XXV Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona 2011

Aperto il XXV Congresso Eucaristico

Eucaristia, matrice  d’unità per il Paese

 

“Nell’anno in cui il nostro Paese fa memoria dei suoi 150 di unificazione nazionale, è importante esplicitare la forza rigenerante dell’Eucaristia, che ha contribuito a plasmare l’identità profonda del nostro popolo ben prima della sua stessa identità politica”.

Il Card. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha voluto ricordarlo ad Ancona sabato 3 settembre, aprendo il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, nella suggestiva cornice del Teatro delle Muse, alla presenza delle autorità religiose e civili.

“L’Eucaristia, essendo il centro vitale della Chiesa, ha avuto sempre, nella vita dei centri grandi e piccoli disseminati nella nostra Penisola, una indubbia centralità”, ha aggiunto il cardinale sottolineando che di ciò “oggi si avverte ancor più il bisogno di ribadire il primato di Dio e per ritrovare insieme la strada di un bene condiviso”.
Del resto, “attorno al memoriale di Cristo è cresciuta la stessa memoria condivisa che ha reso uno il nostro Paese; e, ne siamo convinti, passa ancora da lì ogni speranza di prospettiva futura”, ha osservato mons. Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona-Osimo, che nel suo saluto ha ribadito il legame tra Eucaristia e vita sociale.

“Dal riconoscere la nostra appartenenza al Signore, dal nutrirci di Lui fino a rimanere in Lui – ha osservato ancora l’Arcivescovo – nascerà la fiducia che ci consentirà di uscire da ogni meschino cabotaggio e di tornare a prendere il largo sul mare della storia”.

Soprattutto, ha rilevato da parte sua Gian Mario Spacca, presidente della regione Marche, “in un tempo in cui le coordinate di riferimento per la comunità nazionale sembrano offuscate, in cui famiglie e lavoratori vivono quotidiane sofferenze, in cui i giovani faticano ad intravvedere l’orizzonte del proprio futuro”.
“Che questo Congresso, grande festa della fede cristiana, sia sorgente di ispirazione e di energie per un impegno di tutti nella costruzione di una società più giusta, più solidale e più fraterna”, è stato l’augurio del Legato Pontificio, card. Giovanni Battista Re.

Una sintesi della relazione principale, “Eucarestia e storia di una nazione”, affidata ad Andrea Riccardi, è disponibile sul sito www.congressoeucaristico.it insieme alla possibilità di scaricare i testi integrali.

 

 

 

Domenica 4 Settembre 2011

Ancona, la Messa inaugurale del Cen

Una storia narrata con letizia e coraggio

 

 

 

 

“Oggi, ad Ancona, si apre il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, con la Santa Messa presieduta dal mio Legato, il Cardinale Giovanni Battista Re. Domenica prossima, a Dio piacendo, avrò la gioia di recarmi ad Ancora per la giornata culminante del Congresso. Fin da ora rivolgo il mio saluto cordiale e la mia benedizione a quanti parteciperanno a questo evento di grazia, che nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia adora e loda Cristo, sorgente di vita e di speranza per ogni uomo e per il mondo intero”.

Con queste parole il Papa, domenica 4 settembre, al termine dell’Angelus si è collegato alla celebrazione di Ancona, presieduta dal Card. Re, e concelebrata fra gli altri dal Card. Bagnasco e dall’Arcivescovo Menichelli.

Quest’ultimo, nell’introdurre la celebrazione, trasmessa da RaiUno con la regia di don Antonio Ammirati, ha invitato a leggere il Congresso come l’occasione di grazia con cui “rinnovare la fede nell’Eucaristia, rimotivare la missione della Chiesa italiana, raccontare con letizia e coraggio l’amore per Cristo Signore, percorrere la via della santità che nell’Eucaristia trae alimento e ragione, leggere l’Eucaristia come un convivere sociale dove la giustizia e la fraterna solidarietà hanno cittadinanza senza paura alcuna”.

Testo integrale dell’omelia (sezione “Relazioni e interventi”), foto e approfondimenti sul sito www.congressoeucaristico.it

Da lunedì 5, ogni giorno dalle 9.30, sempre sul sito ufficiale del Cen, la diretta dalle città della Metropolia di Ancona, dove – dopo la preghiera e la lectio, qualificati relatori affrontano le tematiche del Congresso: gli ambiti della vita quotidiana alla luce dell’Eucaristia.

 


Lunedì 5 Settembre 2011

Cen, le giornate dei 5 ambiti

Eucaristia, sinfonia di vita

 

 


 

Davanti alla “frammentazione dei saperi, delle persone, delle relazioni e delle componenti sociali”, la sfera dell’affettività può rappresentare “un nucleo generatore di unità”. Se è vero infatti che l’affettività “è un campo problematico”, è altrettanto vero che può essere “uno spazio per sperimentare una nuova via dove incontrare l’uomo”.
Lo ha affermato Ina Siviglia, docente alla Facoltà teologica di Palermo, nella relazione sulla vita affettiva, tema guida della giornata di lunedì 5 settembre al XXV Congresso Eucaristico Nazionale. Nella società di oggi “la sfera affettiva può essere definita come ‘cultura dei senza’: sesso senza amore, amore senza matrimonio, matrimonio senza figli”. E questo, ha osservato Siviglia, “deve indurci ad analisi e riflessioni molto puntuali che, evitando un moralismo esagerato, conducano ad una progettualità educativa che sappia accompagnare in maniera continuativa il bambino, il ragazzo, il giovane”. Secondo la teologa, è necessaria “una vera e propria alleanza educativa tra diversi soggetti educanti”. Occorre cioè “creare reti di relazioni che costituiscano ambienti competenti
e favorevoli ad una crescita armonica della personalità e a una specifica maturazione dell’affettività”.
“Le esperienze affettive sono sempre più spesso svincolate da ogni legame duraturo e al di fuori di qualsiasi logica progettuale e al tempo stesso i legami non sempre sono alimentati dalla dimensione affettiva”, ha rilevato da parte sua il pedagogista dell’Università Cattolica e presidente della Confederazione dei Consultori di Ispirazione Cristiana, Domenico Simeone, ricordando che “per compiere il cammino verso un amore maturo i bambini, i ragazzi e i giovani hanno bisogno di testimoni credibili e affidabili con cui confrontarsi, di adulti che sappiano ‘compromettersi’ nella relazione educativa, hanno bisogno di educatori che sappiano aprire le porte del futuro perché sogni, desideri, progetti possano trovare dimora”. Del resto, ha sottolineato Simeone, “compito dell’educatore è suscitare nel soggetto una responsabile progettazione dell’esistenza, che, evitando i rischi della progettazione inautentica connotata da acriticità, incoerenza, unilateralità, assecondi la capacità di effettuare scelte orientate al futuro, aperte al cambiamento e volte alla piena realizzazione della persona nella sua globalità”.
In quest’ottica, “la famiglia rimane l’ambito fondamentale dell’umanizzazione della persona, il luogo privilegiato della cura degli affetti e dell’educazione”. Non meno importante è il ruolo della comunità ecclesiale: “i problemi scottanti che interpellano oggi la Chiesa (giustizia, pace, bioetica, ecologia) e non ultima la questione antropologica – ha concluso Siviglia – esigono un serio ripensamento globale di tutta la progettualità e la prassi pastorale”. Per vivere pienamente la vita eucaristica.

 

Martedì 6 Settembre 2011


Cen, è la giornata della fragilità

Entra in carcere la Croce della Gmg

 

 


 


Il Centro Caritativo Beato Gabriele Ferretti, nasce dall’esigenza di continuare l’esperienza di accoglienza e apertura alla persona che in vario modo è effettuata, con il coordinamento della Caritas Diocesana, nelle realtà ecclesiali del territorio dell’ Arcidiocesi di Ancona-Osimo.
Sarà gestito dall’Associazione di riferimento della Diocesi, la SS. Annunziata Onlus, ed è rivolto a persone in difficoltà, senza fissa dimora, con problemi legati a disagi di tipologie diverse e vede la realizzazione di un centro con numerosi servizi legati a singole progettualità:
1) casa di seconda accoglienza,
2) “mercatino della solidarietà” per residenti in stato di povertà,
3) mensa serale,
4) centro diurno per senza dimora
5) laboratorio
6) servizio di igiene personale (docce- lavanderia).
Il Centro Caritativo Beato Gabriele Ferretti vuole essere soprattutto un’opera segno che stimoli tutti gli uomini e le donne di buona volontà a mettersi in atteggiamento di incontro e attenzione nei confronti di chi soffre, di chi è rimasto solo, di chi ha smarrito la strada…
Le possibilità che si aprono rispetto al volontariato in questa nuova realtà, che si aggiunge al Centro Giovanni Paolo II di via Podesti, sono quindi numerose, in base alla disponibilità di tempo e alle caratteristiche di ciascuno.
L’importante è che questa opera viva della presenza costante e generosa di chi riconosce il proprio cammino personale e di fede alla luce dell’incontro e della condivisione con l’altro e cerca quindi di vivere la propria esperienza nell’ottica della comunione, del pane spezzato per tutti, del pane condiviso con tutti nella solidarietà e nella giustizia.


Mercoledì 7 Settembre 2011

Al Cen è la volta di lavoro e festa

Il Vangelo  nel cuore della vita

Uno sguardo eucaristico sulla realtà vuol essere il Congresso in corso nella metropolia di Ancona: un esercizio essenziale, per vivere nella luce dell’Eucaristia e per celebrarla nel cuore della vita. In questa prospettiva, mercoledì 7 settembre si punta a rileggere il Vangelo nell’ambito del lavoro e della festa, con una serie di incontri di approfondimento tra Fabriano, Ancona, Falconara e Osimo: dalle 10 si possono seguire in streaming sul sito del Congresso. Riflessioni, ma anche celebrazioni, concerti, e feste.

 

 

 

Giovedì 8 Settembre 2011

Cen, la giornata della tradizione

Per una vita buona, per una vita riuscita



L’ambito della tradizione – a cui il Congresso dedica la giornata di giovedì 8 settembre – invita a riflettere in qual modo l’Eucaristia sostiene il dinamismo della vita cristiana. Il Cristo che si dona, presente nel pane eucaristico, è il riferimento per quella vita buona del Vangelo, nella quale ogni uomo ed ogni donna può trovare la più profonda realizzazione della sua umanità. E’ la giornata dei sacerdoti e della vita consacrata; è la giornata della processione eucaristica, solennizzata anche dall’infiorata.  La città è spesso fatta di mondi che non si parlano: come l’Eucaristia aiuta a coniugare unità e diversità, a fare posto agli esclusi? Maggioranza e minoranza sono due categorie spesso usate contrapposte: come l’Eucaristia ricompone persona e comunità, i pochi e i molti? L’Eucaristia è pane del cammino, accompagna ovunque: come può diventare fonte di accoglienza?

 

 

Venerdì 9 Settembre 2011

Cen, la giornata della cittadinanza

“I cristiani hanno una parola per la città”

 

 

 

“Dobbiamo arrenderci all’Eucaristia che, unendoci intimamente a Gesù, ci apre agli uomini e ce li fa riconoscere non solo come nostri simili ma come fratelli, e ci spinge a servirli. Non è dunque la sintonia ideologica o caratteriale che ci unisce gli uni agli altri, ma Dio; e nella sua verità non ci sono lontananze incolmabili o fratture che non possono essere sanate”. La giornata dedicata alla cittadinanza ha trovato il suo culmine nella celebrazione eucaristica presieduta dal Card. Bagnasco.
Ad Ancona, in una Cattedrale gremita, venerdì 9 settembre il Presidente della Cei, citando sant’Agostino ha ricordato come “nella santa comunione, infatti, siamo assimilati a Lui, conformati a Lui: la nostra individualità viene elevata ma non distrutta, si ritrova più ricca nella comunione trinitaria”.
Questo orizzonte religioso “precede il pur nobile impegno morale” e rende i cristiani “consapevoli di avere qualcosa di proprio da dire”; qualcosa che si condensa in una precisa visione dell’uomo, i cui “cardini costitutivi” e “fondativi della nostra civiltà umanistica” si riassumono nella “vita senza alcuna decurtazione, il matrimonio e la famiglia, la libertà religiosa ed educativa”. Da tale architrave nasce il bene comune, del quale “il lavoro è espressione peculiare, e sul quale oggi si addensano motivate preoccupazioni”.
Soffermandosi sul tema della città, il Cardinale ha richiamato le immagini evangeliche del lievito e del sale per parlare della presenza dei cristiani nella società civile. Ha, quindi, lanciato un appello a dar voce “insieme” a tale presenza: “«insieme», senza avventure solitarie, per essere significativi ed efficaci: «insieme» secondo le forme storicamente   possibili, con realismo e senza ingenuità o illusioni, facendo tesoro degli insegnamenti della storia.
“La condensazione di ideali comuni, che nascono dall’ ispirazione cristiana e dalla sapienza umana – ha concluso – è una ricchezza per tutti”.

» Omelia del S.Em. Card. Angelo Bagnasco [.doc] [.mp3]

 

 


Sabato 10  Settembre 2011

Cen, la giornata della famiglia
Mille famiglie,  una sola famiglia

 

La domenica è “il giorno privilegiato della famiglia”. Per questo “non bisogna rassegnarsi a lasciarlo ridurre a week end, fine settimana consumista e individualista, disgregazione delle comunità e delle famiglie”. Il monito è stato lanciato sabato 10 settembre dal card. Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, durante la celebrazione eucaristica che ha dato il via al quarto pellegrinaggio delle famiglie, inserito nel programma del Congresso eucaristico nazionale.
“La partecipazione assidua alla messa della domenica è il sostegno necessario e insostituibile della famiglia cristiana”, ha ricordato il cardinale sottolineando che “intorno a questo incontro settimanale col Signore nell’assemblea liturgica, la famiglia si costruisce come piccola chiesa missionaria e cellula vitale della società mediante la procreazione generosa e responsabile, l’educazione cristiana dei figli, la preghiera in casa, l’amore reciproco e verso tutti, l’incremento delle virtù personali e sociali, le attività ecclesiali e caritative, l’impegno lavorativo e civile”.
Del resto, “ogni celebrazione eucaristica, in quanto ripresentazione del sacrificio della croce, è anche celebrazione dell’alleanza nuziale di Cristo con la Chiesa”. Ecco perché “per i coniugi cristiani partecipare bene e possibilmente insieme alla Messa significa alimentare l’amore reciproco, la carità coniugale”. “La domenica, che nel vangelo di oggi viene chiamata il primo giorno della settimana – ha ribadito il card. Antonelli – è destinata a diventare il giorno privilegiato della famiglia”.
Ai partecipanti al pellegrinaggio delle famiglie – circa 30 mila persone aderenti ad associazioni e movimenti arrivate ad Ancona da tutta Italia – è giunto il saluto del Papa che, attraverso un telegramma a firma del segretario di Stato Tarcisio Bertone, ha esortato ad “attingere sempre dalla celebrazione e dall’adorazione eucaristica energie nuove per camminare in unità di amore e vita e cooperare all’edificazione della comunità ecclesiale e civile”.
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Venerdì 2 Settembre 2011


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La mostra, inaugurazione in diretta
L’arte europea racconta l’Eucaristia



Alla Mensa del Signore. Capolavori dell’Arte Europea da Raffaello a Tiepolo”: la mostra – allestita ad Ancona per il Congresso Eucaristico – presenta un cospicuo numero di capolavori dell’arte, ben 120 opere, molti di dimensioni monumentali, il cui allestimento si è reso possibile grazie agli imponenti spazi della Mole Vanvitelliana.
Un vero e proprio museo dunque, pur se temporaneo, il cui tema evoca subito i nomi di Leonardo e Raffaello, il primo presente con la predella della pala Baglione raffigurante la Carità, il secondo evocato da molte opere fra cui spicca lo spettacolare e monumentale gruppo scultoreo della Basilica della Beata Vergine dei Miracoli di Saronno, che permetterà al pubblico di ammirare in forma tridimensionale il celebre affresco di Leonardo del convento delle Grazie.
La straordinarietà di questa mostra risiede, oltre che nei capolavori dei grandi maestri dell’arte europea, nella preziosa e ricca raccolta del vasto tesoro artistico conservato nelle diocesi marchigiane: un ordinamento storico-artistico mai realizzato prima d’ora e che rende la rassegna unica nel suo genere.
A presiederne l’inaugurazione, venerdì, 2 settembre, alle 18 – vedi la diretta streaming – saranno il Card. Giovanni Lajolo, Presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, S.E. mons. Edoardo Menichelli, Arcivescovo di Ancona-Osimo, don Stefano Russo, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici della CEI, Dott. Gian Mario Spacca, Presidente della Regione Marche, Prof. Fiorello Gramillano, Sindaco di Ancona, Dott.ssa Patrizia Casagrande, Presidente della Provincia di Ancona, Dott. Massimo Sarmi, Amministratore Delegato Poste Italiane, Prof. Giovanni Morello, Presidente Comitato Scientifico del CEN, Prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani e Dott. Rodolfo Giampieri, Presidente Camera di Commercio di Ancona.


Da Avvenire

 

La seconda giornata di lavori del Congresso eucaristico nelle Marche è stata dedicata al tema della “fragilità”. In mattinata, riflessioni in contemporanea ad Ancona, Loreto e Osimo, dove si sono celebrate al mattino le messe presiedute rispettivamente da monsignor Liberati, monsignor Marrucci e monsignor Canalini, a cui sono seguite le lodi. In serata ad Ancona la messa presieduta dal cardinale Tettamanzi (nella foto Siciliani, gli stand delle cooperative nate dal Progetto Policoro).





La fede nell’arte: Frati e artisti allo stesso tempo

Mostra per il decennale del Museo dei Cappuccini di Milano


Per i suoi dieci anni di attività, il Museo dei Cappuccini di Milano, racconta l’arte dal punto di vista dei frati. E lo farà nella mostra La fede nell’arte: luoghi e pittori dei frati cappuccini che sarà inaugurata il prossimo 16 ottobre e si protrarrà fino al 19 febbraio. Con la direzione artistica della direttrice del Museo, Rosa Giorgi, saranno esposte le opere di diversi artisti appartenuti all’Ordine o molto vicini ad esso, tra cui  Bernardo Strozzi, Fra Semplice da Verona, Paolo Piazza,  Fra Stefano da Carpi,  Fra Giovanni Francesco Gamberoni, Fra Camillo Kaiser.    Per l’occasione saranno coinvolti  i Musei dei Beni Culturali dell’Ordine di Genova e di Reggio Emilia, la Quadreria di Trento, la Quadreria di Voltaggio, il Museo francescano dell’Istituto Storico di Roma e la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano. Alla mostra sarà esposta anche la  statua raffigurante san Francesco, opera in marmo bianco di Candoglia risalente al quindicesimo secolo e proveniente da un pilone votivo del Duomo di Milano. Insomma frati cappuccini e pittori, un connubio che non è noto a molti, ma che in realtà cela una magnifica tradizione che vede protagonisti uomini con un grande spirito di fede e una profonda passione e talento artistico.  A corredare la mostra saranno organizzati numerosi eventi collaterali, cicli di conferenze, attività didattiche per grandi e piccini. L’ingresso è libero.

 

 

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (A)

XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Siracide 27,30-28,7

 

Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Un uomo che resta in collera verso un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore? Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati? Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati? Ricordati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti. Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.

v È un brano di un sapiente che vuole trasmettere il suo ideale tradizionale di vita religiosa ad una comunità ebraica, che, sempre più affascinata dalla cultura greca, incominciava a secolarizzarsi.

Qui il sapiente insegna una legge fondamentale perché la famiglia e la comunità continui a rimanere in piedi: il perdono: «Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?» (v. 4). E tutto il testo è un alternarsi di presentazione del rancore e della vendetta, del perdono e della misericordia. Sono disapprovati il rancore e la vendetta, e lodati il perdono e la misericordia.

Il Signore tiene sempre presenti i peccati di colui che si vendica. Il motivo finale per aprirsi al perdono e alla misericordia è un evento divino: la sua alleanza. Il perdono gratuito ricevuto porta ad osservare i precetti del Signore, in particolare quello della riconciliazione con il fratello (vv. 8-9).

 

Seconda lettura: Romani 14,7-9


Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

 

v Nella comunità dei credenti sono presenti due categorie di persone: i deboli e i forti. I deboli sono quelli rimasti attaccati alle antiche osservanze e tradizioni religiose giudaiche nelle quali erano stati educati, i forti invece sono coloro che giudicano male costoro, basandosi sulla libertà data dal vangelo. Ora Paolo dà le ragioni per cui egli — paladino della libertà evangelica — non vuole che questa diventi fonte di superiorità sugli altri. La ragione profonda dell’esistenza non si trova nell’uomo, ma nel Signore Gesù Cristo, per il quale viviamo, moriamo e agiamo.

Tutto deve quindi essere orientato verso Dio. La nostra vita e la nostra morte non hanno valore in sé, ma in quanto indirizzate a un fine più alto. Soprattutto dopo la morte e risurrezione di Cristo. Il cristiano appartiene a lui, non solo perché è stato in lui creato, ma anche perché è stato da lui conquistato e riscattato mediante la croce.

Perciò colui che vive non dovrà più vivere per se stesso, ma per colui che è morto e risorto per lui (cf. 2Cor 5.14-15).

 

Vangelo: Matteo 18,21-35


In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

Immagini sul Vangelo

XXIV DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi

 

La lettura parla del perdono reciproco, come elemento necessario per appartenere al regno di Dio. Innanzitutto vi troviamo l’interrogazione di Pietro: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (v. 21). Gesù aveva parlato poco prima di riguadagnare il fratello (v. 15). Questo avviene non solo quando la comunità offesa perdona al fratello, ma anche quando colui che è stato personalmente offeso perdona.

Pietro aveva capito che la volontà di Dio e quella di Gesù è un messaggio di perdono. Ma quali sono i limiti? I maestri del tempo giungevano fino a tre volte. Gesù è più misericordioso, e giunge a «settanta volte sette». Questo è contrario al tipico desiderio di vendetta di cui l’antico Lamech fu protagonista: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settanta volte». La misericordia di Dio supera infinitamente ogni desiderio di vendetta.

Per imprimere nel cuore degli ascoltatori questa volontà di perdono Gesù racconta una parabola in tre atti. Il primo atto vede un ministro, che ha un debito sproporzionato con il suo padrone o re: un talento valeva 35 chili d’oro, e il servitore ne doveva diecimila al suo padrone! Questi, però, gli perdona tutto, mosso da compassione. Dio infatti è «ricco di grazia e di misericordia… lento all’ira e grande nel perdono». Dio perdona sempre.

Il secondo atto mostra invece che il perdonato non sa perdonare un piccolo debito e non s’accorge nemmeno di essere stato supplicato con gli stessi suoi gesti. Il terzo atto: di fronte al cuore indurito, il re (Dio) si accende d’ira e fa giustizia. Si noti che non è il nostro perdonare che ci merita il perdono, ma la misericordia ricevuta ci apre il cuore a donare il perdono.

 

Meditazione

 

La richiesta di perdono a Dio è credibile se accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno: questa l’unità tra prima lettura e vangelo. Unità che possiamo ribadire con le parole del Padre nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). E ancora: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). Anche la liturgia giudaica afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello” (Mishnà, Yomà 8,9).

Pietro interroga Gesù sulla misura del perdono nei confronti dell’offesa personale (“se mio fratello pecca contro di me”: Mt 78,27), un’offesa a cui non segue il pentimento né la richiesta di perdono da parte dell’offensore. Nel testo parallelo di Luca si dice invece: “Se tuo fratello peccherà sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: “Mi pento”, tu gli perdonerai” (Lc17,4). In Matteo il perdono è incondizionato, non preparato da alcuna dichiarazione di pentimento. Questo perdono è possibile quando chi è chiamato a perdonare si ricorda del perdono immenso, incommensurabile che ha già ricevuto lui stesso in Cristo. In altre parole: ciascun cristiano si trova, nei confronti del proprio fratello, nella stessa situazione del servo a cui è stato condonato il debito inestinguibile.

Che venga condonato il debito immenso (cfr. Mt 18,27) significa che il perdono non può limitarsi a perdonare ciò che è scusabile, “i peccati veniali”, ma che esso è tale quando perdona ciò che potrebbe sembrare imperdonabile. Perdonare l’imperdonabile: anche questo sta all’interno della misura del perdono cristiano.

Nella parabola evangelica (cfr. Mt 18,23-35) il servo spietato unisce nel suo comportamento cattiveria e stupidità. Che forse è la trascrizione in termini quotidiani della distinzione teologica tra peccati deliberati e peccati per ignoranza. Non è forse anche stupido il servo che, dopo essersi visto condonare un debito immenso, si mostra senza pietà nei confronti dell’uomo che gli doveva una cifra infinitamente inferiore? Spesso il peccato è il frutto della congiunzione di cattiveria e stupidità, di malvagità e ignoranza. O anche: spesso il peccatore, tanto è pericoloso, tanto è ridicolo.

La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nell’unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con l’offensore con un atto di totale gratuità e accetta di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdano nel Cristo crocifisso: “Il Giusto, del quale a Pasqua si celebra la resurrezione, è colui che, asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a chi non lo domanda” (Francis Jacques).

Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi misconosce il perdono. È vittoria del bene sul male, è perdono del rifiuto del perdono, è evento pasquale.

Un aspetto non secondario della parabola matteana è la tristezza, il dolore dei compagni di servitù di fronte all’agire malvagio del servo che non ha pietà di colui che gli deve cento denari (v. 31). Lì non c’è spazio per il linguaggio del perdono, ma solo per lo sdegno e l’indignazione, per la ribellione di fronte all’ingiustizia che diviene coraggio della denuncia.

Vi è una giustizia del perdono che interviene quando il rapporto da bilaterale si apre a un terzo, come nel caso della parabola. Che il perdonato non perdoni a sua volta è un’ingiustizia che suscita la collera (v. 34), non la misericordia (v. 27). Se posso perdonare infinite volte il peccato contro di me, non ho l’autorità di perdonare il male che un altro fa a un terzo.

 

Preghiere e racconti


Come farsi perdonare?

Voi direte: E l’offesa, l’offesa che richiede il perdono? Certo esiste, ma il perdono è una cosa troppo grande per tirarlo indebitamente in ballo nel caso di tensioni legittime e tutto sommato benefiche.

Esiste quando appare quella realtà spaventosa e molto diffusa che è l’intolleranza, la quale genera la collera, il rancore e, anzitutto, il disprezzo degli altri. Esiste quando, invece di procedere insieme verso la verità delle nostre relazioni umane, anche a costo di rivedere continuamente le nostre idee, approfittando avidamente della luce proposta da altri, noi pretendiamo – a volte contro l’evidenza – di avere sempre ragione… Come perdonare allora? O come farsi perdonare? La risposta non è sempre facile. Ma una cosa è certa: che si offenda o si sia offesi, bisogna porsi, anzitutto, davanti a Dio. Che abbiamo fatto realmente del male a un’altra persona o che sia essa ad averci fatto del male…, spinti da quest’amore che ci libera dal male, sapremo preparare almeno le parole e i gesti che riconciliano.

(A.M. Carré, Per amore del tuo amore, Dio e gli altri)

 

 

La legge delle Settanta volte

Quando la Roccia (Pietro) Ti ha chiesto

quante volte doveva perdonare al suo fratello,

Tu non hai detto: “Sette volte”,

ma “quattrocentonovanta volte”!

In questo numero sono contenuti gli anni della nostra vita terrena,

dei sette periodi della nostra vita effimera:

per tutto il tempo che siamo in questo corpo

bisogna perdonare a chi si pente.

E, pur essendo stato l’ultimo

a non perdonare al debitore,

a causa della natura inferma della mia anima,

e ad essere imperfetto nel bene,

si realizzi in me, grazie a Te,

la parola del tuo comandamento, che mi è stato imposto;

voglia Tu perdonare le mie colpe, debiti verso di Te,

che sono più numerose della sabbia del mare.

La legge delle Settanta volte,

non sia solo a mia misura, a misura di me povero,

ma ancor più si rafforzi la tua legge,

secondo la tua misericordia che non si conta.

(Narsete Shnorhali, Gesù, Figlio unigenito del Padre)

 

Dimenticare è perdonare

Abele e Caino si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero il fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra, e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più. Stiamo qui insieme come prima». «Ora so che mi hai perdonato davvero, disse Caino, perché dimenticare è perdonare». Abele disse lentamente: «È così, finché dura il rimorso dura la colpa».

(Jorge L. Borges)

 

«Ritieni quello un santo e chiedigli di pregare per te»

A volte si giunge a dei testi come il seguente tratto dalla Catechesi 18 di Simeone il Nuovo Teologo:

«Se vivi in comunità in mezzo ai fratelli, non opporti mai al padre che ti ha dato la tonsura, anche se lo vedi abbandonarsi alla lussuria o all’ubriachezza e se ti sembra che sovrintenda malamente al monastero, se sei percosso o disprezzato da lui e sei sottoposto a molte afflizioni. Non unirti a coloro che lo insultano, non andare con quelli che tramano contro di lui.

Sopportalo fino alla fine, senza impicciarti nelle sue malefatte. Conserva nel tuo cuore tutto il bene che gli vedi fare e sforzati di ricordare solo questo; tutte le cose sconvenienti e cattive che gli vedi fare e dire, imputale a te stesso, considerale come tuoi peccati e pentiti fra le lacrime; ritieni quello un santo e chiedigli di pregare per te».

(SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Catechesi 18, 132-145, in SYMÉON LE NOUVEAU THÉOLOGIEN, Catéchèses II, intr. e testo critico a cura di Basil Krivochéine, trad. it. di Joseph Paramelle, SC 104, Editions du Cerf, Paris 1964, p. 277).

 

Lo scorpione

Un monaco si era seduto a meditare sulla riva di un ruscello. Quando aprì gli occhi, vide uno scorpione che era caduto nell’acqua e lottava disperatamente per stare a galla e sopravvivere. Pieno di compassione, il monaco immerse la mano nell’acqua, afferrò lo scorpione e lo posò in salvo sulla riva. L’insetto per ricompensa si rivoltò di scatto e lo punse provocandogli un forte dolore. Il monaco tornò a meditare, ma quando riaprì gli occhi, vide che lo scorpione era di nuovo caduto in acqua e si dibatteva con tutte le sue forze. Per la seconda volta lo salvò e anche questa volta lo scorpione punse il suo salvatore fino a farlo urlare per il dolore. La stessa cosa accadde una terza volta. E il monaco aveva le lacrime agli occhi per il tormento provocato dalle crudeli punture alla mano. Un contadino che aveva assistito alla scena esclamò: «Perché ti ostini ad aiutare quella miserabile creatura che invece di ringraziarti ti fa solo male?». «Perché seguiamo entrambi la nostra natura» rispose il monaco. «Lo scorpione è fatto per pungere e io sono fatto per essere misericordioso».

 

Racconti

Si racconta di un abate che, quando veniva criticato, era solito scrivere il nome del monaco su un foglietto e lo metteva nel cassetto. In tal modo si ricordava che doveva contraccambiare il giudizio poco benevolo con una cortesia.

Si narra ancora di un mendicante che un giorno s’imbattè nel re, seduto su un cocchio dorato. Con sua meraviglia e sorpresa, il re lo guardò e gli tese la mano, chiedendo l’elemosina. Meravigliato, il mendicante frugò nella sua bisaccia ed estrasse un chicco di riso, il più piccolo che era riuscito a trovare. Alla sera, quando svuotò la bisaccia trovò il piccolo chicco trasformato in pepita d’oro. Si rammaricò. Se avesse donato tutto il suo riso, sarebbe diventato ricco.

 

Il perdono di Dio e il perdono dell’uomo

Raccontando le tre parabole della misericordia, Gesù intende mostrare che la sua accoglienza dei peccatori non è soltanto conforme alla volontà di Dio, ma è la rivelazione del volto di Dio. Il comportamento di Gesù è rivelazione, non solo obbedienza. Con la sua accoglienza Gesù rivela chi è Dio: ama i peccatori, li attende, li cerca e gioisce del loro ritorno. Di più. L’accoglienza dei peccatori da parte di Gesù non soltanto è la trasparenza del perdono di Dio, ma è la trasparenza della gioia del perdono di Dio. Dio gioisce nel perdono. Il tratto sottolineato in tutte e tre le parabole è proprio la gioia di Dio.

E vero che si parla anche di conversione del peccatore, ma l’attenzione si concentra sulla gioia di Dio per la conversione del peccatore. Nulla o quasi sulle azioni del peccatore che si converte. Si racconta ciò che prova Dio, non ciò che il peccatore deve fare. La conversione del peccatore è vista dalla parte di Dio. Si racconta ciò che Dio fa (cerca e gioisce), non anzitutto le modalità della conversione dell’uomo. La domanda teologica (come si comporta Dio?) viene prima della domanda morale (che cosa deve fare l’uomo per ritornare a Dio?). La gratuità del perdono non poteva essere illustrata meglio. La simpatia di Dio e il suo amore per il peccatore, precedono la conversione del peccatore. Dio ama il peccatore già prima, non solo dopo che si è convertito. E proprio questo amore previo, del tutto gratuito, che tocca il cuore del peccatore e lo converte. Ci si converte perché amati. Ci si converte perché perdonati.

Il pastore va in cerca della pecore smarrita – l’iniziativa della ricerca è soltanto sua – perché questa pecora continua ad essere preziosa ai suoi occhi. E il padre non cessa di amare il figlio che si è allontanato e continua ad attenderlo. Quando lo vede da lontano, gli corre incontro e lo abbraccia. Il figlio non ha ancora detto le parole che ha pensato da dire al padre, che immagina irato. E anche quando il figlio dice le parole che chiedono perdono, è come se al padre queste parole non importassero. La sua fretta è di accogliere, gioire, far festa. Le parole del figlio sembrano completamente sullo sfondo, quasi inutili.

E questo il vero volto di Dio, il volto di un padre e basta, che Gesù ha inteso rivelare con la sua incondizionata accoglienza dei peccatori.

Ma non possiamo fermarci qui. Lo stesso vangelo ci dice che il perdono ricevuto da Dio deve diventare un perdono che si prolunga ai fratelli: un perdono gratuito come quello di Dio, gioioso come quello di Dio. Il come è importante e difatti nella gioia di perdonare i fratelli l’uomo sperimenta la gioia del perdono ricevuto da Dio.

Certamente il perdono ai fratelli non è la ragione, la condizione e la misura del perdono di Dio. Tuttavia il legame è stretto e decisivo: il perdono ai fratelli è infatti il segno che si è davvero capito il perdono di Dio e lo si è veramente accolto.

Nella parabola di Matteo 18,21-35 questo è affermato con chiarezza. Il servo, così generosamente perdonato dal suo padrone, incontra un collega che gli deve pochi denari. Questi lo supplica, gli chiede un rinvio, ma il servo prima perdonato non vuole sentire ragioni, non si muove a compassione, esige il pagamento subito fino all’ultimo. Come è possibile, dopo aver ricevuto un tale condono, non essere capaci, a propria volta, di un piccolo condono? È inconcepibile! Evidentemente il servo perdonato non ha compreso la fortuna che gli è capitata. Il perdono ricevuto non lo ha rigenerato, ne l’incontro con la gratuità di Dio gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere perdonati significa entrare in un modo nuovo di rapportarsi, nel quale i criteri dello stretto dovuto non sono più sufficienti.

Ma anche qui c’è una novità da non perdere: persino il perdono di Dio – e in generale il suo giudizio – è anche nelle nostre mani. Dio prende molto sul serio la nostra libertà. La gratuità del suo amore non è mai – ne potrebbe essere – senza la risposta della nostra libertà. La sorprendente novità evangelica è che la risposta al perdono di Dio sia il nostro perdono ai fratelli, non anzitutto qualcosa per Lui!

Ci si permetta di insistere. Matteo (5,44) e Luca (6,27-35) collocano l’imperativo del perdono ai nemici in un discorso in cui intendono sottolineare la differenza (la vera differenza) fra il cristiano e il mondo. L’amore al nemico, infatti, evidenzia – come non accade in nessuna altra forma di amore – le due note profonde di ogni autentico amore evangelico. Anzitutto la tensione all’universalità: nell’amore al nemico la figura del «vicino» si dilata sino a rinchiudere anche il «più lontano»: chi è più lontano del nostro nemico? E poi la nota della gratuità, che è l’anima di ogni vero amore.

Siamo convinti di dire cose sorprendentemente paradossali. Ma si tratta del Vangelo. E poi, se si guardano le cose più attentamente, si può anche intuire che il perdono è paradossale, ma anche necessario per la convivenza, a ogni livello: nelle relazioni familiari, nelle relazioni amicali, nella società. Addirittura nelle relazioni fra i popoli.

Senza un minimo di riconciliazione il mondo non sta in piedi. Un vecchio rabbino soleva dire che quando Dio creò il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi. Poi creò il perdono, e il mondo stette in piedi.

Editoriale, in «Rivista del Clero Italiano» 88 (2007) 2, 83-85.

 

«Abbi sempre misericordia di tali fratelli»

San Francesco d’Assisi, in una commovente lettera ad un ministro/ superiore, dava le seguenti istruzioni circa eventuali debolezze personali dei suoi frati: «E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli»

(Francesco d’Assisi, Lettera a un Ministro, 7-10).

 

Preghiera

Perdonami, Signore Gesù: ancora oggi ho avuto paura del rifiuto e dello scherno. Non

ce l’ho fatta a seguirti nella tua strada e sono sceso a patti con i criteri che, in questo mondo, fanno stare dalla parte dei vincenti.

Tu hai scelto l’amore e sei stato deriso, non creduto, infine ucciso. Mai hai smesso di amare e di dimostrare amore: quello che dicevi, lo mettevi in pratica. Sei stato uno sconfitto per le cronache mandane; ma nel silenzio di un’aurora di primavera, sei risorto da morte. L’amore, ci hai detto, è l’unica salvezza, e credere in te sconfigge ogni sopruso, ogni tirannico egoismo.

Perdonami, Signore Gesù, quando solo a parole dico la mia fede, quando mi rifugio nel nascondiglio del ‘così fan tutti’ invece di gustare gli spazi aperti delle tue vie, lungo le quali si sperimenta la gioia di dare la vita per i fratelli.

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

XXIII Domenica del tempo ordinario (A)

XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Ezechiele 33,1.7-9

 

Mi fu rivolta questa parola del Signore:  «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.  Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.  Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu sarai salvato».

v Se il Vangelo c’invita a essere custodi gli uni degli altri, a sua volta il testo del profeta Ezechiele indica nell’immagine della sentinella la caratterizzazione del proprio ruolo. Tale immagine, naturale in un contesto militare e in cui la guerra ha un posto importante nella vita quotidiana, come in una civiltà nella quale le mura della città erano appunto custodite da sentinelle, era immediatamente percepibile: la sentinella ha il compito di avvertire il popolo appena avvista il pericolo. Il profeta, da parte sua, non avvista i pur notevoli pericoli di eserciti nemici, bensì quelli ancora più insidiosi dell’allontanamento da Dio, dalla sua legge.

Ciò che, però, il profeta Ezechiele afferma si rivela sorprendente perché egli non sarà sentinella nel senso che, avendo visto l’empio agire male, lo riprende di sua iniziativa. Al contrario, dovrà seguire un criterio ben preciso e determinato: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia» (33,7). Dunque, è Dio stesso che si preoccuperà di dare l’«allarme» alla sentinella-profeta! Dio, cioè, si renderà garante dell’oggettività del richiamo, che ha il solo scopo di conseguire la salvezza dell’empio, la cui vita, davanti agli occhi di Dio, non ha meno valore di quella del giusto, essendo Egli il creatore dell’una come dell’altra: «Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te» (33,8).

Il profeta risulta perciò responsabile in caso di omissione del compito che Dio gli ha affidato: anche la vita dell’empio appartiene al Signore ed Egli non vuole certo sciuparla, perderla. Tuttavia, l’empio, da parte sua, conserva la responsabilità sulla propria vita e sul suo esito, qualora si ostini a non convertirsi: «Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (33,9). Si tratta del famoso principio della responsabilità personale, secondo il quale le colpe personali ricadono soltanto su chi le ha commesse. Di questo l’empio dev’essere altamente consapevole, sapendo comprendere e scorgere nel richiamo del profeta-sentinella l’occasione per approfittare dell’offerta di misericordia da parte di Dio.

 

 

Seconda lettura: Romani 13,8-10

Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».  La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità.

 

v Fungere da sentinella, avvertendo con saggezza unita a fermezza circa i pericoli di determinati comportamenti, non è un compito tra i più gratificanti nell’ambito di una comunità, grande o piccola che sia. Bene lo sapevano i profeti dell’antichità come pure i profeti di oggi. Non si può negare, però, che anche questo rappresenti un vero servizio d’amore a vantaggio di un’umanità spesso disorientata. Ed è proprio sull’amore che l’apostolo Paolo invita a riflettere, insistendo su un particolare di non poco conto: l’osservanza della legge. Infatti, contrariamente a chi lo dipinge come abrogatore della legge, Paolo intende incoraggiare i cristiani di Roma a realizzare il fine proprio della legge, ossia l’amore.

Esaminando i tre versetti del brano, iniziamo dalla prima affermazione, la cui formulazione può sembrare un po’ strana: «non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (13,8). Paolo ritiene che, se dev’esserci una qualche obbligazione tra fratelli di una comunità, questa non può che essere l’agape, l’amore, di cui ha già parlato abbondantemente in 12,9-21, esortando a essere sinceri nella carità e a non rendere a nessuno male per male, bensì a vincere il male con il bene.

Nel versetto 9, poi, citando esplicitamente alcuni dei precetti mosaici e richiamando allusivamente gli altri, tira una conclusione che ben conosciamo, essendo tipica anche di altri passi del Nuovo Testamento, in particolare del Vangelo (Mc 12,28-31; Mt 22,34-40; Lc 10,25-28; Gv 13,34-35): «Infatti: “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai”, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”». I tanti precetti della legge, cioè, in chi è giunto alla maturità della fede e dell’amore verso Dio, si rivelano riassumibili nel precetto dell’amore per il prossimo, il quale non ha bisogno di vietare, ma al contrario di spingere a fare di più per i fratelli. D’altronde, l’amore rende il cristiano più capace di vedere i bisogni di chi è il suo prossimo, non raramente anche di prevenirli.

Infine, con il v. 10 si chiude la breve riflessione, ribadendo il rapporto tra amore e compimento della legge: «La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità». È utile sottolineare che quanto dice Paolo non costituisce una semplice parenesi, quasi un appello ai buoni sentimenti, ma un ritrovare nel nucleo stesso della rivelazione (la legge) le motivazioni profonde che insegnano l’agire di Dio agli uomini.

La legge, quindi, secondo l’insegnamento paolino (cf. Romani e Galati), rimane efficace e necessario pedagogo che conduce a Cristo, giacché, in ultima analisi, colui che compie la legge si mette sulla medesima scia segnata dal Figlio di Dio, che ha interpretato la sua morte in croce come compimento della legge nell’amore. Una scia che porta alla croce, in quanto l’amore significa comunque rinunciare a se stessi per far posto a Dio e imitare la vita del Figlio.

 

 

Vangelo: Matteo 18,15-20

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:  «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

 

 

Il  vangelo in immagini

XXIII DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

 

Esegesi

 

Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, rispondendo alla domanda riguardo ai fondamenti della vita di una comunità, ne presenta due di non trascurabile valore: la correzione fraterna e la preghiera in comune.

Iniziamo dalla correzione fraterna, che viene esposta dall’evangelista in maniera abbastanza giuridica, come si deduce dal tipo di ragionamento seguito: a) v. 15, ossia la correzione in privato: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»; b) v. 16, la correzione in presenza di testimoni «se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»; c) v. 17, correzione davanti all’assemblea come extrema ratio, prima dell’espulsione: «Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano».

In realtà, tra i vari riferimenti del Nuovo Testamento alla correzione (Mt 7,4; Lc 6,41-42; Gal 6,1; 2Ts 3,15; 1Tm5,l; 2Tm 2,25; Tt 3.10; Gc 5,19-20), questo di Matteo è il più preciso, ma è anche quello che si rivela subito, allo stato dei fatti, il più irrealizzabile, se non nel contesto limitato di comunità come Qumran (presso la quale esisteva una disciplina precisa in proposito) e, successivamente, quelle monastiche (si pensi al capitolo delle colpe). Può darsi che nella comunità dell’evangelista, di carattere giudeocristiano, si agisse in questo modo, poiché tale prassi risente della tradizione biblica. Infatti, 18,16 cita esplicitamente Dt 19,15, mentre il concetto generale della correzione fraterna si trova in Lv 19,17: «Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui».

Pur coscienti della problematicità storica di tale prassi nelle comunità antiche, non si può negare un dato: ogni membro della comunità si sente un po’ responsabile di chi gli sta a fianco, il che vuol dire che, per la salvezza del fratello e il buon nome della comunità stessa, egli ritiene proprio dovere intervenire nella correzione. Questa, poi, può addirittura giungere all’estremo dell’espulsione nei casi di perdurante ostinazione da parte di chi è stato corretto. Per confermare questo tipo di «potere» da parte della comunità. Gesù dice: «In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (18,18). Anche Dio accetta la decisione che la comunità, dopo aver attentamente ponderato ed esplorato ogni possibile strada di correzione, consideri non più discepolo l’ostinato e lo affidi alla misericordia divina affinché lo faccia ritornare sui propri passi.

L’altro fondamento, quello della preghiera in comune, è strettamente legato a quanto abbiamo detto finora: soltanto una comunità che sa riunirsi nella concordia della preghiera e della professione di fede in Gesù Cristo può intercedere per coloro che hanno voltato le spalle al vero pastore dell’umanità. Anzi, ancora più radicalmente, il Vangelo afferma che basta essere in due, che, in accordo, possono chiedere qualsiasi cosa al Padre, perché egli la conceda. E quale cosa migliore si può chiedere al Padre se non che nessuno si perda di quelli che Egli ha chiamato?

Quando tutte le altre metodologie falliscono, non rimane che implorare dal Padre il suo onnipotente intervento per raddrizzare ciò che ha preso una cattiva piega.

 

 

Meditazione


La fede in Dio diviene responsabilità verso il fratello e questa si declina come ammonizione e correzione del fratello: questo il messaggio che unisce prima lettura e vangelo.

La correzione fraterna richiede un profondo senso di fede. Questo emerge dalle parole di Gesù secondo le quali essa deve esercitarsi nei confronti di chi «ha peccato», commettendo una colpa pubblica, non diretta in modo particolare contro l’altro. Il testo non dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te». In quel caso, rivelerà Gesù, vi è il perdono senza misura (Mt 18,21-22).

La maturità di fede consiste nel sentirsi feriti dal peccato in quanto tale, non soltanto dall’offesa personale.

La correzione fraterna si oppone al silenzio complice, alla pigrizia di chi non vuole inimicarsi l’altro, ai meccanismi di autogiustificazione sempre pronti a trovare buoni motivi per non intervenire e non denunciare il male là dove è commesso. A livello ecclesiale la correzione corrisponde a una parola audace e profetica pronunciata a qualunque prezzo, perché di mezzo c’è il vangelo. Uno dei più frequenti peccati di omissione è il sottrarsi alla denuncia del male e del peccato, è il sottrarsi alla correzione fraterna.

La capacità di correzione dice la libertà del credente. E anche la sua obbedienza radicale al vangelo e la sua appartenenza al Signore.

L’autenticità dell’amore sgorgato dal vangelo si manifesta nella capacità di correggere colui che si ama. L’amore «spirituale», non psichico, vince la tentazione di tacere il peccato commesso dall’amico per timore di perderne l’amicizia. La correzione fraterna dice che l’amore cristiano deve essere vissuto all’interno della responsabilità per gli altri e per il mondo.

La correzione fraterna va colta anche dal punto di vista di chi la riceve, che è sempre un fratello, un membro della comunità cristiana. Occorre molta umiltà e disponibilità a ricredersi e a ricominciare. L’autentica correzione fraterna non è un giudizio, e ancor meno una condanna, ma un evento sacramentale che fa regnare Cristo come terzo tra chi la esercita e chi la riceve. Essa richiede il coraggio della parola: coraggio che può nascere solo radicando la propria parola nella parola evangelica.

I tre «gradi» del processo disciplinare nei confronti di chi ha peccato nella chiesa (Mt 18,15-17) indicano quantomeno imprudenza e la gradualità in cui si svolge il tentativo di accordare l’istanza evangelica con il rispetto del fratello peccatore al fine di recuperarlo. L’orizzonte della correzione è infatti quello espresso dal profeta Ezechiele, secondo cui Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11).

La scomunica (Mt 18,17) appare come extrema ratio. E certamente la prassi storica delle comunità potrà e dovrà creare e inventare forme di intervento che cerchino in ogni modo di evitare l’allontanamento di un fratello. Impressiona, nella Regola di san Benedetto, la procedura prevista nei confronti di un fratello peccatore: «L’abate si comporti come un esperto medico: se ha usato i lenitivi, gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle divine Scritture, e, da ultimo, il cauterio dell’esclusione o delle battiture della verga, se vede che tutto il suo darsi da fare non serve a nulla, allora ricorra a ciò che è ancor più efficace: la preghiera sua e di tutti i fratelli per lui, affinché il Signore, che tutto può, operi la guarigione del fratello malato» (28,2-5).

L’estensione ai membri della comunità, o almeno ai suoi responsabili, del potere di «sciogliere e legare», riservato al solo Pietro in Mt 16,19, dice l’importanza della corresponsabilità nell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. E ribadisce un principio importante della prassi sinodale: «Ciò che nel corpo ecclesiale concerne tutti, deve essere discusso e approvato da tutti».

Se nella Chiesa vi è divisione e peccato, essa però trova la sua unità nel Nome del Signore: lì, fosse ben tra due o tre credenti, perché mai nel Nuovo Testamento la Chiesa dipende dal numero, si può creare la sinfonia (vb. symphonéo: v. 19) gradita al Signore e da lui ascoltata.

 

 

Preghiere e racconti


Le sentenze dei padri del deserto

Per molti anni due uomini erano vissuti insieme senza mai litigare. Un giorno, uno disse: “E se litigassimo almeno una volta come fanno tutti?”. L’altro rispose: “Io non so come si fa a litigare… Il primo disse: “Ecco: io colloco un mattone fra noi due e io dico che è mio e tu dici che è tuo. È così che comincia un litigio. Collocarono quindi il mattone fra di loro. Uno disse: “È mio”. L’altro disse: “No, è mio”. Riprese il primo: “Sì  è tuo; prendilo e vattene. E si separarono senza riuscire a litigare.

(L. Regnault, Le sentenze dei padri del deserto)

 

Correzione con amore

«Rabbi Aronne arrivò un giorno nella città in cui cresceva il piccolo Mardocheo, il futuro Rabbi di Lechowitz. Il padre di questi gli condusse il ragazzo e si lamentò che non avesse costanza nello studio. “Lasciatemelo qui un poco”, disse Rabbi Aronne. Quando fu solo con il piccolo Mardocheo, strinse il bambino al suo cuore e in silenzio ve lo tenne vicino fino a che il padre tornò. “Gli ho fatto un discorsino” disse quindi Rabbi Aronne. “D’ora in poi la costanza non gli mancherà”. Quando il Rabbi di Lechowitz raccontava questa vicenda aggiungeva: “Ho imparato allora come si convertono gli uomini”».

(MARTIN BUBER, I racconti dei Chassidim, Milano, Garzanti,1985, 245).

 

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe un volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite ; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa . – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. E’ questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

 

L’amicizia e la correzione fraterna in S. Giovanni Crisostomo

«Più di noi stessi, se lo volete, voi potete beneficarvi a vicenda: passate più tempo insieme, conoscete meglio di noi le vostre relazioni reciproche, non vi sono nascoste le vostre mancanze vicendevoli, avete più franchezza, più amore, più consuetudine reciproca: questi non sono piccoli vantaggi per ammaestrare, anzi ne offrono una possibilità grande e opportuna; e più di noi potete rimproverare ed esortare. E non solo questo, ma io sono solo, e voi molti; e tutti potete, quanti siete, essere maestri. Perciò vi scongiuro: non trascurate questa grazia! Ciascuno ha una moglie, ha un amico, ha un servo, ha un vicino: questi ammonisca, quelli esorti. Non è un assurdo? Per il cibo si fanno banchetti e simposi, vi sono giorni stabiliti per riunirsi e quello in cui uno manca personalmente, viene compiuto dalla società, come ad esempio se si debba partecipare a un funerale, o a un banchetto, o si debba aiutare in qualcosa un prossimo. E, invece, per ammaestrare alla virtù non si fa nulla di ciò! Sì, vi scongiuro! Nessuno lo trascuri! Riceverà da Dio una grande ricompensa!

[…] «Ma non so parlare» si dice. Non c’è bisogno di saper parlare né d’eloquenza. Se vedi un tuo amico che si abbandona all’impudicizia, digli: «Ciò che fai è un’azione cattiva; non ti vergogni? Non arrossisci? È male!». Ma lui non sa che è male? si obietta. Certo, lo sa, ma la passione lo trascina. Anche gli ammalati sanno che una bevanda fredda fa loro male, e tuttavia c’è bisogno di chi glielo impedisca. Chi soffre, non sa facilmente dominarsi, se è ammalato. C’è bisogno di te, che sei sano, per curarlo; e se non riesci a persuaderlo a parole, osserva dove va e impedisciglielo, forse se ne vergognerà. «Ma che giova se agisce così per me, se solo per me se ne trattiene?». Non sottilizzare troppo: intanto distoglilo in qualsiasi modo dall’azione cattiva; si abitui a non precipitarsi in quel baratro sia per te, sia per qualsiasi altro impedimento: è già un guadagno. E quando si sarà abituato a non recarsi più là, allora, dopo che si sarà un po’ riavuto, potrai riavvicinarlo e insegnargli che bisogna evitare ciò per Dio e non per gli uomini. Non pretendere di correggerlo tutto in una volta, perché non ci riuscirai; bensì piano piano, un po’ alla volta.

E se lo vedi andare a bere, se lo vedi recarsi a banchetti dove ci si ubriaca, comportati nello stesso modo. Anzi, supplicalo di aiutarti a correggerti se vede che tu hai qualche difetto. In tal modo rivolgerà in sé il rimprovero, vedendo che anche tu hai bisogno di ammonizione, e che lo aiuti non perché sei il correttore di tutti, o il maestro, ma sei un amico e un fratello. Digli: Ho giovato a te ricordandoti qualcosa di utile; anche tu, se vedi in me qualche difetto, prendimi per i capelli e raddrizzami: se mi vedi irascibile, o avaro, frenami e legami con le tue ammonizioni. Questa è l’amicizia, così il fratello viene aiutato dal fratello e diventa una città fortificata (cf. Pr 18,19). Non è il mangiare o il bere insieme che crea l’amicizia: così l’hanno anche i ladri e gli assassini; ma se siamo amici, se veramente ci diamo pensiero l’uno dell’altro, ci dobbiamo anche accordare. E questo ci porta a un’amicizia utile e ci impedisce di precipitare nella geenna.

D’altra parte chi viene rimproverato non si turbi, siamo uomini e abbiamo difetti; e chi rimprovera non lo faccia pubblicamente, insultando e facendo mostra di sé, ma a quattr’occhi e con dolcezza; ha bisogno di tanta dolcezza colui che ammonisce, se vuole che sia ben accolto il suo discorso tagliente. Non vedete i medici, quando bruciano o quando tagliano, con quanta dolcezza applicano la loro terapia? E molto più lo deve fare chi ammonisce, perché il rimprovero è più violento del ferro e del fuoco, e fa sobbalzare. Per questo motivo anche i medici si esercitano molto per riuscire a incidere con calma, e lo fanno con dolcezza, in quanto è possibile, e incidono un poco e poi permettono di riprendere il fiato. Così si devono fare anche i rimproveri, perché chi viene ammonito non se ne sottragga. E se fosse necessario venire insultati e anche schiaffeggiati, non ricusiamolo; anche quelli infatti che subiscono un intervento urlano mille cose contro coloro che li operano, però essi non guardano a nulla di ciò, ma solamente alla salute dei pazienti. Così, anche nel nostro caso, si deve fare di tutto perché il rimprovero risulti utile, e si deve sopportare tutto guardando il premio che c’è preparato. È detto: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge del Cristo (Gal 6,2). Così, ammonendoci e sopportandoci a vicenda, potremo completare l’edificazione del Cristo».

(Cfr. GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla lettera agli ebrei, 30,2).

 

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole . Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269).

 

Correzione fraterna: la correzione evangelica

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

 

Con grande misericordia e discrezione

Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

 

 

Preghiera


Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

Eucarestia e logos, un legame propizio per la Chiesa

 

Descrizione evento:

EUCARISTIA E LOGOS.
Un legame propizio per la Teologia e la Chiesa
Alpignano (TO)  29 agosto – 2 settembre 2011

Le ragioni del Congresso

Il XXII Congresso nazionale dell’ATI si pone in ideale continuità con il precedente: Teologia dalla Scrittura. Se là il tema messo a fuoco era il modus del riferimento costitutivo della teologia alla Scrittura, si tratta ora di mettere a tema la qualità che il lógos cristiano è per sé chiamato a esibire a partire dal segno e dal luogo istitutivo dell’identità e della missione della comunità dei discepoli di Gesù: l’Eucaristia.

Il percorso muove dall’attestazione biblica del proporsi del gesto eucaristico nella sua singolare originalità che è insieme aperta a una pluralità di declinazioni; intreccia poi, di qui, un profilo più generale, inteso a tratteggiare lo “stile” e il “linguaggio” che dal gesto eucaristico per sé sprigionano, con due profili più specifici: il primo, volto a rinvenire l’effettiva incidenza storica dell’Eucaristica sulla forma della teologia e del pensare cristiano, ma anche dell’arte, della mistica e del rapporto coniugale nella sua paradigmatica esemplarità; il secondo, volto a profilare l’indole che l’annuncio di Gesù Cristo ha da assumere, da un lato, in conformità alla sua intrinseca natura eucaristica, e, dall’altro, in sintonia con i segni dei tempi in un contesto, come quello contemporaneo, dilatato a misura globale.

I laboratori previsti, con metodologia seminariale, offriranno l’opportunità, tenendo fermo l’oggetto formale che regge il percorso, di fare il punto su alcune questioni necessariamente implicate dal gesto eucaristico in ordine alla figura della fede, dell’assemblea eucaristica e della missione.

L’intuizione e l’auspicio è che si possano così verificare, almeno in modo principiale, la pertinenza oggettiva e la rilevanza pratica di un legame – quello tra Eucaristia e logos – oggi a ben vedere più che mai propizio per la teologia e per la Chiesa.

Programma
Lunedì 29 agosto

16.00: Apertura dei lavori – Saluti della autorità

Eucaristia e logos (Piero Coda)

Sintesi sui pre-congressi (Francesco Scanziani)

Dalla Scrittura: un unico gesto per un pensiero plurale (Maurizio Marcheselli)

19.30: Celebrazione del Vespro

Martedì 30 agosto

7.30: Celebrazione eucaristica presieduta dal Card. Severino Poletto, Arcivescovo emerito di Torino

9.00: Eucaristia e stile cristiano (Pierangelo Sequeri)

11.00: Eucaristia e linguaggio della fede cristiana (Paul Gilbert)

16.00: Gruppi di studio (coordinamento a cura di Paolo Gamberini – sarà possibile partecipare a uno dei gruppi proposti):

Inculturazione e eucaristia; linguaggi inculturati (Andrea Bozzolo)
La struttura dialogica dell’assemblea eucaristica (Andrea Grillo)
Eucaristia e presenza di Cristo (Cesare Giraudo)
Fare teologia a partire dalla liturgia: Odo Casel e Karl Rahner (Pierpaolo Caspani)
Identità eucaristica: a partire dagli altri (Paolo Gamberini)

19.30: Celebrazione del Vespro

Mercoledì 31 agosto

7.30: Celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Piero Coda

9.00 – 10.00:  Eucaristia e teologia in P.A. Florenskij (Natalino Valentini)
Eucaristia e teologia in E. Jüngel (Fulvio Ferrario)

11.00 – 12.00:  Eucaristia e teologia nel concilio di Trento (Angelo Maffeis)
Eucaristia e teologia nel concilio Vaticano II (Ghislain Lafont)

16.00: Assemblee di zona

18.00: Assemblea generale elettiva

19.30: Celebrazione del Vespro

Giovedì 1 settembre

7.30: Celebrazione delle Lodi

9.00: Eucaristia e soggetto del pensare cristiano (Serena Noceti)

11.00: La carne del logos:

Eucaristia e linguaggio dell’arte (Guido Bertagna)
Eucaristia e linguaggio della mistica (Francesco Asti)
Rapporto coniugale e logos eucaristico (Xavier Lacroix)

15.30: Visita alla Reggia della Venaria Reale e al centro di Torino

19.00: Celebrazione eucaristica presso il Santuario della Consolata di Torino, presieduta da Mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo di Torino

Venerdì 2 settembre

7.30: Celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì

9.00: Eucaristia e logos annunciato. Una chiave interpretativa (Roberto Repole)

Contesti:  Asia (Paolo Gamberini)
Europa (Giovanni Ferretti)
America Latina (Ermis Segatti)

12.30: Conclusione

 

I teologi riflettono sul culto del corpo

Sesso e “culto” del corpo, ma anche arte e globalizzazione. Sono alcuni dei temi che terranno impegnati da lunedì a venerdì prossimo i teologi che, in occasione del 150˚dell’Unità d’Italia, hanno scelto Torino per il loro appuntamento nazionale, giunto all’edizione numero 22. Sarà l’hotel Parlapà di Alpignano ad ospitare il congresso organizzato ogni due anni dall’Associazione teologica italiana, la più rappresentativa del settore, con i suoi 320 membri, tra preti e laici, che di mestiere studiano «la scienza di Dio». L’associazione è nata nel ‘67, dopo il Concilio Vaticano II, nel tentativo di «svecchiare» la teologia, facendola dialogare con la modernità.
Alla faccia di chi pensa che la teologia abbia la testa «tra le nuvole», i convegnisti si confronteranno su body building, palestra, alimentazione e più in generale cura del corpo, ma anche arte,  religioni «fai da te», eros e sessualità. «Questo non solo per smentire la fama sessuofobica della Chiesa cattolica – puntualizzano gli organizzatori – ma per dare un contributo a chiarificare che cosa  dice il corpo di quel che l’uomo è, nelle sue pulsioni e nella sua forza, così come nei suoi limiti e nella sua debolezza».
Tema portante del congresso, nel corso del quale verrà anche rinnovato il cda dell’associazione, è «Eucarestia e logos, un legame propizio per la Chiesa». Un anticipo del Congresso eucaristico nazionale, che si svolge ad Ancona a partire da sabato prossimo. «Cercheremo di capire in che misura l’Eucarestia incide sul pensiero dei cristiani e, di conseguenza, nel dibattito pubblico».
Ancora: «In un contesto di pluralismo e di crisi, ci chiederemo cosa abbia ancora da dire oggi il pensiero cristiano, misurandoci su temi che non passano mai di moda, come l’amore di coppia».
Al convegno partecipano l’arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia, che giovedì alle 19 celebra la messa alla Consolata – dopo la visita dei teologi alla Reggia di Venaria e al centro di Torino – e il suo predecessore, il cardinale Severino Poletto, oltre a mons. Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì. Si alterneranno alcuni tra i nomi più importanti del panorama attuale della teologia, con relazioni su temi quali la mistica, la liturgia e l’inculturazione, ossia lo sforzo di «tradurre» la fede cristiana nelle culture a lei più lontane. Tra i relatori, il teologo e musicista don Pierangelo Sequeri parlerà dello «stile» cristiano, mons. Piero Coda, presidente uscente dell’associazione, del rapporto tra Eucarestia e «logos», il monaco benedettino francese Ghislain Lafont del Vaticano II, la teologa Serena Noceti del pensiero cristiano, il filosofo Xavier Lacroix del matrimonio. Infine, venerdì il convegno si chiude allargando lo sguardo alle terre di missione. Don Ermis Segatti, responsabile della Pastorale diocesana della Cultura, parlerà della situazione in America Latina, il padre gesuita Paolo Gamberini di quella in Asia, mentre a don Giovanni Ferretti toccherà la vecchia Europa.

di Fabrizio Assandri
in “La Stampa” del 26 agosto 2011

 

 

“In una terra ospitale, educhiamo all’accoglienza”.


1° settembre: 6° Giornata per la slavaguardia del creato

 

“Ritrovare le radici della solidarietà, partendo da Dio, che creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, con il mandato di fare della terra un giardino accogliente, che rispecchi il cielo e prolunghi l’opera della creazione”: Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, e Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, firmano insieme il Messaggio per la 6ª Giornata per la salvaguardia del creato dal titolo “In una terra ospitale, educhiamo all’accoglienza”.

 

 

“Ritrovare le radici della solidarietà, partendo da Dio, che creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, con il mandato di fare della terra un giardino accogliente, che rispecchi il cielo e prolunghi l’opera della creazione”: Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, e Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, firmano insieme il Messaggio per la 6ª Giornata per la salvaguardia del creato dal titolo “In una terra ospitale, educhiamo all’accoglienza”.
“Accogliendo l’intero creato come dono gratuito di Dio e agendo in esso nello stile della gratuità – si legge nel Messaggio – l’uomo diviene egli stesso autentico spazio di ospitalità: finalmente idoneo e capace di accogliere ogni altro essere umano come un fratello, perché l’amore di Dio effuso dallo Spirito nel suo cuore lo rende capace di amore e di perdono, di rinuncia a se stesso, ‘di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace’ (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 79)”.
I vescovi pongono quindi l’accento sulla vita, a partire da quella nascente e poi alla dignità di ogni esistenza: “È il cuore dell’uomo, infatti, che deve essere formato all’accoglienza, anzitutto della vita in se stessa, fino all’incontro e all’accoglienza di ogni esistenza concreta, senza mai respingere qualcuno dei propri fratelli”.
Con questo spirito di apertura agli altri uomini, “l’ospitalità diventa la misura concreta dello sviluppo umano” e “diventando ospitale, l’uomo riconosce con i fatti a ogni persona il diritto di sentirsi di casa nel cuore stesso di Dio”.
Nel secondo capitolo del messaggio, i vescovi mettono in evidenza un aspetto che riguarda le migrazioni internazionali cioè la “questione ambientale”. Le migrazioni sono infatti spesso legate ai fenomeni di “degrado dell’ambiente” che rendono invivibili le terre di provenienza. “In questo processo – scrivono – gioca un ruolo non trascurabile il mutamento del clima, che attraverso la variazione repentina e non sempre prevedibile delle sue fasce, rischia di intaccare l’abitabilità di intere aree del pianeta e di incrementare, di conseguenza, i flussi migratori”.
I vescovi esortano infine ad “educare all’accoglienza”, sulla scorta dell’impegno che la Chiesa italiana ha indicato per il decennio appena iniziato.
Tanto il mondo ortodosso – si legge nel messaggio – quanto quello delle diverse denominazioni evangeliche condividono “la preoccupazione per l’uso equo e solidale delle risorse della terra”, come pure “la sollecitudine verso i più poveri”. Il messaggio si chiude quindi con l’esortazione a cooperare, anche sul piano dei rapporti ecumenici, “perché le risorse ambientali siano preservate dallo spreco, dall’inquinamento, dalla mercificazione e dall’appropriazione da parte di pochi”.

 


Meatig di rimini 2011: E l’esistenza diventa una immensa certezza

Domenica 21 agosto 2011 – Sabato 27 agosto 2011 “


E l’esistenza diventa una immensa certezza” è il titolo scelto per la XXXII edizione del Meeting. Esso parte da una constatazione, semplice e al tempo stesso drammatica: nella mentalità più diffusa ai nostri giorni, nella coscienza con cui ciascuno di noi affronta le sfide e le fatiche del vivere, sembra che non sia più possibile alcuna vera certezza.

È qui, al fondo di noi stessi, che si rivela la radice nascosta delle tante “crisi” del nostro tempo: esse non segnano soltanto la messa in discussione o la perdita di certezze che si credevano acquisite – nella politica come nell’economia, nelle scienze come nell’etica, nella cultura come nella convivenza sociale – come è spesso successo in altre epoche storiche. Quello che è in gioco oggi, nell’epoca attraversata dalla grande ombra del nichilismo, è qualcosa di più radicale, e quindi più radicale è la sfida che essa ci pone: gli uomini non sarebbero più capaci di certezza, e anzi ogni certezza sarebbe una nostra costruzione, e alla fine nient’altro che una grande illusione.

Quando pensiamo al senso della nostra esistenza non siamo forse tutti tentati, come figli del nostro tempo, di ritenere che la nostra origine e la nostra destinazione siano in balìa della sorte, e che in definitiva nulla possiamo rispetto alle forze incontrollabili di un fato cieco e di un’insensata casualità? Eppure gran parte del pensiero “moderno”, per il quale l’uomo è l’unico, vero artefice del proprio destino, senza bisogno di riferirsi ad un senso più grande di sé, aveva preteso di fornire una strategia “scientifica” e “politica” che dominasse l’incertezza del vivere, il rischio mortale della solitudine e dell’insensatezza, fonte di risentimento e di violenza. Le uniche certezze di cui ancora disponiamo – così si pensa – sono quelle prodotte dal controllo tecnologico del mondo. Tutto il resto, valori ed emozioni, sentimenti ed opinioni, appartiene al gioco del relativismo.

Eppure noi ci accorgiamo sempre più che la realtà, sia a livello naturale che sociale, è molto meno controllabile di quanto si creda, e soprattutto scopriamo che l’esistenza dell’io è sempre più indebolita nelle sue ragioni. «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato», ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman, è la percezione che «la nostra impotenza sia incurabile». Tutta la partita dell’esistenza si gioca qui, nella certezza o nell’incertezza riguardo al motivo per cui ciascuno di noi è al mondo. Il Meeting proverà a raccogliere questa sfida del nostro tempo, riaprendo una partita da molti dichiarata ormai chiusa. E lo farà, come è suo stile, non in virtù di una più scaltra analisi culturale e politica, ma a partire dall’esperienza in atto di persone che non si accontentano di concepire la propria esistenza come destinata al nulla. Uomini e donne che non censurano il peso dell’incertezza né si sottraggono al lavoro che essa esige, ma che la vivono come il segno evidente che non siamo i padroni di noi stessi, ma siamo in rapporto con qualcosa di Altro, che continua a sopraggiungere alla nostra vita. Prima di ogni calcolo sulle nostre capacità o incapacità, la percezione di fondo del nostro io è quella di una certezza. E non una sicurezza a buon mercato o una garanzia a nostra disposizione, ma una certezza di appartenenza: siamo di qualcuno. Inizialmente noi siamo certi di noi stessi, perché ci viene incontro il volto di nostra madre e ci viene offerto il suo seno. È la prima percezione del vivere, che resta poi come una costante, anche se nascosta o soffocata. Prima di ogni incertezza c’è una certezza: essa è un dato, un incontro, un invito. Il Meeting cercherà di raccontare e testimoniare questo lavoro dell’io che riparte dall’evidenza di un incontro, di tutti quegli incontri in cui si rende presente in carne ed ossa il significato per cui vale la pena vivere, amare, costruire e anche soffrire. La certezza che cerchiamo non è un’ideologia o una strategia o una convinzione psicologica, ma è quella che ci fa riconoscere ciò che già “siamo”. Non tanto che le cose andranno a posto come pensiamo noi, ma che noi stessi siamo in rapporto con Chi ci fa continuamente.

Per questo l’esistenza, come dice il titolo del Meeting, diventa una certezza: non si tratta infatti di sapere in anticipo quello che accadrà a noi e nel mondo, ma di essere disponibili a farci provocare da ciò che accade, cioè a chiederne il senso e a riconoscerne la ragione. E la certezza è immensa proprio perché non è un nostro prodotto, ma la scoperta di ciò che ci raggiunge e chiede ogni volta di noi. Questa certezza non potrebbe esistere senza la nostra libertà. E in fondo anche il Meeting è un modo per prendere sul serio l’invito che ci proviene ogni giorno dagli avvenimenti e dagli incontri che accadono: l’invito a rispondere con tutta la nostra attesa, mettendo sempre in gioco la nostra inquietudine

 

 

 

 

Questo deve essere il posto (This Must Be the Place)

 

Un film di Sorrentino presentato al Festival di Cannes 2011

 

Tra i tanti film presentati al Festival di Cannes 2011, da parte della giuria sarebbe occorso un pò di più  buon senso per escludere completamente dai premiati tutti i film degli italiani. Tutti belli, importanti, ben fatti, ma quello di Sorrentino  This Must Be The Place , interpretato da un favoloso Sean Penn, meritava almeno una citazione. Ma si sa come sono i francesi(La Mostra del cinema di Venezia, però li incensa troppo, anche per cose ridicole). In ogni caso, il protagonista, Sean Penn è eccezionale, merita l’amore e l’attenzione di chi ama veramente il cinema  e necessita che ricordiamo assolutamente che l’artista ha interpretato seriamente delle cose egregie, tanto da dire che il suo posto come attore sono esclusivamente le “storie del cuore”.

 

Il film: This Must Be The Place

titolo internazionale: This Must Be the Place

titolo originale: Questo deve essere il posto

paese: Italia

anno: 2011

genere: fiction

regia: Paolo Sorrentino

durata: 118′

sceneggiatura: Umberto Contarello, Paolo Sorrentino

cast: Sean Penn, Eve Hewson, Frances McDormand, Judd Hirsch, Heinz Lieven, Kerry Condon, Olwen Fouere, Simon Delaney

fotografia: Luca Bigazzi

montaggio: Cristiano Travaglioli

scenografia: Stefania Cella

costumi: Karen Patch

musica: David Byrne, Will Oldham

produzione: Indigo Film, Lucky Red, Medusa Film, ARP Sélection, Element Pictures, Pathé Films, Intesa San Paolo

supporto: MEDIA Programme, Irish Film Board, Section 481, Eurimages

distributori: ARP Sélection

rivenditore estero: Pathé International

 

Trama

 

Cheyenne, un facoltoso ex-divo del rock, ormai stanco e svogliato, apprende che il padre, con cui non andava d’accordo, è malato e sul punto di morire. Corre da lui nella speranza di riconciliarsi ma arriva troppo tardi. Solo allora comprende quanto è stata dura la vita di suo padre. Tra i pochi sopravvissuti ad Auschwitz, è stato infatti torturato da un criminale nazista, l’ufficiale delle SS Aloise Muller. Deciso a vendicarlo, e sapendo che l’ex-nazista si nasconde da qualche parte negli Stati Uniti, Cheyenne si mette sulle sue tracce,

 

 

DOMANDE & RISPOSTE A PAOLO SORRENTINO

 

This Must Be The Place sarebbe esistito senza il Festival di Cannes?
Paolo Sorrentino: Mi sono rivelato qui. Il mio incontro con Sean Penn è avvenuto nel 2008, quando ha visto Il divo durante il festival e mi ha fatto sapere che gli sarebbe piaciuto lavorare con me. Da quel momento, mi sono messo a scrivere per lui e non avevo nessun altro in mente per il ruolo di Cheyenne. Sono contento che abbia accettato di interpretare questo personaggio, perché se avesse rifiutato il film non ci sarebbe stato. Non volevo raccontare questa storia senza di lui, quindi sì, il festival di Cannes è all’origine di questo film.

 

Il personaggio di Cheyenne era molto scritto?
Vedevo Cheyenne in un certo modo e Sean Penn ha letto e ascoltato a lungo tutte le mie raccomandazioni, ma quando ha cominciato a dare vita al personaggio, ho assistito a qualcosa di incredibile e sono io che mi sono messo ad ascoltare i suoi aggiustamenti. Alla fine, Cheyenne è stato modellato sulla base della mia visione iniziale del personaggio, ma soprattutto dall’esperienza di Sean Penn, che lo ha fatto evolvere appropriandosene completamente.

 

Perché ha scelto prima l’Irlanda e poi l’America come location per le riprese?
Non vedevo questa storia cominciare in Italia. Semplicemente, la cultura italiana non è passata per l’ondata New Wave che ha segnato il rock degli anni ’80, e poi il ruolo del fascismo nella storia politica italiana rendeva il tema del film più complicato da spiegare. Non volevo lottare per giustificare la plausibilità di questa storia, perché il pubblico deve già avere a che fare con il personaggio di Cheyenne, che sembra venire da un altro pianeta. Poi l’America è venuta naturale da un desiderio che condividevo con il mio amico Umberto Contarello, co-autore della sceneggiatura. Sognavo da tempo di filmare alcuni paesaggi magnifici che avevo visto al cinema. Con il peso di Sean Penn nel cast, è diventato possibile e ne abbiamo tenuto conto in fase di scrittura. Mi sono fatto un favore, ma l’America è talmente un simbolo dell’esodo che i luoghi raccontano da soli una parte della storia. Non è una civetteria da parte mia.

 

E’ un procedimento che ha utilizzato già ne Il divo, ma in This Must Be The Place le scene girate alla Louma, o più in generale da una gru, sono tante. Perché questa scelta?
Il film è un viaggio, ma mi è parso importante anche viaggiare negli spazi che erano a nostra disposizione. E poi mi piace l’idea di grandi movimenti intorno a un soggetto che si muove molto lentamente, come fa Cheyenne nel film. A seconda di dove si posiziona lo sguardo, del cammino che percorre, la percezione del soggetto cambia ed evolve. Il film parla anche di questo cambiamento di prospettiva. Lo sguardo esterno sui personaggi cambia, ma finiscono anche per vedersi in modo diverso.

 

La musica è quasi un personaggio del film. Perché l’ha utilizzata come simbolo nostalgico?
Non è nostalgia, anche se è vero che avevo voglia di parlare un po’ dell’evoluzione del rock. Nel film i temi sono tanti e si sovrappongono. Uno di questi è la paura di crescere. Utilizzare una corrente forte, ma passata, del rock mi ha permesso di creare un divario tra l’evoluzione del mondo intorno a Cheyenne e il suo aspetto immobile, che passa per l’abbigliamento strano, la devozione a un genere musicale, il rifiuto di utilizzare il cellulare, ecc. Il rock è stato la grande stagione di Cheyenne, ma è proprio l’attitudine rock a provocare il suo blocco e il suo scivolamento nella depressione.

 

David Byrne non è solo il compositore del film. Ha un ruolo importante.
Quando si ha la fortuna di poter lavorare con David Byrne, che è un artista completo, sarebbe stato un peccato non coinvolgerlo al massimo. Il titolo del film (This Must Be The Place è il titolo di una canzone dei Talking Heads,, la spiegazione del dramma di Cheyenne e l’universo sonoro del film sono direttamente legati a David, che interpreta anche se stesso. Le sue opere folli hanno ispirato molto i miei film e ci sono diversi punti in comune tra la sua scenografia e la realizzazione di This Must Be The Place, che è anche un modo per rendergli omaggio.

 

 

 

 

 

 

Chi è Sean Penn


Nato  a  Santa Monica, il17 agosto 1960,  è attore, regista, produttore cinematografico e sceneggiatore statunitense. È famoso per le partecipazioni a celebri film tra i quali Carlito’s Way, Dead Man Walking – Condannato a morte, La sottile linea rossa, Mystic River (premio Oscar al miglior attore protagonista nel 2004), 21 grammi e Milk (premio Oscar al miglior attore protagonista nel 2009) e regista, produttore e sceneggiatore del pluripremiato Into the Wild – Nelle terre selvagge.

E’ premiato nel 1998 come miglior attore al Festival di Venezia per Bugie, baci, bambole & bastardi, nello stesso anno è stato tra i protagonisti di La sottile linea rossa di Terrence Malick. Woody Allen l’ha voluto interprete del chitarrista geniale e squinternato di Accordi e disaccordi. Considerevole anche la sua partecipazione nell’enigmatico e affascinante Il mistero dell’acqua di Kathryn Bigelow. Nel 2001 ha ottenuto la nomination all’Oscar quale miglior attore per la sua straordinaria interpretazione di un padre ritardato in Mi chiamo Sam di Jessie Nelson.

Dopo anni difficili, ha saputo costruirsi una seconda carriera di regista molto serio, con film crudi, sinceri, carichi di dolore e fieramente indipendenti (al su citato Lupo solitario, seguono dopo dieci anni Tre giorni per la verità, La promessa, più un episodio in 11 settembre 2001). Nel 2002 dirige il videoclip di Peter Gabriel The Barry Williams Show. La sua straordinaria intensità drammatica ha lasciato un segno indelebile nel 2003. È suo il ruolo dell’ex delinquente, ora buon padre di famiglia, la cui vita viene sconvolta dall’assassinio della figlia in Mystic River, di Clint Eastwood, per la cui interpretazione vince l’Oscar come miglior attore protagonista nel 2004 oltre al Golden Globe; e anche del professore malato terminale in 21 grammi.

Ha girato The Assassination, la storia vera del tentativo (sventato) di Samuel Byck, un modesto negoziante di Cincinnati, di far schiantare un piccolo aereo sulla Casa Bianca allo scopo di uccidere il presidente Nixon. Ha recitato anche con Nicole Kidman in The Interpreter, girato nel Palazzo di Vetro dell’ONU messo a disposizione da Kofi Annan. Nel 2007 dirige l’intensa storia di Christopher McCandless in Into the Wild – Nelle terre selvagge, attualmente il maggior film di successo del regista.

Nel maggio del 2008 è presidente della giuria del Festival di Cannes. Il 22 febbraio 2009 vince il suo secondo Oscar per la performance nel film Milk, dove interpretata Harvey Milk, paladino dei diritti gay assassinato nel 1978. Entra così a far parte della ristretta cerchia (Spencer Tracy, Gary Cooper, Fredric March, Marlon Brando, Dustin Hoffman, Jack Nicholson, Tom Hanks, Daniel Day-Lewis) degli attori che hanno ottenuto due Oscar per il miglior attore protagonista.

La sua capacità drammatica lo rende unico nell’effimero mondo cinematografico, tanto che difficilmente chi l’ha visto in Mi chiamo Sam, dove interpreta un padre con un grave handicap, lo dimenticherà per la struggente prova d’amore verso la sua bambina che vuole assolutamente crescere lui , anche se la sua intelligenza è pari a quella di un bambino di 7 anni!

 

 

 

 

 

 

XXII Domenica del Tempo Ordinario (A)

XXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

 

Lectio – Anno A

Prima lettura: Geremia 20,7-9

 

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me.

Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!». Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.

 

v Il dramma vocazionale più grave che la Bibbia registra è quello di Geremia, il giovane di Anatot che il Signore invita a salire a Gerusalemme ad annunziare la sua parola alla popolazione, agli uomini di corte, al clero, allo stesso sovrano. Un compito arduo di cui man mano che ne scopre i tragici risvolti il suo animo è attraversato da momenti di panico, di sofferenza, di sconforto. Sono le «confessioni» di Geremia: 11,18- 12,16.15,10-20; 17,12-18; 18,18-23:20,7-18.

La vocazione diventa così per l’uomo di Anatot il fardello di tutta la sua vita: l’accetta e la respinge, la benedice e la condanna. E le diatribe più frequenti e più aspre sono con Dio stesso che gli ha affidato un incarico che lo fa apparire sempre «uomo di litigi e di contese» (15,10). Egli svolge un compito benefico ed è perseguitato, mentre «la vita degli empi prospera» e «i perfidi vivono tranquilli» (12,1). Un quesito che lo tormenta a lungo ma a cui non sa dare risposta.

Lo sconforto tocca momenti di estrema esasperazione: «Me infelice, madre mia perché mi hai generato» (15,10). «JHWH, ricordati di me e soccorrimi; nella tua longanimità non farmi perire, sappi che io a causa tua sopporto oltraggi» (15,15). «Non diventare per me oggetto di spavento, tu sei il mio rifugio nel giorno della sventura» (17,17). Un dialogo sempre serrato, aperto, leale, ma qualche volta anche aggressivo. Gli sembra di essere stato ingannato. Il Signore gli aveva fatto ampie promesse: «ti renderò una città fortificata», «una colonna di ferro», «una muraglia di bronzo» (1,18); di fatto tutti «si beffano» di lui (20,7). Sembra che JHWH l’abbia allettato con un miraggio falso, come si fa con i bambini o come capita ai viandanti del deserto che a ogni riflesso di raggi solari si illudono di aver trovato uno stagno d’acqua.

La frase «mi hai sedotto» prima che un significato mistico ne ha uno realistico. Il profeta sente di essere stato aggirato come un’ingenua fanciulla che si è lasciata incantare e alla fine sopraffare dalla loquacità, dal fascino, dalla violenza del suo seduttore. L’amarezza è così grande che giunge alla risoluzione di ritirarsi dal servizio divino: «non parlerò più nel suo nome ». Sono attimi di debolezza, di confusione, di smarrimento, ma subito ritorna l’orientazione di fondo. Anche se la bocca pronuncia parole dissennate dentro di sé sente bruciare il fuoco dell’amore di Dio che lo divora e lo spinge ancora a parlare. «Trovate le tue parole io le divorai e la tua parola fu la letizia e la gioia del mio cuore» (15,16).

Geremia moriva senza aver chiarito il suo dramma, il mistero della sua chiamata, e lasciava ai suoi continuatori la sua dura eredità.

 

 

Seconda lettura: Romani 12,1-2

Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale.  Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

 

v I pochi versetti di Rm 12 aprono la seconda parte della lettera etica e parenetica. Uscito dal giogo del «peccato» (5,1-11), dalla schiavitù della legge e della «morte» (5,12-7,25) il cristiano è una nuova creatura. Avverte ancora tutta la forza e la seduzione delle passioni e dei sensi, ma non può assecondarle poiché il suo «corpo» pur di sua appartenenza ha assunto con il battesimo una funzione nuova. Il cristiano non solo con il suo spirito ma

anche con tutta la entità fisica, pur rimanendo sulla terra, vive con un’orientazione e quasi una collocazione sopraterrestre. La sua realtà corporea, dice chiaramente Paolo, è come un’«ostia», un dono sacrificale, un’offerta fatta a Dio. È un bene che Dio ha partecipato alla creatura, ma questa ne ha fatto un presente al Signore, perciò è ormai una «cosa santa», messa a parte per far risaltare ed esaltare la santità di Dio.

Il vecchio culto si trova radicalmente rinnovato; non è più legato a un determinato luogo, ma alle persone che ovunque si trovino cercano di modellare la loro vita su quella di Cristo che ha offerto se stesso al Padre per il bene dei fratelli (Rm 3,21-31). La comunità cristiana secondo Paolo nel suo insieme e nei suoi componenti crea intorno a sé come un’area di sacralità e di santità: un monito per quelli che vi appartengono e una testimonianza salutare per quelli che son fuori. È un’oasi in cui regna la serenità, la pace, l’amicizia con Dio, la carità. Da essa sale a Dio e si espande all’intorno un soave odore che scaturisce dalla vita virtuosa e santa dei suoi componenti. È un sacrificio spirituale perché mosso e guidato dallo Spirito, cioè dall’amore stesso di Dio, diffuso in tutti i suoi figli (Rm 8).

Paolo adopera il linguaggio sacrificale e forse fa riferimento alla portata teologica dei sacrifici del tempio alla cui luce interpreta anche il sacrificio della croce, ma le vedute teologiche dell’apostolo non coincidono automaticamente con il pensiero di Dio. L’offerta che il cristiano è invitato a fare di se stesso, anche se richiesta da Dio, non è tanto per confermare o ampliare la sua gloria, che è piena e nessuno può rendere più grande, quanto il bene, la promozione, la salvezza dell’uomo, sempre in pericolo e sempre a rischio. È questo il modo di condividere «la misericordia di Dio», cioè la sua capacità di comprensione e di perdono, verso tutti gli uomini, particolarmente i più bisognosi, ovvero i più piccoli dei fratelli (cf. Mt 25,40). Gesù nel discorso della montagna chiede di essere misericordiosi come il Padre (Lc 6,36), «perfetti» come lui che sa mandare il sole e la pioggia a tutti anche a quelli che non la meritano (Mt 5,43-48).

È quanto in altre parole chiede Paolo ai romani di adoperarsi a capire e a compiere prima di tutto la volontà di Dio, cioè di cercare di comprendere e di realizzare fino alla sua perfezione il programma di bene, il progetto creativo salvifico, che egli sta attuando. La «volontà di Dio» è sicuramente ciò che egli ha ideato e si adopera direttamente e indirettamente a portare a termine. Ciò che egli vuole è ciò che egli fa.

 

 

Vangelo: Matteo 16,21-27

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.

Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.

Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?  Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

 

Il vangelo in immagini

XXII DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi

 

Gesù sulla via di Cesarea di Filippo «interroga» i discepoli sulla sua identità. La loro risposta per bocca di Pietro non è sbagliata, ma inopportuna. Essi hanno intravisto in Gesù l’inviato, il figlio prediletto di Dio, ma non pensano, qui come altrove (17,22-23; 20,20-23), che il successo promesso al Messia sia subordinato a prestazioni onerose, non esclusa la morte.

Gesù non può accettare la risposta dei discepoli; addirittura vieta loro di ripeterla e di divulgarla. L’infatuazione popolare che era sempre sul punto di esplodere avrebbe finito col mettere in pericolo la sua missione, soprattutto di far luce sulla logica o dinamica della salvezza che era chiamato a portare.

L’ebreo era abituato a far coincidere benessere e protezione divina, quindi aveva collegato il messianismo e l’era messianica con una straordinaria manifestazione di gloria e di potenza (cf. la teologia del Deuteronomista), ma secondo quanto lo spirito andava suggerendo a Gesù era una connessione infondata, senz’altro erronea. Era la singolare notizia che egli aveva non solo da trasmettere ma soprattutto da fare intendere ai suoi. Non bastava un semplice annunzio, occorreva una catechesi vera e propria. «Da allora cominciò a dire apertamente», si tratta di un cambiamento tematico e tattico.

I discepoli avevano visto Gesù operare prodigi (capp. 8-9.14-15), avevano ascoltato le «parabole» del regno (c. 13) ma non avevano mai sentito parlare delle «prove» del messia, delle sue sofferenze, dei suoi insuccessi. Sarà questo il tema con cui d’ora in poi dovranno cominciare a prendere familiarità.

La comitiva apostolica si era trovata sino allora in Galilea, la terra di origine in cui ci si poteva muovere con una certa fiducia e tranquillità, ma era giunto il momento di doversene allontanare, di affrontare zone meno note e meno familiari, come la Samaria, o meno sicure, come la Giudea e soprattutto Gerusalemme, la sede del potere religioso e politico, delle scuole ufficiali della nazione. Un incontro che poteva diventare anche scontro. Se il maestro avesse continuato a parlare con la libertà rivendicata sino allora avrebbe ritrovato le difficoltà incontrate presso i corregionali (cf. Mt 9,14;12,2,24,38;15,l-19) e facilmente delle più gravi. «Farisei e scribi» erano già venuti a indagare sulla sua ortodossia (Mt 15,1); sarebbe stato temerario andarli a disturbare nella loro roccaforte, ma era una scelta a cui l’inviato divino non poteva sottrarsi. Un profeta non poteva tenersi lontano da Gerusalemme (cf. Lc 13,33). È quanto i suoi discepoli debbono ormai sapere.

Non si tratta tuttavia di una scelta facoltativa, ma d’obbligo. Ritorna il verbo fatidico «deve» (dei). Era come scritto nei decreti divini; in essi rientrava la missione gerosolimitana del Cristo. La frase che riassume il faticoso ministero nella città santa è pollá pathein, «soffrire molto» Non è spiegato il genere di sofferenze, ma sono segnalate le persone da cui provengono: gli anziani, i sommi sacerdoti, gli scribi. In pratica i componenti del Sinedrio. Si trattava di un cimento con l’organo giudiziario, dell’assoggettamento a un processo che si sarebbe concluso con una condanna a morte. Ma Gesù si sforza di rassicurare i suoi che questa sorte ignominiosa, sebbene la croce non sia menzionata, non segna una vittoria dei nemici quanto del decreto di Dio che già da tempo aveva previsto un tale esito (cf. Is 53), ma anche lo stravolgimento («risurrezione») che avrebbe provocato nella vita del Messia. «Se i principi di questo mondo», afferma Paolo, avessero previsto l’effetto della loro sentenza, «non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria» (1Cor 2,8).

Il verbo «risorgere» in contrapposizione a «messo a morte» allude non tanto a una semplice sopravvivenza quanto al passaggio nel regno, nel mondo della vera vita di cui quella presente era solo un’ombra. La morte avrebbe tolto Gesù dalla prima esistenza per trasferirlo in un’altra superiore ed eterna.

La reazione di Pietro è spontanea. Egli e i suoi compagni erano passati al seguito del loro rabbi con la speranza di venirsi a trovare a fianco del promesso discendente davidico in procinto di instaurare un’intramontabile dominazione su Israele e le genti, e più di una volta si erano trovati a discutere tra di loro su chi sarebbe toccato il posto più vicino al futuro sovrano. Il nuovo discorso di Gesù contraddiceva tutte le loro aspettative. Era un assurdo inaccettabile. Come più anziano del gruppo, Simone si sente in dovere di intervenire. Le cose che Gesù diceva contraddicevano tutte le speranze d’Israele, le promesse dei profeti: non potevano perciò provenire da Dio. Egli era talmente convinto del suo ragionamento che deve aver fatto ricorso a richiami accorati, prolungati, insistenti da provocare in Gesù una reazione decisa.

Anche questa volta, come nell’esperienza della trasfigurazione (Mc 9,6) o della lavanda dei piedi (Gv 13,8), Pietro partiva dal suo buon senso, ma non era il consigliere idoneo che lo poteva portare a capire i misteri di Dio, i segreti della salvezza. Gesù stigmatizza l’intervento di Pietro come un’istigazione satanica, dell’avversario per eccellenza dell’opera di Dio. Egli ha ripetuto le proposte avanzate da Satana all’apertura del suo ministero: che era meglio far leva sui prodigi e su altri segni di potenza che sul nascondimento per far leva sugli spettatori (Mt 4,1-11). Ma non era la strada che egli capiva essergli stata assegnata.

Certo la sofferenza, il martirio non era una prospettiva piacevole per nessuno; neanche per Gesù, ma se erano collegate con l’adempimento del proprio dovere diventavano inevitabili come il dovere stesso. L’uomo non può decidere su ciò che è bene e ciò che è male come una volta avevano preteso i progenitori (Gn 3,4), ma deve rimettersi alle decisioni di chi l’ha stabilito, il creatore del cielo e della terra.

La proposta di Simone è rovesciata radicalmente. Gesù non parla più all’apostolo ma a tutti i discepoli. La «croce» sarà il patibolo in cui egli finirà i suoi giorni, ma diventa il simbolo del cumulo di sofferenze, umiliazioni, abnegazioni, rinunce, prove che un discepolo di Cristo sarà costretto a subire a motivo della sua fede. Se il maestro sarà perseguitato a morte, i discepoli non possono cavarsela con qualche escoriazione. «Non c’è discepolo superiore al maestro» aveva già detto Gesù (Mt 10,24), che possa avere cioè un trattamento migliore del suo. Non c’è alternativa. Non si può essere cristiani all’acqua di rose. Far propria la testimonianza di Cristo, incarnare la sua legge di amore e di perdono, la sua sete e fame per la verità e la giustizia ed essere lasciati indisturbati.

L’evangelista ha toccato il tema della «salvezza» temporale ed eterna ora chiude il discorso con un richiamo al giudizio finale, all’incontro di tutti con il figlio dell’uomo che viene a rendere a ciascuno il premio o la condanna a seconda dei meriti o demeriti accumulati. Il testo riprende quanto è detto al termine della spiegazione della parabola della zizzania (Mt 13,41-42) e verrà descritto a lungo nella scena del giudizio ultimo (Mt 25,31-46).

 

 

Meditazione


L’obbedienza alla parola di Dio conduce il profeta a denunciare le ingiustizie e le violenze che si commettono all’interno del popolo di Dio e ad incontrare così opposizione, emarginazione, derisione da parte di coloro a cui profetizza (prima lettura); la sequela di Gesù immette il discepolo in un cammino segnato dall’assunzione della croce e il cui orizzonte è la perdita della vita (vangelo).

L’esperienza spirituale di Geremia, dopo l’entusiasmo dell’adesione al Signore e la dolcezza e la bellezza sperimentate nei momenti iniziali della chiamata, quando la parola del Signore fu per lui «la gioia e la letizia del suo cuore» (cfr. Ger 15,16), è divenuta, col passare degli anni e lo svolgersi del suo ministero profetico, esperienza di amarezza e di sofferenza. Il profeta si sente ingannato da Dio: fu vera vocazione? O si trattò di un abbaglio? Di un inganno? Dio lo ha chiamato o violentato? Al cuore della crisi, in cui il profeta è tentato di abbandonare il ministero ricevuto («Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!»: Ger 20,9), Geremia trova il rinnovamento e la conferma della vocazione nel più profondo di sé stesso, nel cuore ancora infiammato dalla parola di Dio. Se il Signore è una passione, allora anche la crisi sarà un momento di verità della fede e della vocazione. Il Signore come passione: questa è la sfida per i cristiani oggi.

Pietro, Cefa, la «roccia», colui che è chiamato a confermare nella fede i fratelli (cfr. Lc 22,32), a cui il Signore ha affidato un compito basilare nella chiesa (Mt 16,18), può divenire «scandalo», cioè pietra di inciampo nel cammino di fede. Gesù addirittura lo rimprovera duramente apostrofandolo come «satana» (Mt 16,18). E questo avviene quando Pietro esce dalla sequela per mettersi davanti a Gesù e fargli la lezione. Allora egli dimostra di non sentire e di non pensare secondo Dio, ma in modo mondano.

Così la beatitudine rivolta da Gesù a Pietro in Mt 16,17 viene non certo annullata, ma ridimensionata da questo rimprovero che situa Pietro in una luce molto realistica. Unico è il fondamento della chiesa: Gesù Cristo (1Cor 3,11; 1Pt 2,4-5). Il servizio di Pietro è al servizio di questa unicità.

La croce è sempre scandalo: solo integrando lo scandalo della croce nel nostro cammino di fede, possiamo evitare di divenire noi stessi motivo di scandalo per il vangelo e di scandalizzarci noi del Messia crocifisso (cfr. Mt 26,31: «Tutti voi vi scandalizzerete di me in questa notte»). Pietro, nella sua ribellione alla croce di Gesù, esprime l’atteggiamento di repulsione che spesso è anche nostro e che ci porta a confessare rettamente la fede e a smentire tale confessione nella prassi. La croce è l’elemento più radicalmente estraneo al «mondo»: il Pietro che vi si ribella mostra il suo conformismo mondano, il suo essere conforme ai parametri e ai criteri della mondanità, il suo pensare e sentire in modo conforme agli uomini e non secondo Dio.

Le parole di Gesù al discepolo parlano della perdita di sé necessaria per essere in contatto con il proprio vero sé (Mt 16,24-26). C’è un rinnegamento di sé, uno smettere di conoscere se stessi, un uscire da una vita autocentrata, dalla ricerca di autogiustificazioni, che consente al discepolo di trovare, come dono, e di essere raggiunto, per grazia, dalla vera vita. Si tratta del passaggio pasquale dalla vita come possesso e come potere, alla vita come dono e come grazia. È la vita vissuta in Cristo e per Cristo, è la vita di Cristo in noi: «Chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 6,25).

«Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?» (Mt 16,26). Il testo intravede la situazione di uomini tutti tesi a possedere, a estendere il proprio agire e il proprio accumulare al di fuori di sé, di fatto fallendo la propria vita, perdendo se stessi. Forse, tutti estroversi proprio per non incontrare se stessi, per non entrare nel doloroso faccia a faccia con se stessi.

Seguire Cristo significa porre la propria vita nella sua vita per amore. Ciò che per amore si perde, in realtà non è perso, ma donato. E ciò che è donato per amore, è ritrovato nella relazione.

 

 

Preghiere e racconti


Lo scandalo della nudità

Spesso, durante l’estate, chi vede le pecore mi chiede:

“Vende formaggio? Di quello buono, genuino?”.

“Non so se è buono” rispondo “ma se vuole glielo faccio assaggiare.”

Restano male quando dico che lo produco per uso personal. Per rimediare, offro loro un pezzo da portare a casa.

“Va bene, però lo pago” rispondono molti.

“Non è necessario.”

“Ci tengo.”

“Va bene, se lei è più felice così…”

“Ma lei non è un pastore.”

“Quando sto con le pecore, sono un pastore.”

“D’accordo, ma non vive di questo.”

“Quando mangio il formaggio, vivo di questo.”

“E quando non fa il pastore, cosa fa, qual è il suo lavoro?”

“Produrre le cose che mi servono per vivere.”

“Tutto qui?” commentano stupiti. “Ma non è un vero lavoro!” Alcuni sorridono:”Beato lei! Come vorrei vivere anch’io quassù!”. […] I primi tempi non riuscivo ad accettare questo continuo bisogno di trovare una definizione. Non esisti se non c’è un aggettivo, un nome che aiuti a sistemarti da qualche parte. Poi mi sono abituato, ho capito che questa forma di classificazione fa parte della natura dell’uomo. Se so chi sei, so come comportarmi nei tuoi confronti, ma se sei un uomo senza legami e senza ruoli, non so più cosa pensare. Sei nudità e ti offri come nudità. E la nudità provoca scandalo.

(Susanna TAMARO, Per sempre, Giunti, Firenze, 2011, 8-10)

 

L’accettazione della Croce

Gesù ha potuto accettare la Croce perché sapeva di essere indefettibilmente amato dal Padre. Facciamo comprendere anzitutto all’uomo di essere amato dal Padre; allora egli accetterà. Anche la mortificazione e la croce… Si tratta certamente di valori poco compresi e scarsamente presenti nell’odierna spiritualità, ma, ovunque ricompaiono, si diffonde e si attiva anche la carità.. Dopo tutto, questa deficienza potrebbe consentire una prossima fecondità: nella misura in cui la croce non potrà più essere separata, come lo è stata a volte in passato, dal dinamismo della carità. Gesù è passato attraverso la Croce perché ha amato, sapendosi amato.

(A.M. Besnard, Volto spirituale dei tempi nuovi)

 

“…Chi perderà la sua vita… la troverà”

Ci vuole coraggio per muoversi dalla sicurezza all’incognito, anche se si sa che il rifugio sicuro offre una falsa sicurezza e che l’incognito promette un’intimità salvifica con Dio. È evidente che rinunciare alle cose familiari per estendersi a braccia aperte verso colui che trascende tutto quello che la mente può afferrare e trattenere, rende assai vulnerabili. In qualche modo, si ha l’impressione che seguitando a vivere nell’illusione si può avere un’esistenza incompleta, ma che la resa amorosa conduce alla croce. La vita di Gesù fu quella dell’amore ma anche quella del dolore. A Pietro egli disse:

“ Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,189.

È indice di maturità mentale rinunciare ad un’autocontrollo illusorio tendendo le mani fino a Dio. Ma sarebbe solo una nuova illusione credere che estendersi fino a Dio liberi dal dolore e dalla sofferenza. Sovente, di fatti, questo potrebbe portarci dove non vorremmo arrivare. Noi sappiamo però che senza arrivarci non troveremo la vita “…chi perderà la sua vita… la troverà”  (Mt 16,25), dice Gesù ricordandoci che l’amore si purifica nel dolore.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia, 1980, 139).

 

Rinnega se stesso chi ama se stesso

Che cosa significano le parole: «Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua»? (Mt 16,24). Comprendiamo che cosa vuol dire: «Prenda la sua croce»; significa: «Sopporti la sua tribolazione»; prenda equivale a porti, sopporti. Vuol dire: «Riceva pazientemente tutto ciò che soffre a causa mia. «E mi segua». Dove? Dove sappiamo che se ne è andato lui dopo la risurrezione. Ascese al cielo e siede alla destra del Padre. Qui farà stare anche noi. […] «Rinneghi se stesso».

In che modo si rinnega chi si ama? Questa è una domanda ragionevole, ma umana. L’uomo chiede: «In che modo rinnega se stesso chi ama se stesso?» Ma Dio risponde all’uomo: «Rinnega se stesso chi ama se stesso». Con l’amore di sé, infatti, ci si perde; rinnegandosi, ci si trova. Dice il Signore: «Chi ama la sua vita la perderà» (Gv 12,25). Chi da questo comando sa che cosa chiede, perché sa deliberare colui che sa istruire e sa risanare colui che ha voluto creare. Chi ama, perda. È doloroso perdere ciò che ami, ma anche l’agricoltore perde per un tempo ciò che semina. Trae fuori, sparge, getta a terra, ricopre. Di che cosa ti stupisci? Costui che disprezza il seme, che lo perde è un avaro mietitore. L’inverno e l’estate hanno provato che cosa sia accaduto; la gioia del mietitore ti dimostra l’intento del seminatore.

Dunque chi ama la propria vita, la perderà. Chi cerca che essa dia frutto la semini. Questo è il rinnegamento di sé, per evitare di andare in perdizione a causa di un amore distorto. Non esiste nessuno che non si ami, ma bisogna cercare un amore retto ed evitare quello distorto. Chiunque, abbandonato Dio, avrà amato se stesso e per amore di sé avrà abbandonato Dio, non dimora in sé, ma esce da se stesso. […] Abbandonando Dio e preoccupandoti di te stesso, ti sei allontanato anche da te e stimi ciò che è fuori di te più di te stesso. Torna a te e poi di nuovo, rientrato in te, volgiti verso l’alto, non rimanere in te. Prima ritorna a te dalle cose che sono fuori di sé e poi restituisci te stesso a colui che ti ha fatto e che ti ha cercato quando ti sei perduto, ti ha trovato quando sei fuggito, ti ha convertito a sé quando gli volgevi le spalle. Torna a te, dunque, e va’ a colui che ti ha fatto.

(AGOSTINO DI IPPONA, Discorsi 330,2-3 NBA XXXIII, pp. 818-822).

 

Povertà di cuore

Johnnes Metz descrive bene questa disposizione, dicendo:

“Dobbiamo dimenticare noi stessi permettendo che l’altra persona si avvicini a noi, dobbiamo saperci aprire a quella persona perché la personalità che la distingue si riveli  anche se talvolta ci impaurisce e ci ripugna. Sovente opprimiamo l’altro e vediamo solo ciò che vogliamo vedere; in tal modo non incontreremo mai il misterioso segreto del suo essere, ma solo noi stessi. Non arrischiando la povertà dell’incontro indulgiamo ad una nuova forma di auto-affermazione e ne paghiamo lo scotto con l’isolamento. “Chi avrà trovato la sua vita la perderà” (Mt 10,39) e non avrà la grazia della pienezza dell’esistenza umana. Si rimarrà soli, con l’ombra del nostro essere reale”.

La povertà del cuore crea la comunità perché non è autosufficienza ma interdipendenza creativa, in cui il mistero della vita viene rivelato.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia, 1980, 96-97).

 

Rinascere dalle ceneri del tuo dolore

Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi. La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale. Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato. Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione. Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore. Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza. Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino. Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.  Guardati allo specchio. Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune. Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.  Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti. Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua. Sei parte della forza della vita stessa. Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano. Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.

(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).

 

Preghiera

Cristo, tu hai santificato il dolore umano con la tua vita e con la tua parola. Tu, stanco per il camminare e sbattuto dalla fatica, ti sei buttato giù a sedere e a riposare sull’orlo del pozzo di Sicar. Tu hai detto: «S’e il chicco di frumento, affidato alla terra, non muore, rimane solo...». Hai detto: «Voi piangerete e avrete da tribolare; il mondo, invece, si divertirà». Hai detto ancora: «Se uno vuole venire dietro a me, la smetta di pensare solo a se stesso, prenda quotidianamente la sua croce in santa pace e mi segua».

Per mezzo dei tuoi apostoli ci hai ripetuto: per essere meno indegni di entrare nel regno della vita, bisogna passare attraverso molte tribolazioni. Gesù, i tuoi seguaci hanno confermato questa via come quella ‘règia’ per entrare nell’eternità, dove ritroveremo le tribolazioni della vita presente trasformate in gloria e tu ci hai assicurato: «Fatevi coraggio, questa gloria eterna nessuno ve la potrà rapire!».

Ci crediamo, Gesù!

Ma tu aiutaci a tirar avanti nelle molte tribolazioni e stanchezze quotidiane.

Aiutaci almeno a saper sopportare la pesantezza, il ‘martirio bianco’ della quotidianità.

Aiutaci a saper sopportare la vita con le sue sconfitte e delusioni, con le sue angosce e i problemi.

Crediamo, Signore, ma aumenta in noi la fede, affinché credendo di più, speriamo anche di più: e sperando di più amiamo anche di più!

Così è e così sia!

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

Raimon Panikkar: Vita e parola

 

Raimon Panikkar, Vita e parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010 (pp. 158, euro 16,00)

 

Il 26 agosto 2010 si spegne, all’età di 92 anni, Raimon Panikkar, personalità ricca e complessa, profeta del dialogo e maestro dell’esperienza mistica.

Da qualche anno, con grande coraggio, la Jaca Book sta curando la pubblicazione dell’Opera Omnia di Panikkar a cura dell’Autore stesso e di Milena Carrara Pavan, che hanno organizzato i numerosi scritti in dodici volumi tematici (ma che arrivano a 17 poiché alcuni volumi sono in due tomi). È da notare anche che l’iniziativa dell’editore italiano è la prima in assoluto e sebbene Panikkar vivesse in Spagna e parlasse numerose lingue, sarà in italiano che comparirà per la prima volta l’edizione integrale delle sue Opere.

 

Sono quattro i volumi finora pubblicati, probabilmente cinque entro la fine dell’anno. Ma abbiamo la fortuna della pubblicazione – pochi mesi prima della sua morte – del volumetto di cui facciamo la recensione e che contiene le 16 Prefazioni riscritte da Panikkar a tutti i volumi che compongono il piano dell’Opera Omnia. Un testo dunque preziosissimo per accostarsi integralmente, anche se in modo essenziale e sintetico, alla pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita estremamente ricchi e stimolanti. Il volume è arricchito da una ampia nota biografica a cui manca solo la data della sua recente scomparsa.

Nella Prefazione è Panikkar stesso a definire il contenuto del volume: “Mi era stato chiesto in più occasioni di elaborare una sintesi del mio pensiero, di pubblicare, cioè, un testo che potesse intitolarsi La mia Opera. Mi sono reso conto che in effetti il lavoro l’avevo già fatto, avendo preparato in questi ultimi anni le introduzioni ai vari volumi dell’Opera Omnia” (p. 7). Ecco dunque tutto il valore di questo agile volumetto, estremamente denso e ricco. Peraltro, come sottolinea Panikkar, queste introduzioni sono anche un preziosissimo accesso non solo al suo pensiero, ma anche alla sua vita, essendo le due cose strettamente interconnesse: “Colgo l’occasione per sottolineare che tutti i miei scritti rappresentano non solo un problema intellettuale della mia mente, ma una preoccupazione del mio cuore e, ancor più, un interesse reale della mia intera esistenza, che ha cercato per prima cosa di raggiungere chiarezza e profondità studiando seriamente i problemi della vita umana […] Ora che ho fatto lo sforzo di riunire i miei scritti per argomenti, mi accorgo che lo schema di questa Opera Omnia rappresenta il percorso non solo del mio pensiero ma anche della mia vita, senza esaurirne, come dicevo, l’esperienza. I miei scritti coprono un lasso di circa settant’anni, in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e piena” (pp. 7-8). In questa prospettiva, aggiunge Panikkar, “non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può forse chiamare Spirito” (p. 8). In seguito, sintetizza in modo estremamente chiaro tutto il suo itinerario di vita: “Attratto fin da giovane dalla spiritualità, mi sono avvicinato allo studio delle religioni approfondendo prima la religione in cui sono nato e cresciuto, il cristianesimo, scoprendo poi la religione di mio padre, l’induismo, e subendo infine il fascino del buddhismo, pur rimanendo fedele alla mia origine cristiana. Con tale bagaglio di esperienze e conoscenze mi sono aperto in forma spontanea al dialogo con le diverse culture e religioni, avendolo già vissuto interiormente. Non si può scoprire infatti la verità di un’altra religione se non la si vive in profondità dall’interno […] Dalla rielaborazione della Trinità, che considero il fulcro del cristianesimo, sono giunto alla formulazione della mia visione della realtà che ho chiamato cosmoteandrica. Per comunicare agli altri ciò che non può essere descritto direttamente sono ricorso al mito, al simbolo e al culto, che sono alla base di ogni formulazione di fede, sviluppandone l’ermeneutica. Sono sempre stato attratto dalla filosofia come amore per la verità e per il Mistero. Non volendo chiudermi in un mondo di speculazione astratta, mi sono aperto alla vita che mi sta attorno nella sua concretezza e ho scoperto che non era profana ma sacra, da qui il mio interesse per i problemi che riguardano la secolarità” (pp. 8-9).

Vediamo ora, nello specifico, come è articolato il densissimo volume. È questo anche un modo per accostarci all’articolazione dell’Opera Omnia che raccoglie – come detto – per temi e con la supervisione dell’Autore stesso, tutti gli scritti di Panikkar.

Il primo capitolo – Mistica, pienezza di vita – contiene il saggio che fa da introduzione al tomo 1 del primo volume dell’Opera Omnia, intitolato Mistica e spiritualità. A proposito del volume – già pubblicato – Panikkar scrive che “è in parte autobiografico in quanto tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da divenirne una chiave ermeneutica indispensabile” (p. 11). La mistica, per Panikkar, altro non è che esperienza integrale della vita; in questa prospettiva, essa non è “un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico” (p. 12). La mistica è qualcosa che “non disumanizza” (p. 13); è “esperienza gioiosa” (p. 14), appunto in quanto esperienza integrale della Vita, di “quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si ‘sente’ palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi” (p. 15). In questo senso, l’esperienza mistica è quella che “ci permette di godere pienamente della Vita” (p. 16). Ne consegue allora, che “il grande ostacolo a che scaturisca spontaneamente in noi l’esperienza della Vita è la nostra preoccupazione per il fare a scapito dell’essere, del vivere. La mistica, quindi, richiede una certa maturità, che è più facile raggiungere al crepuscolo della vita” (p. 18).

Il secondo saggio – Spiritualità, il cammino della vita – fa da introduzione al tomo 2 del primo volume. Se la mistica è l’esperienza suprema della realtà, la spiritualità viene intesa da Panikkar come il “cammino per giungere a tale esperienza” (p. 21). È evidente che i cammini sono stati e sono molti. Ma una spiritualità per l’oggi dovrà comunque essere integrale: “vuol dire che deve coinvolgere l’uomo nella sua totalità” (p. 21), e quindi, nel linguaggio di Panikkar, fare sintesi tra quattro dimensioni che sarebbero, invece, nella cultura di oggi divise, con il rischio di frammentare e alienare l’uomo. Le quattro dimensioni, che una genuina spiritualità deve ricomporre, sono sōma, psychē, polis, kosmos. Anzitutto, l’uomo non ha, ma è sōma, corpo. Ne deriva che una spiritualità “che faccia astrazione dal corpo umano, che lo sottovaluti o che lo releghi come cosa secondaria, sarebbe monca” (p. 22). Ma l’uomo è anche psychē, anima, cioè pensiero, immaginazione, fantasia, volontà. L’uomo inoltre è anche polis, non è cioè individuo, ma società, collettività, chiesa, famiglia. “La dicotomia (mortale!) tra individuo e collettività si trova proprio alla base delle tensioni di ogni specie” (p. 22). Infine, l’uomo è kosmos: non è solo società ma universo, mondo. Cioè non è e non può essere separato dagli animali, dalle cose, dalla terra; e allora la terra non può essere arbitrariamente sfruttata perché non è ‘l’altro’ ma è parte costitutiva dell’uomo. In questo quadro antropologico, Dio è insieme immanente e trascendente: “è nella stessa quaternitas degli elementi che definiscono l’uomo che si incontra il divino” (p. 24). Solo in questa prospettiva possiamo comprendere come la spiritualità genuina non sia affatto qualcosa che disincarni, ma anzi qualcosa che – componendo i frammenti, mettendo insieme interno ed esterno, alto e basso – aiuta piuttosto a vivere la Vita integralmente. Nel senso dell’incarnazione, dove “i problemi della terra non possono essere separati da quelli del cielo” (p. 26). E una tale spiritualità non potrà che aprirsi al dialogo interculturale e interreligioso: “Non bisogna perdere di vista il fatto che, considerando la situazione attuale dell’umanità, nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura ha la forza sufficiente o è in grado di dare all’uomo una risposta soddisfacente: le une hanno bisogno delle altre. Non si può pretendere che la soluzione per l’insieme dell’umanità, d’ora in poi, possa venire da un’unica fonte […] bisogna sforzarsi perché avvenga una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane” (p. 25).

Il terzo saggio – Religione e religioni – fa da introduzione all’omonimo, secondo volume dell’Opera Omnia, di imminente pubblicazione. Il titolo intende sottolineare “l’ambiguità della parola ‘religione’ che al singolare rappresenta l’apertura costitutiva dell’uomo al mistero della vita mentre al plurale indica le diverse tradizioni religiose” (p. 27). In questa prospettiva, l’esperienza di Dio – ma meglio sarebbe dire, in senso ancora più ampio, l’esperienza integrale della Vita – non è e non può essere monopolio di nessuna religione. Ogni religione ne esprime una parte, ma non la esaurisce. Le religioni “sono vie che conducono gli uomini verso la loro pienezza”, in qualunque modo poi si concepisca questa pienezza. Le vie sono tante: alcune sono costituite dalle religioni tradizionali, altre sono vie nuove, a cui spesso è difficile dire se possano o meno essere chiamate religioni. Ne deriva che nessuna religione (o cultura, o tradizione) può pretendere “di esaurire la gamma universale dell’esperienza umana” (p. 28) e che quindi il pluralismo sia, soprattutto oggi, una stringente necessità: “l’incontro-dialogo tra religioni, ideologie e concezioni del mondo è un imperativo umano dei nostri giorni” (p. 28). E in questo incontro Panikkar comprende anche la possibilità del dialogo con un certo umanesimo ateo in quanto, comunque, impegnato in un medesimo sforzo per il perfezionamento umano. Questo è quanto Panikkar chiama ecumenismo ecumenico. Esso “tenta di arrivare a un fecondo arricchimento reciproco e di accettare una critica delle tradizioni religiose del mondo senza tralasciare per questo di riconoscere il ruolo unico spettante a ognuna di esse. Come le confessioni cristiane riconoscono un Cristo di cui non possiedono il monopolio, un Cristo che le unisce tutte quante, senza dovere per questo esserne amalgamate, così le distinte tradizioni dell’umanità riconoscono un humanum (diversamente interpretato alla stessa maniera in cui vi sono interpretazioni divergenti di Cristo) non manipolabile da chicchessia, cioè trascendente. Fedeli a questo humanum, discutono tra loro tentando di avvicinarsi all’ideale” (p. 29). Ebbene, solo un tale atteggiamento che rinuncia alla pretesa di monopolio su ciò che la religione rappresenta, potrebbe aprire ad un fecondo dialogo dialogale, con l’unico obiettivo di aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.

Il terzo volume dell’Opera OmniaCristianesimo – dà anche il titolo al quarto saggio. Qui Panikkar distingue tre diversi livelli contenuti nella parola ‘cristiano’: esso può essere l’aggettivo di cristianità, cioè riferirsi ad una civiltà. Nel Medioevo, ad esempio, era impossibile essere cristiani senza appartenere alla cristianità. Ma cristiano può anche alludere alla religione cristianesimo: fino a non molto tempo fa era difficile dirsi cristiano senza riconoscersi appartenente al cristianesimo. Ma cristiano, sostiene Panikkar, può anche riferirsi a cristianìa, cioè alla possibilità di riconoscersi cristiano “come atteggiamento personale, senza appartenere alla cristianità o aderire al cristianesimo in quanto struttura istituzionale” (p. 31). Si tratta di una coscienza cristiana più matura che, soprattutto per il terzo millennio che si è appena aperto, sembra costituire un forte appello. Essere cristiano come membro della cristianità appartiene infatti al passato o semmai, come dice Panikkar, “ai sogni di alcuni nei confronti del futuro” (p. 32), ma sembra non parlare più alla maggioranza dei cristiani. Il cristianesimo come religione ha preso posto nella coscienza cristiana a cominciare dal declino della cristianità come regime politico-religioso. Ma il cristianesimo come religione deve confrontarsi con le altre religioni esistenti e ciò mette in crisi la sua purezza dottrinale. Da qui l’emergere, oggi, di quella che Panikkar chiama cristianìa (Christlicheit, in tedesco; christianness, in inglese), e cioè la “confessione di una fede personale, che adotta un atteggiamento analogo a quello di Cristo, nella misura in cui Cristo rappresenta il simbolo centrale della propria vita” (p. 35), e che comporta un rendersi indipendenti rispetto alla sovraistituzionalizzazione del cristianesimo ufficiale. “Si tratta di un mutamento ecclesiale nella stessa autocomprensione cristiana” (p. 35). Ciò non significa, precisa Panikkar, disprezzare o ignorare le strutture giuridiche e gli apparati istituzionali, ma solo non identificarsi con essi. Si tratta di superare, non di respingere: è una nuova autocomprensione per la quale “ci si è resi indipendenti da un ordine politico fisso e determinato (cristianità)”, come anche “dall’identificazione tra essere cristiano e l’accettazione di una serie determinata di dottrine (cristianesimo)” (p. 38). In questa prospettiva, cristianìa apparterrebbe piuttosto alla dimensione mistica, che, peraltro, ha bisogno di istituzioni. Ebbene, proprio questa nuova autocomprensione mistica, dice Panikkar, sembra essere l’urgenza dei nostri giorni.

Il quarto volume dell’Opera Omnia, è dedicato all’induismo. Il quinto e il sesto saggio costituiscono rispettivamente le introduzioni al primo e al secondo tomo del volume. Non ci soffermiamo su queste densissime introduzioni che hanno il grande merito di aiutare noi occidentali a comprendere meglio il cuore di una tradizione molto diversa dalla nostra. Il settimo saggio – Buddhismo – costituisce l’introduzione al quinto volume dell’Opera Omnia e raccoglie i testi di Panikkar su ciò che possiamo ritenere il messaggio fondamentale di questa religione. Un’impresa quasi paradossale, dato il carattere fondamentalmente apofatico del buddhismo. Caratteristica del buddhismo è infatti l’affermazione della non-realtà della realtà ultima: essa è niente. Ma, osserva Panikkar, “il buddhismo non afferma che l’Assoluto è un niente, che non esiste in generale un qualche cosa, ma piuttosto che nessun essere corrisponde a quel qualche cosa […] Significherebbe quindi falsare completamente il buddhismo, se si volesse fargli affermare che bisogna pensare l’Assoluto come un Niente; l’Assoluto non deve essere pensato, perché, in tal caso, si sarebbe costretti a pensarlo come Essere o non-Essere, ed esso «non è» nessuna delle due cose” (p. 75).

I saggi successivi – Pluralismo e interculturalità e Dialogo interculturale e interreligioso – sono le introduzioni ai due tomi del volume Culture e religioni in dialogo, il sesto dell’Opera Omnia. Sono saggi molto densi, perché vanno a toccare uno dei temi su cui Panikkar si è espresso di più e per il quale ha combattuto con maggiore convinzione: il tema del dialogo. Un tema oggi molto urgente, a motivo dei cambiamenti a cui il nostro mondo è andato incontro negli ultimi decenni e che hanno visto popoli e culture venire tra loro in contatto e mescolarsi, creando, spesso, scontri di civiltà e problemi di convivenza: “La verità di una tradizione si scontra con quella dell’altra e il dialogo rappresenta l’unica via per la sopravvivenza” (p. 77). Per l’analisi del contenuto del primo saggio, rimandiamo alla recensione che abbiamo fatto dell’intero tomo. I temi del pluralismo e del dialogo sono ripresi anche nel secondo saggio, il nono, che, come detto, costituisce l’introduzione al secondo tomo. Panikkar definisce un “mito nascente” della nostra epoca, un mito unificante, quello secondo cui l’uomo avvertirebbe sempre più l’insufficienza delle proprie culture e delle proprie religioni e tenderebbe verso una sorta di unità della famiglia umana, “nell’ottica globale di una cultura dell’uomo che abbraccia tutte le civiltà e le religioni come tante sfaccettature che si arricchiscono e stimolano a vicenda” (p. 91). Questo mito, curiosamente, prosegue Panikkar, si presenterebbe come l’opposto del vecchio mito del “monogenismo”, che ci presentava “l’unità della razza umana sottolineandone l’origine unica” (p. 92). Oggi, l’unità dell’umanità “ci appare molto meno al suo inizio che non al suo termine” (p. 92). A lungo andare,  “i sistemi di pensiero sembrano convergere su tutti i piani: la mutua fecondazione appare non solo possibile, ma auspicabile […] L’altro comincia a diventare un altro polo di noi stessi. Il confronto porta alla complementarietà” (p. 93). Dagli altri si può imparare e grazie agli altri si può crescere. Ma, conclude Panikkar, sarebbe un errore e un pericolo operare sintesi frettolose: “prima di arrivare a una qualche visione d’insieme dobbiamo studiare le dottrine, conoscere i fatti e scoprire lo spirito di un’altra tradizione” (p. 95). È dunque necessario un lungo e umile lavoro; si tratta di “conoscere quanto meglio possibile la nostra tradizione, sviluppare l’empatia e la comprensione, renderci conto che scoprire le altre religioni è al contempo approfondire e purificare la nostra e che iniziarci a un’altra tradizione non può che arricchirci” (p. 96).

Il decimo saggio – Induismo e cristianesimo – introduce l’omonimo volume focalizzato sul dialogo tra le due culture alle quali “l’autore appartiene fin dalla nascita e alle quali è stato fedele in tutta la sua vita: ha continuato sempre a sentirsi profondamente cristiano e autenticamente hindū” (p. 97). Per un cristiano il dialogo tra le religioni – afferma Panikkar – deve rispettare tre condizioni: “1. Si deve rimanere fedeli alla tradizione cristiana. Questo è il problema teologico; 2. Non si devono violare le altre tradizioni; devono essere interpretate secondo la loro stessa autocomprensione. Questo è il problema ermeneutico; 3. Non si deve mettere da parte l’esame critico della cultura contemporanea. Questo è il problema filosofico” (p. 102). All’esame di queste tre condizioni sono dedicate le pagine del saggio. L’undicesimo saggio introduce invece l’omonimo ottavo volume dell’Opera Omnia con il titolo Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo. Qui Panikkar presenta una sua visione della realtà, una cosmovisione che, a grandi linee, intende riprendere il tema cristiano della Trinità. Essa si situa come una terza, grande, visione, che cerca di superare i limiti delle due visioni precedenti, quella monista e quella dualista. La visione monista, fondandosi sulla ragione, intende ridurre ad unità i dati che le si presentano, giungendo al concetto di Essere: l’Essere è uno, l’Uno, o semplicemente la Realtà. “La ragione, per intendere, esige la reductio ad unum, come dicevano gli scolastici […] Se vogliamo intendere razionalmente la realtà, dovremo arrivare al monismo […] In breve, se non vogliamo rinunciare alla razionalità dovremo affermare che in ultima istanza tutto è Dio, o Essere, o Spirito, o Materia, o Energia, o Nulla” (p. 116). All’opposto, la visione dualista riconosce due irriducibili sfere della realtà: il materiale e lo spirituale. La via di uscita al dilemma tra monismo e dualismo è costituita dalla visione a-dualista o advaita, che è quella che Panikkar fa propria. Si tratta di superare il razionalismo, ma senza cadere nell’irrazionalismo. La realtà “è costituita da tre dimensioni relazionate le une con le altre – la perichōrēsis trinitaria – così che non solo una non esiste senza l’altra, ma tutte sono intrecciate inter-in-dipendentemente. Tanto Dio, quanto il Mondo e l’Uomo presi separatamente, o a sé, senza relazione con le altre dimensioni della realtà, sono semplici astrazioni della nostra mente” (p. 117).

Il volume nono dell’Opera OmniaMistero ed ermeneutica – è costituito da due tomi. L’introduzione al primo tomo – Mito, simbolo, culto – costituisce il dodicesimo saggio, mentre il saggio Fede, ermeneutica, parola introduce il secondo tomo. Il quattordicesimo saggio – Filosofia e teologia – introduce l’omonimo decimo volume dell’Opera Omnia. Nella prospettiva di Panikkar, filosofia e teologia sono inseparabili perché si implicano vicendevolmente. La filosofia è da lui intesa “non solo come amore della saggezza, ma anche come saggezza dell’amore” (p. 127). La filosofia, scrive ancora Panikkar, “è un tipo di amore molto particolare. È saggezza, la saggezza dell’amore, la saggezza che è contenuta nell’amore […] E la saggezza nasce quando l’amore del sapere e il sapere dell’amore si fondono spontaneamente” (p. 128). Ne consegue che una tale filosofia non può non cristallizzarsi in uno stile di vita, anzi è l’espressione della vita stessa. “Una filosofia che tratti solo di strutture, teorie, idee e si isoli dalla vita, eviti la prassi e reprima i sentimenti, non è solamente unilaterale perché non prende in considerazione altri aspetti della realtà, ma è cattiva filosofia […] Perciò tutte le tradizioni sostengono che per fare veramente filosofia si richiede cuore puro, mente ascetica, vita autentica. L’attività filosofica esige un coinvolgimento totale” (p. 128). La riflessione deve cioè divenire carne, e il pericolo della astrazione intellettuale è grande. “Un professore per me è «uno che professa», vale a dire che esprime una «professione», una confessione, con la totalità della sua vita”, esattamente come un religioso autentico “è colui che lotta, che si sforza per arrivare all’unione armoniosa del sacro e del secolare” (p. 129). La teologia descrive anch’essa questa esigenza di coinvolgimento in una immersione totale nella vita, in una comunione piena con la Realtà.

Il saggio successivo, il quindicesimo, introduce il volume undicesimo dell’Opera Omnia, intitolato Secolarità sacra. Secolarità sacra è – secondo Panikkar – “lo stile di vita cui siamo chiamati, superando la dicotomia tra il sacro e il profano” (p. 135). E aggiunge: “non si tratta di fuggire dal mondo, ma di trasfigurarlo. Bisogna ‘trovare’ il sacro e ‘scoprirne’ la via secolare” (p. 135). Non si tratta, in altre parole, di negare la trascendenza del divino, ma bensì di cogliere “l’immanenza del sacro nelle viscere stesse del mondo” (p. 135). Si tratta di re-imparare a cogliere la sacralità del mondo, senza confondere immanenza e trascendenza. “Se si riduce tutto il reale al meramente secolare, si soffoca la realtà privandola del suo carattere di infinitezza e libertà. Ma, allo stesso tempo, negare alla secolarità il suo carattere reale e definitivo, degrada la vita umana a un semplice gioco senza importanza reale, né dignità. Forse una delle ragioni della crisi apparentemente universale dell’umanità attuale è che non si è riusciti a operare una sintesi tra sacro e secolare” (p. 137). L’ultimo saggio, il sedicesimo, introduce l’ultimo volume dell’Opera Omnia, dedicato a Spazio, tempo e scienza. Il volume racchiude articoli e scritti che riguardano la scienza, apparsi nel primo periodo della vita di Panikkar.

Speriamo di essere riusciti a far cogliere, in queste pagine inevitabilmente troppo sintetiche, almeno qualche frammento della ricchezza e pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita che – crediamo – ha segnato profondamente il nostro tempo e non cesserà di parlare al nostro futuro.

Massimo Diana