V DOMENICA DI PASQUA Lectio – Anno B

Prima lettura: Atti 9,26-31

In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo. Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv. 1-19), l’inizio della sua predicazione (vv. 20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv. 32-43; e. 10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane. La nostra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.

Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.

— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v. 28: «andava e veniva in Gerusalemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf. il greco: parrēsia = zòmenos, v. 28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.

— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v. 29). È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.

— «La Chiesa era dunque in pace» (v. 31). Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pace interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo). La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24

Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chiese dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche). La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).

Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».

a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v. 18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a parole) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso. «Siamo dalla verità» (v. 19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.

b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo. Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv. 20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza. Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»). Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.

c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Gesù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati. Qui il «comandamento» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore generico o sentimentale. Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente. Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamento di Gesù.

Vangelo: Giovanni 15,1-8

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Esegesi

Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35). In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, insistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.

Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio. Esso va collocato nell’insieme del cap. 15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv. 1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la testimonianza del Paraclito (vv. 18 ss.).

— «Io sono la vite vera» (vv. 1.5). Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivelazione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14). In riferimento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera». Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf. Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.

— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv. 1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rapporto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.

— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre:

a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — come dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v. 2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita;

b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppongono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v. 2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v. 6). Dietro queste immagini si intravede la cura estrema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.

Rimanete in me come io in voi (v. 4). Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano. In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).

— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v. 5). La salvezza non dipende soltanto dalla libera adesione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di portare frutti.

Meditazione

È la quinta domenica «di» Pasqua; ossia la quinta volta che torna lo stesso ed unico giorno di Pasqua. Ed è così per tutte le domeniche. Esse tornano fedelmente, quasi segno della fedeltà di Dio; tornano anche se tante volte siamo noi ad essere assenti; tornano perché possiamo resta­re nel giorno di Pasqua e incontrare Gesù risorto. Per questo gli antichi cristiani ripetevano convinti questa affermazione: «non possiamo vivere senza la domenica», ossia «non possiamo vivere senza incontrare Gesù risorto». Potremmo, allora, applicare anche alla domenica e ai giorni della settimana la parabola odierna della vite e i tralci, somigliando la vite alla domenica e i tralci agli altri giorni. Quest’ultimi restano senza frutto se non sono vivificati dallo Spirito che riceviamo nella santa litur­gia della domenica. Restare nella domenica, ossia conservare nel cuore quello che vediamo, ascoltiamo e viviamo nella santa liturgia, vuol dire rendere più fruttuosi i giorni della settimana.

La liturgia di questa domenica sottolinea la necessità di «rimanere» in Gesù, un tema particolarmente caro all’apostolo Giovanni. Nella sua prima lettera afferma: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio e Dio in lui». E nella parabola della vite e i tralci il termine «rimanere» ne è il cuore. Il verbo viene ripetuto ben sette volte nel nostro testo, e nei versetti seguenti altre due volte. L’immagine della vigna, nel suo simbolismo religioso, era molto nota ai discepoli di Gesù. Uno degli ornamenti più vistosi del tempio eretto a Gerusalemme da Erode e che Gesù frequentò era appunto una vite d’oro con grappoli alti come un uomo. Ma soprattutto nelle Scritture il tema della vigna era tra i più significativi per esprimere il rapporto tra Dio e il suo popolo: «Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte!» invoca il salmista (80,15-16). E Isaia, nel mirabile «canto della vigna», descrive la delusione di Dio nei confronti di Israele, sua vigna, che aveva curato, piantato, vangato, difeso, ma dalla quale non ha avuto altro che frutti amari. Geremia rimprovera il popolo d’Israele: «Io ti avevo piantata come vite pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?» (2,21).

Nelle parole di Gesù, c’è un cambiamento piuttosto singolare, la vite non è più Israele, ma lui stesso: «Io sono la vera vite». Nessuno l’aveva mai detto prima. Per comprendere appieno queste parole è necessario collocarle nel contesto dell’ultima cena, quando Gesù le pronunciò. Quella sera il discorso ai discepoli fu lungo, complesso e con i toni di gravità propri degli ultimi momenti della vita: un vero e proprio testa­mento. Nel primo discorso chiarisce chi è la vera guida del popolo del Signore; e dice: «Io sono il buon pastore». Subito dopo, iniziando il secondo discorso, afferma: «Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agri­coltore». Gesù si identifica con la vite, specificando che è la «vera» vite; ovviamente per distinguersi dalla «falsa».

Ma non è una vite isolata. Gesù aggiunge: «io sono la vite e voi i tral­ci». I discepoli sono legati al Maestro e sono parte integrante della vite: non c’è vite senza tralci, e viceversa. Potremmo dire che il legame dei discepoli con Gesù è appunto come quello della vite con i tralci, essen­ziale e forte. È un legame che va ben oltre i nostri alti e bassi psicologi­ci, le nostre buone o cattive condizioni. L’antico segno biblico della vigna riappare qui in tutta la sua forza. Con Gesù nasce una vigna più larga e più estesa della precedente e soprattutto percorsa da una nuova linfa, l’agape, l’amore stesso di Dio. La forza di questo amore è dirom­pente: permette di produrre molto frutto. Dice Gesù: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto». Sono belle le paro­le di commento di Papia, uno dei Padri Apostolici, a questa pagina evangelica: «Verranno giorni in cui nasceranno vigne, con diecimila viti ciascuna. Ogni vite avrà diecimila tralci ed ogni tralcio avrà diecimila pampini e ogni pampino diecimila grappoli. Ogni grappolo avrà dieci-mila acini, ed ogni acino spremuto darà una misura abbondante di vino».

Il Vangelo prosegue: «Ogni tralcio che porta frutto, lo porta perché porti più frutto». Sì, proprio quelli che «portano frutto», conoscono anche il momento della potatura. Sono quei tagli che di tempo in tempo, appunto come accade nella vita naturale, è necessario operare perché possiamo essere «senza macchia» (Ef 5,27). Il testo evangelico non vuol dire che Dio manda dolori e sofferenze ai suoi figli migliori per provarli o purificarli. No, non è in questo senso che va intesa la potatura; il Signore non ha bisogno di intervenire con le sofferenze per migliorare i suoi figli. La verità è molto più piana. La vita spirituale è sempre un itinerario o, se si vuole, una crescita. Ma non è mai né scon­tata né naturale, e non è un progresso univoco. Ognuno di noi ha l’esperienza della crescita in se stesso di frutti buoni assieme a senti­menti cattivi, ad abitudini egoistiche, ad atteggiamenti freddi e violenti, a pensieri malevoli, a spinte di invidia e di orgoglio… È, qui che si deve potare, e non una volta sola, perché sempre si ripresentano questi sentimenti, seppure in modi e con manifestazioni diverse. Non c’è età della vita che non esiga cambiamenti e correzioni, e quindi potature.

Questi tagli, talora anche molto dolorosi, purificano la nostra vita e fanno scorrere con maggior freschezza la linfa dell’amore del Signore. Per sei volte, in otto righe, Gesù ripete: «rimanete in me», «rimanete nella vite». È la condizione per portare frutto, per non seccarsi ed essere quindi tagliati e bruciati. Forse quella sera i discepoli non capirono; magari, si saranno chiesti: «ma che vuol dire rimanere con lui se sta per andarsene?». In verità, Gesù indicava una via semplice per restare con lui; si rimane in lui se le «sue parole rimangono in noi». È la via che intraprese Maria, sua madre, la quale «conservava nel suo cuore tutte queste cose». È la via che scelse Maria, la sorella di Lazzaro, che restava ai piedi di Gesù e ascoltava la sua parola. È la via tracciata per ogni discepolo. Nella tradizione bizantina c’è una splendida icona che riproduce plasticamente questa parabola evangelica. Al centro è dipinto il tronco della vite su cui è seduto Gesù con la Scrittura aperta. Dal tronco partono dodici rami su ognuno dei quali è seduto un apostolo, con la Scrittura aperta tra le mani. È l’icona della nuova vigna, l’immagine della nuova comunità che ha origine da Gesù, vera vite. Quel libro aperto che sta nelle mani di Gesù è lo stesso che hanno gli apostoli: è la vera linfa che permette di «non amare a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità».

Preghiere e racconti

Naturale e artificiale

La nostra vita è vita davvero non quando conosciamo la data esatta della nostra morte ma quando ne accettiamo l’esistenza come dato fondante della nostra complessità. La nostra vita è davvero vita non quando livelliamo la diversità nel nome di un malinteso bene comune, ma quando diventiamo consapevoli che la nostra verità non sta nell’avere ma nell’essere, nel costruire il nostro destino esercitando la vita contro la morte, l’accoglienza invece del rifiuto, la compassione invece dell’intolleranza, la gratitudine al posto del risentimento.

Per essere grati, dobbiamo però rompere l’idolatrica maschera che genera sterilità e risentimento.

Per essere grati, dobbiamo fare un passo indietro e provare stupore per il puro fatto di esistere, fuori dal mistero dell’oscurità.

Per essere grati, dobbiamo imparare a purificare il nostro cuore da tutte le sozzure, da tutti gli idoli, liberarlo dall’ego onnipresente perché al suo posto si possa accasare la Sapienza.

Per essere grati, dovremmo raggiungere quel punto in noi stessi in cui il finito tocca l’infinito e provare nostalgia per il bene racchiuso nell’Alleanza.

Per essere grati, dobbiamo riconoscere la vita come dono e come immensa potenza del sacro presente nel mondo.

Lo sguardo della gratitudine è uno sguardo che non teme le emozioni più profonde, al contrario trova proprio nel viverle il suo vero compimento. Non c’è ritrosia, non frigidità nella gratitudine ma, piuttosto, abbondanza di lacrime. Quanta bellezza abbiamo sprecato, quanta armonia abbiamo distrutto, quanta misericordia non abbiamo vissuto! Eppure era lì, davanti a noi, sarebbe bastato aprire gli occhi, le orecchie, mettersi umilmente seduti in ascolto: ascoltare il silenzio e, con il silenzio, tutto ciò che al suo interno si nasconde.

(Susanna TAMARO, L’isola che c’è, Lindau, Torino, 2011, 112-113)

Io sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti. Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».

E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

Curare la vigna è come curare la vita

Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, all’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche. Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle. La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno scostato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.

D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

Senza di me non potete far nulla

Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). […] Chi si illude di poter portare frutto da se stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano. Ecco in quale profondo abisso siete precipitati. Ma considerate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla». Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. […] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp. 1240-1244).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

Aumenta la nostra fede

«Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un dono elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5). Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro decisione, ma credevano di riceverla in dono da Dio. Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insufficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24). I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non speravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro. E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidiano del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita dichiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può portare frutti spirituali. Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce” (Gc 1,17).

(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp. 160-161).

Preghiera

O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.

Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudando lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie. Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.

Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi. E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Alla sorgente dell’amore.. nel forum del Movimento Giovanile Salesiano

Ieri a Loreto si è concluso il forum organizzato dal Movimento Giovanile Salesiano dal titolo: “Alla sorgente dell’amore“.

Il forum delle Marche è divenuta un’esperienza di comunione profonda, ricca di confronto per i giovani, risultato di un percorso di ricerca, aiutato dai supporti multimediali, in cui i giovani si sono interrogati sul senso della famiglia e sul loro desiderio di prepararsi a costruirne una propria.

L’incontro e il confronto è stato favorito dai lavori di gruppo in gemellaggio con altri gruppi dell’Italia Centrale in cui sono emersi gli interrogativi dei giovani a partire dalle loro storie di vita. In tal modo il forum è divenuta un’occasione d’incontro con varie persone, piccoli e grandi, che nel dialogo e nella testimonianza hanno dato spazio ad un Incontro d’amore tra Dio e l’uomo per poi gridare tutti insieme: “se questo l’amore vero noi ci siamo!” (Esodo 24, 7).

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Tema del Forum

Messaggio del Rettor Maggiore

 

Valorizzare il merito degli insegnanti nelle scuole cattoliche

Seminario di studio       Roma, 5/5/2012

 

Presso: VICARIATO DI ROMA CASA BONUS PASTOR
VIA AURELIA 208—ROMA

 

Negli ultimi anni è sempre più dibattuto il tema del riconoscimento del merito del personale della scuola (ma anche di altre amministrazioni o organizzazioni private).

È innegabile che le capacità e le competenze individuali di chi opera in un sistema possano fare la differenza e garantire la qualità del servizio, definendo – nel bene o nel male – l’immagine della stessa organizzazione. Nel caso di servizi a forte caratterizzazione relazionale, come la scuola, non si possono considerare del tutto intercambiabili gli insegnanti, fissando come criterio di valutazione solo il possesso di titoli di studio e di abilitazione.

La professionalità è inscindibilmente legata alla persona e può variare anche molto, dalla semplice correttezza formale alla vera e propria eccellenza. Un nodo fondamentale è il riconoscimento materiale  del merito che ogni docente acquisisce nello svolgimento del proprio servizio: si può andare dall’incentivo economico alle differenziazioni di carriera. Se da un lato sembra superato l’automatismo dell’avanzamento legato alla sola anzianità di servizio, dall’altro la traduzione di un fattore prettamente qualitativo in termini quantitativi può produrre storture nel sistema inducendo ad applicare strumentalmente le regole solo in vista dei vantaggi economici e tradendo perciò le intenzioni originarie di valorizzazione della qualità.

La scuola cattolica è ancora più attenta al merito, cioè alla qualità, degli insegnanti, perché sono loro che realizzano quotidianamente il progetto educativo.

Tra aspetti giuridici e pedagogici, tra dimensione contrattuale e professionalità educativa, il Seminario intende offrire spunti e discutere idee per migliorare il servizio offerto e le condizioni di lavoro delle scuole cattoliche.

Al mattino il dibattito si confronterà sulle dimensioni “politiche” del problema, ponendo a confronto i maggiori rappresentanti istituzionali del settore. Al pomeriggio saranno alcuni pedagogisti a tracciare il profilo umano e professionale del docente di scuola cattolica.

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Sito di riferimento: www.scuolacattolica.it

E-mail:csscuola@chiesacattolica.it

 

IV DOMENICA DI PASQUA Lectio – Anno B

Prima lettura: Atti 4,8-12

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e an-ziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.  Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Il testo è il terzo discorso cristologico «di» Pietro negli Atti (cf. 2,14-36; 3,12-26). Egli sta parlando proprio negli atri del Tempio (portico di Salomone) dopo aver ridato, «nel nome di Gesù il Nazareno» la salute a uno storpio. Nonostante la sua fine ignominiosa sulla croce, Gesù è risuscitato dai morti.  Pietro e Giovanni si arrogavano un diritto, quello di parlare dentro il recinto sacro, che non avevano, facendo pure affermazioni false, almeno dubbie, sulla risurrezione di un condannato a morte. Per questo le autorità intervengono: «i sacerdoti, il capitano del tem-pio, i sadducei» (4,1). Questi ultimi fanno parte del partito dominante, ma intervengono soprattutto perché offesi nelle loro convinzioni dottrinali. Essi non ammettevano la risur-rezione dei morti (cf. At 23,8; Mt 22,23). I due apostoli sono messi in prigione e il processo è rimandato al giorno dopo, debbono rispondere del loro potere taumaturgico. In genere i prodigi si operavano in nome di Dio, ma ci si poteva avvalere anche di forze avverse a lui. Gesù era stato accusato di compiere i miracoli in virtù di Beelzebub; potevano essere im-postori anche i suoi discepoli.  La risposta di Pietro, forse meglio la prima apologetica cristiana, è apodittica; il loro po-tere viene da Gesù. Il «nome» è un ebraismo che sta per la persona. «Quell’uomo» (2,22) pertanto che essi avevano crocifisso è in grado di operare ancora; vuol dire che è tuttora vivo; è uscito dal regno dei morti; è passato nel mondo della vita, ossia di Dio. È infatti alla «sua destra» ed è «stato costituito Signore e Cristo», aveva affermato poco prima davanti al popolo (2,24,33,36).  Pietro e Giovanni sono, a detta delle stesse autorità, dei semplici «illetterati», non pos-sono conoscere segrete arti magiche, perciò la guarigione del paralitico non può non essere attribuita che a una potenza superiore che parte sempre da Dio. Questa era quindi una ri-prova delle rivendicazioni di Gesù. La sua sconfitta era stata solo apparente. Egli opera ancora nella storia anche se solo tramite i suoi discepoli.  Il coraggio dei due illetterati che polemizzano con le stesse autorità giudaiche è al di sopra di ogni supposizione. Occorre che gli interlocutori cambino il loro giudizio su Gesù di Nazaret: invece che un malfattore debbono considerarlo il loro salvatore. Egli solo è la pietra angolare su cui grava la nuova comunità dei credenti. Se non si accetta questo rife-rimento e questa subordinazione non si arriva a Dio.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-2

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha cono-sciuto lui.  Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato an-cora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

L’autore della I lettera di Giovanni richiama un aspetto essenziale dell’identità cristiana, la filiazione da Dio. Egli non è un teologo e ancor meno un filosofo bensì una guida spiri-tuale che deduce la «filiazione divina» del cristiano dalla comunione di vita e dall’identità di comportamento che riesce ad avere con il Signore.  La «conoscenza» di Dio, è detto al cap. 2,1, quindi il rapporto intimo con lui (senso bi-blico di conoscere), non dipende dalla comprensione della sua realtà ultima, ma dall’ade-guazione dei propri comportamenti con i suoi. È l’agire come Dio agisce — cioè con quella stessa rettitudine, santità, perfezione — che rivela la somiglianza, la «connaturalità» con lui. «Da questo sappiamo di conoscerlo (di amarlo), se osserviamo i suoi comandamenti» (2,3). E aggiunge: «Da ciò conosciamo di essere in lui» (2,5). Concludendo ribadisce: «Chi dice di dimorare in lui (in Dio) deve comportarsi come lui (Gesù Cristo) si è comportato» (2,5-6).  In fondo vivere cristianamente è ripercorrere fino alla perfezione il cammino di Gesù il quale in tutto ha cercato di attuare il volere del Padre. Ma il cristiano deve rimanere in comunione con Dio e in unione con Cristo non solo intenzionalmente ma realmente, fa-cendo propria la testimonianza di Cristo che è l’esplicitazione ultima della volontà di Dio. «Se voi conoscete che egli è giusto anche chi opera la giustizia è da lui (Dio) generato» (2,29).  È l’agire che rivela l’intima natura dell’uomo, in questo caso del cristiano. Se ci si com-porta come Dio che sa compiere solo il bene a tutti anche a quelli che non lo meritano, si da non solo a vedere ma realmente si dimostra che si hanno i suoi stessi sentimenti, la sua stessa bontà e santità. «Figlio di Dio» è un appellativo onorifico ma anche oneroso, poiché comporta una scelta operativa che deve mantenersi sulla stessa linea di quella di Dio. La filiazione è un dono di Dio ma è anche risposta dell’uomo che ha saputo accogliere le mo-zioni dello Spirito e si è lasciato guidare da esse nella sua vita.  Il cristiano che sa fare il bene a chi ne ha bisogno, sino ad amare pure chi lo odia, è vero figlio di Dio perché compie ciò che Dio stesso realizza nel corso del tempo e della storia.

Vangelo: Giovanni 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vi-ta per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; per-ché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo re-cinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi ri-prenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Esegesi

La pericope (Gv 10,11-18) illustra il comportamento di Gesù verso gli uomini. Esso si contrappone a quello delle guide giudaiche, ma l’evangelista pensa anche a quelle di certe comunità cristiane. Il confronto che compare altre volte nel libro (cf. 2,13ss; 8,31 ss) inizia al termine del capitolo IX.  Gesù sta parlando con un gruppo di farisei definiti ciechi non per nascita, ma volontari, perché, pur vedendo le opere che il Cristo compie, rifiutano di comprenderne la portata, come dimostra la reazione davanti al miracolo dell’uomo a cui è stata ridonata la vista (9,14). Non solo non vogliono vedere ma pretendono di imporre come verità la loro men-zogna. Ritorna il detto: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (3,19).  I dirigenti d’Israele sono guide cieche, ma più ancora sono «briganti e ladri» (10,1). Essi si sono introdotti nell’«atrio», (aulè), il recinto sacro, il tempio, non attraverso la porta, le-gittimamente quindi, ma fraudolentemente, peggio,  rubando e uccidendo le persone giu-ste e innocenti che vi si frapponevano. I ladri sono chiamati tali perché saltano i muri; il vero pastore passa attraverso la porta: è noto al portiere e alle pecore, può chiamarle e condurle al pascolo.  Affinché  non ci siano equivoci, l’evangelista scopre l’identità del pastore: «Io sono», proclama solennemente Gesù; ma non uno qualunque, bensì «il pastore per eccellenza» (ho kalòs). L’espressione dice di più di «buon pastore». Egli solo realizza l’oracolo di Ez 34,23 («Susciterò per loro un pastore che li pascerà, David mio servo; egli li condurrà al pascolo; sarà il loro pastore»). Il re-pastore che Israele attende è, nonostante le apparenze e la sua provenienza da un oscuro villaggio della Galilea (Gv 1,42), Gesù il nazareno.  Nella storia d’Israele si sono susseguiti molti pastori, forse anche buoni, ma nessuno merita tale appellativo quanto Gesù, perché nessuno ha svolto compiti pari ai suoi e so-prattutto con la dedizione eguale alla sua. La specificità del vero pastore è vivere e operare per il bene del gregge, non per la propria esaltazione o per interesse. In realtà il vero pa-store è a servizio delle pecore e non permette che queste siano a servizio della sua persona (cf. Ez 34,10). Il suo contrario è il mandriano che lavora per la mercede, senza affezione e nemmeno tanta attenzione alla sicurezza delle pecore, che pure ha in custodia.  Quelli che prima erano «guide cieche», «briganti e ladri», sono ora designati come «mercenari». Essi che uccidevano e distruggevano ora lasciano sbranare le pecore dai «lu-pi» che sono in fondo i loro alleati poiché compiono le loro stesse operazioni, disperdere le pecore invece che proteggerle.  Il ragionamento giovanneo avanza, com’è risaputo, per «circoli concentrici». L’evangeli-sta ha detto il suo pensiero fin dall’inizio del capitolo, ne ha enunciato il tema al v. 11 ; ma vi torna sopra ripetutamente aggiungendovi ulteriori precisazioni. Gesù è il pastore vero, ideale, perché assolve il suo mandato non tanto per dovere, quanto con dedizione e amore. Egli infatti ama le pecore che gli sono state affidate. Il verbo «conoscere» nel linguaggio biblico non è semplice percezione mentale, ma relazione affettiva e fattiva. È sinonimo di volontà di bene; è amare. «Nessuno conosce il padre se non il figlio», afferma Gesù nel comma giovanneo di Mt 11,27; nessuno cioè lo ama quanto lui ed è da lui riamato. Allo stesso modo Gesù dedica le sue energie, e alla fine la sua stessa vita, per le persone alle quali è stato inviato. Il rapporto che lo lega a Dio è lo stesso che lo porta agli uomini, per questo si tratta di un riferimento autentico, sincero, vero. «Quel giorno conoscerete, cioè sperimenterete, che io sono nel padre mio; voi in me ed io in voi», affermerà più avanti egli stesso (Gv 14,20). Con Dio non si può fingere quindi non ci può essere inganno nell’a-more di Gesù per l’uomo. Esso è senza limiti, senza restrizioni, totale, poiché non si arresta neanche davanti al pericolo della vita. Gesù infatti ha sostenuto la causa dei suoi «fratelli» (cf. Gv 20,17) contro il potere delle guide cieche, affrontando ladri e banditi con il rischio di rimanere vittima delle loro aggressioni.  Non solo. Il pericolo né l’ha fatto recedere dai suoi compiti, né ha ristretto l’ambito delle sue operazioni. Egli più che fermarsi alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6), ri-volge i suoi messaggi e le sue attenzioni a tutti coloro che incontra nel suo cammino, den-tro e fuori i confini della Palestina. La sua luce si irradia su «ogni uomo» (Gv 1,6), non solo sugli israeliti. La comunità cristiana è senza frontiere, universale. I privilegi d’Israele sono caduti una volta per sempre. Il velo del tempio, direbbe Matteo, è stato strappato da capo a fondo e non può essere più ricucito (27,51).  I seguaci di Gesù, i nuovi credenti, provengono dalle fila del giudaismo, dall’interno del recinto sacro (atrio), ma anche dalle nazioni, poiché pure ad esse appartiene la salvezza. L’unità di tutti i credenti non sarà più fondata sulla dipendenza a istituti o istituzioni sa-cre, ma dalla comunione che gli uomini avranno tra di loro e con Cristo. La «voce» di Gesùche tutti egualmente ascolteranno si identifica innanzitutto con le sue proposte, ma anche con il calore con cui le comunica, l’amore con cui le accompagna. Coloro che l’ascoltano ne rimarranno per questo conquistati e coinvolti, diventando suoi discepoli. L’ultima ripresa del discorso, il «circolo» conclusivo, allarga ancora una volta il tema iniziale. Gesù è stato investito dallo Spirito di Dio per una missione tra gli uomini (Gv 1,32), in concreto ha avvertito in sé i riflessi che l’amore di Dio ha per le sue creature predi-lette e gli ha dato piena accoglienza, non tanto per la sua realizzazione o glorificazione, quanto per il loro bene. Il dare se stesso è perdere la propria vita, ma non è perdersi, poi-ché la vita data per amore diventa un guadagno (cf. Fil 1,21; 3,7), un ricupero centuplicato di quanto si è dato (Mt 19,29).  L’amore è libera donazione. Per questo ciò che Gesù ha compiuto è frutto di una sua personale decisione; nessuno l’ha obbligato, tanto meno costretto; ha fatto solo quello che lo Spirito gli ha suggerito e quello che lui ha «liberamente» voluto. L’amore di Dio è stato liberamente accolto e liberamente sono state accettate le sue richieste. Per questo l’opera diGesù è stata una risposta di amore.

Meditazione

La comunità ecclesiale dedica questa quarta domenica di Pasqua, chiamata del Buon Pastore, alla preghiera e alla riflessione per le vocazioni sacerdotali e religiose. Al centro della liturgia della Parola c’è l’appassionato, discorso ove Gesù, in piena polemica con la classe dirigente d’Israele, si presenta come il «buon pastore», ossia come colui che racco-glie e guida le pecore sino ad offrire la sua stessa vita. E aggiunge: «chi non offre la vita per le pecore non è pastore bensì mercenario». In effetti, l’opposizione tra il pastore e il mercenario nasce proprio da questa motivazione: il pastore svolge la sua opera per amore, rinunciando al proprio interesse anche a costo della vita, mentre il mercenario lo fa per in-teresse personale e per denaro, ed è quindi logico che nel momento del pericolo abban-doni le pecore al loro destino. L’evangelista indica il pericolo con l’immagine del lupo che «rapisce e disperde» le pecore. È una sferzata durissima ai farisei, accusati di «pascere se stessi… e non il gregge» (Ez 34,2), mentre egli è venuto per «raccogliere in unità i figli di-spersi» (Gv 11,52).A guardare bene, l’opera del lupo è congeniale all’atteggiamento del mercenario. Ad ambedue, infatti, interessa solo il proprio tornaconto, la propria soddisfazione, il proprio guadagno e non quello delle pecore; si realizza così una alleanza di fatto tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri. Ne viene fuori una sorta di diabolica congiura degli indiffe-renti e degli egoisti contro i più deboli e gli indifesi. Se pensiamo all’enorme numero di persone che hanno smarrito il senso della vita e vagano senza meta alcuna, se guardiamo i milioni di profughi che abbandonano le loro terre e i loro affetti in cerca di una vita mi-gliore senza che nessuno se ne preoccupi, se osserviamo lo sbandamento dei giovani in cerca della felicità senza che ci sia chi gliela indichi, dobbiamo purtroppo constatare la tri-ste e crudele alleanza tra i lupi e i mercenari, tra gli indifferenti e coloro che cercano solo di trar-re vantaggi personali da tali sbandamenti. Scrive il profeta Ezechiele: «le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura» (Ez 34,6).Viene il Signore Gesù e con autorità grande afferma: «Io sono il buon pastore, o dò la vita per le mie pecore». Non solo lo ha detto. Lo ha anche mostrato con i fatti, particolar-mente nei giorni della Settimana Santa, quando ha amato i suoi fino alla fine, fino all’effu-sio¬ne del sangue. Finalmente è arrivato in mezzo agli uomini chi spezza la triste e amara alleanza tra il lupo e il mercenario, tra l’interesse per sé e il disinteresse per gli altri, e fi-nalmente chi ha bisogno di conforto e di aiuto sa dove rivolgersi, sa dove bussare, sa dove muovere i suoi occhi e il suo cuore. Gesù stesso lo disse: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12, 32). Tutto il Vangelo, in fondo, non parla d’altro che di questo legame tra folle disperate, abbandonate, sfinite, senza pastore e Gesù che si commuove per loro. «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?» (Lc 15,4), dice il Signore. Si attribuisce a San Carlo Borromeo la frase: «per salvare un’anima, anche una sola, andrei sino all’infer-no». Questo è l’animo del pastore: andare sino all’inferno, sino al punto più profondo, sino al limite più basso, per salvare una persona. Si può comprendere anche in questa prospet-tiva la «discesa agli inferi» di Gesù nel Sabato Santo. Neppure da morto, potremmo dire, Gesù si è fermato a pensare a se stesso; ma come buon pastore è andato a cercare chi era perduto, chi era ed è dimenticato, chi era ed è negli inferni di questo mondo che il male e gli uomini hanno creato.Il Vangelo sembra dire che o si è pastori in questo modo o altri¬menti non si può che es-sere mercenari. È vero, solo Gesù è «buon pastore»: o si somiglia a lui o si tradisce la sua stessa missione. Sappiamo bene di essere inadeguati, ed è il suo Spirito effuso nei nostri cuori che ci trasforma perché «abbiamo in noi gli stessi senti¬menti che furono in Cristo Ge-sù» (Fil 2, 5). L’odierna pagina evange¬lica — come questa domenica suggerisce — si appli-ca anzitutto a coloro che hanno responsabilità «pastorali» nella Chiesa, in particolare ai ve-scovi e ai sacerdoti. Ed è sommamente opportuno; è anzi doveroso pregare, e non solo og-gi, perché i «pastori» somiglino sempre più a Gesù, vero ed unico «buon pastore». Ed è anche urgente intensificare la nostra preghiera perché il Signore doni alla sua Chiesa gio-vani che ascoltino l’invito ad essere «pastori» secondo il suo cuore, secondo la sua stessa passione d’amore.Ogni comunità cristiana è chiamata a guardare l’abbondanza della «messe» e la scarsità degli «operai». Fa parte della sua preoccupazione più intensa. C’è tuttavia una responsabi-lità «pastorale» che appartiene a tutti i credenti. Ogni discepolo, infatti, è nello stesso tem-po membro del gregge del Signore ma, a suo modo, anche «pastore», ossia respon¬sabile dei fratelli, delle sorelle e del prossimo. In tante altre pagine della Scrittura emerge questa responsabilità «pastorale» di ogni creden¬te. Alle origini dell’umanità Dio chiese conto a Caino di suo fratello, e non fu certo esemplare la risposta: «Son forse io custode di mio fra-tel¬lo?». Sì, Caino era il custode (in questo senso si può dire che era il «pastore») di Abele. Così ogni credente deve esserlo per il suo prossi¬mo. Salga a Dio la preghiera perché nella comunità cristiana ci sia chi ascolti la chiamata del Signore a servire la Chiesa nel ministe-ro ordina¬to. È da questo terreno pieno di «pastoralità» che possono nascere «pastori» per l’oggi. Una comunità appassionata genera pastori. Il buon pastore, infatti, non è un eroe; è uno che ama; e l’amore porta là dove neppure sogneremmo di arrivare.L’amore sostiene il «buon pastore» e lo sottrae dalla logica del mer¬cato e dalle trame fredde dell’interesse individuale. Questo amore ci fa uscire dalle nostre chiusure, dalle no-stre abitudini pigre, dai nostri recinti, e ci inserisce nelle preoccupazioni stesse del Signore: «Ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». L’amore di Dio intenerisce il cuore: ci fa commuovere su coloro che vagano nella nostra città in cerca di un approdo, su quelli che non sanno ove trovare conforto, sui milioni e milioni di disperati che coprono la faccia della terra, su quell’uomo o quella donna vicina o lontana che aspetta consolazione e non la trova. Scrive Matteo: «Gesù vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore che non hanno pastore». E aggiunge subito l’e-vangelista: «Allora disse ai suoi discepoli: pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe» (Mt 9,36-37). Tutta la comunità cristiana è unita al Signore Gesù che si commuove ancora sulle folle di questo mondo. E con lui prega perché non manchino gli operai per la vigna del Signore. Ma nello stesso tempo, ogni credente, davan-ti a Dio e davanti «ai campi che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4,35) deve dire con il profeta: «Ecco, Signore, manda me!» (Is 6,8).

Preghiere e racconti

Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo

«Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e of-fro la vita per le pecore» (10,14s). In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto. La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore. La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre. I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù. Allora po-tremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro. Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo. Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione em-pirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo. L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio. Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comu-nione della conoscenza e dell’amore di Dio. Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinita-rio.L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre. «La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre. Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».

(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).

Gesù, il buon pastore

Chi è Gesù? Gesù è il buon pastore. Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina. E noi possiamo attribuire soltanto al Si-gnore l’esprimersi con bontà infinita. Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio. Conosce le sue peco-relle, e le chiama per nome. Poiché noi siamo del suo gregge, è agevole la possibilità di corrispondenza che antecede il nostro stesso ricorso a lui.Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui. La bontà del Signore si palesa qui in maniera su-blime, ineffabile […].Il Cristo che portiamo all’umanità è il «Figlio dell’uomo», come lui stesso si è chiamato. È il primogenito, il prototipo della nuova umanità, è il Fratello, il Compagno, l’Amico per eccellenza. Solo di lui si può dire con piena verità che «conosceva tutto quanto c’è nell’uo-mo» (Gv 2,25). È l’inviato da Dio, non per condannare il mondo, ma per salvarlo. È il buon pastore dell’umanità. Non c’è valore umano che non abbia rispettato, innalzato e riscattato. Non c’è sofferenza umana che non abbia compresa, condivisa e valorizzata. Non c’è biso-gno umano – fatta eccezione delle imperfezioni umane – che non abbia assunto e provato lui stesso e proposto alla inventiva e alla generosità degli altri uomini come oggetto della loro sollecitudine e del loro amore, per così dire come condizione della loro salvezza.

(PAOLO VI, Discorso del 28 aprile 1968).

Il Pastore ucciso come pecora

Volgiamo gli occhi al nostro pastore, il Cristo. Vediamo il suo amore che con la sua mi-tezza vince l’indolenza delle pecore. Gioisce delle pecore che lo circondano, cerca quelle che si smarriscono. Non rifiuta di percorrere monti e foreste, attraversa precipizi, è accanto a quella che vagabonda e se la trova affaticata, non la odia a motivo del suo comportamen-to, ma è mosso a compassione dal suo patire e, presala sulle spalle, cura la fatica della pe-cora con la propria fatica. E gioisce della propria fatica, perché ha trovato le pecore e gua-risce le loro fatiche. «Chi se ha cento pecore e ne ha perduta una, non lascia le novantano-ve nel deserto e non va a cercare la perduta finché la trova?» (Lc 15,4). La perdita di una sola pecora turba la gioia di quelle al sicuro, e la tristezza di una sola minaccia la gioia di tutte. […] Ma se il pastore «la trova, la prende sulle sue spalle con gioia» (Gv 10,11) «ed, en-trato nella casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,6)». […]  «Io sono il buon pastore. Il buon pastore depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Pilato ha visto questo pastore, gli ebrei lo hanno visto, condotto alla croce per il suo gregge, come annunciava il coro dei profeti: «Come un agnello è condotto al macello, co-me pecora muta davanti ai tosatori, non ha aperto la sua bocca» (Is 53,7). Il Pastore è ucciso come pecora per le pecore, non oppone resistenza al patire, non fugge il giudizio, non re-spinge quelli che lo mettono in croce. Non ha subito la passione, ma volontariamente ha accolto la morte per le pecore. «Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18). Distrugge la passione con la sua passione, la morte con la sua morte; con la sua tomba apre le tombe, smuove i chiavistelli degli inferi. La morte ha potere fino a quando Cristo ha accolto la morte; fino ad allora i sepolcri sono chiusi pesantemente e la prigionia non ha soluzione, fino a quando il Pastore scende e annuncia alle pecore in potere della morte la liberazione. Appare agli inferi e dà l’ordine di uscire. Appare e rinnova l’appello alla vita. «Il buon pastore dà la vita per le pecore»; così cerca di essere amato dalle pecore. Ama Cristo chi ascolta attentamente la sua voce.

(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia 26, PG 85,304A-308A)

Il prete piccolo e grande

Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande,

nobile di spirito come di sangue reale,

semplice e naturale come di ceppo contadino,

una sorgente di santificazione,

un peccatore che Dio ha perdonato,

un servitore per i timidi e i deboli,

che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri,

discepolo del suo Signore,

capo del suo gregge,

un mendicante dalle mani largamente aperte,

una madre per confortare i malati,

con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino,

teso verso l’alto,

i piedi sulla terra,

fatto per la gioia,

esperto del soffrire,

lontano da ogni invidia,

lungimirante,

che parla con franchezza,

un amico della pace,

un nemico dell’inerzia,

fedele per sempre…

Così differente da me!

(Anonimo)

Salmo 23

O Dio,

che hai regalato al mondo e alle chiese tanti buoni pastori, tante donne e tanti uomini che vivono la loro funzione come servizio di amore, noi Ti ringraziamo per la testimonian-za che ci hai dato mediante Gesù, il buon pastore.

Ma, soprattutto, noi ci rivolgiamo a Te sapendo che le Scritture fanno di Te non solo il pastore buono ed amorevole, ma l’unico pastore a cui possiamo affidare le nostre esisten-ze. Così ti preghiamo:

Il Signore è il mio pastore:

non manco di nulla;

su pascoli erbosi mi fa riposare

ad acque tranquille mi conduce.

Mi rinfranca,

mi guida per il giusto cammino,per amore del suo nome.

Se dovessi camminare in una valle oscura,

non temerei alcun male,perché tu sei con me.

Il tuo bastone e il tuo vincastro

mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa

sotto gli occhi dei miei nemici;

cospargi di olio il mio capo.

Il mio calice trabocca.

Felicità e grazia mi saranno compagne

tutti i giorni della mia vita,

e abiterò nella casa del Signore

per lunghissimi anni.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .- La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———-

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.-

J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Bre-scia, Queriniana, 2003.

PASQUA IV DOMENICA DI PASQUA (B)

 

Auguri Italia.. con una lezione di cittadinanza!

In occasione della festa della Liberazione un piccolo contributo educativo…

CITTADINI DEL MONDO… CHI, NOI???

Prima ora di lezione nel Liceo Marcovaldo di Guidaldo. Il professore di storia annuncia con voce solenne:

Ragazzi e ragazze, tra pochi giorni ricorrerà nel nostro Paese la Festa della Liberazione. Infatti, come ogni anno il 25 aprile si ricorda un momento importante nel cammino verso la nascita della Repubblica Italiana: la fine dell’occupazione nazifascista al termine della Seconda Guerra mondiale, nel 1945.

Tra il 2 e il 3 giugno del 1946, appena un anno dopo, il popolo italiano fu chiamato a votare per scegliere tra due forme di governo: monarchia e repubblica. Gli italiani espressero il proprio voto e fu così che il 2 giugno venne scelto come festa della nazione, della sua nascita come Repubblica, appunto.

Marco, dal secondo banco, con la mano alzata: Professore potrei chiedere se qualche compagno ha una matita in più?

Una smorfia di delusione incupisce il volto del povero professore, che replica: Marco…Ragazzi. Ditemi un po’: ma voi siete o non siete cittadini italiani?

Melissa: In che senso prof?… Simone: Lo saremo quando avremo compiuto 18 anni e potremo votare!

Dall’ultimo banco sale con sarcasmo un commento: Che fortuna!

In quel momento il prof si rende conto che forse, con quei ragazzi, è necessario approfondire la questione: essere cittadini, ragazzi, significa anche riconoscere che siamo accomunati da una storia che è stata scritta da chi ci ha preceduto; che la libertà di poterci esprimere e il riconoscimento  dell’uguaglianza di ogni essere umano sono frutto di sacrificio e lotte che altri uomini prima di noi hanno affrontato e vinto.

Ma non dobbiamo scordare che dalla libertà deriva una grande responsabilità per noi!

Alessio: No! Prof anche tu hai visto Spider Man? Ricordi la battuta: Da un grande potere derivano grandi responsabilità?

Il professore, tra le risate generali: Dicevo qualcosa di simile Alessio! Un buon cittadino è colui che si prende cura dei luoghi che vive, che riconosce il valore della vita, la propria e l’altrui, che lotta nel quotidiano per costruire pace e giustizia. Un buon cittadino è colui che si interessa del bene comune… sapete cos’è?

Elisa: quando non penso solo a quello che è buono per me, ma a quello che “fa bene” anche a chi mi sta intorno!

Il prof: Molto bene Elisa! Anche a voi ragazzi è chiesto di impegnarvi per il bene comune e, forse, molti di voi già lo fanno.

Voi fate il “bene comune” in famiglia: quando siete disposti ad aiutare chi ne ha bisogno o quando cercate di trovare una soluzione ai problemi con il dialogo, piuttosto che con la prepotenza. Il bene comune lo fate a scuola quando studiate per diventare sempre più competenti e scegliete di investire tutti i vostri talenti, perché siano utili alla società. Lo fate quando accogliete un compagno straniero facendolo sentire a casa. Il bene comune lo fate quando rispettate l’ambiente, mantenendo puliti i luoghi in cui trascorrete il pomeriggio tra amici, quando fate attenzione a non tenere l’acqua aperta inutilmente o la lampadina della vostra stanza accesa per ore se non ci siete. E potete farlo in altri mille modi e occasioni.

Alessandro: Quindi prof tutta la storia sul 25 aprile e il 2 giugno che c’entra?

Il prof: Scoprire il passato e la storia di un popolo è un po’ come ricordare quando si era piccoli: ci aiuta a capire chi siamo, che passi abbiamo fatto nel tempo. Così guardando alle pagine che sono state già scritte arriviamo ad un punto in cui la pagina diventa bianca, in cima è scritto solo “ora tocca a te!”. Sì, tocca a te scrivere nuove pagine e ogni singolo giorno che ti viene donato è l’occasione  di lasciare il segno nel mondo in cui vivi, un segno che lo renda migliore di com’è: anche questo vuol dire essere cittadini!

                                                                                              I giovani della diocesi di Anagni-Alatri

 

Spunti dal convegno di aggiornamento per gli insegnanti di religione…

L’Istituto di Catechetica della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Salesiana di Roma ha promosso un incontro di due giorni con gli Insegnanti di religione di ogni ordine e grado lo scorso 23-25 marzo con sede l’Istituto Salesiano S. Cuore in Via Marsala 42.

La riflessione dell’Istituto di Catechetica ha messo al centro del dibattito il tema delle competenze e dei profili che fermenta la Scuola attuale  promuovendo, nella pedagogia specifica ermeneutica, alcune indicazioni applicative per l’intervento educativo del Docente di Religione Cattolica ed una precisa definizione per ciascuna delle discipline in oggetto.

Programma Convegno 2012

Copertina Convegno 2012


Vi proponiamo i materiali relativi agli interventi:

Sabato, 24

Prof. Michele Pellerey.

Traguardi per lo sviluppo e profili di competenza nella scuola attuale     clicca su: Pellerey

Prof. Cesare Bissoli.

Le competenze per l’IRC: Le indicazioni CEI       clicca su: Bissoli

Prof. Sergio Cicatelli.

“Profili degli studenti e competenze prodotte dall’IRC”       clicca su: Cicatelli

Prof. Wierzbicki Miroslaw.

Competenza nel contesto europeo      clicca su: MIROSLAW

Prof. Corrado Pastore.

La competenza nell’IRC e l’uso delle fonti bibliche       clicca su: Pastore

Domenica 25

Prof. Zelindo Trenti.

Il linguaggio religioso alla  base della competenza professionale    clicca su: trenti

Prof. Roberto Romio.

Traguardi di sviluppo e profili nell’apprendimento: Dimensione didattico-sperimentale   della competenza       clicca su: ROMIO

Ancora…

Esercitazioni pedagogico-didattiche sulle competenze nell’Irc   clicca su: Astuto-Carnevale-Cursio


III DOMENICA DI PASQUA Lectio – Anno B

Prima lettura: Atti 3,13-15.17-19

In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegna-to e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

Questo brano fa parte della catechesi su Gesù che Pietro rivolge ai suoi uditori di origi-ne ebraica. L’autore degli Atti degli apostoli ha raccolto questa catechesi in una serie di «discorsi» e li ha collocati nella prima parte della sua opera (capitoli 2-4). È importante sot-tolineare gli elementi che caratterizzano questa catechesi.  Innanzitutto emerge la continuità tra l’agire di Dio nell’Antico Testamento e ora nella risurrezione di Gesù: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri pa-dri ha glorificato il suo servo Gesù». La risurrezione di Gesù non va considerata come un cor-po estraneo nella Bibbia. Essa si inserisce pienamente nel progetto di salvezza che Dio ha pensato per l’uomo, un progetto che passa misteriosamente attraverso la croce e culmina nella gloria della Pasqua. Questo progetto era già anticipato nei «Canti del Servo sofferen-te del Signore» (vedi Is 42; 49; 52-53), nei quali si delineava chiaramente la «logica» di Dio: il Servo sofferente sarebbe divenuto il Messia glorificato, grazie all’intervento decisivo di JHWH. Ai suoi uditori, che conoscevano bene la Bibbia, Pietro propone questa «logica», ricorrendo alla stessa terminologia di Isaia: «Dio ha glorificato il suo Servo Gesù».  L’entrare in questa «logica» esige però un cambiamento di mentalità e una conversione nei confronti di Gesù. L’espressione «io so che voi avete agito per ignoranza» vuole sottolinea-re quanto sia difficile comprendere la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella «logica» che è propria di Dio. Il termine «ignoranza» (in greco, àghnoia) indica la difficoltà di com-prendere in questo modo tutta la vicenda di Gesù. Questa «ignoranza» è da collocare alla base del processo condotto contro Gesù: «Voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato… avete rinnegato il Santo e il Giusto… Avete ucciso l’autore della vita». Infatti nessuno era stato in grado di comprendere il progetto di salvezza di Dio, che doveva passare attraverso la cro-ce e la sofferenza. Solo dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli vengono illuminati e comprendono in pienezza l’agire di Dio. La predicazione di Pietro e degli altri apostoli, te-stimoni della misteriosa «logica» di Dio, offre la possibilità di convertirsi al progetto di Dio, portato a compimento da Gesù in un modo e in una forma che la mentalità degli uo-mini non è riuscita a comprendere.

Seconda lettura: 1Giovanni 2,1-5

Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha pecca-to, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.

Questo breve brano presenta una nuova esortazione per il cristiano, che è quella di os-servare i comandamenti. Precedentemente l’autore aveva esortato i destinatari del suo scritto a pentirsi dei peccati e a riconoscerli davanti a Dio, per entrare nella pienezza della salvezza offerta da Gesù. A queste esortazioni seguiranno quelle di guardarsi dal «mon-do» (inteso come tutto ciò che si oppone al vangelo) e dagli «anticristi» (il riferimento è ad alcune eresie che già hanno preso piede nella comunità cristiana a cui scrive Giovanni).  «Abbiamo un Paràclito presso il Padre»: il termine greco paràkletos («avvocato», «interces-sore», «consolatore») è caratteristico di Giovanni, che lo riferisce allo Spirito Santo (vedi i seguenti testi del suo vangelo: 14,16.26; 15,26; 16,7) e, in questo passo della prima lettera, a Gesù. Esso designa una persona amica, che sta vicino a chi è accusato e condotto in tribu-nale (il verbo greco parakalèo significa anche: «chiamare accanto») e ne sostiene le ragioni o ne mitiga la sentenza, qualora questa risultasse sfavorevole.  «Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo»: il verbo «conoscere» va inteso nel suo significato globale, come è usato nella Bibbia. Questo è il verbo che signi-fica sapere chi è Dio e ciò che egli vuole. Significa conoscere il modo di porsi di Dio nei confronti dell’uomo e significa l’imitazione di questo stesso comportamento di Dio da par-te dell’uomo. Non è quindi un verbo puramente astratto, teorico, ma è un verbo con una forte accentuazione pratica ed etica.  Il richiamo all’osservanza dei comandamenti è motivato dal fatto che l’eresia gnostica — sviluppatasi all’epoca di questo scritto — sosteneva che la salvezza dell’uomo era possibile solo attraverso la conoscenza teorica di Dio (ma senza alcuna implicanza etica). Questa co-noscenza — chiamata con il termine greco ghnòsis — portava a considerare il corpo dell’uomo, con le sue passioni e i suoi peccati, come irrilevante nel conseguimento della salvezza. Ciò significava un totale disinteresse per la morale, che per il cristiano non è tan-to un insieme di leggi o di divieti, quanto piuttosto la conoscenza della volontà di Dio e il conformarsi ad essa, compiendola ogni giorno. Infatti per il cristiano non vi può essere se-parazione tra anima e corpo, tra conoscenza di Dio e pratica cristiana, tra religione e mora-le, tra vangelo e vita quotidiana.

Vangelo: Luca 24,35-48

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano ri-conosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credeva-no di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Al-lora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cri-sto patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Esegesi

Il brano proposto conclude l’episodio che ha come protagonisti i due discepoli di Em-maus, e contiene un nuovo racconto di apparizioni, che gli esegeti chiamano «apparizione di riconoscimento». Mediante alcuni segni/gesti che Gesù compie — come il mangiare, il lasciarsi toccare, il mostrare le mani e i piedi —, egli vuole eliminare negli apostoli il so-spetto che si tratti della visione dello spirito di un morto («un fantasma»), vanificando così l’esperienza più vera della Pasqua.  Per i cristiani che provenivano dall’ambiente greco, infatti, era comune credenza che lo spirito vivesse separato dal corpo dopo la morte. Era perciò necessario precisare che Gesù risorto non è uno spirito senza corpo e che non appartiene più al regno dei morti, come gli spiriti. Per questo, nel racconto di apparizione, si insiste sul vedere, mangiare, toccare.  Ma anche l’ambiente ebraico incontrava grandi difficoltà nel comprendere e nell’accetta-re la risurrezione di Gesù. Accettarla significava, infatti, che ormai si era davanti all’inter-vento definitivo di JHWH nella storia, che erano iniziati gli ultimi tempi e che ormai erano giunti il mondo nuovo, il Regno di Dio e la risurrezione finale e definitiva, promessa dai profeti (vedi Ezechiele). Per questo l’evangelista colloca l’evento della Pasqua di Gesù nell’insieme delle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno».  «Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma»: lo spavento ha origine dal fat-to che Gesù appare all’improvviso. Il termine «fantasma» traduce il greco pneuma («spiri-to»). Secondo la concezione greca, dopo la morte lo spirito era separato dal corpo e non si riuniva più ad esso. Nella concezione cristiana, invece, corpo e spirito costituiscono la per-sona, e la risurrezione fa di questo nostro corpo non un fantasma, ma un corpo «glorioso», «glorificato», come quello di Gesù.  «Lo prese e lo mangiò davanti a loro»: con questa frase, più che insistere sulla realtà incon-fondibile del corpo di Gesù, l’evangelista vuole evidenziare la vittoria di Gesù sulla morte, simboleggiata dalla rinnovata partecipazione alla mensa con i suoi discepoli, come avve-niva prima della morte. L’espressione «davanti a loro» (in greco, enòpion autòn) si potrebbe tradurre anche: «a mensa con loro». È un’espressione che ricorre anche in Lc 13,26: «Ab-biamo mangiato e bevuto in tua presenza (in greco, enòpion sou, «alla tua mensa»)» e pro-babilmente con essa si vuole esprimere la continuità tra il Gesù prima della Pasqua e il Ge-sù risorto.  «Nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi »: è la suddivisione di tutta la Bibbia secondo il canone ebraico. È curioso, qui il rilievo dato ai Salmi, dal momento che la Bibbia ebraica chiama la terza parte della Scrittura, con il termine generico «Gli Scritti». Probabilmente i Salmi vengono nominati perché costituiscono la parte più abbondante degli «Scritti». Nonva neppure dimenticato che nel Nuovo Testamento i Salmi vengono citati con frequenza sia nei vangeli sia negli Atti degli apostoli come profezie della risurrezione di Gesù.

Meditazione

Il Vangelo di questa domenica ci narra ancora una volta i fatti del gior­no della resurrezione. L’insistenza non è casuale: la Chiesa continua a ricordarci che ogni domenica è Pasqua, il giorno in cui Gesù vince la morte e incontra nuovamente i discepoli. Gli incontri di Gesù con i suoi discepoli sono diversi. Quello che ci narra il Vangelo di questa Domenica capita nel cenacolo, dove sono radunati i discepoli. Gesù —racconta l’evangelista Luca — entra nel cenacolo mentre i due discepo­li, tornati in fretta da Emmaus, stanno ancora raccontando quello che è accaduto loro lungo la via. Gli apostoli al vedere Gesù, «in persona», venire in mezzo a loro sono presi da stupore e spavento. E, come già altre volte era accaduto, anche ora pensano sia un fantasma. Ancora una volta — domenica scorsa abbiamo constatato lo scetticismo di Tommaso — il Vangelo di Pasqua sottolinea l’incredulità degli apostoli. Vengono in mente le parole del prologo di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto». Gli amici più stretti stanno par­lando di lui, si riferiscono tra loro le varie apparizioni, potremmo dire che sono ormai quasi convinti della sua risurrezione, tanto che dicono: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24,34). Eppure, appena Gesù entra in mezzo a loro pensano sia un fantasma, una figura astratta, irreale. Si spaventano, persino. Eppure, Gesù glielo aveva detto e spiegato.

Ebbene, bisogna partire proprio da questa inaccoglienza, vestita di stolto realismo, per comprendere l’odierna pagina evangelica. Siamo anche noi assieme ai discepoli quella sera di Pasqua, stupiti e spaventa­ti. Anche noi pensiamo tante volte che il Vangelo sia una specie di fantasma, ossia che si tratti di parole astratte, lontane dalla vita, belle ma impossibili a vivere; e ne abbiamo anche paura perché pensiamo che siano troppo esigenti, che chiedano sacrifici, che propongano rinunce, che pretendano una vita poco felice. Ne consegue che con incredibile facilità le infiacchiamo nella loro radicalità perché non ci disturbino troppo. Ma Gesù torna; torna ogni domenica e dopo il saluto di pace dice a tutti noi: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne ed ossa come vedete che io ho». Mentre parla in questo modo, mostra loro le mani e i piedi segnati ancora dalle ferite dei chiodi. Gesù mostra la realtà concreta del suo corpo risorto, ma ancora ferito. E forse l’ultima ferita — questa volta tocca l’anima — gliela stanno infliggendo proprio in quel momento i discepoli con la loro inaccoglienza.

L’evangelista sembra però indicare una via per superare questa distanza; una via non teorica e astratta, ma molto concreta. Potremmo chiamarla la via dell’incontro con le sue ferite. Gesù, per vincere i dubbi dei discepoli, dice loro: «Guardate le mie mani e i miei piedi; sono proprio io! Toccatemi e guardate». Poteva chiedere che toccasse­ro e guardassero qualsiasi altra parte del corpo. Ma perché ha voluto specificare quelle parti ancora segnate dalle ferite dei chiodi? Perché Gesù insiste che proprio quelle parti ferite debbano essere guardate e toccate? Le ferite sul corpo, senza dubbio, ci dicono che il Gesù di Pasqua è lo stesso Gesù del Venerdì Santo, ma la loro permanenza nel corpo del Signore risorto richiama anche la realtà del dolore e del male ancora presente in questo mondo. La resurrezione certo è avve­nuta, ma deve continuare ancora. È iniziata con Gesù, il capo del corpo che è la Chiesa e l’umanità intera, ma ci sono tante parti di que­sto unico corpo che hanno ancora ferite aperte: sono i poveri, i malati, i carcerati, i torturati, i condannati a morte, i paesi in guerra, i colpiti dalle disgrazie e dalla violenza. E l’elenco può continuare ancora più a lungo.

Queste ferite debbono entrare «di persona» in mezzo a noi, perché con esse entra realmente il Signore, e attraverso di esse continua a dirci: «Toccatemi e guardatemi… sono proprio io!». I poveri e i deboli non sono fantasmi di cui aver paura o da cui fuggire, sono il corpo ferito del Signore che chiede e attende di essere toccato per risorgere. «Toccatemi e guardate!». È la preghiera, spesso il grido, che oggi milio­ni di disperati rivolgono al mondo dei sani e dei ricchi: guardateci e toccateci! Essi infatti sono spesso totalmente dimenticati e ancor meno toccati. Dietro questo invito di Gesù ci sono oggi milioni e milioni di bambini, di vedove, di orfani, che continuano ad attendere aiuto e dav­vero pochi «guardano» e ancor meno si incamminano per «toccare». Sì, guardare e toccare! Questi sono i verbi della risurrezione: accorger­si di chi ci sta accanto e soffre e non passare oltre come fecero quel sacerdote e quel levita. La vittoria sulla nostra incredulità inizia da quest’incontro affettuoso con il corpo ancora ferito di Gesù.

Immediatamente dopo, nota l’evangelista, Gesù «aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture. Fu necessario che i discepoli ascoltassero nuovamente il Vangelo e si lasciassero toccare il cuore. Non basta ascoltare una volta o alcune volte le Sante Scritture. Il credente deve risco-prire la gioia di frequentare ogni giorno le Sante Scritture. Ogni volta che si apre una pagina della Bibbia è Dio stesso che parla a noi. I Santi Padri amavano dire che la Santa Scrittura è la Lettera di amore di Dio agli uomini. Come non leggere e rileggere questa lettera? Gesù con i due discepoli di Emmaus non fece altro che spiegare loro le Scritture e i due si sentirono scaldare il cuore nel petto. Ogni domenica Gesù torna e parla a ciascuno di noi, come fece con quelli di Emmaus. Dalla Pasqua perciò inizia un ascolto che non termina più: quella Parola proclamata e predicata è la linfa della vita di ogni discepolo e dell’intera comunità. Senza di essa saremmo senza nutrimento, senza pane. La carestia sarebbe tremenda; e non solo per i discepoli ma per il mondo intero. Ogni domenica perciò il Signore ci raccoglie, apre la nostra mente all’intelligenza delle Scritture e riscalda i nostri cuori. Di questo Vangelo — dice Gesù ai discepoli di ogni tempo — «voi siete testimoni».

Preghiere e racconti

Sulle tracce di Gesù

II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri. Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre. Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo peccatore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.

Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7). Questa espressione, infatti, rievoca le professioni di fede della Chiesa primitiva. Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Signore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.

Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico. Egli mangia con i discepoli.

L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive. Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.

Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità. Il pasto descritto nel cap. 21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico. Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento. Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle. Allude all’ultima cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiaramente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.

(C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, 258-259).

E’ il Signore!

E’ l’acclamazione pasquale, è una parola che contiene tutto.

Il Signore è Colui che possiede la tua vita e te la vuole far vivere al centuplo;

Colui che ha un progetto per te, che ti conduce a esprimere pienamente te stesso;

Colui che è la somma di tutte le cose desiderabili;

Colui che chiarisce, dipana, ordina, purifica, soddisfa tutti i tuoi desideri più profondi.

E’ il Signore della vita, della storia, della mia vicenda personale.

E’ il Signore della mia famiglia, della scuola, della società.

E’ Colui nel quale tutto trova il senso.

E’ Colui che è capace di dare a tutto un progetto ed una prospettiva.

(dagli Scritti del Card. C.M. Martini).

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

La pace sia con voi!

Di ritorno dagli inferi, Cristo per donare la pace al mondo esclama: «La pace sia con voi! I discepoli parlavano ancora, quando Gesù stette in mezzo a loro e disse loro: La pace sia con voi!». Giustamente dice: «con voi», perché la terra si era già consolidata, il giorno era ritornato, il sole aveva ripreso il suo splendore e il mondo aveva ritrovato il suo ordine e la coesione. Ma presso i discepoli la guerra infuriava ancora; fede e mancanza di fede si combattevano violentemente. Il turbamento della passione non aveva scosso il loro cuore quanto la terra; credulità e incredulità devastavano il loro animo con una guerra senza tregua; schiere di pensieri assediavano la loro mente e sotto i colpi della disperazione e della speranza il loro cuore si spezzava, nonostante la sua forza. I sentimenti e i pensieri dei discepoli erano divisi tra gli innumerevoli miracoli che rivelano Cristo e le molteplici umiliazioni della sua morte, tra i segni della sua divinità e le debolezze della carne, tra l’orrore della sua morte e le grazie della sua vita. Ora il loro spirito veniva portato in cielo, ora le loro anime ricadevano a terra; e nel loro cuore in cui infuriava la tempesta non trovavano alcun porto tranquillo, nessun luogo di pace. Al veder questo, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, governa le tempeste e con un semplice segno muta la tempesta in un cielo sereno, li conferma con la sua pace, dicendo: «La pace sia con voi! Sono io; non temete. Sono io, il morto e sepolto. Sono io. Per me Dio, per voi uomo. Sono io. Non uno spirito rivestito di un corpo, ma verità stessa fatta uomo. Sono io. Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi. Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto. Gli inferi mi hanno proclamato Dio, nel loro spavento. Non temere Pietro, che mi hai rinnegato, ne tu, Giovanni, che sei fuggito, ne tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vedete. Non temete, sono io. Sono io, vi ho chiamati per grazia, vi ho scelti perdonandovi, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore e oggi vi accolgo per mia sola bontà, perché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio».

(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 81, PL 52, 428A-D).

Andremo alla casa del Signore

Mi rallegrai quando mi dissero:

«Andremo alla casa del Signore».

E ora i nostri piedi

sono nell’interno delle tue porte,

Gerusalemme!

Gerusalemme costruita come città,

in sé ben compatta!

Là salivano le tribù, le tribù del Signore,

secondo il precetto dato a Israele

di lodarvi il nome del Signore.

Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio,

i seggi della casa di Davide.

Augurate la pace a Gerusalemme:

vivano in prosperità quanti ti amano!

Sia pace fra le tue mura,

prosperità fra i tuoi palazzi.

Per amore dei miei fratelli e amici

dirò: Sia pace in te!

Per amore della casa del Signore, nostro Dio,

chiederò: Sia bene per te!

(Salmo 121).

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello).

Preghiera

O Signore, Signore risorto, luce del mondo, a te sia ogni onore e gloria! Questo giorno, così pieno della tua presenza, della tua gioia, della tua pace, è davvero il tuo giorno!

Sono appena rientrato da una passeggiata attraverso l’oscurità dei boschi. Era freddo e ventoso, ma tutto parlava di te. Ogni cosa: le nuvole, gli alberi, l’erba umida, la valle con le sue luci lontane, il rumore del vento. Parlavano tutti della tua risurrezione: tutti mi rendevano consapevole che ogni cosa è davvero buona. In te tutto è creato buono e da te tutta la creazione è rinnovata e portata a una gloria persino più grande di quella posseduta al principio.

Camminando nell’oscurità dei boschi alla fine di questa giornata piena di intima gioia, ti ho sentito chiamare Maria Maddalena per nome e dalla riva del lago ti ho sentito gridare ai tuoi amici di gettare le reti. Ti ho anche visto entrare nella sala con la porta serrata dove i tuoi discepoli erano radunati pieni di paura. Ti ho visto apparire sul monte così come nei dintorni del villaggio. Quanto sono veramente intimi questi eventi: sono come favori speciali fatti a cari amici. Non sono stati fatti per impressionare o sopraffare qualcuno, ma semplicemente per mostrare che il tuo amore è più forte della morte.

O Signore, ora so che è nel silenzio, in un momento tranquillo, in un angolo dimenticato che tu m’incontrerai, mi chiamerai per nome e mi dirai una parola di pace. E nell’ora della maggiore quiete che tu diventi per me il Signore risorto.

O Signore, sono così riconoscente per tutto quello che mi hai dato nella settimana trascorsa! Rimani con me nei giorni che verranno.

Benedici tutti quelli che soffrono in questo mondo e dona pace alla tua gente, che hai tanto amato da dare la vita per lei. Amen.

(J.M. NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., La sola cosa necessaria  Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 242-243).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:- Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .- La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.———- COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo di Quaresima e Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2012.- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.- COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009. – C.M. MARTINI (card.), Incontro al Signore risorto, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.- J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Bre-scia, Queriniana, 2003.

PASQUA III DOMENICA DI PASQUA (B)

Religiosità e processi educativi: un incontro multidisciplinare

dal 26 al 28 aprile 2012

Luogo: ISSR SS. Vitale e Agricola – P.le Bacchelli 4 Bologna

Il Convegno presenta in primo luogo alcuni risultati parziali di un itinerario di ricerca multidisciplinare, avviato dal Centro Studi RES, in collaborazione con l’ISSR SS. Vitale e Agricola di Bologna, nell’anno 2010.

La ricerca aveva come primo obiettivo l’individuazione e la definizione, in un’ottica multidisciplinare e multiculturale, della complessa nozione di “senso religioso”. Dopo un primo seminario (febbraio 2010), e un convegno nazionale (Il senso religioso come oggetto di ricerca: una prospettiva multidisciplinare, Bologna 28-29 gennaio 2011), la ricerca si è concentrata sul tema della “religiosità”, come categoria dell’esperienza umana, e del suo sviluppo attraverso i processi educativi. Il ri-orientamento della fase teorica della ricerca è avvenuto in parallelo ad una fase empirica esplorativa, inizialmente concentrata sullo strumento dell’intervista in profondità. Non appaiono ancora risolti in maniera soddisfacente tutti i problemi metodologici che il tema presenta, per gli impliciti e le implicazioni legate alla fenomenologia della religiosità, e la difficoltà di individuare e/o costruire strumenti affidabili di rilevamento.

Obiettivo del Convegno è quello di richiamare al confronto e al dibattito sul tema religiosità studiosi di area socio antropologica, pedagogica, psicologica, filosofica, teologica, in dialogo con la teologia e la storia delle religioni, per una definizione dell’oggetto che confronti categorie teoriche differenti di analisi ed esamini, nelle sessioni parallele, gli aspetti molteplici e concreti della religiosità.

Segreteria Scientifica: Fausto Arici – Maria Teresa Moscato

Scarica il programma del convegno PROGRAMMA

 

Comunicare ed educare con il web 2.0

Oggi si è concluso il convegno: web 2.0 educazione e comunicazione – nuove sfide personali e collettive promosso dalla Facoltà di Scienze dell’Educazione e la Rivista Orientamenti Pedagogici in collaborazione con la Facoltà di Filosofia e la Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale.

Riportiamo due articoli degni di nota della rivista Young4young.

Web 2.0: siamo pesci nella rete

di Lucia Aversano

Comunicare e educare con le nuove tecnologie è possibile se si è consapevoli del mondo, reale e virtuale, che ci circonda

A casa, come a scuola e al lavoro,internet è, quasi sempre, presente. Non esiste luogo dove le persone non siano connesse, tramite pc o tramite smatphone e tablet, per lavoro per svago o per studio. Quando parliamo oggi di rete forse dimentichiamo che c’è stato un tempo in cui il web era un contenitore semplice, fatto di contenuti al pari di una vetrina dove l’utente che si collegava, aveva sì strumenti per comunicare con gli altri, come le mail, ma non una piattaforma nella quale esprimere se stesso e relazionarsi in maniera costante con gli altri. Molti avranno scordato la connessione a 56 kb, lentissima, e il rumore del modem che si connetteva. Sembrano trascorsi secoli da allora e invece internet nasce non più di venti anni fa.

Oggi sarebbe impensabile vivere sconnessi e con il web 2.0 essere connessi significa essere collegati col mondo intero. Oggi ognuno di noi esprimere se stesso i propri pensieri le proprie passioni e condivide i propri interessi attraverso la rete e la vita di tutti noi è cambiata. Ma com’è cambiata? E come cambierà? Se n’è discusso oggi al convegno Web 2.0 Educazione e Comunicazione, promosso dall’Università Pontificia Salesiana, il 20 e il 21 aprile 2012, al quale hanno preso parte esperti delle IT e della comunicazione.

«Siamo come dei pesci – spiega Fabio Pasqualetti docente di Comunicazione e Opinione pubblica all’Università Pontificia Salesiana – al pari dei pesci che non si chiedono cos’è l’acqua, noi non ci chiediamo cosa ci sta succedendo con internet. La connessione alla rete è qualcosa che va oltre il computer, una macchina complicata che se non avesse accesso alla rete non verrebbe usata da nessuno. La comunicazione oggi è istantanea e riduce le distanze, e questa cultura della velocità incide sulle nostre vite. McLuhan sosteneva che quando l’informazione viaggia alla velocità dell’elettricità il mondo delle tendenze diventa il mondo reale. E dunque, siamo noi a controllare la rete o è la rete a controllare noi?» A questa domanda, Pasqualetti, risponde che la tecnologia non è né buona né cattiva, ma non è nemmeno neutra. È dunque necessario, avere idee chiare, specialmente su politica e sociale, in modo da sviluppare il pensiero critico che è l’unico strumento per orientarsi.

Internet è soprattutto comunicare e interagire con gli altri. La diffusione massiccia dei social network sono il sintomo più evidente di ciò. Ma che tipo di comunicazione è quella della rete? Sergio Rondinara, docente di filosofia della scienza presso l’UPS, con il suo intervento ha spiegato che «oggigiorno la concezione del comunicare si traduce con la trasmissione, in maniera efficace, di messaggi ad effetto. Il comunicatore è un semplice target da colpire e individuare e non più una persona con la sua identità». Inoltre bisogna considerare che la relazione è un bene al pari di altri perché l’uomo ha insita nella sua natura il bisogno di comunicare e con il web 2.0 questo bisogno viene soddisfatto grazie e soprattutto ai social network. «ma bisogna distinguere tra bene relazionale e bene pseudo relazionale – spiega Rondinara – il primo è rappresentato dalle relazioni in carne ossa mentre le seconde «simulano quelle quella reale replicandone alcuni attributi dove però manca la fragilità dolorosa delle relazioni in carne e ossa. I social network possono rafforzare le relazioni già esistenti, ma sarebbe un errore sostenerle solo in questo senso».

In questa prima giornata si è anche parlato di web 3.0. Il salto in questa nuova era è prossimo e già oggi possiamo constatare come il nostro navigare nel web è sempre più personalizzato. Le ricerche che si fanno in rete saranno sempre più legate alla sinossi anziché alla parola. E in futuro questa tendenza sarà sempre più accentuata.

Venerdì 20 aprile 2012

Citiamo un secondo articolo:

Il web mette le vite in movimento

di Antonino Garufi

I nuovi movimenti, che si servono del web per organizzarsi e crescere, hanno una dimensione esistenziale, prima che politica. Ma con la creatività comunicano con molti, cosa che le forze politiche tradizionali non sanno fare

La seconda giornata del convegno “Web 2.0, educazione e comunicazione” realizzato all’Università Pontificia Salesianaha visto come primo relatore Leonidas Martin Saura. L’artista laureato in belle arti e professore di audiovisivi, nuove tecnologie ed arte-politico all’Università di Barcellona ha proposto una riflessione sui momenti di agitazione collettive e le loro relazioni con la tecnologia odierna.

Partendo dalla visione di un’immagine cruda dell’attentato a Madrid nel 2004, ha tracciato le relative connessioni politiche. A queste ultime ha legato le manipolazioni mediatiche che i mezzi di comunicazione di massa (quotidiani e riviste spagnole) hanno attuato per informare la popolazione spagnola e il mondo intero.

La guerra all’Iraq era già “scoppiata”, il clima ispanico era “sotto elezioni” e l’opinione pubblica sapeva con chiarezza che a sferrare l’attentato nella Capitale non era l’ETA come informavano erroneamente i mezzi ma l’associazione araba Al-Qaeda. Nasce così il movimento sociale 13M, nata proprio il giorno prima delle elezioni; esso non aveva una ideologia alle spalle, non era supportata da pensieri utopici ma da obiettivi concreti. Le questioni interessavano aspetti esistenziali e politici, adulti e giovani iniziarono a coalizzarsi, iniziarono un cambio reciproco di sms e catene di e-mail che supportavano questa forte identità.

Un’altra caratteristica importante di questo movimento era la creatività dei partecipanti; Martin Saura afferma “Iniziammo a generare nuovi linguaggi, nuove forme per esprimerci“. Uno degli slogan più chiari e creativi fu: “Domani votiamo, domani vi cacciamo via“.

Da questo movimento nascerà poi il “Movimento per una casa dignitosa per tutti”. L’idea molto forte pensata e realizzata dai partecipanti era quella di ricordare l’articolo 47  della Costituzione Spagnola, che afferma il diritto alla casa. Il logo delle manifestazioni era appunto una casa stilizzata con un 47 nero all’interno. La via mediante la quale si trasmettono informazioni è la posta elettronica e ci si organizza per scendere in piazza proprio il 16 Aprile 2007 (tre anni di distanza della prima manifestazione). Lo slogan realizzato fu: “no vas a tener una casa en la puta vida”.

Per descriverlo il giovane professore chiarisce: «È uno slogan che non afferma, ma nega. Uno slogan che coinvolge (è scritto in seconda persona), vale per tutti, non è di destra né di sinistra. Si riferisce ad un tu, ad un noi intimo più che politico. Non apre alla speranza (a differenza di quelli di Obama), o a un futuro o a un’alternativa (“un altro mondo è possibile”). Indica un problema personale, non una questione sociale».

I media spagnoli hanno definito il movimento come “I ragazzi delle sedute” poiché forma di manifestazione era proprio quella non violenta di sedersi tutti insieme nelle piazze più grandi del territorio spagnolo. In Spagna, lo slogan di questo movimento lo si trova ovunque, nella rete e perfino nello sport e nei programmi tv.

Il colore che predomina in queste manifestazioni è il giallo; un giallo apolitico ma con una identità specifica di gridare il pragmatismo concreto dell’attivismo umano non violento, rumoroso e presenziale. Il movimento è stato costretto a chiedersi cosa fare: «Era necessario urlare più forte lo slogan».

Organizzato un contest del grido, hanno cercato di presentare il progetto anche a il Guinness World Records ma questi ha rifiutato. Non si sono scoraggiati, hanno continuato il loro progetto per certificare la loro forza. Web e Blog sono stati in loro aiuto, telecamere e video montaggi amatoriali hanno fatto sì che il progetto si realizzasse.

Ancora oggi i movimenti sociali si spostano dalla piazza vera e propria a quella virtuale, occupando ad esempio Wall Street e parlando al mondo con i linguaggi propri della nuova tecnologia (hastag e tweet).

La prossima convocazione è per il 12 maggio, “Democrazia real ya!» è lo slogan.

Le meraviglie della Roma Cristiana

Le meraviglie della Roma Cristiana

 


 

Da molti secoli Roma è ogni anno meta di milioni di turisti. Ad attirarli sono i resti archeologici dell’impero, le meraviglie artistiche che si sono sovrapposte nel corso dei secoli, ma anche – e soprattutto – il suo essere centro della cristianità. Nel corso della puntata Alberto Angela compirà un viaggio nella Roma cristiana, nei tanti luoghi, monumenti, edifici che hanno fatto la storia della cristianità. Il viaggio toccherà chiese celebri, alcune “mete obbligate” dei giri turistici, ma anche angoli della città più appartati, nascosti, dove sono presenti testimonianze importanti della storia della Chiesa.

Da: Rai.tv – Ulisse