghiere che fanno capire che si crede in un Essere provvidente…

L’importante è che il cammino sia “fatto insieme” e che il bambino sia libero di esprimere il proprio modo di credere: ci vuole una premura non invadente, quel rispetto dato dalla convinzione che loro saranno i credenti del futuro, una realtà che noi non sappiamo ancora come sarà. C’è tanto da imparare da loro!

Educare ed educare alla fede non è mai stato semplice. Non lo è neanche adesso. C’è bisogno di un soprassalto d’amore, perché solo l’amore è creativo. Le difficoltà non mancheranno, ma quando si ama la fantasia si scatena e le soluzioni si trovano.
La Giornata mondiale dei bambini li pone al centro dell’attenzione della società e può diventare uno stimolo perché le comunità cristiane e le famiglie, in particolare, si pongano fattivamente al loro servizio per far sì che quanto si spera per loro diventi realtà e non rimanga ingenua illusione di anime sognanti. Come amava dire mons. Tonino Bello, “non basta dire dei sì, bisogna fare dei sì”.

(*) salesiano, catecheta, membro Istituto di Catechetica

25 Maggio 2024

DOMENICA DI PENTECOSTE

Lectio – Anno B

Prima lettura: Atti 2,1-11

        Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».    
  • In questo brano degli Atti degli Apostoli sono presentati i due propulsori dello sviluppo della chiesa: lo Spirito e la Parola. La parola dell’apostolo arriva, provoca la fede e converte, perché è stata preceduta dallo Spirito, che solo apre l’orecchio all’ascolto.

     Al tempo di Gesù la Pentecoste, o festa delle settimane — antica festa agricola (offerta delle messi), celebrata sette settimane dopo la pasqua (cf. Lv 23,15-21) — aveva assunto anche il senso di commemorazione dell’alleanza del Signore e di celebrazione della legge mosaica. Poiché il giorno inizia la sera del giorno prima, l’espressione «stava compiendosi il giorno di Pentecoste» indica la mattinata inoltrata che conclude il periodo della festività. Ma essa indica anche una realtà più profonda: il «giorno» atteso dai profeti sta per finire; la storia è al suo giro di boa, perché il vero Israele incomincia a separarsi dal giudaismo incredulo.

     La scena descritta nel testo ricalca la teofania del Sinai (Es 19,16-22): l’antica alleanza è sostituita dalla nuova alleanza. Tuoni, lampi, rumore di tromba, fumo indicano la presenza del Signore nel Sinai e la «discesa» dello Spirito sugli apostoli.

     L’antica legge diventa «nuova» per la presenza dello Spirito, che non solo istruisce ma anche dà la forza di compiere quello che la legge richiede.

     Il «fuoco» che purifica e illumina (cf. Is 6,6), indica una trasformazione interiore nei discepoli di Gesù, i quali, da poveri e incolti pescatori, diventano annunciatori del vangelo: il messaggio più sconvolgente che gli uomini possano sentire (At 1,8).

     La presenza di tutte le nazioni a Gerusalemme ha un significato più profetico che storico: la Chiesa oltrepassa i confini del giudaismo; ad essa tutti possono accedere per sperimentare i frutti della Nuova Alleanza promessa non solo per Israele, ma per tutti.

     Il miracolo delle lingue può essere una semplice glossolalia (gesti simbolici tradotti da un interprete in un linguaggio comprensibile) o un apprendimento (o una traduzione simultanea) di nuove lingue (così si potrebbe comprendere come i presenti sentano parlare le loro lingue). Ma Luca potrebbe essere stato influenzato dalla tradizione giudaica secondo la quale nel Sinai la voce di Dio si era divisa in 70 lingue, perché la capissero tutte le 70 nazioni della terra: con il dono dello Spirito la Chiesa si apre all’evangelizzazione di tutte le nazioni del mondo.

Seconda lettura: Galati 5,16-25

        Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.  

La figliolanza abramitica, o divina, non è possibile senza lo Spirito. È solo lo Spirito che fa di un uomo della carne, un uomo dello Spirito. L’uomo della carne è l’uomo schiavo dei propri vizi: fornicazione, impurità, libertinaggio (disordini sessuali), idolatria, stregoneria (corruzione del culto), inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidia (peccati contro la comunità), ubriachezza, orge (disordini dei sensi), e cose del genere (l’elenco è solo indicativo). L’uomo vorrebbe compiere la legge, che porta alla vita, ma non ha in se stesso la forza di compierla, e si trova a fare quello che non vuole (v. 17): gli è impedito l’esercizio della vera libertà, quella di amare rinnegando se stesso per perdersi nell’altro.In questa battaglia contro l’uomo della carne che vorrebbe tornare a prevalere nella vita del cristiano, s’inserisce lo Spirito Santo. La sua presenza è indicata dai frutti: il punto d’arrivo dell’attività vivente dello Spirito, che sollecita la nostra libera cooperazione. Essi sono: amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (V. 22). Sono gli atteggiamenti dell’uomo nuovo, liberato dalle sue paure e dal suo egoismo, in grado di amare gratuitamente. La comunità, in questa battaglia, può anche dire di no alla forza liberante dello Spirito, e ricadere nelle antiche opere della carne.

Vangelo: Giovanni 15,26-27; 16,12-15

              In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».  

Esegesi

     I due brani del vangelo sono tratti dal secondo discorso d’addio di Gesù durante la cena pasquale. Gesù parla della testimonianza che i suoi discepoli daranno nel contesto della persecuzione. Essi non saranno mai soli, perché egli manderà il Consolatore, o meglio il Difensore, che procede dal Padre. La forza necessaria, infatti, per testimoniare la verità su Cristo durante il giudizio verrà dallo Spirito di verità, che in modo silenzioso continua l’opera di Gesù che è la Verità.

     Lo Spirito ricorderà loro quel che hanno visto e udito fin da principio. La testimonianza oculare non basta per comprendere Gesù. È solo lo Spirito che dona gli occhi della fede per capire chi veramente egli sia: «per il momento non siete capaci di portarne il peso» (16,12).

     Lo Spirito è una guida «a tutta la verità» (16.13): Gesù è la verità, ma è anche la «via», che conduce alla verità. Lo Spirito dopo la risurrezione sarà il maestro interiore che li accompagnerà alla comprensione sempre più profonda di Gesù. Anche i vangeli sono stati scritti sotto la guida di questo Spirito, e così pure la comprensione del loro significato nelle comunità del futuro avverrà sotto l’azione dello Spirito.

     Come Gesù ci ha detto tutto quello che ha udito dal Padre, così anche lo Spirito non dà del suo, ma di quello che riceve da Gesù (v. 13b). Egli rivela e glorifica Gesù, mettendo in evidenza la sua natura trascendente (v. 14): questa è anche l’opera d’ogni discepolo dopo la Pasqua.

Meditazione

«Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1). Erano passati cinquanta giorni dalla Pasqua e centoventi seguaci di Gesù (i Dodici con il gruppo dei discepoli assieme a Maria e alle altre donne) stavano radunati, come ormai abitualmente facevano, nel cenacolo. Dalla Pasqua in poi, infatti, non avevano smesso di ritrovarsi assieme per pregare, ascoltare le Scritture e vivere in fraternità. Questa tradizione apostolica non si è mai più interrotta, da allora ad oggi. Non solo a Gerusalemme ma in tante altre città del mondo i cristiani continuano tutt’ora a radunarsi «tutti assieme nello stesso luogo» per ascoltare la Parola di Dio, per nutrirsi del pane della vita e per continuare a vivere assieme nella memoria del Signore.

Quel giorno di Pentecoste fu decisivo per i discepoli a motivo degli eventi che accaddero sia dentro il cenacolo che fuori. Narrano gli Atti degli Apostoli che «venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso» sulla casa dove si trovavano i discepoli; fu una sorta di terremoto che si udì in tutta Gerusalemme, tanto da richiamare molta gente davanti a quella porta per vedere cosa stesse accadendo. Apparve subito che non si trattava di un normale terremo­to. C’era stata una grande scossa, ma non era crollato nulla. Da fuori non si vedevano i «crolli» che stavano avvenendo dentro. All’interno del cenacolo, infatti, i discepoli sperimentarono un vero e proprio ter­remoto, che pur essendo fondamentalmente interiore, coinvolse visibil­mente tutti loro e lo stesso ambiente. Videro delle «lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue». L’immagine del terremoto accompagna spesso nella Bibbia l’avvento di Dio, il suo irrompere improvviso nella storia. In Es 19 ad esempio la teofania di Dio si accompagna al fuoco e al tremare del monte, da cui Dio dona la legge al suo popolo (Es 19,16-19). Immagine che scuote, interrompendo lo scorrere abituale del tempo e delle azioni.

Quell’esperienza fu per tutti loro – dagli apostoli, ai discepoli, alle donne – un’esperienza che cambiò profondamente la loro vita. Forse ricordarono quello che Gesù aveva detto loro nel giorno dell’Ascensio­ne: «voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto» (Lc 24,49); e compresero le altre parole che Gesù aveva detto loro: «È bene per voi che io me ne vada; perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito» (Gv 16, 7). Quella comunità aveva bisogno della Pentecoste, ossia di un evento che sconvolgesse profondamente il cuore di ciascu­no. In effetti, una forte energia li avvolse e una specie di fuoco li divo­rava nel profondo; la paura crollò e cedette il passo al coraggio, l’indif­ferenza lasciò il campo alla compassione, la chiusura fu sciolta dal calore, l’egoismo fu soppiantato dall’amore. Era la prima Pentecoste. La chiesa iniziava il suo cammino nella storia degli uomini.

Il terremoto interiore che aveva cambiato il cuore e la vita dei disce­poli non poteva non avere riflessi anche al di fuori del cenacolo. Quella porta tenuta sbarrata per cinquanta giorni «per paura dei giudei», finalmente viene spalancata e i discepoli, non più ripiegati su se stessi, non più concentrati sulla loro vita, iniziano a parlare alla numerosa folla sopraggiunta. La lunga e dettagliata elencazione di popoli fatta dall’autore degli Atti sta a significare la presenza del mondo intero davanti a quella porta: sono ebrei da Roma; assieme ci sono anche dei proseliti, ossia pagani avvicinatisi alla Legge di Mosè. Ebbene, mentre i discepoli di Gesù parlano, tutti costoro li intendono nella propria lin­gua: «Li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio», dicono stupiti. Si potrebbe dire che questo è il secondo miracolo della Pentecoste.

Da quel giorno lo Spirito del Signore ha iniziato a superare limiti che sembravano invalicabili; sono quei limiti che legano pesantemente ogni uomo e ogni donna al luogo, alla famiglia, al piccolo contesto in cui si è nati e vissuti. E soprattutto terminava il dominio incontrastato di Babele sulla vita degli uomini. Il racconto della Torre di Babele ci mostra gli uomini protesi a costruire un’unica città che con la sua torre dovrebbe giungere sino al cielo; è l’opera delle loro mani, è il vanto di tutti i costruttori. Ma l’orgoglio proprio mentre li univa, subito li travol­se; non si compresero più l’uno accanto all’altro e si dispersero su tutta la terra (Gn 11,1-9). La dispersione della Torre di Babele è un racconto antico; ma in esso si descrive la vita ordinaria dei popoli sulla terra, spesso divisi tra loro e in lotta, tesi a sottolineare quel che divide piut­tosto che quello che li unisce. Ciascuno è rivolto solo ai propri interes­si, senza badare al bene comune.

La Pentecoste pone termine a questa Babele di uomini in lotta solo per se stessi. Lo Spirito Santo effuso nel cuore dei discepoli dà inizio ad un tempo nuovo, il tempo della comunione e della fraternità. È un tempo che non nasce dagli uomini, sebbene li coinvolga; e neppure sgorga dai loro sforzi, pur richiedendoli. È il tempo che viene dall’alto, da Dio. Dal cielo – narrano gli Atti – scese una pioggia come di lingue di fuoco le quali si posarono sul capo di ciascuno dei presenti: era la fiamma dell’amore che brucia ogni asperità e lontananza; era la lingua del Vangelo che varca i confini stabiliti dagli uomini e tocca i loro cuori perché si commuovano. Il miracolo della comunione inizia proprio a Pentecoste, dentro il cenacolo e davanti alla sua porta. È qui – tra il cenacolo e la piazza del mondo – che inizia la Chiesa: i discepoli, pieni di Spirito Santo, vincono la loro paura e iniziano a predicare. Gesù aveva detto loro: «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). Lo Spirito è venuto, e da quel giorno continua a guidare i discepoli per le vie del mondo.

La solitudine e la guerra, la confusione e l’incomprensione, l’odio e la lotta fratricida, non sono più ineluttabili nella vita degli uomini, perché lo Spirito è venuto a «rinnovare la faccia della terra» (Sal 103,30). L’apostolo Paolo, nella Lettera ai Galati, esorta i credenti a camminare «secondo lo Spirito per non essere portati a soddisfare il desiderio della carne… sono ben note le opere della carne: fornicazio­ne, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere» (Gal 5, 19-21). E aggiunge: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22). Di questi frutti ha bisogno il mondo intero. La Pentecoste è l’inizio della Chiesa, ma anche l’inizio di un nuovo mondo. Ebbene, anche in questo inizio del millennio il mondo sta in attesa di una nuova Pentecoste. Lo Spirito Santo, come quel giorno di Pentecoste, è effuso anche su di noi perché usciamo dalle nostre gret­tezze e dalle nostre chiusure e comunichiamo al mondo l’amore del Signore. Anche a noi è data in dono la «lingua» del Vangelo e il «fuoco» dello Spirito, perché mentre comunichiamo il Vangelo al mondo scal­diamo il cuore dei popoli perché si raccolgano attorno al Signore.

L’immagine della domenica

Saint Jacques (frazione di Ayas)      –      2016  

«Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, … intrattenetevi … col cielo.  Allora la vostra anima troverà la quiete».

(Pavel A. Florenskij)


Preghiere e racconti

La Pentecoste

La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito. La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion. La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1,45). La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano. Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore. In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra. Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.

Aprirci al “di più”

Il dono che il Signore vuol farci e che da sempre ci ha fatto con il suo Spirito è di capire che l’uomo si realizza andando oltre se stesso, che si realizza donandosi.

Dio non esiste se non nella relazione di donazione del Padre al Figlio, e non è pensabile al di fuori dello Spirito che è effervescenza continua di amore. Egli è fuoco che brucia senza consumare, è al di là del mistero stesso del fuoco, pur essendo fuoco.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 54).

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

Leggenda cristiana

Una suggestiva leggenda cristiana racconta che durante l’ascensione, Gesù gettò un’occhiata verso la terra che stava piombando nell’oscurità. Soltanto alcune piccole luci brillavano timidamente sulla città di Gerusalemme. L’arcangelo Gabriele, che era venuto ad accogliere Gesù, gli domandò: Signore, che cosa sono quelle piccole luci? Sono i miei discepoli in preghiera, radunati intorno a mia madre. È il mio piano, appena rientrato in cielo, e di inviare loro il mio spirito, perché quelle fiaccole tremolanti diventino un incendio sempre vivo che infiammi d’amore, a poco a poco, tutti i popoli della terra.

L’arcangelo Gabriele osò replicare: e che farai, Signore, se questo piano non riesce?

Dopo un istante di silenzio, il Signore gli rispose dolcemente: “ma io non ho un altro piano…”.

Il piano di Gesù continua. Proprio nella sua terra, alcuni di questi piccoli fuochi continuano ad ardere alimentati dal coraggio dalla passione di uomini che hanno dedicato la vita per questo.

“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato”

E’ il 14 luglio.

Tutti si apprestano a danzare.

Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.

Ondate di guerra, ondate di ballo.

C’è proprio molto rumore.

La gente seria è a letto.

I religiosi dicono il mattutino di sant’Enrico, re.

Ed io, penso

all’altro re.

Al re David che danzava davanti all’Arca.

Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,

ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,

tanto erano felici di vivere:

Santa Teresa con le sue nacchere,

San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,

e san Francesco, davanti al papa.

Se noi fossimo contenti di te, Signore,

non potremmo resistere a questo bisogno di danzare

che irrompe nel mondo,

e indovineremmo facilmente

quale danza ti piace farci danzare

facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.

Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza

della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero,

di conoscerti con aria da professore,

di raggiungerti con regole sportive,

di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.

Un giorno in cui avevi un po’ voglia d’altro

hai inventato san Francesco,

e ne hai fatto il tuo giullare.

Lascia che noi inventiamo qualcosa

per essere gente allegra che danza la propria vita con te.

(…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti,

non occorre sapere dove la danza conduce.

Basta seguire,

essere gioioso,

essere leggero,

e soprattutto non essere rigido.

Non occorre chiederti spiegazioni

sui passi che ti piace fare.

Bisogna essere come un prolungamento,

vivo ed agile, di te.

E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra

scandisce.

(…)

Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,

e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica;

dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,

che la tua Santa Volontà

è di una inconcepibile fantasia,

e che non c’è monotonia e noia

se non per le anime vecchie,

che fanno tappezzeria

nel ballo gioioso del tuo amore.

Signore, vieni a invitarci.

(…)

Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo

che sono tristi;

se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo

che sono logoranti.

E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere;

sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.

Signore, insegnaci il posto

che tiene, nel romanzo eterno

avviato fra te e noi,

il ballo singolare della nostra obbedienza.

Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni;

in essa quel che tu permetti

da suoni strani

nella serenità di quel che tu vuoi.

Insegnaci a indossare ogni giorno

la nostra condizione umana

come un vestito da ballo che ci farà amare da te,

tutti i suoi dettagli

come indispensabili gioielli.

Facci vivere la nostra vita,

non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato,

non come un match dove tutto è difficile,

non come un teorema rompicapo,

ma come una festa senza fine

in cui l’incontro con te si rinnova,

come un ballo,

come una danza,

fra le braccia della tua grazia,

nella musica universale dell’amore.

Signore, vieni a invitarci.

(MADELEINE DELBRÊL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89.

Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo

La solennità di questo giorno ci riempie di gioia non soltanto perché riconosciamo la sua importanza, ma anche perché assaporiamo la sua dolcezza. Ciò che essa fa risaltare è l’amore. Ora, non vi è nel linguaggio umano una parola più dolce a udirsi, un sentimento più delizioso da coltivare. Quest’amore non è altro che la bontà di Dio, la sua benevolenza,

il suo amore. O piuttosto, Dio in persona è la bontà, la benevolenza, l’amore. E questa bontà si identifica al suo Spirito, che è esso stesso Dio. […] E secondo il disegno di Dio, in principio, lo Spirito di Dio ha riempito l’universo, «dispiegando la sua forza da un confine all’altro del mondo e governando ogni cosa con dolcezza» (Sap 8,1). Ma per quanto riguarda la sua opera di santificazione, è a partire da questo giorno di Pentecoste che lo Spirito del Signore ha riempito l’universo. Poiché è oggi che questo dolce Spirito è stato inviato dal Padre e dal Figlio per santificare ogni creatura secondo un nuovo disegno, un modo nuovo, una manifestazione nuova della sua potenza e della sua forza. Certo, in precedenza «lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39). […] Ma oggi, discendendo dalla dimora celeste, lo Spirito si è dato ai mortali con tutta la sua ricchezza, la sua fecondità. Così questa rugiada divina si stende su tutta la terra, nella diversità dei suoi doni spirituali. Ed è giusto che la pienezza delle sue ricchezze sia discesa dall’alto dei cieli per noi, perché pochi giorni prima, grazie alla generosità della nostra terra, il cielo aveva ricevuto il Signore. La nostra terra non ha mai prodotto nulla di più dolce, di più piacevole, di più delizioso, di più santo. […] «Lo Spirito di Cristo riempie l’universo, lui che tiene insieme tutti gli esseri, sente tutte le voci» (Sap 1,7). Ovunque lo Spirito agisce, ovunque lo Spirito prende la parola. Certamente prima dell’Ascensione lo Spirito fu dato ai discepoli, quando il Signore disse loro: «Ricevete lo Spirito santo» ( Gv 20,23). Ma in nessun modo, prima di Pentecoste, non si udì la voce dello Spirito santo, non si vide risplendere la sua potenza. E i discepoli di Cristo non giunsero a conoscerlo; non erano stati ancora riconfermati, la paura li obbligava ancora a nascondersi in una stanza a porte chiuse. Ma a partire da quel giorno, «la voce del Signore domina le acque, il Dio della gloria scatena il tuono, la voce del Signore spezza i cedri e tutti gridano: Gloria!» (cfr. Sal 28 [29] , 3.5.9).

(AELREDO DI RIEVAULX, Omelia sulla settuplice voce dello Spirito 1, in Sermones inediti, a cura di di C.H. Talbot, Roma 1952 pp. 112-114).

Preghiera allo Spirito Santo

Spirito Santo,

eterno Amore,

che sei dolce Luce

che mi inondi

e rischiari la notte del mio cuore;

Tu ci guidi qual mano di una mamma;

ma se Tu ci lasci

non più d’un passo solo avanzeremo!

Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda

e in cui si cela.

Se m’abbandoni

cado nell’abisso del nulla,

da dove all’esser mi chiamasti.

Tu a me vicino più di me stessa,

più intimo dell’intimo mio.

Eppur nessun Ti tocca

o Ti comprende

e d’ogni nome infrangi le catene.

Spirito Santo, eterno Amore.

(Edith Stein [S. Teresa Benedetta della Croce]).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Bertorello

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Atti 1,1-11

           Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».         
  • Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).

     Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v. 6). Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incomprensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).

     Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universalistico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra». Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illustrerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfino a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora conosciuto.

     Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assistenza dello Spirito. Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annunciatori e testimoni del Risorto. È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamente, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf. At 2,32-33).

     Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9). Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto. Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzione di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).

     In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.

     È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.

     È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «preparare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signore dell’universo, essa è destinata!

Seconda lettura: Efesini 4,1-13

          Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.            
  • A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.

     Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.

     La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

     Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di loro. Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente. «Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo...» (4,4-5).

     La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti diano il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».

     E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «predisposizioni» di natura e perciò da rivendicare a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti. «A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (4,7). Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa!

     A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fondamentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).

     Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nella Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune. Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsiasi altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pienezza di Cristo» (4,13). Il che è tremendamente impegnativo per tutti.

Vangelo: Marco 16,15-20

       In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.  

Esegesi

     Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo. Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8). Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Signore risorto!

     Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa. Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.

     Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.

     Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento. Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolungarne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura. Perciò essi vengono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed estendere per tutto l’arco della storia. È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annunciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).

     Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore. Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve essere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti. In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente. Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.

     E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» straordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Pentecoste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia. Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).

     Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.

     Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdurante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).

Meditazione

La festa dell’Ascensione di Gesù ci rende più presente, quasi più attuale, la visione del «cielo». Una volta un monaco di un monastero copto nel deserto egiziano chiese: gli uomini di oggi pensano a suffi­cienza alla loro dimora permanente? E continuò dicendo che per la maggior parte dei cristiani la vita nel cielo non è altro che un’appen­dice, un supplemento alla vita terrena che è invece ritenuta la vera vita stabile e permanente. La vita del cielo è considerata una specie di post-scriptum, l’appendice di un libro di cui la vita terrena è, appun­to, il vero testo. La verità — concludeva il monaco — è esattamente il contrario. La vita sulla terra è solo la prefazione di quel libro il cui testo è la vita del cielo.

Questa riflessione del monaco è molto saggia. Tuttavia potrebbe suo­nare un po’ semplicistico dire che si pensa troppo a questa vita terrena e poco a quella celeste. Il problema è forse un altro e riguarda il modo in cui pensiamo alla vita sulla terra. E c’è da dire che purtroppo è un modo depauperato, depotenziato e perciò sbagliato. Tutti pensiamo che la vita terrena è una cosa e quella del cielo totalmente un’altra. In realtà, la Scrittura ci suggerisce una continuità della vita, sebbene ci sarà una cesura alla fine dei tempi. Ed è in questa prospettiva che nel Credo si parla di «vita eterna» e non semplicemente di vita futura o dell’aldilà. È come dire che questa vita già da ora deve essere impastata di eternità; e lo è sia nel bene che nel male. Il paradiso e l’inferno iniziamo a viverli da questa terra e su questa nostra terra e in questo nostro tempo. In tal senso, la nostra vita terrena sarebbe trasformata di molto se avessimo lo sguardo rivolto verso il futuro, verso l’alto, verso il cielo. L’Ascensione viene a mostrarci qual è il futuro che Dio ha riservato ai suoi figli. E il futuro è quello raggiunto da Gesù. Ecco perché abbiamo bisogno di «vedere» già questo cielo, sebbene «in speculum et in enigmate» come dice l’apostolo Paolo, per poter vivere bene già su questa terra.

Il mistero dell’Ascensione, appena accennato dal Vangelo di Marco, è narrato con maggiore ampiezza dagli Atti degli Apostoli.

Gesù, scrive Luca, al termine dei suoi giorni, dopo aver parlato ai discepoli, «mentre lo guardavano fu elevato in alto e una nube lo sot­trasse ai loro occhi». Fu un’esperienza straordinaria per quel piccolo gruppo di discepoli. Possiamo immaginare il misto di stupore e di tristezza per la separazione; tanto che rimasero a guardare il cielo. Mentre erano fissi in questa posizione, «ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: “uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù… verrà allo stesso modo in cui l’ave­te visto andare in cielo”». Normalmente si interpreta questo testo come una sorta di dolce ma fermo rimprovero ai discepoli perché non si fermino a guardare le nubi del cielo, ma ritornino con il loro sguardo e soprattutto con il loro impegno nell’orizzonte della vita di tutti i giorni. Del resto è stato Gesù stesso ad esortare gli apostoli, proprio un momento prima di lasciarli, dicendo: «andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15-20). Tutt’altro quindi che restare a guardare il cielo.

Ma c’è anche una verità nel tenere gli occhi fissi al cielo. Non che i cristiani debbano formare un gruppo di esoterici fermi a contemplare dottrine astratte, magari per evadere la complessa e talora durissima vita quotidiana. Tenere gli occhi fissi verso il cielo vuol dire tenere ben ferma la meta ove dobbiamo condurre noi stessi e il mondo, le nostre comunità e l’intera storia umana. Scriveva il profeta Isaia: «Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui» (Is 64,3). L’ignoranza del cielo che Dio ci ha rivelato rende senza senso e quindi amara e triste, violenta e crudele, la vita sulla terra. L’apostolo Paolo sembra insistere perché i credenti guardino oltre il presente: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fa 3,20). Del resto, chi non vede quanto sia necessario far salire più in alto, appunto verso quel cielo che Gesù ha riaperto, questo nostro mondo spesso sbattuto così tragicamente in basso? Siamo entrati nel nuovo secolo senza utopie, senza sogni, a testa bassa e con gli occhi ripiegati solo su noi stessi. E le guerre e le violenze continuano ad avere un predominio incontrastato. E per di più sembra affermarsi più facilmente la ragione della forza che quella del diritto, del dialogo e del confronto pacifico.

In tal senso, la festa della Ascensione è sommamente opportuna, è una grazia concessa agli uomini perché alzino gli occhi un po’ più in alto del loro orizzonte abituale. E vedranno, come attraverso uno spira­glio, il futuro della storia umana anzi dell’intera creazione; non un futuro generico, più o meno ideologico e astratto, ma concreto: fatto di «carne ed ossa come vedete che ho io», potremmo dire parafrasando una affermazione di Gesù. Egli per primo, infatti, inaugura il nuovo futuro di Dio entrandovi con tutto il suo corpo, con la sua carne e la sua vita, che sono carne e vita di questo nostro mondo. Da quel giorno, il cielo inizia a popolarsi della terra, o, con il linguaggio dell’Apocalisse, iniziano i nuovi cieli e la nuova terra. Il Signore li inaugura e li apre perché tutti possano prendervi parte. Già la sua madre, Maria, lo ha raggiunto, assunta anch’essa con il suo corpo. L’Ascensione è il mistero della Pasqua visto nel suo compimento, scorto dalla fine della storia. L’Ascensione non è solo l’ingresso di un giusto nel regno di Dio, ma la gloriosa intronizzazione del Figlio «seduto alla destra» del Padre. Questa raffigurazione, presa dal linguaggio biblico, esprime simbolica­mente il potere di governo e di giudizio sulla storia umana del Cristo risorto: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra», dice Gesù ai discepoli dopo la Pasqua (Mt 28,18).

Noi non siamo più immersi in una storia senza orientamento, vitti­me del caso o degli astri o di forze oscure e incontrollabili. E fanno tristezza coloro che scrutano i cieli (come quella folla di persone che ogni giorno scruta gli oroscopi…) in cerca di segni di protezione per fuggire la paura e l’insicurezza della vita. Il Signore asceso è lui stesso il nostro cielo e la nostra sicurezza. Egli ci attrae verso il futuro che Lui ha già raggiunto in pienezza. E ai discepoli di ogni tempo conferisce il potere di sviluppare la storia e il creato verso questa meta: essi possono scacciare i dèmoni e parlare la lingua nuova dell’amore; possono neu­tralizzare i serpenti tentatori e vincere le insidie velenose della vita; possono guarire i malati e confortare chiunque ha bisogno di consola­zione. Questa forza sostiene e guida i discepoli sino ai confini della terra e verso il futuro della storia. Il Vangelo di Marco conclude: «par­tirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro». Così sia per ciascuno di noi e per tutte le nostre comunità cristia­ne, ognuno secondo il dono e il ministero ricevuto, come dice Paolo nella Lettera agli Efesini, «finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a rag­giungere la misura della pienezza di Cristo».

L’immagine della domenica

Alberi nei boschi altoatesini (Bolzano)  –  2024  

 «Gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto». (Rabindranath Tagore)

Preghiere e racconti

Il cielo

Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.

(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione

Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», rispondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista. Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua ascensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.

Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi posseduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali. La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo. Non possono innalzare a lui i cuori. Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo. […] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima. Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tumulto della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.

(John Henry Newman).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno

      Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi. A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca. Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue parole, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa. Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15). I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferivano cose da loro stessi viste. Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno. Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà. […] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confusione quando ritornerà. Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31). E quasi gli chiedessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione. Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unicamente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse. La verità non conosce inganni. Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra facendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa. Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp. 1708-1709).

Sii un vero amico

Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno. L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale. Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio. L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte. In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte. Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami. È questo il centro del messaggio di Gesù.

Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata. Al contrario, è cresciuta.

È questo il significato dell’invio dello Spirito. Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’amicizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte. È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro. Sai dall’esperienza quanto questo sia reale. Coloro che hai amato profondamente e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze reali.

Osa amare ed essere un vero amico. L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condurrà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11).

[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

     

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: Atti 10,25-27.34-35.44-48

   Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!». Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga». Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.   Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

 

  • Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap. 10 degli Atti. Consigliamo di rileggere tutto il cap. 10 nella sua interezza. Siamo ad un momento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Cornelio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.

— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v. 25). Di fronte ai prodigi e ad un essere superiore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione. Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).

— «Alzati…» (v. 26). La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri. Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v. 27).

— «Dio non fa preferenze di persone» (vv. 34-35). È l’inizio del discorso di Pietro: non è soltanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,7; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che trova riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico. È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.

— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v. 35). Allargata a tutti i popoli, la misericordia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e rispetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.

— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv. 44-48). Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani». Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v. 47). Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v. 47). L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo estatico (v. 46). In entrambi gli aspetti è da vedere l’unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.

Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10

 

  Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
  • In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressoché parallelo a quello della II Lett. di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la

probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva. Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa. Il brano di oggi si colloca esattamente all’inizio di tale sviluppo.

Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura:

Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv. 7-8). Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore. Ne derivano due conseguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v. 7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio. Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comunione con Dio (v. 8). Per S. Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non avviene se non attraverso un movimento di amore.

Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della venuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v. 9). «Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, diletto, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandandolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).

Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore. Non siamo stati noi ad amare Dio, (v. 10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato. Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.

 

Vangelo: Giovanni 15,9-17

 

  In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

Esegesi

 

Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv. 1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici. Il brano è costituito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».

Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»:

amore (in gr. agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si applica a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura). La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v. 9), comunicandosi agli uomini nel tempo. Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzialmente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro. La comparazione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf. v. 10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione. Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario. Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è però più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli. Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v. 13);

amicizia, amico (in gr. philos). Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due persone che sono sullo stesso piano. Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici. La differenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v. 15). Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v. 15).

Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere. Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziativa gratuita e sovrana (v. 16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missione (portare frutto) stabile e duratura (v. 16).

Meditazione

«Amiamoci gli uni gli altri». È l’imperativo che l’apostolo Giovanni non si stanca di rivolgere alla sua comunità. Egli sa bene quanto l’amore sia centrale nella vita dei discepoli. Lo ha appreso direttamente da Gesù. Ma più che da una lezione teorica o da un’esortazione morale, Giovanni ne ha fatto l’esperienza concreta. Ne ha potuto gustare la dolcezza e la tenerezza, ne ha visto la radicalità e l’ampiezza che giungeva sino all’amore per i nemici, anzi sino al dono della stessa vita. Di questo amore Giovanni è stato un testimone privilegiato, un custode attento e un predicatore sollecito. Nella sua prima lettera vuole svelarne la natu­ra e indicarne la fonte: «Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio; chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio» (1Gv 4,7). L’apostolo parla qui di un amore diverso da quello che normalmente noi intendiamo con questo termine. L’amore per noi è quel complesso di sentimenti che nasce spontaneo dal cuore, fatto di attrazione fisica, simpatia, desiderio, passione, compiacimento e soddisfazione di sé. Nel linguaggio del Nuovo Testamento per indicare tale amore si usa il ter­mine greco «eros». L’apostolo usa, invece, la parola «agape» per con­notare l’amore che nasce da Dio e che deve presiedere i rapporti tra i discepoli.

Per comprendere l’amore di Dio (l’agape) non bisogna perciò par­tire da noi stessi, dalle nostre speculazioni teoriche, dai nostri senti­menti o dalla nostra psicologia ma, appunto, da Dio. Le Sante Scritture sono il documento privilegiato per comprendere tale amore; esse infat­ti non sono altro che la narrazione della vicenda storica dell’amore di Dio per gli uomini. Pagina dopo pagina, nelle Sante Scritture scorgia­mo un Dio che sembra non darsi pace finché non trova riposo nel cuore dell’uomo. Potremmo parafrasare per il Signore la nota frase che sant’Agostino applicava all’uomo: «Inquietum est cor nostrum…». Un sacerdote poeta, Davide Maria Turoldo, ha parlato del «cuore inquieto di Dio»: Egli è venuto sulla terra per cercare e salvare ciò che era per­duto, per dare la vita a ciò che non aveva più vita. È un Dio che si fa mendicante, mendicante di amore. In verità, mentre Egli stende la mano per chiedere amore lo dà agli uomini. Egli è la luce che penetra nelle tenebre, per dare vita, per spiritualizzare, per elevare e salvare. Questo è l’amore cristiano: Dio che scende, gratuitamente, nel più basso per raggiungere l’amato.

Sì, Dio è inquieto finché non trova l’uomo. E lo è a tal punto «da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). L’amore di Dio, potremmo dire, «è in discesa», si abbassa fino a giungere nel più profondo della vita degli uomini, e con una dedizione totale, «sino a dare la vita per i propri amici, come Gesù stesso dice. Si legge ancora nella prima lettera di Giovanni: «In questo sta l’amore (cristiano): non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4, 10). È Dio che ama per primo, e ama perfino gli esseri immeritevoli del suo amore. È, in effetti, un amore totalmente gratuito; anzi immotivato. Dio, infatti, non ama i giusti ma i peccatori, i quali non sono degni di essere amati. Paolo dice che Dio ha scelto le cose che non contano perché contassero; ha scelto le cose che sono abominevoli di fronte agli uomini, per farne oggetto della sua grazia (1Cor 1, 28). Questo è il Dio dei Vangeli: un Dio che è mosso da un amore che non si fa indietro neppure davanti alla mancanza di vita, alla negazione dell’amore. Dio si fa piccolo pur di raggiungere il più disgraziato degli uomini e arricchirlo della sua amicizia. La storia stessa di Gesù è racchiusa in tale amore. Dio, infatti, non è l’Essere in sé, alla maniera del pensiero aristotelico, ma è l’Essere per noi, è apertura infinita, è amore appassionato per noi.

Se l’intera Scrittura è la storia dell’amore di Dio sulla terra, i Vangeli ne mostrano il culmine. Perciò, se vogliamo balbettare qualcosa dell’amore di Dio, se vogliamo dargli un volto e un nome, possiamo dire che l’amore è Gesù. L’amore è tutto ciò che Gesù ha detto, vissuto, fatto, amato, patito… L’amore è cercare i malati, è avere per amici noti peccatori e peccatrici, samaritani e samaritane, gente lontana, nemica e rifiutata. Infatti «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». L’amore è dare la propria vita per tutti, è restare soli per non tradire il Vangelo, è avere come primo compagno in paradiso un condannato a morte, il ladro pentito… Questo è l’amore di Dio. Davvero altra cosa dall’eros, impastato di egoismi, di grettezze, degli sbalzi della nostra psicologia, dei nostri umori… Per questo per la Bibbia e per Gesù l’amore, l’agape, non è un sentimento in balia delle circostanze o dei sentimenti, ma un «comandamento», qualcosa a cui rispondere e che si deve costruire: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi». Forse è proprio quel «come» la novità dell’amore cristiano. Siamo chiamati ad amare nella stessa misura di Gesù.

Il vuoto d’amore tra gli uomini sembra farsi più ampio e profondo, proprio mentre i legami di affetto e di amicizia si rivelano più fragili. L’egocentrismo dei singoli e dei gruppi si ispessisce e grava pesante su tutti. Tutti viviamo più soli e al tempo stesso sempre più preoccupati di difendere il nostro personale benessere. I legami di affetto tra gli uomi­ni basati sull’attrazione «naturale» sono labili, basta poco per rovesciar­li e distruggerli. È diventato raro legarsi per la vita e difficile sentire i rapporti definitivi e fedeli. L’eros, che ha nella soddisfazione personale più che nella felicità altrui la sua ragione d’essere, non è così forte da resistere alle tempeste e ai problemi della vita. Tante, tantissime sono le vittime che cadono su questo fragile e sdrucciolevole terreno. Solo l’agape è come la roccia salda che ci risparmia dalla distruzione, perché prima dell’io c’è l’altro. Gesù ce ne ha dato l’esempio anzitutto con la sua stessa vita. Può dunque dire ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9).

Il rapporto esistente tra il Padre e il Figlio è posto come modello e fonte dell’amore cristiano. Certo, non può nascere da noi un tale amore; possiamo però riceverlo da Dio; se accolto, ha una forza dirom­pente: fa crollare i muri, cominciando da quelli che costruiamo per difendere noi stessi, e apre il cuore e la vita verso una fraternità ampia, universale, che non conosce nemici. Genera insomma una nuova comunità di uomini e donne, ove l’amore di Dio si incrocia, quasi sino all’identificazione, con l’amore vicendevole. L’uno infatti è causa dell’altro. Un noto teologo russo amava dire: «Non permettere che la tua anima dimentichi questo motto degli antichi maestri dello spirito: dopo Dio considera ogni uomo come Dio!». Questo tipo di amore è il segno distintivo di chi è generato da Dio. Ma non è proprietà acquisita una volta per tutte, né appartiene di diritto a questo o a quel gruppo. L’amore di Dio non conosce limiti e confini di nessun genere, supera il tempo e lo spazio; infrange ogni barriera dì razza, di cultura, di nazio­ne, persino di fede, come si legge negli Atti degli Apostoli quando lo Spirito riempì anche la casa del pagano Cornelio. L’agape è eterna; tutto passa, persino la fede e la speranza, l’amore resta per sempre, neppure la morte lo infrange, anzi è più forte di essa. A ragione Gesù può concludere: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11).

L’immagine della domenica

Cammino di Santiago (Finisterre)     –     2018

«Se ti senti solo

quando sei da solo,

sei in cattiva compagnia».

(Jean-Paul Sartre)

 


Preghiere e racconti

Abitare nella casa dell’amore

Questa è una singolare metafora dell’amore. L’amore non è soltanto un sentimento passeggero. È uno spazio in cui si può rimanere. Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10). Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio. Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri. Altrimenti ristagna. E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.

L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà. È puro dono. A un amore del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.

Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore. Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo. Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più. E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso. Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile. Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.

(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).

La differenza cristiana: amarsi come ama il Signore

Una poesia dolcissima e profonda, ritmata sul lessico degli amanti: amare, amore, gioia, pienezza, frutti… È il canto della nostra fede. Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Di amore parliamo come di un nostro compito. Ma noi non possiamo far sgorgare amore se non ci viene donato. Siamo letti di fiume che Dio trasforma in sorgenti.

Rimanete nel mio amore. Nell’amore si entra e si dimora. Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. Spesso all’amore resistiamo, ci difendiamo. Abbiamo il ricordo di tante ferite e delusioni, ci aspettiamo tradimenti. Ma Gesù ti dice: “arrenditi all’amore”. Se non lo fai, vivrai sempre affamato. Gesù: il guaritore del tuo disamore. Il mondo sembra spesso la casa dell’odio, eppure l’amore c’è, reale come un luogo. È la casa in cui già siamo, come un bimbo nel grembo della madre: non la può vedere, ma ha mille segni della sua presenza: «Il nostro vero problema è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). L’amore è, esiste, circola, ed è cosa da Dio: amore unilaterale, a prescindere, asimmetrico, incondizionato. Questo vi ho detto perché la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, il Vangelo è da ascoltare con attenzione, ne va della nostra felicità, che sta in cima ai pensieri di Dio. Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. Non semplicemente: amate. Ma fatelo in un rapporto di comunione, un faccia a faccia, una reciprocità. E aggiunge la parola che fa la differenza cristiana: amatevi come io vi ho amato. Amare come Cristo, che lava i piedi ai suoi; che non giudica nessuno; che mentre lo ferisci, ti guarda e ti ama; in cerca degli ultimi. Chiunque ami così, qualsiasi sia il suo credo, è entrato nel flusso dell’amore di Cristo, dimora in lui che si è fatto canale dell’amore del Padre. Come lui ognuno può farsi vena non ostruita, canale non intasato, perché l’amore scenda e circoli nel corpo del mondo. Se ti chiudi, in te e attorno a te qualcosa muore, come quando si chiude una vena nel corpo.

Voi siete miei amici. Non più servi. Amico: parola dolce, musica per il cuore dell’uomo. Un Dio che da signore e re si fa amico, e teneramente appoggia la sua guancia a quella dell’amato. Nell’amicizia non c’è un superiore e un inferiore, ma l’incontro di due libertà che si liberano a vicenda. Perché portiate frutto e il vostro frutto rimanga. Quali frutti dà un tralcio innestato su una pianta d’amore? Pace, guarigione, un fervore di vita, liberazione, tenerezza, giustizia: questi nostri frutti continueranno a germogliare sulla terra anche quando noi l’avremo lasciata

(Ermes Ronchi)

La gioia degli amati che amano

  1. Il contesto del brano evangelico è il «libro degli addii» (Gv13-17), a tavola Gesù rivela se stesso e le cose che gli stanno a cuore ai «suoi», un vero lascito testamentario non solo ai presenti a quella cena ma agli amici di ogni luogo e di ogni tempo resi contemporanei al suo racconto tramite la «lectio», la lettura-ascolto. Contemporanei a un Tu che ci svela al contempo il suo nome e il suo compito, il nostro nome e il nostro compito e il nome di chi è all’origine del tutto.
  2. La narrazione inizia con un Gesù che si presenta in questi termini: io mi chiamo «amato dal Padre» (Gv 15,9), il quale a sua volta si chiama amore: «Dio è amore» (1Gv 4,18). Gesù comunica ciò che sa, introduce i suoi a segreti uditi dal Padre stesso (Gv 15,15), il segreto dell’ «incipit»: in principio vi è un Tu che ama, un Amante dal cui grembo è stato generato l’Amato, nome proprio di Gesù, inviato ad amare come amato, compito proprio di Gesù (Gv 15,9). Vi è dunque l’Amore all’origine di Gesù e alla intelligenza di sé come amato, un Amore a lui imperativo categorico: la fedeltà alla propria verità di amato inviato a travasare l’amore che lo ha generato, il solo in grado di generare figli e non schiavi, amici e non nemici. Gesù, a questa consapevolezza di sé di essere il sacramento storico, visibile e tangibile, di Dio amante dell’uomo, è «Si»: «Rimango nel suo amore» e il suo comando rimane in me (Gv 15,10). La mente è aperta a conoscenze inedite precluse all’indagine razionale e al calcolo scientifico, un sapere frutto di discorsi a tavola di un certo Gesù: in principio vi è un Amante, detto Padre, che in forza dell’Amore, detto Spirito, genera l’Amato, detto Figlio, l’inviato a inondare di amore sia il mondo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16), che i suoi non a caso definiti discepoli amati: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi» (Gv 15,9). Come? Con un amore elettivo: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16); oblativo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13); esigente: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,13),: «Questo vi comando: che riamiate gli uni gli altri» (Gv 15,17). Un amore infine amico: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), e «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» Gv15,14).
  3. Chi è il discepolo? Un incontrato e un invitato a tavola da un amico di nome Gesù che ha deciso di raccontargli «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,35). Dio è amore e fonte sorgiva di ogni amore, Gesù è l’amato inviato a raccontare in parole e gesti l’amore di Dio per ogni creatura, il discepolo è l’amato da Dio in Gesù mandato ad amare come amato da Dio in Gesù. Ove al «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9) si risponde si lì è dato al discepolo, e in lui a ogni uomo, di conoscere finalmente il proprio ineffabile nome, il proprio ineffabile compito e il proprio ineffabile approdo: amati per amare per sempre facendo dell’amore il perno da cui tutto muove e a cui tutto rimanda. Visione urgente a livello personale, comunitario, ecclesiale e sociale nella lucida consapevolezza che «al di fuori dell’amore non c’è salvezza». E non c’è gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). La gioia degli amati che amano.

(Giancarlo Bruni)

Rimanete nel mio amore

«Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10). In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (ibi). È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i comandamenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti. Dicendo: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova. Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete. Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore». Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi. E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p. 1248).

Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

Da’ gratuitamente

«Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente. Puoi reclamare il carattere permanente del tuo amore come un dono di Dio. E puoi dare questo amore permanente agli altri. Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli. A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.

Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio. Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito. Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci. Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di riceverlo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.

Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi bisogni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».

(H.J.M. NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia. 2005, 27-28).

L’amore

Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi. Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione. Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché troviamo nell’amore un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sembra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce. Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire. E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa. Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione. Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita. Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa. I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli. Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spirito. Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci. E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare.

(Madeleine Delbrêl).

Parlami d’Amore

Amore supera l’amore, mio caro. L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito. Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali innamorate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce. L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo. Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abito da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde. L’amore è luce, per le strade umane. Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pennelli d seta che colorano i volti. L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare. Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti. L’amore è veliero che sulle acque fende le onde. Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina. …l’Amore supera l’amore. L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove. L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui. L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, perché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso… l’altro, e perché infine ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dall’uno sgorghi una nuova vita.

(Michel Quoist).

La mia vocazione

Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.

( Santa Teresa di Gesù Bambino).

Una luce splende alla mia anima

Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.

Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.

Ma che cosa amo amandoti?

Non una bellezza corporea né una grazia transitoria;

non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi;

non dolci melodie di svariate cantilene;

non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi;

non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.

Amando il mio Dio, non amo queste cose.

E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce,

una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso

che sono la luce, la voce, il profumo,

l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce

che nessun fluire di secoli può portar via,

dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere,

dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire,

dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.

Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.

(S. Agostino)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– H.J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA DI PASQUA (B)

V DOMENICA DI PASQUA

 Prima lettura: Atti 9,26-31

     In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

 

  • Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv. 1-19), l’inizio della sua predicazione (vv. 20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv. 32-43; e. 10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane. La nostra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.

Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.

— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v. 28: «andava e veniva in Gerusalemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf. il greco: parrēsia = zòmenos, v. 28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.

— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v. 29). È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.

— «La Chiesa era dunque in pace» (v. 31). Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pace interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo). La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24

 

     Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
  • Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chiese dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche). La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).

Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».

  1. a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v. 18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a parole) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso. «Siamo dalla verità» (v. 19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.
  2. b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo. Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv. 20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza. Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»). Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.
  3. c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Gesù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati. Qui il «comandamento» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore generico o sentimentale. Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente. Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamento di Gesù.

 

Vangelo: Giovanni 15,1-8

 

    In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

 

Esegesi

 

Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35). In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, insistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.

Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio. Esso va collocato nell’insieme del cap. 15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv. 1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la testimonianza del Paraclito (vv. 18 ss.).

— «Io sono la vite vera» (vv. 1.5). Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivelazione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14). In riferimento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera». Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.

— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv. 1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rapporto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.

— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre:

  1. a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — come dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v. 2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita;
  2. b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppongono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v. 2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v. 6). Dietro queste immagini si intravede la cura estrema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.

Rimanete in me come io in voi (v. 4). Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano. In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).

— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v. 5). La salvezza non dipende soltanto dalla libera adesione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di portare frutti.

Meditazione

È la quinta domenica «di» Pasqua; ossia la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno di Pasqua. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, quasi segno della fedeltà di Dio; tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti; tornano perché possiamo resta­re nel giorno di Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano convinti questa affermazione: «non possiamo vivere senza la domenica», ossia «non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto». Potremmo, allora, applicare anche alla domenica e ai giorni della settimana la parabola odierna della vite e i tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni. Quest’ultimi restano senza frutto se non sono vivificati dallo Spirito che riceviamo nella santa litur­gia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni della settimana.

La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di «rimanere» in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio e Dio in lui». E nella parabola della vite e i tralci il termine «rimanere» ne è il cuore. Il verbo viene ripetuto ben sette volte nel nostro testo, e nei versetti seguenti altre due volte. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte!» invoca il salmista (80,15-16). E Isaia, nel mirabile «canto della vigna», descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’Israele: «Io ti avevo piantata come vite pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (2,21).

Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: «Io sono la vera vite». Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testa­mento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: «Io sono il buon pastore». Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agri­coltore». Gesù si identifica con la vite, specificando che è la «vera» vite; ovviamente per distinguersi dalla «falsa».

Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: «io sono la vite e voi i tral­ci». I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essen­ziale e forte. È un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologi­ci, le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirom­pente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto». Sono belle le paro­le di commento di Papia, uno dei Padri Apostolici, a questa pagina evangelica: «Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avrà diecimila tralci ed ogni tralcio avrà diecimila pampini e ogni pampino diecimila grappoli. Ogni grappolo avrà diecimila acini, ed ogni acino spremuto darà una misura abbondante di vino».

Il Vangelo prosegue: «Ogni tralcio che porta frutto, lo porta perché porti più frutto». Sì, proprio quelli che «portano frutto», conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere «senza macchia» (Ef 5,27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo senso che va intesa la potatura; il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i suoi figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scon­tata né naturale, e non è un progresso univoco. Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a senti­menti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È, qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.

Questi tagli, talora anche molto dolorosi, purificano la nostra vita e fanno scorrere con maggior freschezza la linfa dell’amore del Signore. Per sei volte, in otto righe, Gesù ripete: «rimanete in me», «rimanete nella vite». È la condizione per portare frutto, per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono; magari, si saranno chiesti: «ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?». In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le «sue parole rimangono in noi». È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale «conservava nel suo cuore tutte queste cose». È la via che scelse Maria, la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù e ascoltava la sua parola. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesù è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di «non amare a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità».

L’immagine della domenica

Castello Estense (Ferrara)          –        2024

 

«Se vuoi aiutare un uomo sprofondato nel fango, non pensare che basti tendergli la mano. Bisogna che tu scenda completamente nel fango. Quando sarai lì, afferralo con forza e innalzalo con te verso la luce».

(rav Shlomo di Karlin)

 


Preghiere e racconti

Naturale e artificiale

La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.

Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.

Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.

Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.

Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.

Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.

Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113)

Io sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti. Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».

E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

Curare la vigna è come curare la vita

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

Noi tralci, Lui la vite: siamo della stessa pianta di Cristo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio: io e lui la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Lui in me e io in lui, come figlio nella madre. E il mio padre è il vignaiolo: Dio raccontato con le parole semplici della vita e del lavoro. Un Dio che mi lavora, si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma le cesoie, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. Per farmi portare sempre più frutto.

E poi una novità assoluta: mentre nei profeti e nei salmi del Primo Testamento, Dio era descritto come il padrone della vigna, contadino operoso, vendemmiatore attento, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io sono la vite, voi siete i tralci. Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come una goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria. Con l’Incarnazione di Gesù, Dio che si innesta nell’umanità e in me, è accaduta una cosa straordinaria: il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio si è fatto argilla, il Creatore creatura. La vite-Gesù spinge la linfa in tutti i miei tralci e fa circolare forza divina per ogni mia fibra. Succhio da lui vita dolcissima e forte. Dio che mi sei intimo, che mi scorri dentro, tu mi vuoi sempre più vivo e più fecondo di gesti d’amore… Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte? Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, inviare mali o sofferenze, bensì dare forza, qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Questo vuole per me il Dio vignaiolo: «Portare frutto è simbolo del possedere la vita divina» (Brown).

Dio opera per l’incremento, per l’intensificazione di tutto ciò che di più bello e promettente abita in noi. Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima gemma. Noi portiamo un tesoro nei nostri vasi d’argilla, un tesoro divino: c’è un amore che sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tutte le esistenze, un amore che sale in me e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Se noi sapessimo quale energia c’è nella creatura umana! Abbiamo dentro una vita che viene da prima di noi e va oltre noi. Viene da Dio, radice del vivere, che ripete a ogni piccolo tralcio: Ho bisogno di te per grappoli profumati e dolci; di te per una vendemmia di sole e di miele.

(Ermes Ronchi)

La potatura

Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale. In verità confesso che queste parole mi sembrano folli, mi sembrano pretese assurde, che un uomo equilibrato non può avanzare. Solo quando le leggo o le ascolto quali parole del Risorto vivente, del Kýrios, del Signore in mezzo alla sua chiesa (cf. Gv 20,19.26), mi sento di accoglierle come parole di verità e di vita. Ma allora mi danno quasi le vertigini e mi fanno sentire inadeguato di fronte alla rivelazione del mistero…

I brani giovannei che ascoltiamo nel tempo pasquale e che innanzitutto testimoniano – come si vedeva domenica scorsa – le affermazioni di Gesù “Io sono…”, possono urtarci, possono sembrare incomprensibili… eppure sono parole del Signore! La pagina odierna è tratta dai “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), parole – lo ripeto – del Risorto. Gesù afferma: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore, il vignaiolo”. Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15). Proprio la vite era diventata l’immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata (cf. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cf. Is 5,4).

Gesù, rivelando di essere lui la vite vera (alethiné) – come Geremia proclama di Israele: “Ti ho piantato come vite vera (alethiné)” (Ger 2,21) – si definisce l’Israele autentico, piantato da Dio, dunque pretende di rappresentare tutto il suo popolo. Egli è la vite vera e Dio, chiamato con audacia “Padre”, è il vignaiolo, colui che la coltiva. I profeti nella loro predicazione si erano più volte serviti di questa immagine per parlare dei credenti: Dio è il vignaiolo che ama la sua vigna ma da essa è frustrato (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21; 5,10; 6,9; 8,13); Dio è il vignaiolo che piange la sua vigna, un tempo rigogliosa ma ora bruciata (cf. Os 10,1; Ez 15,1-8); Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Sì, Gesù, il Messia di Israele, è la vigna che ricapitola in sé tutta la storia del popolo di Dio, assumendo i suoi peccati e le sue sofferenze. Gesù però è anche la vigna che è la sua comunità, la chiesa, e – come dice Paolo servendosi della metafora del corpo che, seppur formato dal capo e dalle membra è uno solo (cf. Rm 12,4-8; 1Cor 12,12-27) – egli è la pianta e i credenti in lui sono i tralci: ma la pianta della vite è sempre una! Il Padre vignaiolo, avendo cura di questa vite e desiderando che faccia frutti abbondanti, interviene non solo lavorando la terra ma anche con la potatura, operazione che il contadino fa d’inverno, quando la vite non ha foglie e sembra morta.

Conosciamo bene la potatura necessaria affinché la vite possa aumentare la linfa e così produrre non fogliame, non tralci vuoti, ma grappoli grandi, nutriti fino alla maturazione. Quando il contadino pota, allora la vite “piange” dove è tagliata, fino a quando la ferita guarisce e si cicatrizza. La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati nel fuoco… Gesù non ha paura di dire che anche suo Padre, Dio, deve compiere tale potatura, che la vita che egli è deve essere mondata e che dunque deve sentire nel suo stesso corpo le ferite. È la parola di Dio che compie questa potatura, perché essa è anche giudizio che separa; del resto, non era stata proprio la parola di Dio a mondare la comunità di Gesù, con l’uscita dal cenacolo di Giuda il traditore, la sera precedente la passione (cf. Gv 13,30)?

Per i discepoli di Gesù c’è la necessità di rimanere tralci della vite che egli è, di rimanere (verbo méno) in Gesù (facendo rimanere in loro le sue parole) come lui rimane in loro. Rimanere non è solo restare, dimorare, ma significa essere comunicanti in e con Gesù a tal punto da poter vivere, per la stessa linfa, di una stessa vita.

Ognuno di noi discepoli di Gesù è un tralcio che, se non porta frutto, viene separato dalla vite e può solo seccare ed essere gettato nel fuoco; ma se resta un tralcio della vite, allora dà frutto e, per la potatura ricevuta dal Padre, darà frutto buono e abbondante! Ma in questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite potare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci. E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto. Per questo è assolutamente necessario che nella vita dei credenti sia presente la parola di Dio con tutta la sua potenza e la sua signoria: la Parola che monda (verbo kathaíro) chiesa e comunità; la Parola che, come spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12), taglia il tralcio sterile, pota il tralcio rigoglioso e prepara una vendemmia abbondante e buona.

(Enzo Bianchi)

Senza di me non potete far nulla

Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). […] Chi si illude di poter portare frutto da se stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano. Ecco in quale profondo abisso siete precipitati. Ma considerate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla». Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. […] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp. 1240-1244).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

Preghiera

O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.

Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.

Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI PASQUA (B)

Convegno nazionale SNPPD: “Noi, non loro”

Si è svolto nei giorni scorsi, a Napoli-Scampia, il 3° Convegno nazionale promosso dal Servizio Nazionale per la Pastorale delle persone con Disabilità (SNPPD) della CEI.

Del convegno hanno dato ampia informazione i quotidiani e le agenzie specializzate (Agensir). Un’ampia raccolta di commenti e immagini è presente nel sito del SNPPD (https://pastoraledisabili.chiesacattolica.it) che, a breve, renderà disponibile tutto il materiale presentato nel Convegno.

Noi offriamo qui il breve intervento del prof. Ubaldo Montisci, membro dell’Istituto di Catechetica dell’UPS, che ha affrontato in chiave pastorale il tema dell’accompagnamento delle persone in età minore.

Relazione Montisci – 2024-04-04

PROGRAMMA_3._CONVEGNO NAZIONALE_NOI NON LORO, IN OGNI STAGIONE DELLA VITA (agg.27.03.2024_h.14.00)

Disabilità: don Montisci (Università pontificia salesiana), “considerare le persone non un problema ma una risorsa”

“Accompagnare i percorsi che portano a costruire il proprio progetto di vita è un compito pastorale essenziale, che coinvolge tutti i battezzati”. A ricordarlo è don Ubaldo Montisci, docente di metodologia catechetica e formazione all’Università pontificia salesiana, durante la tavola rotonda dedicata all’età evolutiva, all’interno della prima giornata del Convegno “Noi, non loro”, promosso dal Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità Cei, aperto oggi a Scampia.

“Ritengo – ha aggiunto don Montisci – che ci sia bisogno urgente di un cambio di mentalità nel realizzare i percorsi di maturazione nella fede”. In un altro passaggio, l’esperto spiega come l’impegno educativo nelle comunità cristiane debba considerare “che la catechesi di iniziazione nelle età minori non ha il compito di generare il cosiddetto ‘adulto fedele’ ma pone le basi”. “Lo sguardo – ha suggerito – deve spingersi più in là, e cioè nell’adolescenza, una età in cui in fondo si determinano quei tratti del credente che normalmente diverranno permanenti”. In particolare, il docente ha spiegato come le “persone con disabilità vadano considerate come una risorsa e non un problema. Per fare ciò, ci vuole un soprassalto d’amore perché solo l’amore è creativo. Papa Francesco richiama spesso la necessità di essere creativi, di non fermarsi alle logiche del ‘si è sempre fatto così’. Le norme sono utili e talvolta necessarie ma, ordinariamente, stabiliscono il limite minimo di azione dovuta. Ciò – ha concluso – non è sufficiente quando si tratta di elaborare un progetto di vita: noi abbiamo la consapevolezza che quel “di più” può essere dato da un soprassalto d’amore ispirato ai valori evangelici”.

Elisabetta Gramolini 19 Aprile 2024 @ 18:11

Chi sono? A cosa sono chiamato? Perché le vocazioni ci riguardano tutti

«La Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni ci invita, ogni anno, a considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita» (Francesco, Messaggio per la 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 21 aprile 2024).

In questi mesi, il Cammino sinodale delle Chiese d’Italia ci sta impegnando a riscoprire la bellezza e la fatica del camminare insieme e del costruire cantieri utili a ricercare elementi capaci di dischiudere il futuro. Alla sua radice, il metodo della conversazione spirituale, che stiamo imparando a utilizzare, ci insegna – considerando seriamente il contributo di ciascuno – a riconoscere la preziosità di ogni persona all’interno della storia comune. Con l’icona dei discepoli di Emmaus, spinge a riconoscere il passante che si fa prossimo nel cammino e ad invitarlo a casa perché là, nel tessuto delle proprie relazioni quotidiane, si manifesti nel suo volto di Signore Risorto (cf. Lc 24,29).

«La polifonia dei carismi e delle vocazioni che la comunità cristiana riconosce e accompagna – continua papa Francesco – ci aiuta a comprendere pienamente la nostra identità di cristiani: come popolo di Dio in cammino per le strade del mondo, animati dallo Spirito Santo e inseriti come pietre vive nel Corpo di Cristo, ciascuno di noi si scopre membro di una grande famiglia, figlio del Padre e fratello e sorella dei suoi simili. Non siamo isole chiuse in se stessi ma parti del tutto» (Francesco, Messaggio per la 61ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 21 aprile 2024).

Proprio questo “tutto” è l’orizzonte della missione alla quale siamo chiamati e inviati, è la passione del cuore del Pastore che ha pecore di cui prendersi cura che provengono da diversi recinti – con la Porta sempre aperta (cf. Gv 10,7) – dell’unico ovile del mondo (cf. Gv 10,16). Questo “tutto” si declina in una dimensione universale che abbraccia ciascuno, uomini e donne del mondo intero ma anche traccia quei confini e quei limiti che coniugano l’universale nel particolare offrendo gli spazi e i volti che rendono concreto l’amore e la cura. Sono gli ambiti circoscritti – benché mai chiusi – dei nostri ambiti di vita: la casa, il lavoro, le amicizie, la scuola, la parrocchia, lo sport, il gruppo, la comunità. Tutti questi ambienti sono la materia nella quale costruire relazioni, tessere – attraverso gesti semplici e quotidiani – quella rete di legami che permette di fare casa, di fare famiglia (cf. Francesco, Christus vivit, 217). La vocazione – come la vita – non può crescere senza un contesto, senza un ambiente che la accolga e una rete di persone che se ne prenda cura; ogni vita – come ogni vocazione – ha bisogno di una casa nella quale circoli la vita di Dio; ne ha bisogno la Chiesa e ne hanno bisogno le nostre comunità perché sono le radici dalle quali trarre la linfa. «Prima che di un edificio – già insegnava il cardinale Carlo Maria Martini all’inizio del Millennio – ci sia un contesto, un luogo permanente di incontro [una domus ecclesiae] in cui si respiri uno stile di fraternità, di lavoro e di preghiera. Tutte le nostre comunità siano attente alle esigenze giovanili di vita comune, sapendo che i giovani, oggi più che mai, hanno bisogno di formazione intelligente e affettiva per appassionarsi al Signore, alla comunità cristiana e ai fermenti evangelici disseminati tra i loro coetanei nel mondo. La parola di Dio ha bisogno di un terreno buono e l’Eucaristia ha bisogno di una casa» (Carlo Maria Martini, Attraversava la città. Risposta al Sinodo dei Giovani, 23 marzo 2002).

La vocazione, nella sua radice, è riconoscere il Cristo che viene incontro a ciascuno e mette in movimento l’affetto del cuore, apre la mente all’intelligenza delle Scritture e dei fatti della propria vita perché si possa intuire la direzione – il luogo, le persone – nella quale spenderla nel servizio di Dio e degli altri. È per questo che oggi vogliamo pregare: «Signore Gesù Cristo, Figlio del Padre, che sempre vieni a dimorare in mezzo a noi, facci vivere secondo i tuoi sentimenti affinché le nostre comunità e le nostre case siano capaci di un’accoglienza autentica e cordiale. I giovani che ci incontrano sentano di essere amati e si liberi in loro quel desiderio di cercare il senso della propria vita che si rivela nella loro vocazione. Infondi nel cuore di tutti i battezzati la volontà di spendere la propria vita nel ministero ordinato, nella vita consacrata, nel matrimonio e nel laicato vissuto nel mondo perché la Chiesa, che è la tua e la nostra casa, risplenda della bellezza di tutte le vocazioni».

Direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni

In occasione della Giornata di preghiera per le vocazioni l’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni offre, oltre a tutto il materiale per l’animazione della preghiera, anche quattro storie di vita, quattro racconti che testimoniano come oggi può nascere e crescere una vocazione che porta a una vita dedicata a Dio e agli altri. Lo fa con quattro video pubblicati nel canale Youtube dell’Ufficio stesso (gli stessi che si trovano anche qui sopra): vi si raccontano due sacerdoti e due religiose, volti di un Vangelo che ancora oggi continua a trovar casa nel cuore e nell’anima di tante persone, anche giovani. A parlare sono don Paolo Catinello, parroco ad Avola (Siracusa), nel video dal titolo «Non temere», la figlia della Carità, suor Raffaella Spezio, sul tema «Desideravo essere felice», suor Maria Chiara Ciccotelli, agostiniana, il cui racconto porta il titolo di «Alzare lo sguardo verso l’alto», e il salesiano don Francesco Andreoli, su «Qualcosa di eroico». In vista della giornata odierna, inoltre, da nord a sud in tutte le diocesi si sono tenute veglie di preghiera, animate grazie al sussidio e al materiale reso disponibile dall’Ufficio nazionale.

61ª Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 21 aprile 2024

 

Diario di una giornata missionaria felice e benedetta

IL MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE, Cardinale Ángel Fernández Artime

Diario di una giornata missionaria felice e benedetta.

Cari amici, vi scrivo da Meruri, nello stato del Mato Grosso do Sul, in Brasile. Scrivo questo saluto quasi come se fosse una cronaca giornalistica, perché sono passate 24 ore da quando sono arrivato in mezzo a questa città.

Ma i miei confratelli salesiani sono arrivati 122 anni fa e da allora siamo sempre stati in questa missione in mezzo alle foreste e ai campi, accompagnando la vita di questo popolo indigeno.

Nel 1976 un salesiano e un indio sono stati derubati della loro vita con due colpi di pistola (da parte di “facendeiros” o grandi proprietari terrieri), perché ritenevano che i salesiani della missione fossero un problema per potersi appropriare di altre proprietà in queste terre che appartengono al popolo Boi-Bororo. Si tratta del Servo di Dio don Rodolfo Lunkenbein, salesiano, e dell’indio Simão Bororo.

E qui abbiamo potuto vivere ieri molti momenti semplici: siamo stati accolti dalla comunità indigena al nostro arrivo, li abbiamo salutati – senza fretta – perché qui tutto è tranquillo. Abbiamo celebrato l’Eucaristia domenicale, abbiamo condiviso riso e feijoada (stufato di fagioli), e abbiamo goduto di una conversazione amabile e calorosa.

Nel pomeriggio mi avevano preparato una riunione con i capi delle varie comunità; erano presenti alcune donne capo (in diversi villaggi è la donna ad avere l’autorità ultima). Abbiamo dialogato in modo sincero e profondo. Mi hanno esposto le loro riflessioni e mi hanno presentato alcune delle loro esigenze.

In uno di questi momenti, un giovane salesiano Boi Bororo ha preso la parola. È il primo Bororo a diventare salesiano dopo 122 anni di presenza salesiana. Questo ci invita a riflettere sulla necessità di dare tempo a tutto; le cose non sono come pensiamo e vogliamo che siano nel modo efficiente e impaziente di oggi.

E questo giovane salesiano ha parlato così davanti alla sua gente, alla sua gente e ai suoi capi o autorità: «Sono salesiano ma sono anche Bororo; sono Bororo ma sono anche salesiano, e la cosa più importante per me è che sono nato proprio in questo luogo, che ho incontrato i missionari, dove ho sentito parlare dei due martiri, don Rodolfo e Simão, e ho visto la mia gente e il mio popolo crescere, grazie al fatto che la mia gente ha camminato insieme alla missione salesiana e la missione ha camminato insieme alla mia gente. È ancora la cosa più importante per noi, camminare insieme».

Ho pensato per un attimo a quanto sarebbe stato orgoglioso e felice Don Bosco di sentire uno dei suoi figli salesiani appartenere a questo popolo (come altri salesiani che provengono dal popolo Xavante o dagli Yanomani).

Allo stesso tempo, nel mio discorso ho assicurato loro che vogliamo continuare a camminare al loro fianco, che vogliamo che facciano tutto il possibile per continuare a curare e salvare la loro cultura – e la loro lingua – con tutto il nostro aiuto. Ho detto loro che sono convinto che la nostra presenza li abbia aiutati, ma sono anche convinto di quanto ci faccia bene stare con loro.

«Avanti!» disse la Pastorella

Ho pensato all’ultimo sogno missionario di Don Bosco: e quella Pastorella, che si fermò accanto a Don Bosco e gli disse: «Ti ricordi del sogno che hai fatto a 9 anni?… Guarda ora, che cosa vedi?» «Vedo montagne, poi mari, poi colline, quindi di nuovo montagne e mari».
«Bene — disse la Pastorella — Ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Santiago a Pechino, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avrai un’idea esatta di quanto debbono fare i Salesiani». «Ma come fare tutto questo? — esclamò Don Bosco — Le distanze sono immense, i luoghi difficili e i Salesiani pochi». «Non ti turbare. Faranno questo i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e dei loro figli». Lo stanno facendo.

Fin dall’inizio del nostro cammino come congregazione, guidato (e amabilmente “spinto”) da Maria Ausiliatrice, Don Bosco ha inviato i primi missionari in Argentina. Siamo una Congregazione riconosciuta con il carisma dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani, ma siamo anche una congregazione e una famiglia molto missionaria. Dall’inizio a oggi, ci sono stati più di undicimila missionari salesiani SDB e diverse migliaia di Figlie di Maria Ausiliatrice. E oggi, la nostra presenza tra questo popolo indigeno, che conta 1940 membri e che continua a crescere poco a poco, ha perfettamente senso dopo 122 anni, perché sono alla periferia del mondo, ma un mondo che a volte non capisce che deve rispettare ciò che sono.

Ho parlato anche con la matriarca, la più anziana di tutte, che è venuta a salutarmi e a raccontarmi del suo popolo. E dopo un bel temporale di pioggia torrenziale, nel luogo del martirio, con grande serenità, ci siamo seduti a recitare il rosario in una bella domenica sera (era già buio). Eravamo in tanti a rappresentare la realtà di questa missione: nonne, nonni, adulti, giovani madri, neonati, bambini piccoli, religiosi consacrati, laici… Una ricchezza nella semplicità di questa piccola parte di mondo che non ha potere ma che è anche scelta e prediletta dal Signore, come ci dice nel Vangelo.

E so che così continueremo, a Dio piacendo, per molti anni a venire, perché si può essere un Bororo e un figlio di Don Bosco, ed essere un figlio di Don Bosco e un Bororo che ama e si prende cura del suo popolo e della sua gente.

Nella semplicità di questo incontro, oggi è stato un grande giorno di vita condivisa con i popoli indigeni. Una grande giornata missionaria.