Paul Klee, Henry Miller e gli altri: gli artisti moderni tra secolarizzazione e mistero divino

Con un po’ di libertà vorrei innanzitutto affidarmi al filo della mia memoria autobiografica. Infatti, studente di teologia alla Pontificia Università Gregoriana, ero anch’io in Piazza San Pietro l’8 dicembre 1965, quando i padri a chiusura del  Concilio Vaticano II lanciarono, tra i vari messaggi alle diverse categorie sociali e professionali, queste parole agli  artisti:

“Il mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò  che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e  le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani”.

Alle spalle di quel momento solenne c’era un altro evento che l’anno prima avevo seguito solo dall’esterno, vedendo alcune figure importanti della cultura (ho ancor oggi in mente il profilo scavato di Eduardo De Filippo…) che uscivano  dalla Cappella Sistina. Là erano stati convocati il 7 maggio 1964 da Paolo VI, che a loro aveva rivolto un appassionato discorso nel quale proponeva di ristabilire una “nuova alleanza” tra arte e fede, sulla scia di un passato glorioso e nella consapevolezza che la grande sfida dell’artista è quella di “carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di  parola, di colori, di forme, di accessibilità”.
Passarono vari anni e nella Pasqua del 1999 Giovanni Paolo II indirizzò una Lettera agli artisti perché con loro si  inverdisse “quel fecondo colloquio che in duemila anni di storia non si è mai interrotto…, un dialogo non dettato  solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa  sia della creazione artistica”. Prima della pubblicazione di quel testo, sorprendente anche per la filigrana dei suoi   rimandi culturali, fui invitato a una lettura previa e a offrire eventuali considerazioni.
A distanza oramai di dieci anni, divenuto ormai a Roma presidente dei dicasteri vaticani destinati al confronto con la  cultura e col grandioso patrimonio artistico fiorito nei secoli, proposi a Papa Benedetto XVI di incontrare, ancora nella  ornice gloriosa della Cappella Sistina, trecento artisti di tutte le discipline e di tutto il mondo per rinnovare un  dialogo interrotto. Il desiderio era quello di rinnovare quello che accadeva già nell’VIII secolo quando il cantore delle  immagini sacre, ovvero san Giovanni Damasceno, si rivolgeva così ai cristiani: “Se un pagano viene e ti dice: ‘Mostrami  la tua fede!’, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri”.
Questo vincolo così stretto – lo si deve realisticamente riconoscere – a partire dal secolo scorso si è allentato fino al  punto di infrangersi. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi delle  epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla  bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando edifici sacri simili, come  sarcasticamente diceva padre David Maria Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli. D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le  figure e tutto quel “grande codice” che era stata la Bibbia. Ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un  messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e  provocatori, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai  più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo. Un po’ di verità c’è  nella definizione coniata da Henri Meyers a proposito dell’artista contemporaneo: “Un uomo che non prostituisce mai  la sua arte, eccetto che per denaro”.
Riconosciute le colpe reciproche che hanno divaricato sempre più fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e  itornare a incontrarsi. Al riguardo è stato emblematico il presentarsi di sessanta artisti, con opere elaborate per  l’occasione, davanti a Benedetto XVI nel luglio scorso per celebrare i suoi sessant’anni di sacerdozio. Ma lo è anche  l’esperienza che la chiesa milanese ha attuato elaborando e presentando in questi giorni un nuovo Evangeliario  Ambrosiano. E’ evidente che i quattro Vangeli costituiscono uno dei cardini della liturgia cristiana. Già a partire dal VI  secolo sono fioriti codici miniati di mirabile finezza nei quali le immagini s’intrecciavano col testo sacro in una sorta di  dialogo tra parola e visione. D’altronde l’arte occidentale di quei secoli era in pratica un’esegesi figurativa delle Scritture Sacre.
Nel VI secolo il papa Gregorio Magno invitava “coloro che non sanno leggere i testi a leggere sulle pareti attraverso la vista”. C’era, infatti, una Bibbia di pietra sui capitelli, sui portali, sui bassorilievi, nei complessi statuari, e una Bibbia  colorata negli affreschi e nei dipinti, pagine aperte a tutti, anche agli analfabeti. E’ interessante notare che una delle  dichiarazioni di principio degli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento suonava così: “Noi siamo manifestatori, agli  uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede”. E’ ciò che si ripete – naturalmente in un contesto culturale e secondo un approccio stilistico differente – nell’opera realizzata ora dalla  chiesa di Milano. Tre sono le caratteristiche che la contraddistinguono.
La prima è la presenza di sei artisti contemporanei significativi che si sono confrontati col testo evangelico secondo i  loro particolari percorsi di ricerca. Da un lato, ci sono figure affermate come Mimmo Paladino e Nicola De Maria che,  dopo aver attraversato la “Transavanguardia”, hanno imboccato itinerari personali molto originali. A loro si accosta  Ettore Spalletti, che sa plasmare col colore forti evocazioni. D’altro lato, entrano in scena in queste pagine anche autori di una generazione più giovane come Nicola Samorì e Nicola Villa: si è, così, voluto aprire l’orizzonte andando oltre i  canoni critici già codificati. Ma la sorpresa maggiore per molti sarà l’ingresso di un fotografo come Giovanni  Chiaramonte che segna in tal modo quasi la consacrazione di un’arte relativamente nuova ma lasciata in passato fuori  dal museo e soprattutto dal tempio.
Il secondo profilo specifico che rivela questo esperimento è da cercare nel corteo di mostre che a Milano lo  accompagna. In ambienti diversi – da Palazzo Reale alla chiesa di San Raffaele e alla galleria San Fedele – si snoda un  tracciato espositivo che parte dalla gloriosa eredità del passato, attestata da esemplari particolarmente preziosi. Si tratta di codici miniati celebri come, ad esempio, l’Evangeliario di Ariberto e quello di Vercelli, la Pace di Chiavenna e  la “Coperta” di Teodolinda, per la prima volta riuniti insieme in una sorta di costellazione artistica. Si passa poi alle  opere degli artisti che hanno collaborato all’allestimento del nuovo Evangeliario esponendone i bozzetti e altre testimonianze del loro incontro con la fede e la liturgia. Un incontro non così estemporaneo e marginale, se è vero  quello che scriveva Hermann Hesse nel suo scritto “Klein e Wagner”: “Arte significa: in ogni cosa mostrare Dio”. Una  intuizione confermata anche da un grande pittore come Paul Klee il quale confessava che “l’arte non rappresenta il  visibile ma l’Invisibile che si cela nel visibile”.
C’è una terza e ultima caratteristica da segnalare nell’esperienza milanese. La sottolineava l’arcivescovo emerito  Dionigi Tettamanzi, che ha patrocinato calorosamente quest’opera come suggello conclusivo del suo ministero  milanese. Affermava, infatti, che in questo modo “la chiesa torna a essere committente, con coraggio, consapevolezza,  rispetto, così come lo è stata in passato.
E ogni commissione presuppone con i veri interlocutori un confronto aperto, una ricerca per comprendere le ragioni, i  linguaggi e il dono dell’altro in vista di un obiettivo comune”. Si riprende, quindi, la gloriosa tradizione del passato  che vedeva nei papi e nei vescovi le figure capitali per la promozione dell’arte, attraverso un dialogo creativo e vivace  con gli artisti. Ed è ciò che l’Evangeliario Ambrosiano testimonia; per questa via si compie anche l’auspicio di Papa  Paolo VI e dei suoi successori per una “nuova alleanza” tra arte e fede. Henry Miller nella raccolta di poesie “Sapienza  del cuore” univa, infatti, queste due realtà tra loro in un paradosso provocatorio ma suggestivo: entrambe  “apparentemente non servono a nulla, tranne che a insegnare il senso della vita”.

in “il Foglio” del 1 novembre 2011

 

La bellezza nella Parola: il nuovo Evangeliario Ambrosiano – Palazzo Reale, Chiesa di San Raffaele e Galleria San Fedele

Da sabato 5 novembre a domenica 11 dicembre 2011 a Palazzo Reale di Milano, la mostra dal titolo La bellezza nella Parola presenterà il nuovo EVANGELIARIO AMBROSIANO, il volume usato nella solenne lettura delle celebrazioni liturgiche, le cui pagine accolgono le tavole di maestri dell’arte contemporanea, quali Nicola DE MARIA, Mimmo PALADINO, Ettore SPALLETTI, il fotografo Giovanni CHIARAMONTE e due giovani artisti, Nicola SAMORÌ e Nicola VILLA. COMUNICATO STAMPA >

In mostra, l’Evangeliario di Paolo VI che è stato posto sulla bara del beato Giovanni Paolo II, il giorno delle sue esequie. L’iniziativa è promossa dal Comune di Milano, Cultura, Expo, Moda, Design, dalla Galleria San Fedele, da Palazzo Reale, e organizzata dall’Arcidiocesi di Milano.

Il percorso espositivo, che ruota attorno al Duomo e si snoda tra Palazzo Reale, la Chiesa di San Raffaele e la Galleria San Fedele, proporrà un confronto tra queste opere e alcuni dei più importanti capolavori d’arte sacra antica di area lombarda.

Il progetto, curato da una commissione composta da don Umberto Bordoni, arch. Carlo Capponi, p. Andrea Nicola De Maria.

 

 

Natale del Signore – Nella notte

Dall’Asta S.I., mons. Domenico Sguaitamatti, prof. Francesco Tedeschi, don Norberto Valli, si è sviluppato proprio a seguito della pubblicazione della nuova edizione dell’Evangeliario Ambrosiano, che il Cardinale Dionigi Tettamanzi ha voluto realizzare in dialogo con l’arte contemporanea, con l’intento di avvicinare le persone al messaggio evangelico attraverso un linguaggio artistico del nostro tempo.

La sezione a Palazzo Reale presenterà, per la prima volta insieme, manufatti d’arte antica di straordinaria bellezza come la Coperta dell’Evangeliario di Teodolinda da Monza, la Pace di Chiavenna, l’Evangeliario di Ariberto del Duomo di Milano e quello di Vercelli che convergono a illustrare la sintesi medievale fra ordine cosmologico, ingegno umano e redenzione divina.

Inoltre, si troverà una serie di Evangeliari manoscritti e miniati con inchiostro, oro e porpora, come il Codex Sarzanensis della Diocesi di Tortona, l’Evangeliario di Busto, l’Evangeliario di Bobbio e l’A 28 conservati alla Biblioteca Ambrosiana, e l’Evangeliario Casola della Biblioteca Capitolare di Milano.

A segnare il passaggio all’arte contemporanea sarà l’Evangeliario di Paolo VI, lo stesso che venne posto sulla bara di Giovanni Paolo II, nel giorno delle sue esequie.

 

Nicola Samorì, Natale del Signore – All’aurora

La mostra prosegue con la presentazione della ‘coperta’ e di tutte le 73 tavole del nuovo Evangeliario Ambrosiano, che saranno visibili insieme, per la prima e unica volta, prima di essere rilegate nel volume originale che verrà in seguito consegnato all’uso liturgico del Duomo.

Ettore Spalletti, Esaltazione della Santa Croce

Le opere dei sei artisti, che dal dialogo con il testo evangelico traggono una particolare forza e significato, sono in grado di affermare la capacità del nostro tempo di dare una forma contemporanea di bellezza alla Parola eterna delle Scritture.

La sezione allestita alla Galleria San Fedele (aperta fino al 22 dicembre) proporrà una selezione di bozzetti e un lavoro a soggetto sacro particolarmente significativo dei sei artisti, mentre alla chiesa di San Raffaele verranno esposte alcune opere appositamente realizzate per l’occasione, che illustreranno il rapporto vitale con il culto e la liturgia.

Il libro dei Vangeli ha sempre rivestito una grande importanza, sia nella storia della liturgia che in quello dell’arte. Fin dal Medioevo e dal primo Rinascimento, il prezioso volume si è rivestito di autentici capolavori dell’ingegno umano. Gli splendidi elementi artistici rivelavano la ricchezza dei testi sacri in esso contenuti e davano forma di bellezza e di cultura a un messaggio di vita capace di attraversare i tempi e illuminare i secoli.

 

Nicola Villa, Presentazione del Signore

La Chiesa, la cui esistenza ha come motivo principale la custodia e la consegna delle parole di Gesù contenute nel Vangelo in ogni epoca e in ogni luogo, trova nella produzione dei preziosi Evangeliari, un luogo di espressione simbolico della sua identità e missione. La scelta di percorrere la via della contemporaneità corrisponde alla sua pretesa non solo di camminare al passo coi tempi, quanto di anticiparli nella profezia.

 

 

Evangeliario di Ariberto recto

 

 

 

 

 

 

 

Evangeliario di Ariberto verso

 

 

 

 

 

 

La Bellezza nella Parola

Madonna al sepolcro, 1820

Il nuovo Evangeliario Ambrosiano e capolavori antichi

Milano, Palazzo Reale, Chiesa di San Raffaele

5 Novembre / 11 Dicembre 2011

Galleria San Fedele

5 novembre / 22 dicembre

Orari:

Palazzo Reale (piazza Duomo)

Lunedì h 14.30 – 19.30

Martedì, mercoledì, venerdì, domenica h 9.30 – 19.30

Giovedì e sabato h 9.30 – 22.30

Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura

Chiesa San Raffaele (via San Raffaele 4)

Lunedì-venerdì ore 8.30-18.30; sabato ore 16.30-18.30; festivi chiusa

Galleria San Fedele (piazza San Fedele 4)

Dal martedì al sabato 16.00 – 19.00 (al mattino su richiesta); festivi chiusa
Ingresso gratuito.
Visite guidate gratuite.
Informazioni per le visite guidate al +39 345 5081982

Catalogo Silvana Editoriale

Informazioni:

Cooperativa “Oltre”
+39 345 2525299

per la Galleria San Fedele anche
tel. 0286352233

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Elena Conenna
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XXXII Domenica del tempo ordinario (anno A)

XXXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Sapienza 6,12-16

 

La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro.

 

v Il nostro brano si trova nella seconda sezione del libro della Sapienza, quando, dopo aver rilevato la duplice sorte dei giusti e dei malvagi al cospetto del creatore (cc. 1-5), l’autore fa l’elogio della sapienza quale guida sicura che conduce al supremo bene dell’uomo (6,1-11,3). Sono le riflessioni di un ebreo della diaspora (circa il 50 a.C.) che intende esporre alla luce della fede javista e con il linguaggio della cultura greca i grandi problemi dell’esistenza umana in vista di un’immortalità felice. Orientativi sono due versi: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura» (2,23) «hai compassione di tutti… ami tutte le cose esistenti».

«La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano». Qui la sapienza (come la maat egiziana) viene personificata con i lineamenti di una giovane sposa, attraente, radiosa. Chi comincia a contemplarla non può non innamorarsi di lei, e chi le si mette in cerca riuscirà sicuramente a trovarla: «il desiderio della sapienza conduce al regno» (6,20). È qualcosa che già sta nell’intimo del cuore umano, qualcosa a cui siamo già orientati.

«Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano». Si completa il concetto precedente: se qualcuno coltiva l’anelito verso la sapienza, essa già gli si avvicina per farsi «conoscere» nel senso pieno semitico, entrerà cioè nella sua intimità, le si affezionerà profondamente.

«La troverà seduta alla sua porta». se qualcuno quanto prima (di buon mattino) si muoverà verso di lei, se la troverà addirittura di fronte, presso la porta di casa, ad attenderlo: «quanti la cercano di buon mattino, si dirà in Sir 4,12, saranno ricolmi di gioia».

«Lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei ». C’è di più. Essa è già in cammino alla ricerca di quanti sono aperti verso di lei, riflettono su di essa, si comportano con rettitudine, in conformità di ciò che hanno intuito di bello e di nobile in lei: ad essi «andrà incontro come una madre» (Sir 15,2), «beato chi medita sulla sapienza e … considera nel cuore le sue vie» (Sir 14,20s).

È un riflesso dell’infinita saggezza del Dio altissimo che opera in tutto con giustizia, benevolenza e comprensione, scruta i cuori e al minimo accenno di apertura fa sentire loro la sua presenza, e li guida verso la meta dell’esistenza terrena, verso colui che è il felice compimento di ogni nostra aspirazione.

 

 

Seconda lettura: 1Tessalonicesi 4,13-18



Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti. Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, scenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.

 

v La lettera ai Tessalonicesi risale a pochi anni dalla morte di Gesù. S. Paolo vi rivela tutto il suo affetto e la sua fiducia per quella comunità cristiana da lui fondata (cc. 1-3), e insieme la sua viva sollecitudine perché essa si conservi nella carità e nella continua vigilanza in vista della gloriosa Parusia del Signore Gesù (cc. 4-5). Gli preme in modo particolare rassicurarli su un loro specifico problema. Lui aveva loro annunziato la grande regola per chiamare a sé «tutti i suoi santi» (3,12), nell’ora e nel giorno noti solo al Padre. Era l’autentica promessa del maestro divino (v. 15; Mt 24,30.36). Ma i neofiti di Tessalonica, impressionati per quel glorioso evento, si andavano interrogando sulla sorte di chi in quell’ora misteriosa non si sarebbe trovato presente, perché già nel frattempo fosse deceduto. Il nostro brano risponde a questa aporia.

«Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti». Rassicura anzitutto i suoi discepoli dichiarando che non hanno motivo di preoccuparsi. Essi che credono in Cristo Signore dell’universo hanno in lui ogni speranza. Essi, come Paolo, vivono in Cristo, e Cristo vive in loro (Gal 2,20). Al contrario di coloro che non lo riconoscono (gli estranei, i pagani: 5,6), essi continueranno a vivere per sempre in lui.

«Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti». Ora chiaramente afferma: la stessa potenza divina che ha fatto risorgere Gesù, farà sì che tornino in vita anche i suoi fedeli amici e nulla vi si può opporre.

«Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo». Paolo conosce bene tutto l’insegnamento escatologico del Maestro: il martirio dei suoi evangelizzatori (Mt 24,9); il raduno di tutti gli eletti dai quattro venti (Mt 24,30s), di ogni epoca e regione. «Noi che saremo ancora in vita… non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti»: perché in quell’ultima ora prima risorgeranno tutti coloro che hanno perseverato nella loro fede in Cristo, e quindi insieme con loro quelli che saranno rimasti in vita andranno incontro al Signore della gloria.

«Verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore». La solenne descrizione escatologica (suono di tromba, voce dell’arcangelo, nubi del cielo… v. 16) ribadisce la consolante realtà che attende tutti i credenti in Cristo, sia già deceduti, sia ancora viventi al momento della grande Parusia: andargli lietamente incontro e vivere eternamente con lui nel suo regno di amore.

 

Vangelo: Matteo 25,1-13


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.  Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

 

 

Commento  del testo con immagini

XXXII DOM TEMP ORD ANNO A

 

Esegesi


È stata detta “la parabola della vigilanza”. Nel contesto del primo vangelo sembra riferirsi all’ultima venuta del signore, la Parusia (24-25). “Allora”, “in quel tempo” (nel testo greco) indica il tempo del giudizio finale (25,1; 24,39-50). Non si può escludere però che nella predicazione di Gesù il racconto riguardasse più direttamente l’incontro dei singoli uditori con il supremo Signore al termine della loro vita terrena. Lo scenario non è quello cosmico dell’intera umanità di fronte al giudice divino (24,30-31: segni del cielo e raduno dei popoli, con tutti i suoi angeli).

Rassomiglia invece all’esito del comportamento dei singoli individui durante la loro vita, sempre nell’ambito della storia: come nel racconto di Lazzaro e del ricco gaudente (Lc 16,27-31); sono due tipi di persone, di cui l’una è presente all’appuntamento festivo, l’altra per sua negligenza arriva in ritardo; l’uno è ammesso nel convito (seno di Abramo), l’altro è lasciato nel buio della notte (nel fuoco infernale). Rimane inteso in ogni caso che poi al momento del giudizio finale dell’umanità sarà solennemente ratificato il destino eterno di ciascuno (cf. Mt 25,14-30).

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini…».

Si annunzia il termine di paragone tra l’ingresso delle anime nel regno dei cieli e l’incontro dello sposo nel corteo delle ragazze che dovevano festeggiare uno sposalizio. La celebrazione solenne del matrimonio avveniva con una cerimonia notturna. Sull’imbrunire alcune damigelle si riunivano nella casa della fidanzata e aspettavano che arrivasse lo sposo perché introducesse l’intero corteo nella propria casa e si desse inizio ai festeggiamenti. Poteva succedere però qualche imprevisto.

«Le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio». Cinque damigelle non ebbero l’accortezza di rifornirsi sufficientemente di olio per ogni evenienza: non calcolarono bene la durata dell’attesa. Almeno così immagina il narratore ai fini del suo insegnamento. Difatti, ritardando lo sposo, le ragazze si assopirono tutte e le lampade esauriscono il loro olio (vv. 5-6).

«A mezzanotte… tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade». Le 5 sagge poterono rifornire le loro lampade con l’olio di scorta e si mossero col corteo dello sposo verso il luogo del banchetto.

«Mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa».

Nella parabola si immagina pure che le stolte tentano in quel frangente di rimediare alla loro negligenza. Ma, prima, le loro colleghe rifiutano di condividere le riserve di olio, perché non venisse a mancare anche ad esse; e poi i rivenditori a quell’ora tardano a fornirle. Sicché quando trafelate arrivano al luogo del convito per prendere parte alla gioia di quello sposalizio, si sentono rispondere dalla voce dello stesso festeggiato «non so chi siete», e la porta rimane chiusa; sono definitivamente escluse da quella comunità in festa!

«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora». Il significato dell’episodio si evidenzia in pieno nell’ultima frase rivolta agli uditori dell’araldo evangelico: ‘il regno di Dio è vicino, e si avvicina sempre più’ (in Mc 1,15 il verbo è al perfetto: ‘continua ad avvicinarsi’). Dalla partecipazione ad esso dipende la sorte felice di ogni uomo. È importante essere trovati pronti ad entrarvi; occorre essere sempre in regola con l’olio luminoso della rettitudine e dell’amore. Poco vale per aver iniziato a compiere il bene e fermarsi a metà. È sommamente necessario aver perseverato e rimanere sempre all’erta nel giusto atteggiamento in consonanza con lo sposo divino. Egli può giungere a noi in piena notte come in qualsiasi momento; allora non resta più alcuna possibilità di rimediare (sia per quanto riguarda il giudizio particolare, sia quello finale universale).

 

Meditazione

 

Essenziale per ottenere la sapienza è desiderarla: il desiderio della sapienza spinge a cercarla e la sapienza stessa va incontro a chi la cerca. Se la sapienza è luminosa e splendente, essa irraggia su chi la desidera e la cerca: è la ricerca stessa della sapienza che rende sapienti (I lettura). Il credente cristiano non abbisogna solamente di fede, ma anche di sapienza. Sapienza è predisporre tutto per incontrare il Signore. Stoltezza – e c’è la possibilità di una fede stolta, insulsa, stupida, non intelligente – è negligenza nel prepararsi all’incontro con il Signore. Ma il Signore va incontro lui stesso a chi lo cerca e lo attende tenendo viva nella notte la lampada del desiderio dell’incontro (vangelo).

Opposta alla sapienza è la stupidità che è un difetto «che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona […] La Bibbia, affermando che il timore di Dio è l’inizio della sapienza (Sal 111,10), dice che la liberazione interiore dell’uomo alla vita responsabile davanti a Dio è l’unica reale vittoria sulla stupidità» (Dietrich Bonhoeffer). La nostra parabola dice dunque che sapienza è anche senso di responsabilità e capacità di vita interiore.

Uscire, andare incontro al Signore veniente, tenere le lampade accese nel buio della notte, attendere il Signore: queste espressioni riferite alle ragazze amiche della sposa che, secondo gli usi matrimoniali del tempo, attendevano a casa di lei l’arrivo dello sposo, esprimono bene la missione della chiesa nella storia. Si tratta di compiere un esodo, una fuoriuscita dalla mentalità mondana; di cercare il Signore per vivere una relazione autentica e vitale con lui; di custodire la fede, l’amore e la speranza e attendere la sua venuta.

In particolare, occorre mantenere vivo il desiderio del Signore, questa la lampada che la chiesa è chiamata a tenere accesa nella buio della notte. Un credente o una comunità cristiana che perdano il desiderio del Signore, sono come sale che perde sapore (cfr. Mt 5,13),

luce che spegne se stessa (cfr. Mt 5,14-15). Questo desiderio è il proprium del credente: o lo si ha in sé o nessuno può pretenderlo dagli altri. Le ragazze stolte, chiedendo l’olio alle sapienti, pretendono ciò che non può essere dato.

Nella vita cristiana, la sapienza è il predisporre tutto per essere pronti per il Signore, per la sua venuta, per il suo dono, per la sua grazia, ed è tutt’altro rispetto all’efficienza e all’attivismo del protagonismo cristiano. Nella sapienza è sempre insita l’umiltà, la giusta misura di sé.

Dietro l’immagine del ritardo dello sposo (cfr. Mt 25,5) si delinea il problema della promessa della venuta del Signore e del protrarsi della sua attesa nella storia. Problema esposto con spietata lucidità da Ivan Karamazov nel famoso romanzo di Fëdor Dostoevskij: «Son passati quindici secoli dal momento in cui Lui promise di venire nel suo Regno… ma l’umanità l’aspetta ancora con fede sempre uguale e con sempre uguale tenerezza. Anzi, con fede ancor maggiore, giacche son trascorsi quindici secoli dal tempo in cui fu sospeso all’uomo ogni pegno celeste: “Credi a ciò che dice il cuore: non più pegni dà il cielo”. E così, unica e sola, è rimasta la fede in ciò che dice il cuore». La venuta del Signore è solo ormai una pia illusione? Un anelito sgorgato dal cuore umano? Alla chiesa il compito di rispondere a queste domande con la propria prassi storica e umana ispirata alla fede nella promessa del Signore e con la propria sapiente attesa.

La sapienza è arte di vivere il tempo: la venuta del Signore non è misurabile cronologicamente, ma è essenziale perché afferma che il tempo ha una fine e un fine. Se il sapiente, per la Bibbia, è «colui che cerca Dio» (Sal 14,2), egli è anche colui che contare il tempo e ne conosce la finitezza (cfr. Sal 90,12). Rimuovere la finitezza del tempo e la fine del mondo significa in realtà mandare a morte l’uomo, liquidare l’uomo.

La parabola è anche immagine del giudizio che attende il cristiano dopo la morte. La dialettica addormentarsi-alzarsi (cfr. Mt 25,5.7) esprime la polarità del morire-risorgere (cfr. Mt 27,52; lCor l5,20; 1Ts 4,13-15). L’esito del giudizio lo si gioca oggi, qui e ora, nella storia.

 

Preghiere e racconti

Vegliare con il Cristo

Veglia con il Cristo colui che, pur guardando verso l’avvenire, non perde di vista il passato e, pur contemplando ciò che il suo salvatore ha guadagnato per lui, non dimentica ciò che ha sofferto per lui. Veglia con il Cristo colui che commemora e rinnova continuamente nella sua persona la croce e l’agonia di Cristo e indossa gioiosamente questo mantello d’afflizione che il Cristo ha indossato quaggiù e si è lasciato dietro quando è salito al cielo. È per questo che, nelle loro lettere, gli autori ispirati esprimono cosi spesso il loro desiderio della sua seconda venuta, ogni volta che parlano del ricordo che hanno conservato della prima, e che la sua risurrezione non fa mai perdere loro di vista la sua crocifissione.

(J.H. Newman, Parochial and Plain Sermons, vol. IV, sermone 22)

 

Egli può sempre arrivare

«… non si può mai sapere se Dio è in una storia,

prima che uno l’abbia finita di raccontare.

Perché anche se mancassero solo due parole o soltanto

la pausa che segue le ultime parole del racconto,

Egli può sempre arrivare»

(Rainer Maria Rilke)

 

Tu vegli su noi

Mio Dio, io sono convinto che tu vegli

su coloro che sperano in te,

e che non si può mancare di nulla

quando da te si attende ogni cosa,

per cui ho deciso di vivere in avvenire

senza alcuna preoccupazione

e di deporre in te

tutte le mie inquietudini…

Gli uomini possono spogliarmi

dei beni e dell’onore,

le malattie possono togliermi

le forze e i mezzi per servirti,

io posso perfino perdere

la tua grazia col peccato,

io non perderò mai la speranza,

ma la conserverò

fino all’ultimo istante

della mia vita.

(Jean Guitton)

 

Giudizio finale

Tu giudicaci tutti

come se tutti fossimo bambini

che giocano con la vita

in questo cortile assurdo e prodigioso.

 

Quando giunge la notte,

raccoglici tutti

nel calore della tua Casa

per sempre.

 

E pianta di bellezza imperitura

il vecchio cortile amato…

(Pedro Casaldáliga)

 

Preghiera

Signore Gesù, Figlio di Dio e Sapienza del Padre, Verbo fatto carne e splendore della gloria, tu ti sei avvicinato a noi, venendoci incontro e invitandoci alle nozze della chiesa con Dio, Padre di tutti. Che il nostro amore domandi, cerchi, raggiunga e scopra la tua sapienza e permanga sempre in ciò che ha scoperto.

Oggi desideriamo evocarti e pregarti con le parole evangeliche: «Beati gli invitati alla mensa del Signore», cioè: «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello» (Ap 19,9), o con quelle di sant’Agostino: «Tutta la durata del tempo è come la notte, nel corso della quale la chiesa veglia, con gli occhi della fede rivolti alle Sacre Scritture come a fiaccole che risplendono nel buio, fino alla venuta del Signore».

Noi siamo ora quelle cinque vergini prudenti, che siedono a mensa con lo sposo.

Affidiamo tutti insieme, con fede e umiltà, un desiderio alla generosità del nostro Dio: che tutti noi, che viviamo nella fede e siamo nell’attesa della pace sabbatica, possiamo ritrovarci un giorno riuniti nel tuo Regno, nel banchetto eterno, e che nessuno resti fuori da quella misteriosa porta, là fuori «dove c’è pianto e stridore di denti».

Allo stesso modo, possa tu, o Signore, quando verrai, trovare la tua chiesa vigilante nella luce dello Spirito per risvegliarla anche nel corpo, che giacerà addormentato nella tomba.

 

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

La sapienza della croce: Seminario di studio

Pontificia Università Lateranense – Cattedra Gloria Crucis

Seminario di studio

Martedì, 13 Dicembre 2011



LA SAPIENZA DELLA CROCE

COME RISPOSTA ALLA DOMANDA DI SENSO

 

Sessione mattutina


Moderatore: Prof. Lubomir Zak, vice decano della Facoltà di Teologia

Ore 9, Saluto del Prorettore della Pontificia Università Lateranense, mons. Patrick Valdrini,

Delegato dell’Università per le Aree di Ricerca e le Cattedre Autonome.

Presentazione del Prof. Fernando Taccone cp, Direttore della Cattedra

ore 9,30           Relazione: LA RICERCA DI SENSO E IL MESSAGGIO DELLA CROCE NELL’ANTROPOLOGIA CONTEMPORANEA: aspetto teologico, Sua Ecc. Mons. Ignazio Sanna, Arcivescovo di Oristano.

 

Dialogo


ore 11,00         Intervallo

ore 11,30         Comunicazione: Approccio biblico al tema: Dal silenzio alla parola della croce nell’epistolario paolino: ragioni e conseguenze, Antonio Pitta, docente alla Pontificia Università Lateranense

Comunicazione: Approccio patristico al tema, La ‘ricerca di senso’ e il messaggio della Croce. L’approccio patristico, da Giustino a Origene, S.E.Mons. Enrico dal Covolo sdb,  Rettore magnifico della PUL.

 

Dialogo


ore 13.00        Pausa pranzo, è disponibile la mensa universitaria.

Sessione pomeridiana

ore 15.00         Relazione: LA RICERCA DI SENSO E IL MESSAGGIO DELLA CROCE NELL’ANTROPOLOGIA CONTEMPORANEA: aspetto filosofico-culturale, Mons. Prof. Antonio Livi, Pontificia Università Lateranense

 

Dialogo


ore 16,15         Intervallo

ore 16,45         Tavola rotonda con esperienze a confronto e dialogo

Grazia Maria Costa, Preside della Scuola Edi.S.I., Istituto Edith Stein: Momenti di  fatica e di rimotivazione nella Vita Consacrata.

Chiara Amirante, fondatrice Nuovi orizzonti: Vivere la gioia nella sofferenza.

P. Eligio Gelmini ofm, fondatore Mondo X, “Sono forse io il responsabile di mio  fratello”

ore 18.00        Fine lavori

Il Cantico dei cantici letto dalle tre grandi fedi

Cantico dei cantici, un convegno a Venezia
di Viviana Kasam

Del Cantico dei Cantici si parlerà per tre giorni a Venezia, dal 3 al 6 novembre, in un convegno organizzato  dall’Università Ebraica di Gerusalemme che metterà a confronto studiosi delle religioni, filosofi, scrittori per esaminare il Cantico in tutti i suoi aspetti: quello letterario/poetico, quello mistico, quello filosofico, e il rapporto con altre tradizioni in cui il sesso può essere una strada per raggiungere l’estasi spirituale (per esempio il buddismo tantrico).
Ai seminari in inglese in francese (non è prevista la traduzione in italiano) parteciperanno Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di Kabbalah , la scrittrice francese Eliette Abécassis, i filosofi Ami Bouganim e Monique Canto- Sperber (che insegna all’Ecole Normale Supérieure di Parigi), Yair Zakovitch, uno dei più quotati esperti biblici, Marco  Ceresa docente di letteratura cinese e studi culturali dell’Asia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Guy Stroumsa,  professore di religioni comparate dell’Università Ebraica di Gerusalemme, il presidente della stessa Università Menachem Ben Sasson, specialista di ermeneutica biblica, Clemence Boulouque, scrittrice specializzata in Kabbalah e  misticismo e Haim Baharier, noto per le sue vertiginose lezioni di ermeneutica biblica. E il giornalista Gad Lerner, che  parteciperà a un dibattito di grande attualità, domenica mattina, su sesso e potere.

 

 

Intervista a Moshe Idel, Haim Baharier e Enzo Bianchi

a cura di Viviana Kasam

Il Cantico dei Cantici: il poema d’amore più conosciuto, più commentato, più tradotto nella Storia, e anche il più  misterioso. Che cosa significa il titolo? Perché un poema così fortemente erotico è stato assunto sin dall’antichità  (Concilio di Yavnè, 90 d.C.), nel canone dell’Antico Testamento? E come mai nelle tradizioni religiose dell’occidente,  quella ebraica, quella cattolica, quella cristiana, la letteralità del testo, che descrive senza mezzi termini un amplesso, è  tata “freudianamente” rimossa in favore di una interpretazione mistica spesso tirata per i capelli, così forzata nel  diniego dell’evidenza da apparire quasi assurda ad un occhio laico e smaliziato?
Giriamo i quesiti a Moshe Idel, considerato oggi il massimo studioso di mistica ebraica, che insegna alla cattedra che fu  di Gershom Scholem, Haim Baharier, famoso per le sue lezioni di ermeneutica biblica diventate cult, e Padre Enzo  Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, scrittore, editore di Qiqajon, profondo conoscitore e interprete delle Scritture.

 

Perché il titolo?
Baharier: Se abbracciamo ciò che dice Rashi al riguardo si tratterebbe di una valutazione qualitativa: un canto sopra ogni canto. Oppure un canto per tutti i canti. Seguendo invece il commento di Rabbi Israel Salanter, il Cantico dei  Cantici è un testo paradigmatico della pluralità dei significati e nello stesso tempo dell’univocità: ossia una voce  profonda, separata, sempre identificabile.
Bianchi: Questo titolo – che coincide con la prima riga del testo: “Cantico dei Cantici, che è di Salomone” – è un  superlativo, dunque indica “il canto per eccellenza”, il più sublime tra tutti i canti cantati in Israele. I rabbini dicevano  che c’è una corrispondenza tra questa espressione e il Santo dei Santi, ovvero il luogo più interno del Tempio, sede  della presenza di Dio. E’ un modo simbolico per affermare che la parola di Dio è presente più che mai in questo piccolo  gioiello letterario.


Dunque l’autore fu davvero il re Salomone?

Baharier: Dal punto di vista storico saremmo legittimati ad avere dei dubbi. Se però immaginiamo una sorta di casting  dobbiamo ammettere che il ruolo di autore del Cantico ben si addice a Re Salomone.
Idel: Ritengo di no, il testo è probabilmente più tardo di qualche secolo rispetto al regno di Salomone, ma questa  attribuzione è stata fondamentale per far adottare il Cantico nel canone biblico.
Bianchi: Non è realistico attribuirlo al Re Salomone. Però c’è un senso logico in questa attribuzione, legato al fatto che  nel testo viene citato alcune volte (per l’esattezza sei) proprio il Re Salomone. Approfondendo questo dato, potremmo  chiederci: per una innamorata il suo amato non è forse sempre un re? In quest’ottica è bello pensare che i due  ersonaggi siano in qualche modo un re e una regina, anche se nella realtà materiale del testo sono più probabilmente  un pastorello e una pastorella. L’amore descritto è quello di due ragazzi, è l’amore di tutti i ragazzi innamorati. L’autore, hiunque egli sia, è certamente un poeta raffinato, capace di descrivere l’amore con grande maestria.

 

Ma di quale amore stiamo parlando: amore sacro, amore profano, o entrambi?
Idel: Secondo il suo significato originario, è un canto erotico secolare, che solo più tardi è stato allegorizzato sia nella  tradizione ebraica che in quella cristiana, per adattarsi a nuovi valori religiosi emersi più tardi, a partire dal primo  secolo dopo Cristo.
Bianchi: Direi che il Cantico celebra l’amore umano in tutte le sue infinite sfaccettature, alle quali si può alludere solo in  chiave poetica: la lontananza, il cercarsi, il rincorrersi, il ritrovarsi, l’amplesso… E’ significativo che il nome di Dio  compaia solo alla fine, quando si dice che l’amore è una fiammata, è un fuoco divino. In questo senso, nella tradizione  ebraica il Cantico è diventato ben presto simbolico dell’amore di Dio per il suo popolo; nella tradizione cristiana è  normalmente simbolico dell’amore tra Cristo e la Chiesa o, in ambienti monastici, tra Dio, tra Cristo e il singolo credente. In questo cammino il senso letterale del Cantico fu totalmente oscurato. Quando però si trattò di inserire  questo poema nel canone dell’Antico Testamento molti si opposero, proprio per gli espliciti riferimenti al sesso  contenuti in queste pagine. Fu Rabbi Akiva a farcelo entrare, durante il Concilio di Javne (fine del I secolo d.C.), insistendo sull’interpretazione simbolica di cui si diceva.
Celebri sono le parole da lui usate per giustificare tale inserimento: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il  Cantico dei Cantici è stato donato a Israele: tutte le Scritture infatti sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi!”

in “www.ilsole24ore.com” del 30 ottobre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Dopo tanta caccia al vuoto di Dio, sembra Ceronetti aggrapparsi alla preda di quelle consonanti materiche dei dossi e delle pietraie semitiche, quasi per scongiurare l’aveu della conclusione: «Forse perché sei la sera, la morte velata – Cantico, sacro Cantico – di te ho paura”. Il suo non dar tregua al testo…, il suo annerire di contrasti violenti i fondali… non fa che aumentare il fascino della tradizione del Cantico”
“La mia verità attuale sul ‘Cantico’ è questa: il ‘Cantico’ non è un testo mistico. Ha un doppio senso, ne è farcito, ma non un doppio fondo. Canta l’amore bucolico in modi che in nulla corrispondono ai nostri, di vivere e di concepire l’amore… Il Dio biblico integrale cercàtelo altrove: nei Profeti, nel libro dei Salmi, nell’Esodo, se vi può consolare…”

 

 

XXXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)

XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Malachia 1,14-2,2.8-10

 

Io sono un re grande – dice il Signore degli eserciti – e il mio nome è terribile fra le nazioni. Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione. Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete seguito le mie vie e avete usato parzialità nel vostro insegnamento. Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?

 

v Il testo profetico, tratto da Malachia, è un severo monito rivolto ai sacerdoti, che dimostrano di avere poco a cuore la gloria di Dio. Il problema non è da poco, dal momento che la posizione dei sacerdoti quali educatori del popolo di Dio risulta fondamentale. Come può Dio farsi ascoltare dai sacerdoti disobbedienti? La minaccia è seria e concreta: trasformare in maledizione le loro benedizioni, come la Parola di Dio afferma: «Ma se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, se non cercherai di eseguire tutti i suoi comandi e tutte le sue leggi che oggi ti prescrivo, verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste maledizioni» (Dt 28,15).

Ai sacerdoti venivano portate le primizie, in segno di ringraziamento a Dio per i beni della terra, che permettevano di vivere e godere del frutto del proprio lavoro. I beni della terra sono, quindi, benedizione del Signore, ma rischiano di diventare frutti amari e acerbi se non si è in sintonia con lui. Riconoscere, invece, che tutto proviene da Dio, al quale si dimostra riconoscenza rispettandone i comandi, vuol dire prendere a cuore la gloria sua.

Purtroppo, il profeta è costretto a richiamare alla fedeltà i sacerdoti, responsabili dell’allontanamento del popolo dal Signore e della loro stessa rovina: «Voi invece avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete distrutto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò anche io vi ho reso spregevoli e abietti davanti a tutto il popolo, perché non avete seguito le mie vie e avete usato parzialità nel vostro insegnamento» (2,8-9).

L’appello di Malachia, al v. 10, si fa davvero struggente per l’intensità e la sincerità: «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro, profanando l’alleanza dei nostri padri?». Il profeta, dunque, c’invita a guardare alle nostre origini, che si trovano in Dio, sicché colui che compie del male contro il suo prossimo danneggia la sua stessa carne e il suo proprio sangue, oltre a offendere la Parola di verità e di comunione che Dio ha donato ai padri. Ai sacerdoti si raccomanda di ricordare e far ricordare tutto questo. Infatti, se agiscono diversamente, compromettono la loro dignità e missione in mezzo all’umanità, costringendo quest’ultima a rivolgersi altrove e a sostituire Dio con qualcos’altro. La fedeltà al Signore non costituisce una trappola, ma un vero cammino di libertà e di fraternità, da cui nasce quella benedizione che il mondo chiede, affinché ognuno possa chiamare Dio padre e Gesù maestro e sentirsi sazio di pane e verità.

 

Seconda lettura: 1Tessalonicesi 2,7-9.13

Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio. Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti.

 

v La polemica di Gesù con gli scribi e i farisei da una parte e il monito di Malachia ai sacerdoti dall’altra, hanno qualcosa in comune con quanto scrive Paolo nella prima lettera ai cristiani di Tessalonica. Infatti, l’apostolo si rivolge alla comunità da lui fondata, ricordando il tempo della sua permanenza in mezzo a essa con parole piene di affetto: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (2,7-8).

Impressiona il forte linguaggio di Paolo, che addirittura adopera l’immagine della madre, per indicare la misura, certo notevole, dell’amore che ha nutrito per i membri di quella comunità. Questa era nata dopo le vicende convulse patite a Filippi (cf. At 16,19-40, ove si racconta di Paolo e Sila, prima malmenati, poi portati in prigione e, infine, liberati il giorno seguente) e che egli ricorda in 2,2a. D’altronde, anche a Tessalonica Paolo ebbe problemi, fomentati dai suoi connazionali, a seguito della sua predicazione (2,2b: «abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte»; cf. anche At 17,1-9), di cui continuò a subire la comunità. Ciò spiega ancora meglio la disponibilità dell’apostolo a dare persino la propria vita, oltre al dono già prezioso del vangelo.

Il dono del vangelo, poi, non è avvenuto con atteggiamenti di superbia, alterigia e superiorità da parte di Paolo, e tanto meno egli ha preteso di essere mantenuto a carico della comunità per le sue esigenze personali, piuttosto la sua libertà e la credibilità del vangelo hanno ricevuto una forte conferma dal momento che egli dimostra totale disinteresse per il suo tornaconto personale: «Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio» (2,9). I frutti della missione a Tessalonica Paolo li considera abbastanza buoni, perciò si dispone a ringraziare quella comunità per la sensibilità che ha dimostrato, quando ha accolto la predicazione, considerandola non semplice parola umana, bensì parola divina, che opera meraviglie in colui che la riceve: «Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti» (2,13). L’efficacia della parola rappresenta agli occhi di Paolo la prova che essa è stata recepita con fede, con entusiasmo, facendosi fecondare da essa, al fine di rinnovare la mente e il cuore, oltre a cambiare coloro che ci stanno attorno. Alla fine, bisogna ammettere che ancora una volta Paolo ha dato una lezione di stile pastorale, che non è semplice strategia o pragmatismo, bensì in primo luogo un ambito in cui se non si sa amare coloro che Dio ha posto da pascere, tutto si rivela inutile e controproducente.

 

Vangelo: Matteo 23,1-12

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

 

Commmento del Vangelo in immagini

XXXI DOM TEMP ORD ANNO A

 

Esegesi

Le parole che Gesù pronuncia nel brano evangelico di questa domenica devono naturalmente essere inquadrate nel contesto narrativo matteano: nel capitolo 19 ha avuto inizio una sezione narrativa, che termina proprio con il capitolo 23, dopo il quale si trova il discorso escatologico (capp. 24-25) e, infine, il racconto della passione, morte e risurrezione.

Nell’ambito della sezione narrativa a cui abbiamo fatto riferimento, occorre ancora ricordare che in 21,1-11 si racconta che Gesù è entrato a Gerusalemme, dove avvengono scontri decisivi con le autorità sacerdotali e con gli altri gruppi. Dal momento che Gesù ha definitivamente chiarito la propria posizione rispetto a farisei, sadducei, erodiani, ora ne smaschera le pretese e ne dimostra l’ipocrisia al cospetto delle folle e dei propri discepoli. La polemica con gli esponenti più in vista del popolo ebraico (a cui Gesù, è sempre utile ricordarlo, apparteneva), copre l’intero capitolo 23, del quale questa domenica si leggono soltanto i primi 12 versetti.

Il primo elemento che Gesù prende in considerazione è che gli scribi e i farisei rappresentano la tradizione e si occupano dell’interpretazione della legge mosaica: questo vuol dire essere seduti sulla cattedra di Mosè. Trasmettere la conoscenza della legge è un compito apprezzato da Gesù («Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono»), ma egli ha già, in diverse occasioni, sottolineato la scarsa fedeltà interpretativa e i comportamenti contraddittori di quei «maestri» («ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno»). Esemplificazioni a questo proposito se ne trovano nel brano successivo, in cui i vari casi sono introdotti dall’espressione «guai». Riguardo all’interpretazione della legge, segnaliamo, ad esempio, il confronto che Gesù ha sostenuto relativamente alla questione del divorzio in 19,3-9. L’incoerenza è totale, poiché essi stessi non vivono secondo quanto insegnano: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4).

Non secondaria è la critica all’ostentazione, al mettere in mostra le pubbliche virtù, perché lo scopo non è piacere a Dio bensì trovare la propria ricompensa nell’essere ammirati dagli uomini, come era già stato detto in 6,1-18. Allargare i filatteri (piccole scatole racchiudenti parole della legge e appese al braccio o alla fronte, cf. Es 13,9.16; Dt 6,8 e 11,18), allungare le frange (fiocchi per ricordare i comandi del Signore, cf. Nm 15,18ss), prediligere posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e saluti nelle piazze, oltre a essere chiamati rabbi dalla gente: questa era l’aspirazione degli scribi e dei farisei.

Gesù sa bene che anche tra i suoi discepoli può insinuarsi questo tipo di mentalità, perciò i vv. 8-12 sembrano essere indirizzati proprio a loro. Egli insiste su tre cose: non farsi chiamare rabbi e guida (al v. 10 c’è il termine kategetès, che può essere tradotto anche così), per non anteporre alcun’altra autorità a lui stesso e non perdere il senso della fratellanza; non chiamare nessuno padre, per non anteporre alcun’altra paternità a Dio; sapere che essere più grande significa essere a servizio.

 

Meditazione

All’invettiva profetica contro i sacerdoti infedeli nella prima lettura risponde l’invettiva profetica di Gesù rivolta a scribi e farisei nel vangelo. Entrambi i testi denunciano non solo l’ipocrisia e la doppiezza, ma anche il potere che può essere esercitato da chi detiene un’autorità.

Ai sacerdoti il profeta rimprovera la scissione del loro insegnamento dall’ascolto della Parola di Dio, l’unica che può dare fondamento, contenuto e autorevolezza alla loro parola. Senza la Parola di Dio, il sacerdote non ha nulla da dire, essendo il suo ministero un servizio della Parola di Dio.

L’accusa contro «l’agire perfido» (Ml 2,10) colpisce il tradimento della fiducia. Chi riveste una responsabilità religiosa non può non essere cosciente della valenza simbolica della sua persona: egli deve pertanto essere fidabile e credibile. Se tradisce la fiducia che altri ri-pongono in lui, diviene responsabile anche dell’eventuale allontanamento da ciò egli rappresenta nel suo ministero.

Intendere la pagina di Matteo come antigiudaica e le parole di Gesù come rivolte esclusivamente a scribi e farisei, significa non comprendere l’intenzione del testo (che dal v. 8 ha di mira i discepoli e dunque i cristiani) e cadere nell’ipocrisia denunciata da Gesù stesso. Commentando i versetti 5-7 Gerolamo ha scritto: «Guai a noi, miserabili, che abbiamo ereditato i vizi dei farisei». Le parole di Gesù colpiscono il clericalismo cristiano e riguardano vizi religiosi, non giudaici. Le situazioni denunciate da Gesù in Mt 23 sono nostre, tutte, «nessuna esclusa: da quelle ridicole, ma non per questo meno pericolose – i paludamenti, i titoli, i posti d’onore – a quelle ancor più gravi: l’intellettualismo, il verbalismo, il proselitismo, la casistica, il ritualismo, la persecuzione dei profeti vivi e la strumentalizzazione dei profeti morti» (Vittorio Fusco).

Le parole dure di Gesù, che non sono maledizioni ma invettive e lamenti al tempo stesso, parole piene di collera e di sofferenza – le due facce dell’amore tradito -, svolgono una sorta di terapia d’urto nei confronti di una distorsione del magistero e dell’autorità religiosa che occorre definire patologica.

Gesù denuncia l’irresponsabilità della parola. Irresponsabilità che consiste nel dire senza fare, quasi che il parlare di Vangelo dispensi dal viverlo o equivalga al metterlo in pratica. Irresponsabilità che è imposizione agli altri di pesi schiaccianti (l’immagine sottostante è quella dei mercanti che caricavano pesi immensi sulle loro bestie da soma perché li portassero per loro), dunque come comando che vale per l’altro e non per sé e dunque è ignorante del peso che l’altro deve portare e della sua fatica.

Dovremmo anche interrogarci sull’esibizionismo religioso (cfr. Mt 23,5-6), sullo scialo di titoli onorifici (cfr. Mt 23,7-10) rivolti a personalità ecclesiastiche (l’episcopale «Eccellenza» è di derivazione fascista ed è stato applicato ai vescovi per attribuire loro una dignità non minore di quella riservata da Mussolini ai suoi prefetti), sulla fastosità e ricercatezza barocca di vesti liturgiche (cfr. Mt 23,5). Se il Crisostomo criticava chi onorava Cristo all’altare con «vesti di seta» mentre fuori di chiesa vi era chi moriva di freddo per la nudità, Bernardo di Clairvaux scriveva a papa Eugenio III dicendogli che «Pietro non si presentò mai in pubblico bardato di gemme o in cappe di seta o coperto d’oro» e che «sotto questo aspetto, tu non sei il successore di Pietro ma di Costantino» (Della considerazione IV,3,6).

Titoli, vesti, onori: trattandosi di cose esteriori, vale la pena di perder tempo a criticare queste cose? Mi limito a citare le parole di p. Yves Congar: «Si può beneficiare ordinariamente di privilegi senza arrivare a pensare che sono dovuti? O vivere in un certo lusso esteriore senza contrarre certe abitudini? E essere onorati, adulati, trattati in forme solenni e prestigiose, senza mettersi moralmente su un piedistallo? È possibile comandare e giudicare, ricevere uomini in atteggiamento di richiesta, pronti a complimentarci, senza prendere l’abitudine di non più veramente ascoltare? Si può trovare davanti a sé dei turiferari senza prendere un po’ il gusto dell’incenso?».

 

Preghiere e racconti

 

Due gruppi di persone

Le persone si distinguono in due categorie: quelle che cercano e vivono per il successo e quelle per la gioia.

Le prime sono sempre su un palcoscenico disposte a fare ciò che gli altri vogliono per poter applaudire; il secondo gruppo rifugge dal rappresentarsi e sceglie di essere.

In un caso il metro è l’applausometro, nell’altro il rispetto di se stessi innanzitutto, ed è il più difficile.

Conosco persone piene di gioia e non hanno mai ottenuto un applauso. Il mattino guardandosi nello specchio, accennano ad un sorriso. Le persone del successo alla prima sbirciata corrono subito per il trucco. Non sanno stare senza gli altri, devono avere il chiasso dell’approvazione sempre attorno. La persona gioiosa sa che anche da soli si possono fare tante cose utili, e non per se stessi soltanto.

La nostra è la società del successo, dell’esistere per gli altri e come gli altri desiderano: dei perfetti burattini. Un successo misurato dal denaro: tanto maggiore è il successo, tanto più alto è il compenso, più grande l’auto e più lunga la barca già ormeggiata in un porticciolo o dentro la testa, nella sezione del desiderio. Questo è anche il programma di molti giovani e di molti genitori: tentare la fortuna che conduca al successo.

 

Strumenti accidentali

Gli apostoli furono considerati dal Cristo come rappresentanti degli altri credenti, o piuttosto come i suoi propri rappresentanti. In realtà, egli è il solo e l’unico a sedersi sul trono del regno; è la sola autorità del suo impero, pur essendo invisibile. Essi sono solo i suoi reggenti, dei semplici viceré, in sua assenza, e qualunque sia il loro potere, non è un potere che possiedono in proprio, ma un potere che viene da lui; e come questo potere non ha la sua origine in loro, così non ha la sua fine in loro. Essi sono stati solo strumenti accidentali, benché particolarmente favoriti, del compimento della prodigiosa opera del Cristo… E quali che siano stati i loro onori e i loro poteri, non è necessario immaginare che questi onori e questi poteri siano finiti con loro, dal momento che non li avevano mai posseduti veramente in proprio.

(J.H. Newman, Sermoni sui temi del giorno 16)

 

Grazie, Signore (Lc 5,27-32)

Signore, ti ringrazio perché mi hai messo al mondo:

aiutami perché la mia vita

possa impegnarla per dare gloria a te e ai miei fratelli.

Ti ringrazio per avermi concesso questo privilegio:

perché tra gli operai scelti, tu hai preso proprio me.

Mi hai chiamato per nome

perché io collabori con la tua opera di salvezza.

Grazie perché il mio letto di dolore è fontana di carità,

è sorgente di amore.

Di amore per te, anche di amore per tutti i fratelli.

Signore, io seguo te più da vicino, in modo più stretto.

Voglio vivere in un legame più forte

per poter essere più pronto a darti una mano,

più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti

possano essere salutati da chi sta a valle.

Concedimi il gaudio di lavorare in comunione

e inondami di tristezza ogni volta che, isolandomi dagli altri,

pretendo di fare la mia corsa da solo.

Salvami, Signore, dalla presunzione di sapere tutto.

Dall’arroganza di chi non ammette dubbi.

Dalla durezza di chi non tollera i ritardi.

Dal rigore di chi non perdona le debolezze.

Dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.

Toccami il cuore e rendimi trasparente la vita,

perché le parole, quando veicolano la tua,

non suonino false sulle mie labbra.

(Don Tonino Bello)

 

«La messa è finita, andate in pace!»

Al termine della Messa il prete ci congeda con la formula: “La Messa è finita, andate in pace!”. Sono sempre tentato di correggere: andate, perché la Messa non è finita, non finisce mai. Questo infatti è un inizio, non una conclusione. Il sacerdote non vuol dire:   “Bravi, avete fatto il vostro dovere, potete andare tranquilli”; al contrario, è come se dicesse: “Adesso tocca a voi, è il vostro momento”. Dunque non un segnale di “riposo”, ma di “partenza” per una missione. Significa “agganciarsi” alla vita quotidiana. Ci si alza dalla mensa eucaristica e si attacca a lavorare, a costruire il Regno.

(Alessandro Pronzato).

 

L’albero generoso

C’era una volta un albero che amava un bambino. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni.

Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arrampicava sul suo tronco e dondolava attaccalo ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti eppoi, insieme, giocavano a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all’ombra dell’albero, mentre le fronde gli cantavano la ninna-nanna.

Il bambino amava l’albero con tutto il suo piccolo cuore.

E l’albero era felice.

Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l’albero rimaneva spesso solo.

Un giorno il bambino venne a vedere l’albero e l’albero gli disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi sugli alberi e per giocare», disse il bambino, «io voglio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace, rispose l’albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio, e va’ a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice».

Allora il bambino si arrampicò sull’albero, raccolse tutti i frutti e li portò via.

E l’albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritornare… E l’albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l’albero tremò di gioia e disse:

«Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l’altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampicarmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa.

Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa» disse l’albero. «La mia casa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e costruirti una casa. Allora sarai felice».

Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per costruirsi una casa. E l’albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando ritornò, l’albero era così felice che riusciva a malapena a parlare.

«Avvicinati, bambino mio», mormorò «vieni a giocare».

«Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare», disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l’albero. «Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una barca per fuggire. E l’albero fu felice… ma non del tutto.

Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l’albero «ma non resta più niente da donarti… Non ho più frutti».

«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.

«Non ho più rami», continuò l’albero «non puoi più dondolarti».

«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami»,disse il bambino.

«Non ho più il tronco», disse l’albero. «Non puoi più arrampicarti».

«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.

«Sono desolato», sospirò l’albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa… ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto…».

«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».

«Ebbene», disse l’albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuole per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».

Così fece il bambino.

E l’albero fu felice.

 

(Shel Silverstein)

 

Dagli scritti di Madre Teresa di Calcutta

Il frutto del silenzio è la preghiera,

il frutto della preghiera è la fede,

il frutto della fede è l’amore,

il frutto dell’amore è il servizio,

il frutto del servizio è la pace.

 

Il servo di tutti

A volte, Signore, la piccolezza del mio essere creatura mi appare inadeguata e insufficiente a contenere i miei più grandi desideri. E faccio di tutto per rompere quelli che avverto come limiti al mio bisogno di espandermi, di ‘sentirmi grande’: essere più degli altri, ricevere più degli altri, contare più degli altri.

Tu vieni incontro a questo prepotente bisogno di emergere e mi proponi di metterlo a servizio dell’amore, facendomi l’ultimo di tutti, il servo di tutti, il più pacifico, il più mite, il più misericordioso, accogliente verso tutti…

Manda dall’altro il tuo Spirito di sapienza, perché faccia della mia vita un’opera di pace.

 

Preghiera

Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia. Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito perseguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli. Permettici di riconoscere le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’autenticità della nostra relazione con te e fra di noi.

Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi. Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare. Ci impegniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.

Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di diventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.

 

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

La scuola, ambiente che educa alla vita

Corso nazionale di aggiornamento per docenti di religione

“L’insegnamento della religione cattolica propone certo una visione della vita, rispondendo secondo la tradizione cristiana-cattolica alle domande religiose che ogni uomo porta in sé; ma perché la scuola risulti luogo di vita, anche l’insegnante di religione cattolica deve fare la sua parte”. Don Vincenzo Annichiarico, Responsabile del Servizio Nazionale Irc, ha così introdotto a Montesilvano (PE) il corso nazionale di aggiornamento per 130 docenti di religione cattolica, in servizio nelle scuole statali di ogni ordine e grado (24-26 ottobre).
“Il Corso di quest’anno intende affrontare il tema dell’educare alla vita, facendo attenzione allo specifico ambito scolastico, concepito anch’esso come ambiente di vita”, ha aggiunto, citando quindi il Card. Bagnasco: “Siamo sempre più convinti che il cristianesimo con la sua presenza cattolica, come pensiero, come cultura, come esperienza politica e sociale, è un fattore fondamentale e imprescindibile nella storia del Paese, e con la sua forza è in grado di animare le molte culture che oggi vi coabitano, al fine di promuovere la civiltà dell’amore”.
Accanto alle relazioni del Prof. Lorenzo Ornaghi, Rettore Magnifico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, di Mons. Nunzio Galantino, Responsabile del Servizio Nazionale per gli Studi Superiori di Teologia e di Scienze Religiose e del Prof. Giuseppe Pulcinelli, Docente di materie bibliche presso la Facoltà di Teologia e l’ISSR “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense di Roma, il corso prevede anche dei laboratori tematici che riguarderanno la competenza dell’Idr in campo biblico-teologico in campo antropologico, in campo storico-culturale e in campo pedagogico-didattico. Un ulteriore laboratorio è incentrato sul territorio e riguarderà lo studio dell’arte figurativa e del linguaggio simbolico religioso nel contesto locale.

Il villaggio di cartone

 

l’ultimo film di Ermanno Olmi

 

 

La Trama

Il film narrerà dell’incontro tra due culture e varie etnie, quella africana e quella europea, quando un gruppo di clandestini prende possesso di una vecchia chiesa per safamarsi. La storia viene osservata attraverso gli occhi di un vecchio prete.

Piccola curiosità: l’anziano sacerdote è interpretato da Joe R. Landsale, sceneggiatore ma soprattutto apprezzato scrittore.

 

Il villaggio di cartone
Titolo originale: Il villaggio di cartone
Italia: 2011. Regia di: Ermanno Olmi Genere: Drammatico Durata: 87′
Interpreti: Michael Lonsdale, Rutger Hauer, Alessandro Haber, Massimo De Francovich, El Hadji Ibrahima Faye, Irma Pino Viney, Fatima Alì, Samuels Leon Delroy, Fernando Chironda, Souleymane Sow, Linda Keny, Blaise Aurelien Ngoungou Essoua, Heven Tewelde, Rashidi Osaro Wamah, Prosper Elijah Keny
Sito web ufficiale:
Sito web italiano:
Nelle sale dal: 07/10/2011

 

Recensione di: Francesca Caruso
L’aggettivo ideale: Simbolico

Il pluripremiato regista e sceneggiatore Ermanno Olmi torna dietro la macchina da presa realizzando un film che fotografa “ una realtà simbolo” – come ha spiegato lui stesso.
Vi si racconta il viaggio emotivo di un vecchio prete, che vede la sua chiesa smantellata pezzo dopo pezzo. Assiste impotente all’azione degli operai che staccano dalle pareti i quadri e il grande Crocifisso. Durante la notte, però, la chiesa si anima di nuova vita: vi trovano rifugio un gruppo di emigranti di passaggio, i quali chiedono al vecchio un po’ di carità cristiana.

Il maestro Olmi ha scritto il film come fosse un apologo secondo una visione teatrale.
“Nell’apologo la sublimazione è fatta dell’immagine simbolo e dalla parola simbolo, i personaggi parlano come un libro stampato” – spiega il regista – “ ed è stato volutamente realizzato così”. Il cineasta si è particolarmente soffermato sull’idea di carità, di fratellanza e di amore verso il prossimo. Si dice ama il prossimo tuo come te stesso, ebbene il vecchio prete trova dentro sé quel coraggio che lo porta a mettere in pratica quelle che, fino a quel momento, sono state parole dette durante un’omelia ai suoi fedeli.

L’individuo per trovare rassicurazioni e protezione ha da sempre costruito un’infinità di chiese: la chiesa religiosa è solo una delle tante possibilità, ma c’è anche quella in cui risiede il potere economico, nella quale molti si rifugiano. L’immagine della chiesa vuota dà l’idea di ciò che Olmi ha voluto sottolineare, ovvero quella di un essere umano che liberato dalle sue sovrastrutture sociali lascia emergere la parte migliore di sé. Il villaggio di cartone del titolo è formato da un gruppo di individui, con nulla addosso se non i loro vestiti, che mettono su una mini baracca fatta di pannelli e tendoni, sotto i quali dormire e attendere di riprendere il cammino.

Per ciò che riguarda l’ambientazione, tutti i personaggi si muovono in un unico ambiente, che possiede una forte espressione teatrale. Lo spessore teatrale si palesa anche nel modo in cui parlano i personaggi, nei loro intervalli e nelle inquadrature. Quando per la prima volta viene aperto il portone della chiesa si nota immediatamente che aldilà non c’è nulla, se non il vuoto di un proscenio. Il cast artistico vede la presenza di un bravissimo Michael Lonsdale (il vecchio prete), affiancato da Rutger Hauer (il sagrestano) e Alessandro Haber (il graduato), che rendono merito tanto quanto gli interpreti secondari a un film che pone lo spettatore in una posizione riflessiva, senza essere pedante.

Nella sua lunga carriera, il regista si è interessato di diverse tematiche sociali, che gli stavano a cuore e di cui ha reso partecipe lo spettatore. Ha parlato del mondo del lavoro, della vita dei contadini bergamaschi (L’albero degli zoccoli, 1979 – Palma d’Oro al Festival di Cannes), del mondo religioso e di molto altro. In questo film vuole far arrivare un concetto che supera qualsiasi argomento religioso: “il bene vale più della fede” – fare del bene non riguarda solo chi crede, ma riguarda il cuore di ogni essere umano, sia esso laico o credente.

“Il villaggio di cartone” non vuole imporre una lezione, ma far riflettere sui comportamenti che ognuno ha nei confronti del prossimo, qualunque esso sia. Olmi, ancora una volta, crea un linguaggio che va dritto al punto, mostrando ciò che c’è dentro l’involucro di “cartone”.

 

Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi
in “Avvenire” del 19 ottobre 2011

 

Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle  rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei  suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà”  dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la  ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è  seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori  invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico.
Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede». Subito,  un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del  film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»?  Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi  piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e  drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati  del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano». Ugualmente, Marina Corradi insiste:  «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per  portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene.
Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel  profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con  Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e  presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo  13 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere  nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano». Come vede, caro direttore, mi  appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo  l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E  mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto  di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani  tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai  radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme,  sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano  e cambiano i nostri comportamenti.
Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella  Sua e nella nostra incarnazione.

 

 

Bazoli: Olmi
e il primato della carità
Caro direttore,
il «Corriere della sera» ha pubblicato in forma di articolo venerdì scorso una mia presentazione e interpretazione dell’ultimo film di Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, quella che avevo anticipato nel dibattito svoltosi il 2 ottobre al Piccolo Teatro Strehler di Milano, in occasione della presentazione in anteprima del film. Solo successivamente – per mia negligenza – sono venuto a conoscenza di due servizi che erano nel frattempo comparsi su «Avvenire».

 

 

La lettura di tali articoli e in particolare delle profonde e convincenti riflessioni di Marina Corradi mi stimola a inviarle questa lettera, perché mi offre l’opportunità di completare il discorso svolto in quell’articolo con alcune puntualizzazioni che nell’articolo sono soltanto accennate alla fine. Il racconto-apologo del film di Olmi – focalizzato sulla chiesa dismessa in cui trova rifugio e accoglienza e assistenza da parte del vecchio parroco un gruppo di immigrati – ha un significato simbolico che appare a tutti molto chiaro: l’edificio sacro ha perso la sua originaria destinazione a luogo di culto divino e di preghiera (il che evoca la crescente secolarizzazione del mondo attuale); ma ritrova una vocazione nobile e sacra di accoglienza e di servizio di carità nei confronti di poveri uomini diseredati.

È proprio il significato di questa rappresentazione che può essere interpretato in modo diverso per quanto riguarda il rapporto tra fede e carità. Tale rappresentazione vuole significare che l’esercizio della carità si pone in una linea religiosa di continuità con la fede e la pratica del culto divino ovvero che è destinato a sostituirlo? Nel primo caso, il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo: un richiamo che nei confronti della comunità dei credenti, anche come rimedio alla secolarizzazione e all’allontanamento distacco del mondo contemporaneo dalla fede e dalla pratica religiosa, vale come monito a intensificare il loro impegno religioso e umano in tale direzione.

Nel secondo caso, invece, il significato sarebbe completamente diverso e si collocherebbe – concordo con quanto dice Marina Corradi – al di fuori della visione e dell’esperienza religiosa e cristiana, che trova il suo cuore nel rapporto diretto e personale del credente con la figura divina di Cristo e che proprio da questo rapporto trae anche l’ispirazione per l’esercizio della carità. A me non pare che il film debba essere interpretato in questo senso. È vero che l’inquietudine e gli interrogativi che assillano il vecchio prete lo inducono anche a dubitare del legame tra fede e carità («Per fare il bene non occorre la fede»).

Ma è pur vero che, sin dalla sequenza iniziale del film, l’anziano e tormentato parroco si rivolge di continuo al Cristo Crocifisso. Questo è l’interlocutore cui egli confida – si può dire nelle cui braccia ripone – i dubbi che insidiano la sua fede e che sono aggravati dalla solitudine (perché il vuoto della chiesa sembra riflettersi nel suo cuore). Nel mio commento ho ritenuto corretto – oltre che appropriato alla sede di presentazione del film – non sostituirmi all’autore dando delle risposte.

Mi sono limitato a ricordare, alla fine, che la condivisione delle fatiche e delle sofferenze degli uomini «non è una funzione vicaria ma di integrazione dell’amore di Dio e della preghiera». La religiosità cristiana si nutre inscindibilmente della carità (definita proprio ieri dal Papa «l’abito nuziale» dei cristiani) e dell’amore di Dio.

Quello che qui posso aggiungere è che tutto ciò trova conferma nella realtà incontestabile che l’impegno maggiore a favore di coloro che nella società sono i più deboli e indifesi – oggi, in particolare, gli immigrati – è sostenuto nel nostro Paese principalmente da organizzazioni della Chiesa e del volontariato cattolico. E non dubito che lo stesso Olmi riconosca l’immenso valore delle opere di carità che in tutte le epoche della storia sono state ispirate dalla fede.

Giovanni Bazoli

 

Una ‘Settimana contro la violenza’

Una ‘Settimana contro la violenza’ per sensibilizzare gli studenti, ma anche gli insegnanti e i genitori, sul tema della prevenzione e del contrasto ad ogni forma di discriminazione e violenza. A presentare l’iniziativa (che si è tenuta dal 10 al 15 ottobre e continuerà per tutto l’anno scolastico), giunta alla terza edizione, i ministri delle Pari opportunità Mara Carfagna e dell’Istruzione Maria Stella Gelmini.

Durante la conferenza stampa, presso il dicastero guidato da Carfagna, i promotori hanno tracciato le linee guida dell’iniziativa, che mira ad aprire un confronto sui temi del rispetto e del contrasto alla violenza. “Spezzare i pregiudizi”, questo l’obiettivo indicato dal ministro delle Pari opportunità.

In particolare, ha spiegato Carfagna, occorre “sensibilizzare contro le discriminazioni e la violenza, indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla religione“. D’accordo Gelmini, che ha rilevato: “Bisogna educare al rispetto dell’altro e delle regole, contro ogni forma di violenza“. L’iniziativa è giunta alla terza edizione e, ha concluso Carfagna, “spero possa continuare nei prossimi anni“.

Apprezzamenti per l’iniziativa si sono avuti anche dall’opposizione, che però ha anche invitato a fare di più contro il bullismo e l’omofobia. Anna Paola Concia, deputata del Partito Democratico ha dichiarato: “Se vogliamo davvero costruire una società che rifiuta la violenza e le discriminazioni dobbiamo partire proprio dalla scuola. Anche perché gli studi di settore ci dicono che gli adolescenti gay esposti a fenomeni di bullismo, raggiungono alti livelli di dispersione scolastica. La settimana contro la violenza istituita dai ministri Carfagna e Gelmini è quindi un’ottima iniziativa, ma non basta“.

Concia ha anche annunciato la presentazione a breve di “una proposta di legge che istituisca all’interno del MIUR un’osservatorio permanente contro la violenza e le discriminazioni, che si occupi anche di bullismo omofobo e transfobico. Spero che i ministri competenti siano disposti a collaborare per rendere la scuola un luogo sicuro e inclusivo per tutti gli alunni“.




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XXX Domenica del tempo Ordinario (Anno A)

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno A

Prima lettura: Esodo 22,20-26

 

Così dice il Signore:  «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.

Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse. Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».

 

v Il brano è preso da quello che gli esegeti (in base a Es 24,7) chiamano “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22-23,19), inserito fra la teofonia del Sinai, col dono del decalogo (Es 19,1-20,21), e il rito della stipulazione (Es 24). Offre un chiaro esempio di alcuni precetti sociali profondamente motivati dalla opzione fondamentale dell’amore di Dio e del prossimo. Introducono bene al Vangelo.

Per forma e contenuto si possono dividere in due gruppi.

Il primo gruppo (vv. 20-23) si occupa dei comportamenti verso le persone emarginate di allora; il forestiero, la vedova e l’orfano, un trinomio spesso ricorrente nei profeti. La forma è apodittica: esprime un comando, accompagnato da una motivazione.

Prima proibisce le molestie e le oppressioni verso il forestiero (gher), cioè colui che ha lasciato il proprio ambiente di origine, per motivi economici o politici o di altro genere, e si è inserito nel popolo di Israele. Di solito era persona povera e indifesa, facilmente vittima di soprusi e sfruttamenti.

Motivo della proibizione: anche Israele è stato forestiero in Egitto. Un modo concreto di dire: ama il tuo prossimo come te stesso! A monte c’è pure il motivo teologico, che domanda ancora più amore. A Israele, infatti, Dio dice anche: «La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv 25,23). Col cristianesimo questo motivo diventa universale e perenne. I discepoli di Gesù sono «nel mondo» ma non «del mondo» e impegnati a redimerlo (cf. Gv 17,11-19). Per san Paolo «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20) e «finché abitiamo nel corpo siamo in esilio»: qui e là occorre essere graditi a Dio (cf. 2Cor 5,6-9; e pure 1Pt 2,11; Eb 13,14). La lettera A Diogneto infine delinea mirabilmente i cristiani nel contempo cittadini e stranieri e benefattori del mondo.

Il brano liturgico proibisce poi i maltrattamenti alla vedova e all’orfano, le persone prive di sostegno per la morte del marito e del padre, quindi esposte a tanti abusi e sopraffazioni. Il motivo qui è subito teologico: Dio stesso si farà loro vindice e punirà i trasgressori con la pena del contrappasso; le loro mogli diventeranno vedove e i loro figli orfani.

Il secondo gruppo (vv. 24-26) ha due precetti su cose necessarie al prossimo indigente. La forma è casuistica: pone un caso e detta la norma, aggiungendo però anche qui delle motivazioni.

Il primo caso riguarda il prestito di denaro e proibisce l’usura, in modo assoluto, verso il povero. Il Deuteronomio riserva questa norma verso ogni fratello israelita e consente di riscuotere interessi dallo straniero (cf. Dt 23,20-21). In pratica i comportamenti devono essere stati piuttosto vari. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso parla di depositi in banca e di interessi (cf. Mt 25,27 e Lc 19,23). Le norme bibliche comunque sono sempre a tutela dei poveri e deboli e opposte ai profittatori.

Il secondo caso riguarda il pegno preso a garanzia della restituzione di un prestito. Se si tratta del mantello, al tramonto bisogna renderlo al proprietario, perché gli serve anche da coperta. Il motivo è altamente umanitario: il pegno non deve mai compromettere la vita o la salute del debitore. Per questo il Deuteronomio vieta assolutamente di prendere la macina, che serve a fare il pane (Dt 24,6), e stabilisce che non si entri in casa a prendersi il pegno, ma si aspetti che il proprietario lo porti fuori. Al motivo umanitario il Codice dell’alleanza aggiunge ancora quello teologico di Dio che ascolta il lamento dell’oppresso, perché è misericordioso, come ha già fatto con Israele in Egitto.

Da notare come questa legislazione ancora primitiva è assai rispettosa nei dettagli pratici e molto ricca nelle motivazioni umane e teologiche.

 

Seconda lettura:  1 Tessalonicesi  1,5-10


Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.

E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia.

Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acàia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.  Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.

 

v A causa della persecuzione, Paolo era dovuto fuggire da Tessalonica, poche settimane dopo la fondazione di quella chiesa, ed era rimasto in ansia per i riflessi negativi che il fatto poteva avere. Ma Timoteo, inviato a supplirlo (1Tess 3,2,6), gli ha portato ottime notizie. Allora scrive questa lettera, che storicamente è il primo documento del Nuovo Testamento. La liturgia ne propone l’esordio, del quale riporta i passaggi finali, dopo solo un cenno di quelli iniziali, sul soggiorno dell’apostolo fra i Tessalonicesi, tutto proteso al bene (v. 5).

Esprime una serie di complimenti ai destinatari, perché nella vita pratica si sono fatti imitatori dell’apostolo e di Cristo, anche nella tribolazione (v. 6), perché sono diventati modelli a tutti i credenti della Grecia, nella quale contribuiscono con la testimonianza alla diffusione della parola del Signore (vv. 7-8), e perché la loro conversione dagli idoli morti al Dio vivente li ha posti nell’attesa fattiva del Cristo risorto, che libera il mondo dall’ira divina (vv. 9-10). Nei versetti sulla conversione, gli esegeti vedono un sunto della catechesi orale di Paolo: lo suggerisce la successione di frasi brevi e simmetriche che riecheggiano la sua predicazione ai pagani, in particolare quella agli Ateniesi di poco anteriore alla lettera (cf At 17,22-31).

Presa in tutto il suo contesto, anche questa seconda lettura ha legami col tema dell’amore di Dio e del prossimo ispiratore di tutti i comportamenti pratici, che è proprio delle altre due. Perché Paolo scrive i suoi pensieri in ginocchio, per così dire, dato che li esprime nel ringraziamento a Dio e li attinge dalla preghiera continua per i Tessalonicesi, come dice all’inizio dell’esordio (1Tess 1,2-5). E si compiace per la loro fede impegnata, per la carità operosa e per la speranza perseverante nel Signore Gesù Cristo. Colloca quindi se stesso e i suoi cristiani in rapporto profondo con la fonte delle loro esperienze e comportamenti. Inoltre pensiero dominante è il ricordo della conversione (vv. 9-10), che ha implicato una opzione fondamentale, in risposta all’iniziativa di Dio che li ha eletti (v. 4): essa che va continuamente rinnovata e coltivata nella preghiera. Richiamato questo, a Paolo non è necessario impartire tanti precetti.

 

Vangelo: Matteo 22,34-40


In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».  Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

 

Il vangelo in immagini:

XXX DOM TEMP ORDINARIO (A)

 

Esegesi


Siamo alla quarta delle cinque controversie affrontate da Gesù a Gerusalemme prima della passione, riferite dai Sinottici. Sommi sacerdoti, sadducei, farisei ed erodiani, ormai determinati a ucciderlo, si alternano nel contestargli le prese di posizione e gli insegnamenti. In questo episodio, Matteo abbrevia il corrispondente testo di Marco, dove la controversia si conclude con un complimento reciproco tra Gesù e un dottore della legge, che sembra staccarsi dal coro degli avversari.

«Qual è il grande comandamento della legge?»

L’interlocutore si riferisce al libro della legge o Torâh, contenuta nel Pentateuco e sancita con l’Alleanza tra Dio e Israele, domanda quale sia l’impegno basilare di tale Alleanza, dal quale deriva ogni altro. La stipulazione di essa infatti, con opportuni adattamenti, ricalcava lo schema dei patti di vassallaggio tra i popoli dell’area mesopotamica e hittita. Prima avevano un prologo, con la presentazione dei contraenti e dei rapporti già intervenuti fra loro. Poi invitavano all’adesione reciproca totale e perenne che in termini attuali possiamo dire anche una opzione fondamentale: questo è il comandamento «grande» al quale derivano tutti gli altri. Esso è molto chiaro in Dt 6,4-5 nella preghiera «Ascolta, Israele», tuttora recitata quotidianamente, da dove è presa la risposta di Gesù, ed è racco-mandato particolarmente nelle omelie dei capitoli di Dt 5-11.

I patti di vassallaggio elencavano poi le clausole particolari derivate. Quindi era previsto il rito sacro per la stipulazione dell’Alleanza. Infine erano enumerate le maledizioni o penalità per le infrazioni e le benedizioni o vantaggi della fedeltà reciproca.

In questa prospettiva, il dottore della legge non ha proposto a Gesù una sottigliezza rabbinica, ma lo ha sfidato sull’impianto fondamentale della sua fede. Ed ha avuto una risposta adeguata, con l’aggiunta anzi che il secondo comandamento, dell’amore al prossimo, è «simile» al primo, del quale è come l’altra faccia: insieme costituiscono la opzione

fondamentale della fede biblica. Per questo Gesù può dire che da ambedue dipendono tutte le sacre scritture, legge e profeti.

Con questa impostazione diventa chiaro pure per noi che i comandamenti dell’amore non sono propriamente comandati (che amore sarebbe?), ma conseguenti all’impegno dell’alleanza con Dio, nella fede.

Similmente gli altri comandamenti, sviluppati sulla base di essi, non sono soltanto legge naturale resa positiva con la promulgazione del decalogo, ma impegni presi tuttora in una adesione a Dio nella fede e nell’amore.

Una eloquente conferma, per contrasto in negativo, viene da certi comportamenti oggi diffusi: dove sono carenti le opzioni fondamentali di amore a Dio e al prossimo, sono trascurati e calpestati anche tutti fili altri valori morali.

 

Meditazione


La prima lettura presenta alcune leggi tratte dal più antico corpus legislativo della Torâh (il codice dell’alleanza); nel vangelo Gesù, interrogato su quale sia il più grande comando presente nella Torâh, risponde citando il comando di amare Dio con la totalità del proprio essere (Dt 6,5; Mt 22,37-38) e accostandovi,  come secondo e simile, il comando di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18; Mt 22,39). La Torâh, in bocca a Gesù e vissuta da Gesù, è vangelo.

Le leggi e i precetti presenti nell’Antico Testamento, spesso ignorati o conosciuti male dai cristiani, sono testi di ricchezza perenne (come «perenne» è il valore dell’Antico Testamento per i cristiani: Dei Verbum 14) e contengono spesso un importante insegnamento che tende all’umanizzazione dell’uomo. La legge che prescrive al creditore di restituire al povero «al tramonto del sole» il mantello preso in pegno è motivata con una affermazione che esprime la compassione per il sofferente e con una domanda che vuole svegliare l’umanità del creditore nei confronti del misero, che è un essere umano ben prima e ben più di un debitore: «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?» (Es 22,25-26). Qui la legge afferma che la vita di un uomo mette dei limiti a ciò che si è in diritto di pretendere da lui.

La legge che proibisce di opprimere l’immigrato e di sfruttarlo è motivata coinvolgendo il destinatario della legge: «perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). Questa legge chiede un lavoro interiore, chiede di fare memoria delle sofferenze subite dai padri dei destinatari della legge, quando quelli si sono trovati a vivere e a lavorare da stranieri nel paese d’Egitto. La memoria divenuta legge può ispirare un rapporto umano con chi ora è immigrato nel proprio paese.

La pagina evangelica pone in stretto rapporto la Scrittura e l’amore. La Scrittura che chiede di amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi si compie nell’amore fattivo e concreto: la prassi dell’amore è compimento della Scrittura, è esegesi esistenziale. Si narra che abba Serapione, incontrato un giorno un povero intirizzito dal freddo, si sia denudato per coprirlo con il proprio abito e che, incontrato un uomo che veniva condotto in prigione per debiti, abbia venduto il suo vangelo per pagare il suo debito e sottrarlo alla prigione. Tornato nella sua cella nudo e senza vangelo, a chi gli chiese: «Dov’è il tuo vangelo?», rispose: «Ho venduto colui che mi diceva: “Vendi quello che possiedi o dallo ai poveri”». Il comando diviene grazia, la pagina diviene vita, lo sta-scritto diviene relazione umana.

Il comando di amare il prossimo come se stessi significa anche che, amando il prossimo, io amo veramente me stesso. L’amore per l’altro concreto, con un nome, un volto, un corpo, una storia, mi converte alla realtà e mi conduce a uscire da me, a essere veramente me stesso proprio nell’uscire da me per incontrare l’altro. La nostra verità è personale e relazionale.

Amore degli altri e amore di sé sono spesso contrapporti come ciò che è virtuoso a ciò che è peccaminoso. In realtà, amare gli altri come se stessi implica la capacità di sviluppare e nutrire un sano amore di sé. «Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente» (Erich Fromm). Vi è il rischio di un altruismo nevrotico che porta a voler amare gli altri disprezzando se stessi e ritenendo indegno del cristiano l’amore di sé: ma agli occhi di Dio anch’io sono «un altro», sono un essere umano amato personalmente da Dio, e non ho alcun diritto di disprezzare ciò che Dio stesso ama.

La somiglianza (Mt 22,39) dei comandi di amare Dio e di amare il prossimo è anche la somiglianza dell’amore per Dio e per il prossimo. Noi abbiamo un solo modo di amare. E l’amore del prossimo è criterio di autentificazione del nostro amore di Dio: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

 

Preghiere e racconti


Il cantus firmus

Ogni grande amore comporta il rischio di farci perdere di vista quella che amerei definire la polifonia della vita. Mi spiego. Dio e la sua eternità vogliono essere amati da noi pienamente. Ma quest’amore non deve ne nuocere a un amore terreno ne indebolirlo; deve essere in qualche modo il cantus fìrmus attorno al quale cantano le altre voci della vita. L’amore terreno è uno di quei temi in contrappunto che, pur avendo la loro piena indipendenza, si ricollegano comunque al cantus fìrmus. Là dove il cantus fìrmus è chiaro e distinto, il contrappunto può esprimersi con la maggior potenza possibile. I due sono inseparabili e tuttavia distinti, per usare il linguaggio del concilio di Calcedonia, come la natura umana e la natura divina del Cristo. La polifonia musicale è così vicina a noi e così importante per noi forse proprio per il fatto di essere l’immagine musicale di questo dato cristologico, e quindi anche della nostra vita cristiana?

(D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere)

 

Chi non ha l’amore

Chi non ha l’amore guarda gli alberi

e non vede mai bruciare le loro foglie.

Non vede l’uccello, non vede l’ape

né il giorno che ritorna dalle Cicladi.

 

Chi non ha l’amore non sente gli alberi

la musica dei muschi sui loro tronchi.

 

L’autunno si fa uggioso, gli uomini

Dicono – È finita la bella stagione! –

 

Essi non sanno – mai sapranno –

che basta un uccello a farci svernare.

 

L’ape, l’uccello, gli alberi, l’azzurro…

Chi non ha l’amore non ne è cosi certo!

(Ch. le Quintrec)

 

Aprire il cuore all’amore di Dio

E così, più impari ad amare Dio, più impari a conoscere e a voler bene a te stesso. La conoscenza e l’amore di noi stessi sono frutti della conoscenza che abbiamo di Dio e dell’amore che nutriamo per lui. Ora puoi comprendere meglio il significato del grande comandamento: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,37-38). Se apriremo totalmente il cuore all’amore di Dio, avremo per noi stessi un amore che ci darà la forza di amare il prossimo con tutto il cuore. E nel segreto del nostro cuore che impareremo a conoscere la presenza nascosta di Dio; e con questa conoscenza spirituale potremo vivere una vita d’amore. Ma tutto questo esige disciplina. La vita spirituale richiede una disciplina del cuore. La disciplina è il distintivo del discepolo di Gesù. Il che però non mira a crearti difficoltà, ma a mettere a tua disposizione uno spazio interiore dove Dio possa toccarti con un amore che ti trasforma completamente.

(Cf. H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 2008).

 

A causa dell’amore per lui, dimostreremo amore per gli altri

Cerchiamo, vi prego, di amare Cristo. Egli da te non desidera nient’altro se non che tu lo ami con tutto il cuore e compia i suoi comandamenti. Chi lo ama come si deve, evidentemente si sforza anche di adempiere i suoi comandamenti. Quando infatti si comporta con sincerità nei confronti del prossimo, cerca di fare di tutto per attirare a sé l’amato. Anche noi, dunque, se amiamo con sincerità il Signore, possiamo adempiere i suoi comandamenti e non far nulla di ciò che può irritare l’amato.

Questo è il regno dei cieli, questo il godimento dei beni, questo ottiene i mille beni: l’amare sinceramente e nel modo dovuto. Lo ameremo sinceramente se, a causa dell’amore per lui, dimostreremo grande amore per gli altri, servi al pari di noi. Sta scritto: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti» (Mt 22,40), cioè dall’amare il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come e stesso (cfr. Mc 12,30-31). Questo è il culmine di tutte le virtù, questo è il fondamento. All’amore verso Dio si aggiunge anche l’amore verso il prossimo. Colui che ama Dio, infatti, non deve disprezzare suo fratello, e non deve stimare il denaro più di un membro del suo corpo, e deve mostrare una grande benevolenza nei suoi confronti, ricordando ciò che Cristo ha detto: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E considerando che il Signore dell’universo ritiene come reso a se stesso il servizio prestato a un compagno, farà tutto con grande sollecitudine e nell’elemosina mostrerà una grande generosità; non rifiuterà la miseria apparente del povero, ma guarderà alla grandezza di Colui che ha promesso di accogliere come compiuta per sé stesso qualunque cosa operata a favore di un povero. Non tralasciamo, dunque, il profitto delle nostre anime, la medicina delle nostre ferite. E questo, infatti, è questo che ci offre una medicina tanto efficace da far scomparire le ferite delle nostre anime in modo da non lasciare nessuna traccia, nessuna cicatrice, cosa che non è possibile per le ferite del corpo.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Sulla Genesi, om. 55,3, PG 54,482-483).

 

L’amore incomincia in casa propria

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre”. La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

 

Amare l’altro con umiltà, discrezione e rispetto

«La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. “Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. “Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui».

(Thomas Merton, un monaco trappista).

 

Voglio Te solo, Signore

Ti ho cercato, o Signore della vita,

e tu mi hai fatto il dono di trovarti:

te io voglio amare, mio Dio.

Perde la vita, chi non ama te:

chi non vive per Te, Signore,

è niente e vive per il nulla.

Accresci in me, ti prego,

il desiderio di conoscerti

e di amarti, Dio mio:

dammi, Signore, ciò che ti domando;

anche se tu mi dessi il mondo intero,

ma non mi donassi te stesso,

non saprei cosa farmene, Signore.

Dammi te stesso, Dio mio!

Ecco, ti amo, Signore:

aiutami ad amarti di più.

(Sant’Anselmo di Aosta)

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 92 (2011) 5,  42 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.