“Dio e Famiglia”, di Lorenzo Bertocchi

L’Incontro mondiale delle Famiglie a Milano (30 maggio-3 giugno 1012) ha riportato alla ribalta dell’attualità il ruolo fondamentale che giocano le famiglie nella società italiana.

Per pochi giorni però, oggi sui media nazionali (giornali e televisioni) della famiglia non si parla più, esclusi naturalmente quelli cattolici, per i quali la famiglia è sempre di attualità e non da oggi. E’ strano questo fatto. Tutti riconoscono che la crisi economica in cui è precipitata l’Italia (e l’Europa comunitaria) è in buona parte dovuta al crollo demografico dei nostri paesi, noi italiani diminuiamo di più di 100.000 unità l’anno. Mancando i giovani, la nostra è una società di anziani, di vecchi, di pensionati, che non può crescere perchè in ogni settore della vita nazionale prevalgono la conservazione e il pessimismo. Non ci vuole un genio per capire che senza figli il futuro di un popolo volge al peggio.

Eppure, si parla solo e sempre di finanze, Borse, Spread, Bot, mai o quasi mai di problemi della famiglia, matrimoni, divorzi, separazioni, aborti. Nei giornali si trovano più notizie sugli assurdi “matrimoni gay” dopo la legge di Zapatero (in Spagna sono stati 67!) che non delle “famiglie con molti figli” che riescono a tirare avanti con la solidarietà popolare anche in questa disastrosa situazione in cui tutti ci troviamo. Si veda il sito: www.famiglienumerose.org.

Ecco un volumetto contro corrente: Lorenzo Bertocchi, Dio e Famiglia (Fede e Cultura, Verona 2012, pp. 126).

Poche pagine ma incisive, a partire dalla Prefazione di mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, dove si legge: “Nella società di oggi non c’è più posto per la Famiglia, come non c’è più posto per la Chiesa.

Perché?… La famiglia rende presente un mondo che la mentalità di oggi non riesce più a sopportare. Nel mondo d’oggi domina la cultura della morte… che vuol dire cultura di una vita senza senso, dove l’uomo non ha ragioni per vivere, non è aiutato a scoprire la sua dignità… Perché la famiglia e la Chiesa mettono in crisi la società? Perché la nostra è una società di individui, ciascuno dei quali ha la convinzione di essere il centro del cosmo e della storia… La sua identità si realizza quanto più possiede. E tanto più possiede quanto più realizza il grande istinto che sostiene l’individuo in questa situazione sociale: l’istinto al suo benessere”.

Nelle due parti del libro, Lorenzo Bertocchi (classe 1973, sposato e padre di famiglia) dimostra quanto mons. Negri afferma nella prefazione.

Nella prima, Analisi di una dissoluzione, esamina come la famiglia tradizionale italiana sia giunta, per vari gradi , ad essere quasi un corpo estraneo nella società d’oggi. L’epicentro di questa lotta culturale e legislativa contro la famiglia, è la “rivoluzione sessuale” del Sessantotto e cita gli autori (erano i “profeti” di allora) i quali sostenevano che “la famiglia è quel sistema repressivo che più di ogni altro costringe la libertà sessuale della persona”; e ancora, “attraverso l’assoluta, illimitata libertà sessuale, l’uomo si libererà dalle nevrosi e diventerà pienamente capace di lavoro e di iniziativa”. E’ successo esattamente il contrario, ma nessuno oggi chiede scusa per i danni che ha causato alla società italiana.

Nella seconda parte, In casa di amici, Bertocchi prende in esame le sei coppie di coniugi che la Chiesa considera esemplari per come nasce e si sviluppa una famiglia cristiana. Le due coppie di Beati, i coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi (beatificati nel 2001), Luigi e Zelia Martin, genitori di Santa Teresa di Lisieux (beatificati nel 2008); e i Servi di Dio Sergio e Domenica Bernardini, Settimio e Licia Manelli, Rosetta e Giovanni Gheddo, Ulisse e Lelia Amendolagine.

Queste sono, nei duemila anni di storia della Chiesa, le prime sei coppie in cammino verso la santità riconosciuta. L’Autore racconta brevemente gli aspetti fondamentali della loro vita: l’incontro e il fidanzamento, il matrimonio e il comune programma di vita, la preghiera in famiglia e la santificazione della festa, il lavoro e i figli: come si accolgono e come si educano trasmettendo la fede nella vita quotidiana. Infine, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa dei loro figli, la loro santa e serena morte. Questa carrellata su come le sei coppie di coniugi hanno vissuto i momenti importanti nella vita di ogni matrimonio dimostra come la famiglia cristiana, che vive fedelmente il Vangelo, è portatrice di unità, di pace, di speranza, di gioia, di impegno nel lavoro e nella società. Nulla è così profondamente umano come la morale evangelica.

ROMA, venerdì, 20 luglio 2012 (ZENIT.org)

Fiuggi family festival 2012… “il bello della famiglia”

25-29 Luglio 2012

Di Famiglia non si può parlare solo in un posto e una volta all’anno. Bisogna essere presenti con eventi Family Festival in tutta Italia e durante tutto l’anno per unire le famiglie in modo continuativo sia nel tempo che nello spazio”.

La presidente della tradizionale kermesse, Antonella Bevere Astrei, nell’annunciare sostanziali anticipazioni della prossima quinta edizione dell’FFF, spiega che

“dal 2012 le attività del Festival si moltiplicheranno in eventi satelliti nei luoghi dove verremo chiamati a realizzare momenti di festa e di incontro per famiglie all’insegna dell’arte audiovisiva. Stiamo vagliando, con soddisfazione, molte richieste che ci gratificano e già sono in corso trattative con diversi comuni e provincie, tra cui anche l Umbria, regione da sempre particolarmente attiva nell’entertainment culturale di livello. Già in programma invece un evento collaterale che si svolgerà a Bergamo”.

L’edizione 2012 del Film Family Fest ha già anche un titolo: Il Bello della Famiglia.

La quinta edizione della tradizionale kermesse a target family, in programma dal 25 al 29 luglio nella suggestiva cornice del Borgo Medievale di Fiuggi alta, si arricchisce quest’anno di una seconda location distaccata dal Family Village e particolarmente dedicata all’intrattenimento dei giovani.

Oltre all’ormai consolidato successo del laboratorio con i nuovi videogames, nell’area prescelta – situata al centro della cittadina, a pochi passi dalle storiche Terme Bonifacio XVIII – anche una discoteca all’aperto, la possibilità di un giro in mongolfiera, un corso di guida sportiva, artisti di strada, musica dal vivo, giochi sportivi, strutture gonfiabili per i più piccoli.“Quest’anno ci siamo rivolti, per la prima volta in modo specifico, ad una fascia adolescenziale –spiega Angelo Astrei, ventenne, coordinatore del nuovo settore comunicazione del FFF, rigorosamente composto da giovani – ma la vera novità è l’apertura al mondo dei giovani 2.0 sul web e nell’interattività.Abbiamo letteralmente rivoluzionato il sito del festival e abbiamo lanciato la nostra applicazione per sistemi iOs (iPhone – iPod e iPad) che fornisce news, informazioni, recensioni e un simpaticissimo quiz con 150 domande su Film Family. Oltre, ovviamente, al presidio dei social network”.

Tra le anteprime in programma il quarto capitolo della serie d’animazione L’Era Glaciale dal sottotitolo Continenti alla deriva, le nuove avventure degli eroi ‘sottozero’, prodotte da Blue Sky Studios, approderanno nelle sale italiane il prossimo 28 settembre distribuite dalla 20th Century Fox. Tra i film in concorso 33 Postcards di Pauline Chan, con Guy Pearce e Zhu Lin. Proiezione speciale di The Amazing Spiderman, in uscita il 4 luglio nelle sale italiane; e The Avengers, campione d’incassi nel 2012, film distribuito dalla Walt Disney  e Paramount, basato sulle performances dei supereroi dei fumetti Marvel Comics. Inprogramma anche la proiezione di Young Europe alla presenza di Paola Saluzzi e altri attori del film. La telegiornalista Elsa Di Gati è la madrina di quest’anno. Riconfermata la direzione artistica di Mussi Bollini. Il regista Fernando Muraca è il nuovo presidente della giuria selezionatrice dei film in concorso, incarico ricoperto negli anni passati da Pupi Avati, Alessandro D’Alatri, Luca Bernabei, Gennaro Nunziante. Il tema di quest’anno è Il Bello della Famiglia perché, come spiega la presidente del festival, Antonella Bevere Astrei“abbiamo voluto esprimere la positività e l’importanza delle radici che ognuno di noi porta in sé”.

Tra le altre novità, le emittenti televisive nazionali con rilevante programmazione per i bambini, quali ad esempio RaiDeakidsTurner, avranno un’intera giornata dedicata a ciascuna di loro. Tra le case produttrici di videogiochi, anche la Nintendo e la Microsoft che riconfermano  quest’anno la loro collaborazione con il festival. Tra gli ospiti l’attrice Ewa Spadlo (La banda dei Babbi Natale), in giuria con il marito e registaStefano Alleva; l’attore e conduttore tv Flavio InsinnaNicolò Bongiorno, figlio del grande Mike; e la giovane celebrità di AmiciMatteo Macchioni, che sarà la star della giornata di DeaKids. Il canale tematico Rai YoYo sarà presente nei giorni del festival con Gipo Scribantino, personaggio del Fantabosco, che accompagnato da alcuni bambini realizzerà due puntate de Le Storie di Gipo. La Turner con il suo Cartoonito, il canale prescolare free sul digitale terrestre nato dalla joint venture tra Turner e Rti (Mediaset), presenterà ai bambini e alle loro famiglie Lazy Town, show che parla ai più piccini di movimento e di alimentazione sana. Tv2000 sarà presente invece con un proprio stand e iniziative per i più piccoli per tutta la durata del festival. La kermesse – realizzata in collaborazione con il Forum delle Associazioni Familiari e gemellata anche quest’anno con Cartoons on the Bay di Rai Trade diretta da Roberto Genovesi – si caratterizza sempre più come un’interessante vacanza-evento per le famiglie, tra laboratori, convegni e occasioni ludico/sportive, oltre alla ricca proposta cinematografica. Il FFF sarà presente con una serie di iniziative collaterali in altre località italiane come Film Family Fest: a Riva del Garda, ad esempio, il Festival della Famiglia in programma ad ottobre proietterà il film vincitore quest’anno a Fiuggi; e, a Bergamo, sarà parte integrante del format culturale della manifestazione in corso della Provincia di Bergamo sui temi dell’Expo Milano 2015, Bergamo verso l’Expo, organizzata dal Consorzio Wylford. E, in collaborazione con il Forum delle Associazioni Familiari del Lazio, i ragazzi dell’FFF (la cui formazione è sostenuta da Fondazione Roma-terzo Settore) saranno presenti all’evento ‘Lungo il Tevere Roma’ in programma all’Isola Tiberina, con i loro spot e una performance teatrale, in programma il 23 luglio, in favore della raccolta fondi per il Progetto VITA – Gianni Astrei.

L’evento, unico nel suo genere e concepito come una vacanza familiare all’insegna del grande cinema, ingloba in sé, oltre al prestigioso concorso cinematografico internazionale, proiezioni a target family tra cui retrospettive e anteprime, momenti di approfondimento culturale, convegni e attività ludico – ricreative che hanno coinvolto bambini, adulti e ragazzi.

Le caratteristiche che rendono unico il Fiuggi Family Festival  – nato nel 2008 da un’idea del compianto Gianni Astrei – sono la valorizzazione di un tipo di prodotto audio – visivo positivo e la sua presentazione alle famiglie nonché la stessa possibilità data a mamma,papà e figli di trascorrere dei giorni stando insieme.

Inoltre, la particolarità dei programmi proposti rende il Festival un evento sempre più atteso non solo nel mondo delle associazioni e delle famiglie ma anche in quello degli addetti ai lavori, degli appassionati del genere e dei giovani. 
Queste caratteristiche sono state evidenti ancor più nell’ edizione di quest’anno, che vede partecipare, tra protagonisti e spettatori, numerosi personaggi di spicco nel mondo della cultura e dello spettacolo e che ha inoltre dedicato ai giovani gran parte delle attività.

Giunto anch’esso alla sua quinta edizione, il concorso Fiuggi Family Festival è volto alla valorizzazione e premiazione di prodotti cinematografici per la famiglia. Unico nel suo genere, intende quindi promuovere le pellicole, comprese quelle di difficile distribuzione, che rispondano alle esigenze di un pubblico familiare e/o che narrino in modo realistico situazioni di particolare interesse vissute dalle famiglie stesse.

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XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Geremia 23,1-6

Dice il Signore: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia».

I nostri versetti stanno tra due requisitorie pronunziate da Dio contro i governanti degeneri, che hanno causato la punizione terribile dell’esilio, e contro i falsi Profeti (cc. 21-24). In essi possiamo distinguere tre diversi oracoli: il primo (vv. 1-2) conclude la requisitoria contro i re e le classi dirigenti, che hanno dissipato il patrimonio di Dio, cioè il suo  popolo; secondo (vv. 3-4) annunzia la restaurazione del popolo di Dio mediante il raduno del resto che sopravviverà alla dispersione tra le genti; il terzo (vv. 5-6) annunzia, col formulario tipico delle profezie messianiche la nascite di un germoglio giusto, cioè di un re che realizzerà un vasto piano di salvezza per Giuda e per Israele. La distinzione dei tre oracoli viene scandita dalla ripetizione dell’espressione «oracolo del Signore»: essa ricorre due volte nel primo oracolo (dopo la frase sintetica iniziale e come sua conclusione), conclude il secondo oracolo e apre il terzo.

Il v. 1 contiene già, in forma sintetica il primo oracolo, espresso in terza persona, che è una minaccia contro i pastori, cioè contro i capi responsabili della nazione.

Il v. 2 contiene lo stesso oracolo in forma diretta, cioè riportando le parole con cui Dio si rivolge ai pastori, che hanno tenuto conto (la versione della CEI traduce: non ve ne siete preoccupati) del popolo che è suo patrimonio, comportandosi come dei dissipatori di ricchezza. L’oracolo si conclude con una minaccia espressa con un gioco di parole: Dio si impegna a tener conto (la versione della CEI dice: io mi occuperò di voi) del loro comportamento malvagio.

Nel v. 3 ha inizio il secondo oracolo, che è un oracolo di salvezza. Dio stesso si impegna a far ritornare  dalla dispersione dell’esilio un resto, cioè una porzione del popolo che egli si era scelto, dimostrando così la sua fedeltà alle promesse.

Il v. 4 conclude il secondo oracolo. Dopo che Dio stesso avrà ricostituito il suo popolo, susciterà altri pastori, i quali finalmente svolgeranno bene il compito che a loro spetterà: pascolare il gregge.

I vv. 5-6 contengono il terzo oracolo, anch’esso oracolo di salvezza. Esso viene introdotto con solennità, al modo dei grandi messaggi profetici. Tenendo sullo sfondo la profezia di Natan di 2Sam 7, in espressa antitesi con i re di Giuda distintisi per il loro comportamento contrario alla giustizia (22,3.13.15), il germoglio di David, cioè il re che Dio farà germogliare sul ceppo davidico, si distinguerà per la sua giustizia, con lui Giuda e Israele, i due rami del popolo di Dio, saranno stabiliti nella salvezza e nella sicurezza. Essendo la giustizia il fulcro del suo governo e rivelandosi egli come dono di Dio, il suo nome sarà Signore-nostra giustizia.

Seconda lettura: Efeseni 2,13-18

Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.

Tema centrale della lettera agli Efesini è il misterioso piano salvifico che Dio ha concepito sin dall’eternità ed ha realizzato mediante il suo Figlio Gesù Cristo, che si è sacrificato sulla croce.

Il nostro brano descrive un momento importantissimo dell’attuazione del piano della salvezza, quello della riunificazione del popolo dei Giudei con i popoli pagani, finora vissuti in profondo contrasto tra di loro.

Nel v. 13, lo scrittore sacro si ispira a Is 57,19 (che annunzia la futura pacificazione tra i rimpatriati e gli Ebrei rimasti nella diaspora: «…Pace ai lontani e ai vicini…»), per descrivere quanto è oggi accaduto con la riunione di Ebrei e pagani in una sola comunità di credenti, tutti salvati dal sangue redentore di Gesù Cristo.

Nel vv. 14-16, con slancio lirico, viene celebrata la pace, quale frutto multiforme dell’opera redentrice di Gesù Cristo: è stata abbattuta l’inimicizia che opponeva radicalmente il popolo eletto ai popoli pagani (v. 14); hanno perduto il loro valore le prescrizioni e i precetti della legge mosaica, che facevano da muro invalicabile tra il primo e i secondi (v. 15); l’uno e gli altri si sono trovati uniti nell’abbraccio salvifico di Dio, che li ha accolti entrambi come figli.

Il v. 17 utilizza ancora più integralmente del v. 13 il testo di Is 57,19, che si rivela così come la fonte ispiratrice di tutto il nostro brano, che però spazia in un orizzonte assai più ampio.

Nel v. 18, alla menzione del Padre (al quale possiamo presentarci come figli) e a quella del Figlio Gesù Cristo (che ha fatto da mediatore: «per mezzo di lui») si aggiunge quella dello Spirito: in tal modo il nostro brano celebrativo si conclude quasi con una dossologia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Esegesi

Il nostro brano evangelico si può qualificare come un brano di transizione; esso infatti si ricollega direttamente al racconto dell’invio in missione dei Dodici dei vv. 7-13 dello stesso capitolo 6 e non ha alcun legame con il racconto del martirio di Giovanni il Battista, posto prima del nostro brano. Fa invece da introduzione al successivo miracolo della moltiplicazione dei pani ed è ricco di spunti per la riflessione.

v. 30: «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato». Leggendo questo brano in stretta continuità con 6,7-13, il vocabolo apostoli conserva ancora fortemente il senso etimologico di inviato, messaggero. Il riferimento a Gesù di quanto avevano fatto e insegnato sottolinea il concetto che l’attività iniziata dai Dodici e quella dei loro continuatori, nella Chiesa, non potrà mai interrompere il contatto stretto con Gesù e la sua parola.

v. 31: «Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare». Lo stretto rapporto che gli annunziatori del vangelo debbono conservare con Gesù, qui è ulteriormente sottolineato: l’invito ad andare in un luogo solitario richiama ciò che (secondo Mc 1,35) fece lo stesso per il termine della sua giornata missionaria di Cafarnao; anche l’accenno al fatto che non avevano neanche il tempo di mangiare assimila gli apostoli allo stesso Gesù, come è detto in 3,20.

vv. 32-33: «Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero». Questi due versetti hanno soltanto un valore narrativo generico. Non è data alcuna indicazione circa il luogo dell’approdo. Non ci aiuta neppure a capire come abbia potuto fare la folla a precedere, a piedi, il cammino della barca. Forse si vuole, ancora una volta, sottolineare l’assoluto bisogno che l’umanità intera ha di Gesù.

v. 34: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose». In questo versetto si affollano tre diversi suggerimenti: a) prima di tutto c’è il sentimento della compassione, che nell’Antico Testamento caratterizza l’atteggiamento di Dio nei confronti del suo popolo; b) c’è poi il richiamo della metafora del gregge senza pastore, che serve a qualificare lo stesso Gesù come un pastore e la folla dei suoi seguaci come il nuovo popolo di Dio; c) c’è infine l’accenno all’insegnamento impartito da Gesù alla folla, che per l’evangelista Marco viene al primo posto, anche prima del pane che, al termine della giornata, sarà moltiplicato.

Possiamo anche notare che, in questo brano, sembra esserci più di un richiamo implicito al contenuto del Salmo 23 (22): «Il Signore è il mio pastore…».

Meditazione

La liturgia di questa domenica, nella lectio continua di Marco, ci propone pochi versetti del cap. 6, ma di una intensità sorprendente, quasi una sorta di rivelazione che cattura il nostro sguardo interiore per fissarlo sul volto stesso di Gesù e da esso ricevere quella luce che ci permette di comprendere il significato profondo del nostro essere suoi discepoli. E i tratti del volto di Gesù che emergono in questa pericope sono essenzialmente quelli che ci trasmettono la compassione di Dio per il suo popolo, quella misericordia senza limiti che sgorga dal cuore stesso di Dio e che lo accende di sdegno di fronte ad ogni abuso nei confronti del popolo che si è scelto. Attraverso la forza profetica della parola di Geremia, Dio aveva condannato l’arroganza delle sedicenti guide del popolo le quali, invece di «pascere il suo popolo», lo avevano disperso: «Radunerò io stesso il resto delle mie pecore… e le farò ritornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno» (Ger 23,3). Il pastore che agisce secondo il cuore di Dio, quel «germoglio giusto» che «eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra», suscitato dalla casa di Davide e preannunciato nello stesso oracolo del profeta (cfr. Ger 23,5-6), trova compimento in Gesù, il pastore bello (cfr. Gv 10). E proprio i versetti di Marco, riportati nella liturgia, ce lo rivelano come il vero pastore che dona al popolo smarrito e affamato la parola e il pane, ma che, soprattutto al vedere quella grande folla che lo stava inseguendo «ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (v. 34).

La pericope di Marco colloca significativamente la persona di Gesù al centro della scena, o meglio, al centro di due movimenti che vedono Gesù in relazione con i discepoli e con la folla.

Il primo movimento vede i discepoli ritornare da Gesù, dopo essere stati inviati in missione (cfr. Mc 6,7-13). La relazione tra Gesù e i discepoli in Marco è fortemente accentuata: Gesù stesso, ci dice Marco, «chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui» e «ne costituì Dodici… perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» (3,13-15). Ora, dopo aver faticato nell’annuncio, i discepoli «si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato» (v. 6,30). Il ‘riunirsi attorno a Gesù’ (in greco è usata la particella pros che indica lo stare vicino a e davanti a una persona, particella usata anche in Mc 3,13) si trasforma, per i discepoli, in un ritorno alla motivazione radicale della loro chiamata, alle fonti della loro missione, quasi un chiarire a se stessi la propria identità di discepoli e inviati (apostoli) a partire da un confronto e da una comunione con Gesù. Ma questa rinnovata consapevolezza è possibile solo se il discepolo impara da Gesù stesso un ritmo interiore che permette di staccarsi dalla fatica e dagli impegni della missione per trovare un autentico riposo. È questo il senso dell’invito di Gesù: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto e riposatevi un po’» (v. 31). Il discepolo deve fare come Gesù: stare in mezzo alle folle, ma anche sapersi staccare e ritirarsi in solitudine immergendosi nella preghiera (è il vero riposo di Gesù, il riposare pros tou theou come Marco ci testimonia in 1,35; 6,46; 9,2 e infine, prima della passione, in 14,32ss.).

Dunque, il discepolo che fatica per il Regno deve comprendere che tutto ciò che fa, tutto ciò che dice, ha una radice profonda, una unica motivazione che può sostenerlo passo a passo nel suo cammino: quell’amore per Gesù che diventa il riposo nella sua fatica quotidiana e che gli permette una libertà interiore che gli da pace e gioia. Gesù ha scelto quel gruppo di discepoli «perché stessero con lui»; ora vuole che essi imparino a riposare con lui, a ritornare alla fonte della loro scelta, ad immergersi in quell’ascolto che li rende veramente discepoli, attenti alla parola del loro Maestro, capaci di contemplare il suo volto, gioiosi di stare con lui.

Ma sorprendentemente un secondo movimento sembra interrompere questo risposo: Gesù ritorna a quella folla che sembra assorbire totalmente il tempo e le forze di questo piccolo gruppo di missionari: «erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare» (v. 31). E inaspettatamente di fronte a questa folla che lo insegue, Gesù non si sottrae; anzi,«ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore» (v. 34). Gesù «si commosse»: nello sguardo di Gesù si riflette la compassione di Dio, quelle ‘viscere di misericordia’ che custodiscono il nome stesso di Dio e ne manifestano al sua infinita gratuità e tenerezza. E ciò che commuove Gesù non è tanto il vedere una folla affamata oppure segnata da sofferenza (questo è presente nei racconti paralleli di Mt 14,14 e di Lc 10,1), ma il vedere lo smarrimento: gente abbandonata a se stessa, senza punti di riferimento, affaticata, in cerca di qualcosa che dia senso alla vita (è l’immagine della folla che ritorna nel testo di Geremia e in 1Re 22,17). Di fronte a questa folla Gesù «si mise ad insegnar loro molte cose» (v. 34). Nel racconto di Matteo e di Luca, Gesù guarisce e sfama; in Marco invece insegna. La sua compassione si rivela nel donare la Parola, quella parola che solo lui insegna con autorità (cfr. l’insistenza su questo aspetto in Mc 1). E ciò che realmente raduna dalla dispersione quel gregge che erra nel deserto è la Parola di Dio: come attraverso Mosè, Dio aveva nutrito e istruito le folle nel deserto, così è in Gesù che viene donato ciò che nutre la vita dell’uomo, quella Parola «che esce dalla bocca di Dio» (cfr. Dt 8,3).

Due movimenti in profonda continuità: dai discepoli a Gesù e da Gesù alla folla. Ma non si può non rimanere colpiti dal contrasto tra questi due movimenti così come sono vissuti da Gesù: da una parte lui stesso invita i discepoli a stare con lui in un luogo appartato, ad una pausa riposante dopo una faticosa missione che li ha visti annunciatori del Regno in condizioni non sempre facili ed entusiasmanti; d’altra parte sembra abbandonarli e disinteressarsi di loro per immergersi nuovamente nelle folle che lo stanno cercando e inseguendo. E ci lascia, d’altronde, stupiti il modo libero, quasi spontaneo, con cui Gesù passa dalla solitudine alla folla e dalla folla ritorna alla solitudine della preghiera (infatti dopo aver sfamato le folle, Gesù si ritira sul monte a pregare). È un movimento che appare faticoso per noi: l’armonizzare due scelte apparentemente contraddittorie (stare in silenzio, in preghiera oppure stare in mezzo ai fratelli in un servizio) crea sempre in noi una rottura interiore e il passaggio da una scelta all’altra è sempre percepito come una sorta di tradimento di ciò che sentiamo fondamentale per la nostra vita. E allora potremmo domandarci: perché Gesù riesce a fare questo passaggio in modo così libero e pacificante? Che cosa deve imparare il discepolo da Gesù?

Tra le folle che lo inseguono e lo cercano e nella solitudine del monte, Gesù non abbandona mai quel luogo nel quale incessantemente ritrova se stesso e il senso della sua missione: non abbandona mai quella comunione con il Padre che è il pane della sua vita: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34. Cfr. anche Mc 14,36). Ecco il segreto di Gesù, ecco perché Gesù può passare dalla solitudine alle folle e dalle folle ritornare in una preghiera silenziosa senza rottura interiore, in una libertà pacificante: il suo cuore rimane sempre uno perché è sempre radicato nell’ascolto e nella ricerca della volontà del Padre.

Stando con Gesù, il discepolo deve proprio imparare da lui questo cammino interiore. Il discepolo deve comprendere che ciò che permette di superare questo scarto tra il desiderio di riposarsi e la fatica di essere immersi nella folla, tra la preghiera e il servizio, è la consapevolezza di esser stato chiamato per ‘stare con Gesù’. Ed è questo ‘stare’, questa intimità profonda che da pace e gioia alla propria vita, che crea una continuità nel faticoso cammino del discepolo, pur nella diversità degli impegni, spesso frammentari ed in apparente contraddizione tra di loro. Lo ‘stare con Gesù’ è il vero riposo a cui è chiamato il discepolo.

Preghiere e racconti

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso  col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Ognuno di noi è un originale fatto da Dio

C’ è una vecchia trazione giudeo-cristiana secondo la quale Dio manda ognuno di noi in questo mondo con un messaggio speciale da consegnare, con uno speciale atto d’amore da compiere. Il tuo messaggio e il tuo atto d’amore sono affidati soltanto a te, il mio è affidato soltanto a me. Se questo messaggio debba raggiungere solo poche persone o tutti gli abitanti di una città o il mondo intero dipende esclusivamente dalla scelta di Dio. L’unica cosa importante è essere convinti che ognuno di noi è adeguatamente equipaggiato: tu hai i doni giusti per consegnate il tuo messaggio ed io ho i doni appositamente scelti per consegnare il mio.

Un aspetto particolare della verità di Dio è stato messo nelle tue mani, e Dio ti ha chiesto di condividerlo con ognuno di noi, e lo stesso vale per me. Proprio perché tu sei unico, la tua verità è data soltanto a te e nessun altro può dire al mondo la tua verità, o compiere per gli altri il tuo atto d’amore. Solo tu hai tutti i requisiti per essere e fare ciò che devi essere e fare. Solo io ho tutto ciò che è necessario per portare a termine il compito per cui sono stato inviato in questo mondo.

Sarebbe inutile e anche sciocco confrontare me stesso con te. Ognuno di noi è unico, non esistono fotocopie o cloni di nessuno di noi. Un simile confronto significherebbe la morte dell’accettazione di sé. Guarda la tua mano: le dita non sono di uguale lunghezza. Se lo fossero, tu non potresti di fatto afferrare una mazza da baseball o lavorare ai ferri. Allo stesso modo, alcuni sono alti e altri bassi, alcuni hanno un talento e altri un dono diverso. Tu sei fatto su misura per realizzare il tuo compito, e così tu non sei me e io non sono te. E questo è bene, è meraviglioso. Noi dobbiamo non solo accettare, ma anche esaltare le nostre differenze. Il mondo custodisce gelosamente gli originali, e ognuno di noi è un originale fatto da Dio.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 23-24).

Rese grazie per insegnarci a rendere grazie

Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui. E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui. Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6). […] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi. Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr. Lc 24,44-45). I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20). […] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie. Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale. […] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti. «Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr. Mc 6,43). Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere. Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale. Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.

(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp. 195-198)

La casa della Parola

Nella sua Parola è Dio stesso a raggiungere e trasformare il cuore di chi crede: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di di­visione dell’anima e dello spirito, fino alle giun­ture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4,12). Affidiamoci, al­lora, alla Parola: essa è fedele in eterno, come il Dio che la dice e la abita. Perciò, chi accoglie con fede la Parola, non sarà mai solo: in vita, come in morte, entrerà attraverso di essa nel cuore di Dio: “Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” (San Gregorio Magno).

Alla Parola del Signore corrisponde veramente chi accetta di entrare in quell’ascolto accoglien­te che è l’obbedienza della fede. Il Dio, che si comunica al nostro cuore, ci chiama ad offrirgli non qualcosa di nostro, ma noi stessi. Questo ascolto accogliente rende liberi: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,31-32).

Per renderci capaci di accogliere fedelmente la Parola di Dio, il Signore Gesù ha voluto lasciarci – insieme con il dono dello Spirito – anche il do­no della Chiesa, fondata sugli apostoli. Essi hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso, custodito nello scrigno sicuro del po­polo di Dio pellegrino nel tempo. La Chiesa è la casa della Parola, la comunità dell’interpreta­zione, garantita dalla guida dei pastori a cui Dio ha voluto affidare il suo gregge. La lettura fedele della Scrittura non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro.

(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 63-64).

Preghiera

Concedimi, Gesù benignissimo, la tua grazia, la quale sia con me e con me lavori e con me sino alla fine perseveri. Dammi di desiderare e volere solo quello che è a te più accetto e più caramente piace a te. Fa’ che la tua volontà sia la mia, e la mia volontà segua sempre la tua e concordi con essa a perfezione. Che io abbia un unico volere e non volere con te; e che possa volere o non volere se non ciò che tu vuoi o non vuoi.

Dammi di morire a tutte le cose che sono nel mondo, e per te d’essere sprezzato e ignorato in questa vita. Dammi sopra ogni cosa desiderata, di riposare in te e pacificare in te il mio cuore. Te, vera pace del cuore, solo riposo, fuor di te ogni cosa è dura e inquieta. In questa pace – cioè in te solo, sommo, eterno bene – dormirò e riposerò. Così sia.

(L’imitazione di Cristo, III, 15).

PER L’APPROFONDIMENTO PERSONALE:

XVI DOM TEMP ORD ANNO B

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

Matrimoni italiani in crisi… secondo l’Istat durano 15 anni!

Alcuni dati inquietanti dall’ISTAT sui matrimoni italiani sono segnalati dall’indagine ISTAT…

Nel 2010 le separazioni sono state 88.191 e i divorzi 54.160. Rispetto all’anno precedente le separazioni hanno registrato un incremento del 2,6% mentre i divorzi un decremento pari allo 0,5%.

L’età media alla separazione è di circa 45 anni per i mariti e di 42 per le mogli; in caso di divorzio raggiunge, rispettivamente, 47 e 44 anni. Questi valori sono in aumento – dice l’Istat – per effetto della posticipazione delle nozze verso età più mature e per l’aumento delle separazioni con almeno uno sposo ultrasessantenne.

La tipologia di procedimento maggiormente scelta dai coniugi è quella consensuale: nel 2010 si sono concluse in questo modo l’85,5% delle separazioni e il 72,4% dei divorzi.

La quota di separazioni giudiziali (14,5%) è più alta nel Mezzogiorno (21,5%) e nel caso in cui entrambi i coniugi abbiano un basso livello di istruzione (20,7%). Il 68,7% delle separazioni e il 58,5% dei divorzi hanno riguardato coppie con figli avuti durante il matrimonio.

L’89,8% delle separazioni di coppie con figli ha previsto l’affido condiviso, modalità ampiamente prevalente dopo l’introduzione della Legge 54/2006.


Se l’amore dura tre anni, parafrasando il romanzo di Beigbeder, dal quale è stato tratto un film, i matrimoni durano in media 15 anni. Le famiglie italiane sono quindi sempre più in crisi, i tassi di separazione e di divorzio totale mostrano per entrambi i fenomeni una continua crescita: se nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni erano 158 le separazioni e 80 i divorzi, nel 2010 si arriva a 307 separazioni e 182 divorzi. Lo rileva il report Istat “Separazioni e divorzi in Italia”. Ma anche se la coppia scoppia, secondo i dati emerge che la scelta, nell’85 dei casi è consensuale.

Nel 20,6% delle separazioni è previsto un assegno mensile per il coniuge (nel 98% dei casi corrisposto dal marito). Tale quota è più alta nelle Isole (24,9%) e nel Sud (24,1%), mentre nel Nord si assesta sul 17%. Gli importi medi, invece, sono più elevati al Nord (520,4 euro) che nel resto del Paese (447,4 euro). Nel 56,2% delle separazioni la casa è stata assegnata alla moglie, mentre appaiono quasi paritarie le quote di assegnazioni al marito (21,5%) e quelle che prevedono due abitazioni autonome e distinte, ma diverse da
quella coniugale (19,8%).

Incontro annuale tra UE e comunità religiose

Sostegno alle famiglie, solidarietà tra le generazioni, lotta alle sfide demografiche, questione-immigrazione, problema occupazionale, conciliazione tra lavoro e vita privata: sono molteplici gli argomenti affrontati durante l’incontro annuale tra istituzioni dell’Ue e comunità religiose presenti in Europa, svoltosi oggi presso la Commissione europea a Bruxelles.


L’appuntamento, inquadrato all’articolo 17 del Trattato di Lisbona, è definito come un dialogo regolare, aperto e trasparente, che intende far risuonare nelle sedi comunitarie la voce delle Chiese, in rappresentanza delle fedi religiose del continente e del loro impegno a livello pubblico, sul piano sociale, culturale, educativo, della solidarietà e della convivenza pacifica tra i popoli.

Istituzioni e Chiese. L’incontro di quest’anno aveva per tema “Solidarietà intergenerazionale: verso un quadro per la società di domani in Europa”, anche in relazione al 2012 che la stessa Ue ha dichiarato Anno dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni. José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha fatto gli onori di casa; il vertice è stato co-presieduto da Laszlo Surjan, per il Parlamento europeo, e da Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio Ue. Hanno partecipato oltre venti rappresentanti di comunità credenti, tra cristiani (cattolici, evangelici, ortodossi, anglicani), musulmani, esponenti della religione ebraica, indù e delle comunità bahá’í, provenienti da tutta Europa. Per la delegazione cattolica erano presenti: mons. André-Joseph Léonard, arcivescovo di Malines-Bruxelles; mons. Giovanni Ambrosio, vescovo di Piacenza-Bobbio (Italia), vice presidente della Comece, Commissione degli episcopati della Comunità europea; mons. Virgil Bercea, vescovo di Oradea Mare (Romania), anch’egli vice presidente della Comece; mons. Adolfo Gonzales Montes, vescovo di Almeria (Spagna). La delegazione cattolica arrivava particolarmente preparata all’incontro: infatti l’assemblea Comece della scorsa primavera si era concentrata esattamente su questi argomenti, affermando che il reciproco sostegno tra giovani, adulti e anziani “resta il fondamento dello sviluppo umano e delle nostre società”.

Per un futuro prospero. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha affermato al termine del confronto: “Nell’affrontare la crisi economica stiamo facendo il massimo per garantire il giusto equilibrio tra la solidarietà e il senso di responsabilità fra gli Stati membri. Dobbiamo però rivolgere un’attenzione perlomeno equivalente alla solidarietà e al senso di responsabilità tra giovani e anziani. Solo mantenendo la solidarietà fra i popoli e le generazioni al centro dei nostri interventi riusciremo a sormontare la crisi e a porre le basi di un futuro prospero”. Questo “è il collante che tiene unite le nostre comunità. E la posizione delle Chiese e delle comunità religiose permette loro di promuovere la coesione nelle nostre società”. Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, ha dichiarato: “Una generazione persa è una cosa che non possiamo permetterci né a livello socioeconomico né, soprattutto, a livello umano, così come non possiamo permetterci l’esclusione dei più anziani per minore produttività”. “Le Chiese, le sinagoghe, le moschee, i templi, così come le ong, scuole e associazioni ad essi collegate, sono luoghi di aggregazione a livello locale, che possono quindi dare un contributo importante al miglioramento della comprensione e della conoscenza reciproca fra le generazioni”.

La voce dei vescovi cattolici. Mons. André-Joseph Leonard ha affermato che, fra le diverse possibili opzioni (ricorso alle migrazioni, sostegno alle famiglie), per dare un futuro alla società europea “è da preferire l’aiuto alle famiglie, favorendone la stabilità, che è la sola opzione di lungo respiro per uscire dalla crisi”. Ciò implica “decisioni coraggiose in materia di politica fiscale, di aiuti ai nuclei numerosi e altre misure sociali per preservare l’equilibrio tra vita famigliare e lavoro”. In tale contesto, mons. Gianni Ambrosio ha ribadito “la necessità di proteggere la domenica come giorno di riposo settimanale comune in tutta Europa”. “Esso è di importanza fondamentale” per le relazioni tra le persone, per la vita sociale e spirituale di ogni persona, per la comunità locale. Mons. Adolfo Gonzales-Montes, facendo riferimento alla situazione nel suo Paese, la Spagna, ha chiesto “politiche solide e veramente efficaci per contrastare la disoccupazione giovanile” e ha indicato il ruolo-chiave che possono svolgere i fondi europei. Mons. Virgil Bercea, romeno, ha invece posto l’accento sul fatto che molte famiglie dell’est vivono situazioni difficili in quanto molte persone devono emigrare per poter lavorare, e i figli crescono in tal caso senza la vicinanza e il ruolo essenziale dei genitori. In tal senso ha invitato le istituzioni comunitarie “a mettere in opera iniziative che favoriscano lo sviluppo economico e il mercato del lavoro” nei Paesi dell’est.

da: SIR del 12/07/12

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio Anno B

Prima lettura: Amos 7,12-15

In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».

Amos rispose ad Amasìa e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele».

Il brano — unico cenno biografico del libro — riferisce la polemica tra Amos e la classe sacerdotale, legata alla corte e al potere. Il sacerdote Amasia accusa Amos di cospirazione contro il re, e vuole cacciarlo dal santuario di Betel, ma Amos risponde con la serena consapevolezza della propria fedeltà alla missione ricevuta dal Signore.

Non ci sono particolari motivi per negare un fondamento storico all’episodio, anche se non è semplice identificare l’attività e la condizione sociale del profeta nel suo luogo d’origine.

vv. 12-13 – Il discorso di Amasia è ben costruito, con un sapiente uso del parallelismo e una cadenza ritmata, anche se sono tradotti in prosa. Evidente l’alterigie e il sarcasmo di chi si ritiene investito della funzione ufficiale di vegliare sull’istituzione regale.

Amos è chiamato «veggente» (chozeh) e non profeta (nabi’), ma questo di per sé non ha un accento spregiativo; la terminologia è varia e oscillante, specialmente per i profeti più antichi. Si sottolinea la contrapposizione fra i due regni: Amos, originario di Giuda, svolge il suo ministero in Samaria, e Amasia si ritiene autorizzato a respingerlo al suo paese. Il santuario di Betel è infatti un «tempio del regno», quasi un’istituzione politica, più che religiosa. Ritornato nel regno del Sud, Amos potrà tranquillamente guadagnarsi da vivere; nel Nord invece la sua attività è considerata sovversiva e pericolosa.

vv. 14-15 – Nella sua replica Amos afferma con forza la propria vocazione profetica. Egli non è stato sempre profeta, né ha mai appartenuto alle confraternite o scuole di profeti che allora abbondavano in Palestina. Al contrario, era un allevatore o un contadino, aveva un lavoro e forse delle proprietà che gli consentivano di vivere dignitosamente, senza dover ricorrere, come sembra insinuare Amasia, alla carità pubblica presso i santuari.

È il Signore che lo ha chiamato da dietro il gregge — come Mosè: cf. Es 3,1 —, e alla sua vocazione non si disobbedisce: è fuori discussione quindi che Amos abbandoni la sua missione.

Qualche incertezza nell’identificare esattamente il precedente mestiere di Amos: il v. 14 sembra alludere all’allevamento di bovini, mentre il 15 parla di «gregge», quindi di ovini. Quanto al sicomoro, la cui corteccia veniva incisa per utilizzarne i succhi, Amos sarebbe stato proprietario delle piante, da cui ricavava il foraggio per il suo bestiame. Sia che fosse un pastore o un incisore di sicomori, sia che fosse proprietario di terre o bestiame, in ogni caso Amos viveva del suo lavoro e non era profeta prima della vocazione.

Seconda lettura: Efesini 1,3-14

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.

In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra. In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo. In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,  avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.

La lettera agli Efesini, come quella ai Colossesi cui è molto vicina, fa parte delle cosiddette deuteropaoline, attribuite a Paolo secondo l’uso antico, ma dovute a una posteriore scuola paolina.

Il brano 1,3-14, inserito tra l’indirizzo e la preghiera di ringraziamento, costituisce un blocco monolitico, quasi un prologo alla lettera. È una benedizione, secondo la prassi liturgica giudaica, formata da un unico periodo in cui si susseguono frasi concatenate, quasi senza pause.

Il v. 3 – la formula di benedizione — è introduttivo. Il verbo benedire (euloghein) è ripetuto due volte, con sensi diversi: lodare Dio (da parte nostra), beneficare il popolo (da parte di Dio). Duplice anche il riferimento a Cristo: se ne afferma la relazione singolare con il Padre e la qualifica di Signore, e la sua opera salvifica: siamo salvati per mezzo di Cristo e in quanto incorporati a Lui nella Chiesa.

La prima parte – vv. 4-10 – descrive i contenuti della benedizione, con una serie di verbi con soggetto Dio:

1. l’elezione e la predestinazione alla filiazione divina (vv. 4-6a)

2. la grazia della redenzione (vv. 6b-7)

3. la conoscenza del piano salvifico (vv. 8-10), culmine dell’azione benedicente di Dio. Dio ha stabilito dall’eternità che Cristo sia l’amministratore dei tempi nuovi della salvezza, e rappresenti perciò la pienezza del tempo e della storia. «Ricapitolare» (anakephalaiosasthai) tutto in Lui significa portare all’unità tutto ciò che è frammentato e disperso, e anche sottoporre tutto il creato a Lui come capo di tutta la realtà.

La seconda parte – vv. 11-14 – descrive l’impatto storico della benedizione sulla comunità, con l’alternanza dei soggetti noi/voi:

1. il primo «noi» indica la comunità giudeo-cristiana, in cui Paolo si identifica, e la sua modalità di accesso alla salvezza: l’elezione divina, per cui la comunità diventa proprietà di Dio, come Israele (vv. 11-12).

2. il «voi» indica gli etno-cristiani, destinatari della lettera, e la loro modalità di appropriazione della salvezza (v. 13).

3. il secondo «noi» è inclusivo delle due componenti. Lo Spirito è caparra — acconto che garantisce — della salvezza per tutti i credenti (v. 14).

È una benedizione motivata dall’esperienza e dal riconoscimento dell’iniziativa salvifica di Dio, caratterizzata dall’economia trinitaria.

Vangelo: Marco 6,7-13

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.  E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Esegesi

La pericope della missione ai Dodici appare slegata dal contesto ed è quindi difficile la sua collocazione storica nella vita di Gesù. Marco pone l’episodio tra la predicazione a Nazaret e il martirio del Battista, e narra il ritorno dei discepoli prima della moltiplicazione dei pani (cap. 6). Si riconoscono molti contatti con i paralleli sinottici, Mt 10,1.5-15 e Lc 9,1-6.

Sembra che Marco desideri limitare al minimo la parte relativa all’insegnamento del ministero degli Apostoli: il contenuto della proclamazione non è infatti precisato, e il v. 12 si limita a un generico invito alla conversione.

L’importanza della missione tuttavia è fuor di dubbio, e sufficientemente testimoniata dalla relazione che ne fanno i tre evangelisti.

v. 7 – L’espressione «i Dodici» è cara a Marco. Bene attestata nell’ambiente giudaico la pratica di lavorare in coppia (cf. i discepoli del Battista e Paolo). Il «potere sugli spiriti immondi» è indicato più avanti, quando si dice che i discepoli riescono a operare un esorcismo (9,18).

vv. 8-9 – Le indicazioni di Gesù sull’equipaggiamento dei discepoli mostrano l’urgenza della missione: non ci si può attardare nei preparativi. Matteo e Luca vietano, tra l’altro, anche di portare con sé un bastone, permesso invece da Marco: indizio forse dei pericoli che presentava la situazione in cui fu scritto questo vangelo.

Il senso generale è comunque quello di testimoniare distacco dai bisogni terreni e fiducia in Dio. Il discepolo è libero da paure e ansietà per quanto riguarda le necessità quotidiane della vita: i gigli del campo e gli uccelli del cielo gli sono di esempio.

vv. 10-11 – L’ospitalità ricevuta e semplicemente accettata enfatizza l’importanza e la santità della missione. Il gesto di «scuotere la terra sotto i piedi» era compiuto dal giudeo al ritorno da una terra pagana, quasi a evitare ogni contatto tra il mondo pagano e la terra d’Israele. Qui il gesto è rivolto, non ai pagani in quanto tali, ma a chiunque rifiuta di accogliere il messaggio evangelico.

L’espressione «a testimonianza per loro» va intesa come una direttiva per un cambiamento del cuore, della mentalità: una conversione. Il senso del termine greco non è quello di un giuramento «contro qualcuno», ma piuttosto del «mettere in guardia».

vv. 12-13 -La predicazione è appena accennata, con parole familiari in Marco. Nuova (solo 3x nel N.T.: Lc 10,34 e Gc 5.14) è l’azione di «ungere (aleipho) con olio (elaion)» i malati, cui Marco attribuisce un’efficacia miracolosa per la guarigione.

Meditazione

Dopo l’insuccesso sperimentato da Gesù nella propria patria, l’evangelista Marco ci narra l’invio dei Dodici in missione. La deludente e fallimentare visita a Nàzaret non distoglie Gesù dalla sua attività missionaria; al contrario, egli sembra voler ancor più ampliare e intensificare il suo raggio d’azione chiamando i Dodici a collaborare alla sua opera di evangelizzazione. Ciò che finora ha fatto lui solo, ora è affidato anche alle mani e alla bocca dei suoi collaboratori.

In 3,13-19, riferendo la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici, Marco ne sottolinea i due scopi principali: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Da allora i Dodici hanno sempre accompagnato Gesù, condividendo la sua vita, ascoltando il suo insegnamento e assistendo ai suoi gesti prodigiosi. Ora è giunto il momento di porre in atto il secondo scopo indicato dal ‘programma’ apostolico: l’invio in missione. «E prese (lett. cominciò) a mandarli…» (v. 7). Abbiamo qui un inizio, una nuova tappa del cammino di sequela dei Dodici. È la prima volta, infatti, che vengono «mandati» (apostéllein) ed è significativo che solo dopo aver eseguito la loro missione saranno designati con il nome di «apostoli» (apostólous, inviati, mandati: v. 30).

Quando chiama (al v. 7 ricompare, per la seconda volta, lo stesso verbo della prima chiamata: proskaleîtai, «chiama a sé»; cfr. 3,13), Gesù lo fa sempre in vista di una missione, la sua è sempre una chiamata per. Così che la missione fa intrinsecamente parte della vocazione apostolica, della vocazione della Chiesa e di ogni vocazione. Non è qualcosa che si aggiunge in un secondo tempo alla sua struttura costitutiva: ne fa parte sin dall’inizio. E ciò che va ricordato al riguardo è che Dio sceglie sempre chi vuole, indipendentemente dalle sue qualità umane e spirituali, dalla sua condizione sociale, dal suo livello di preparazione culturale. Ne è un esempio il profeta Amos (prima lettura), semplice pastore e raccoglitore di sicomori, che il Signore un bel giorno, senza il minimo preavviso, chiama (anzi «prende») e manda a profetizzare al suo popolo (Am 7,14-15). Anche in questo caso, nel medesimo istante in cui chiama, Dio affida una missione («Va’…»), senza lasciare al chiamato troppo tempo per meditarci sopra…

Marco è l’unico evangelista a riferire che i Dodici sono inviati «a due a due». Certamente questo dato rispecchia la prassi della Chiesa primitiva (cfr. At 8,14; 13,2; 15,2.22; ecc.) e si fonda sul fatto che, secondo la prospettiva biblica, una testimonianza ha valore solo se convalidata da almeno due testimoni (cfr. Dt 19,15). Ma si può vedere in questo tratto qualcosa che non è estraneo alla natura stessa del messaggio che i missionari devono portare. Essi infatti non annunciano un sistema dottrinale o morale, ma la buona notizia del Regno, la vicinanza e la prossimità di Dio a ogni uomo, la comunione di vita che Egli vuole instaurare con tutti i suoi figli attraverso il Figlio suo. Per questo è importante vivere in prima persona questo messaggio di comunione, per evangelizzare anzitutto con la stessa vita e per rendere più credibile la parola che si proclama. Due persone formano già una piccola comunità (cfr. Mt 18,20), uno spazio cioè in cui è possibile vivere la relazione, la condivisione, il mutuo affetto e l’amore reciproco. Quando si è in due, poi, ci si può sempre aiutare e sostenere vicendevolmente, «infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro…» (Qo 4,9-12). E questo semplice fatto dell’andare insieme, a due a due, può essere già una ‘buona notizia’ per l’uomo di oggi, tanto afflitto dal male della solitudine e dell’isolamento…

Nelle istruzioni che Gesù dà ai Dodici al momento della loro partenza (ossia come devono equipaggiarsi per il viaggio e come devono comportarsi quando arrivano in un determinato luogo) non viene precisato né dove essi devono andare, né cosa devono dire: c’è solo questo andare in coppia, con un «potere» ricevuto per delega (quello sugli «spiriti impuri» che, in primo luogo, spetta solo a Gesù) e con un bastone, unico ‘bagaglio’ da avere con sé. I missionari devono andare ‘nudi’ e ‘leggeri’, consci di non avere nulla da offrire se non la parola stessa di Gesù e il suo potere, necessario per affrontare coraggiosamente la stessa lotta che egli ha ingaggiato contro lo spirito del male. Questa povertà estrema, questa sobrietà radicale, questa spoliazione assoluta che deve caratterizzare la missione non è un aspetto secondario, anzi: ne è la condizione indispensabile. Perché il vangelo si annuncia anzitutto con uno stile di vita connaturale al vangelo stesso, che insegna ad affidarsi a Dio non confidando in se stessi (perché, comunque, Lui si prende in ogni caso cura dei suoi figli più che degli uccelli del cielo e dei gigli del campo), che manifesta l’amore privilegiato di Dio per i più poveri (e quindi predilige anche i mezzi poveri), che spinge ad andare incontro a tutti senza fare discriminazioni di sorta (e quindi ad accettare con gratitudine l’ospitalità di chiunque senza cercarne una migliore). In questo la Chiesa di ogni tempo è sempre chiamata a confrontarsi e a verificarsi.

Il discorso ai missionari si chiude con una nota ‘domestica’ e, altresì, ‘drammatica’. Il «rimanere in una casa» (v 10) apre uno squarcio sulla dimensione intima, familiare, quotidiana della vita. La parola evangelica ha bisogno di incarnarsi in primo luogo lì, nel tessuto più ordinario dell’esistenza, tra le mura dove nasce e cresce l’amore, dove si imparano a vivere le relazioni, ma dove anche cominciano a sorgere le prime sofferenze, le prime incomprensioni, le prime rotture. «Casa» dice luogo dove si abita, si dimora; così Dio vuole abitare, prendere dimora in ogni nostra casa.

Ma questa stessa «casa» può diventare luogo di rifiuto di non accoglienza. «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero. » (v. 11). Sembra quasi che la parola del vangelo abbia difficoltà a trovare un terreno buono in cui porre radici tanto e sottolineato, nel nostro testo, il rilievo dato alla chiusura, all’opposizione. Il rifiuto è messo in preventivo fin dall’inizio. Ma questo non deve scoraggiare il discepolo (non è stato così anche per il suo Maestro?): egli deve solo portare a termine, con tutto l’impegno possibile, il compito affidatogli, lasciando poi a Dio il risultato. Nella certezza che la parola di Dio possiede una forza e una efficacia che gli permetteranno comunque di portare frutto.

Preghiere e racconti

Hanno annunciato

“Signore, tieni presenti le loro minacce, e concedi ai tuoi servi di annunciare la tua Parola in tutta franchezza“. (At 4,29)

Hanno annunciato che un sapone fa primavera,

hanno proclamato che un tipo di benzina

t’assicura il coraggio e formidabile potenza.

Hanno gridato per le piazze e sui tetti

le pseudosicurezze dell’uomo robotizzato.

Ma hanno taciuto il Verbo

e nelle loro bocche si è spenta perfino la parola:

la parola della vera amicizia e del cordiale saluto.

Hanno annunciato che la pace

è fatta di tante uova di cioccolata,

e della tredicesima, e di molte banconote,

di frigoriferi colmi d’ogni bene,

e di appartamenti in città con bagni di maiolica.

Ma la violenza è esplosa per le strade

e dalle uova di cioccolata sono nati serpenti

che celano nella coda mitra e bombe molotov.

O uomini e donne del nostro tempo,

noi manchiamo di vero annuncio,

perché manchiamo di conoscenza contemplativa.

Ignoriamo la parola che nasce dal Verbo di Dio

perché abbiamo smarrito il silenzio,

anzi ne abbiamo paura.

E lo uccidiamo perfino al mare e sui monti

a colpi di radioline e transistor.


Ma invano noi edifichiamo la città

se non è il Signore a costruirla con noi.

Se la sua Parola non ci penetra e non ci cambia

invano attendiamo la pace

da noi e dai nostri fratelli.

(MARIA PIA GIUDICI, Risonanze della parola).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

Il Signore non solo ammaestra i Dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. «Due sono meglio di uno», dice l’Ecclesiaste (Qp 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né  pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia né pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti. […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] «Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: «Chi è malato chiami a se i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio» (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento al vangelo di Marco 6, PG 123,548C-549C).

 

Il mio sì

Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Io occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco, povero disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Egli mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti tanto necessario al posto mio quanto un arcangelo al suo. Egli non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace un predicatore della verità nel posto che egli mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché io segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione.

(John Henry Newman).

Portatrici dell’amore di Cristo

Cerchiamo di vivere lo spirito delle missionarie della carità fin dall’inizio, spirito di totale abbandono a Dio, di amorevole fiducia reciproca e di gioia in ogni situazione.

Se accettiamo veramente questo spirito, allora saremo sicuramente delle autentiche cooperatrici di Cristo, le portatrici del suo amore. Questo spirito deve irraggiare dal vostro cuore sulle vostre famiglie, sul vostro vicinato, sulle vostre città, sul vostro paese, sul mondo. Cerchiamo di aumentare sempre di più il capitale dell’amore, della cortesia, della comprensione e della pace. Il denaro verrà, se cerchiamo anzitutto il regno di Dio: allora ci sarà dato il resto.

(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Ed. San Paolo).

Una Chiesa missionaria

«Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si  apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione del mondo come riservato agli “specialisti”, quali potrebbero essere i missionari, ma lo sentirà come proprio in tutta la comunità» (CVMC 46). «La Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo» (CVMC 63).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

parola del Padre a te ci rivolgiamo.

Custodisci i nostri propositi,

ravviva il nostro servizio ecclesiale,

sorreggi le nostre fatiche,

guida i nostri passi

nella ricerca delle vie più adatte

per annunciare il tuo vangelo.

La nostra povertà è grande,

noi non confidiamo in noi stessi, ma solo in te:

incoraggiaci, assicuraci, donaci la tua benedizione.

Tu che, con il Padre e lo Spirito Santo,

vivi e regni in noi nella tua Chiesa,

per tutti i secoli dei secoli. Amen.

(Paolo VI).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

XV DOM TEMP ORD ANNO B

Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia

 

Dopo la sessione tenutasi a Roma dal 26 marzo al 30 marzo, il Master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia – organizzato dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia della CEI in collaborazione con il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia – dall’8 al 21 luglio si sposta in Valle d’Aosta, a La Thuile.

Come spiega il direttore dell’Ufficio nazionale, don Paolo Gentili, si offre così alle Chiese locali uno strumento formativo universitario, maggiormente fruibile a chi coltiva la necessità di una preparazione all’altezza delle nuove esigenze della pastorale matrimoniale e familiare.

L’accompagnamento dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia assicura anche, per quanto possibile, lo stile comunitario della convivenza durante i corsi, favorendo le relazioni interpersonali, il confronto con realtà vocazionali diverse e una intensa vita spirituale.

Il Master punta a una formazione accademica interdisciplinare in Scienze del Matrimonio e della Famiglia per sostenere quanti operano da esperti nella pastorale familiare, attraverso una preparazione specifica che li abilita a testimoniare e ad annunciare nelle comunità il “vangelo del matrimonio e della famiglia”.
In particolare, si propone di preparare formatori di formatori nel campo della pastorale familiare; sposi capaci di dare un contributo competente e significativo allo sviluppo della teologia del matrimonio e della famiglia; esperti in tematiche riguardanti la visione integrale della persona, il disegno di Dio sull’amore umano e il valore della vita; animatori che valorizzano l’apporto della teologia, della filosofia e delle scienze umane nell’ambito della cultura e della vita sociale a servizio della famiglia.

 

 

Dal 14 al 24 luglio la 42° edizione di Giffoni Experience

Dal 14 al 24 luglio torna Giffoni Experience, la rassegna cinematografica per giovani, giunta alla 42ª edizione.

Ospiti internazionali e italiani, 8 anteprime in esclusiva e tanti film in concorso, migliaia di ragazzi trasformeranno Giffoni Valle Piana (Sa) in una festa all’insegna del sano divertimento e della gioia di vivere. Undici giorni di cinema, arte, cultura e tanta musica, grazie alla collaborazione del Neapolis Rock Festival, che coinvolgeranno non meno di 180 mila persone, 30 mila in più rispetto al 2011. 168 opere in programma (75 lungometraggi e 84 cortometraggi), 3.300 giovani dai 3 ai 23 anni provenienti da 54 nazioni e 160 città italiane, 50 espositori, 50 spettacoli di strada, musical, teatro e burattini, 70 appuntamenti di giochi e animazioni diffusi in tutto il paese: sono alcuni numeri della kermesse.

La “Felicità” è il tema che farà da filo conduttore all’edizione 2012. Gigliola Alfaro, per il Sir, ha posto alcune domande a Claudio Gubitosi, fondatore e managing director.

Non è difficile parlare di felicità in tempo di crisi?
“Parliamo di felicità in tempo di crisi, seguendo un percorso che parte nel 2010, per i 40 anni del Festival, con il tema dell’amore ed è proseguito l’anno scorso con ‘link’, cioè il mettersi in rete. Adesso la felicità: abbiamo tutti il diritto di essere felici, ma di questi tempi dobbiamo ricercare la felicità partendo dalle piccole cose e dai piccoli gesti. Per esempio, sono felicissime le 1.600 famiglie di Giffoni che adottano i nostri giovani giurati. Il tempo di crisi per me non riguarda solo l’economia e la finanza, ma c’è crisi dentro le persone: le famiglie sono sconvolte, i ragazzi preoccupati perché vedono i genitori in difficoltà e hanno davanti un futuro incerto. In tempo di crisi la felicità allora va scovata nella quotidianità. A me interessa portare questa rivoluzione dentro le coscienze delle persone. La felicità non è solo condividere la vita con chi Dio ci ha dato accanto, ma anche guardare al futuro con più ottimismo, con le risorse che abbiamo dentro. Più i tempi sono duri, più Giffoni si apre”.

Quali sono le novità di Giffoni Experience 2012?
“Oltre al tema dominante sulla felicità, il festival di quest’anno si caratterizza anche per essere ‘diffuso’ e ‘condiviso’. Durante l’anno abbiamo voluto costruire il programma di Giffoni con i ragazzi che non sono più solo giurati: sono i veri protagonisti e anche gli organizzatori del festival in ogni angolo del mondo. Qui torna la felicità: perché i ragazzi sono felici di partecipare a un evento che hanno costruito e condiviso con noi. Ma non solo: la kermesse sarà condivisa a livello territoriale con il paese di Giffoni. Infatti, sono previsti grandi eventi e piccole perle, spettacoli nelle grandi e piccole piazze, artigianato locale e artistico, degustazione di prodotti tipici locali, eccellenza del territorio ma anche di altre Regioni d’Italia”.

Sarà una manifestazione per tutti?
“Sì, abbiamo scelto di operare una politica di ‘ammortizzatori sociali’. Il 90% delle nostre attività è gratuito; per permettere, poi, a tutte le famiglie di partecipare ai grandi concerti, ci saranno biglietti d’ingresso con un prezzo veramente irrisorio. Come sempre diamo fiducia ai ragazzi, ma abbiamo voluto fare di Giffoni anche una sorta di family festival. Una kermesse, la nostra, che guarda al futuro, ma anche al passato: nella giornata di apertura, il 14 luglio, riproponiamo la festa dei Gigli di Nola, che, con 1400 anni di storia, è una delle manifestazioni popolari più note e più importanti del nostro Paese, candidata nel 2013 come patrimonio dell’Unesco. Inizieremo così con una carica di energia e felicità che segneranno tutto il percorso 2012 di Giffoni. Solo da Nola attendiamo 3 mila persone. Quest’anno vogliamo sperimentare una nuova formula: sobrietà e niente tappeti rossi, qualità dell’offerta culturale, ma estremamente popolare. Ci auguriamo che questa formula sia gradita a tutti”.

Giffoni non è solo cinema, musica, spettacolo: grande è l’impegno sociale…
“Proprio oggi ‘inauguriamo’ il festival con una nostra presenza all’Ospedale Bambin Gesù di Roma. La Disney ha accolto la nostra idea di proporre i suoi film ai piccoli pazienti del nosocomio. Sempre sulla spinta di Giffoni la città di Salerno ha siglato un protocollo con l’Ospedale Bambin Gesù per un primo centro per bambini autistici. Come sempre, poi, realizziamo una campagna contro l’uso di droghe e a favore della sicurezza stradale. Quest’anno 12 vigili urbani di Milano faranno lezioni di scuola guida e sicurezza ai ragazzi. Con il Cai (Club alpino italiano) e il Trento Film Festival organizzeremo arrampicate ed escursioni. Ci saranno gli studenti del liceo scientifico Raffaele Piria di Rosarno che presenteranno in esclusiva a Giffoni il musical Jesus Christ Superstar. Ancora: la campagna per la corretta alimentazione, il rispetto dell’ambiente, momenti di gioco con l’Associazione nazionale San Paolo Italia (Anspi) o di riflessione su diritti umani, solidarietà e impegno sociale con i progetti di Aura (l’associazione del Giffoni per il sociale), Amnesty, Actionaid, Telefono Azzurro, Anffas e con l’assessorato alla Sanità della regione Campania il progetto ‘Lavoro, non bevo’”.

da: SIR 10/07/12

Selezione Nazionale. Progetti di formazione diocesana per catechisti

Anno pastorale 2013 – Anno della Fede

Presentazione del Regolamento

L’Ufficio Catechistico Nazionale (UCN) della CEI e in collaborazione con il Servizio per la promozione del sostegno economico alla Chiesa cattolica (SPSE) della CEI, indice una Selezione Nazionale di Progetti di Formazione Diocesana per Catechisti.

Alla luce degli orientamenti pastorali 2010-2020 dell’Episcopato Italiano Educare alla vita buona del Vangelo, annunciare Cristo significa portare a pienezza l’umanità e quindi seminare cultura e civiltà.

Non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa. Così anche i temi legati al sostegno economico alla Chiesa possono affiancarsi a pieno titolo a tutti gli altri aspetti pastorali che concorrono ad educare alla vita buona del Vangelo.

Perciò il titolo della selezione è “Non di solo pane. Formazione catechistica, corresponsabilità economica e partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa”.

La selezione coinvolge gli Uffici Catechistici Diocesani (UCD) nella formazione dei catechisti e tra gli obiettivi si pone anche quello di valorizzare il precetto di “sovvenire alle necessità della Chiesa”, diffondendo i valori alla base del suo sostegno economico ed educando i fedeli ad una loro effettiva corresponsabilità e partecipazione alla vita della Chiesa.

Scarica il Regolamento completo

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio- Anno B

Prima lettura: Ezechiele 2,2-5

In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

Nei capp. 1-3 del libro di Ezechiele troviamo raccolte alcune visioni avute dal profeta Ezechiele: la visione del «carro del Signore», che indica la mobilità di Dio che segue il suo popolo dovunque, anche in terra di esilio (1,4-28; 3,12-16) e la visione del libro, che sottolinea come le parole dette dal profeta sono in realtà parole di Dio (2.1-3,11). Si ritiene che la visione del libro fosse quella inaugurale, legata cioè alla visione di Ezechiele (nel 593 a.C.). La nostra breve I Lettura contiene appena gli inizi di questa suggestiva scena programmatica, in cui il Signore ordina al profeta di mangiare e assimilare il libro, ossia la sua Parola.

Questi quattro versetti (vv. 2-5) andrebbero integrati nell’insieme della visione, per meglio coglierne la valenza profetica.

— Nella loro brevità, contengono preziose indicazioni sulle tre fondamentali coordinate di ogni missione: il mandante, il mandato, i destinatari.

a) Mandante, colui che manda Ezechiele («io ti mando», v. 3) è il Signore Dio. Qui il profeta non lo contempla direttamente ma attraverso alcuni segni della sua presenza: uno spirito (= ruah) o forza divina che lo solleva e lo rende capace di ascolto (v. 2), la parola o voce (v. 3), una mano tesa contenente un rotolo (v. 9). Segni che velano la vera identità di Dio e ne sottolineano il mistero, la trascendenza.

b) Mandato è il profeta, caratterizzato frequentemente (più di 90 volte) qui e altrove, come Figlio dell’uomo, figlio di Adamo tratto dalla terra, e pertanto essere debole, fragile, effimero. Nonostante questa sua condizione di estrema debolezza, il profeta è abilitato a parlare in nome di Dio, a riferirne le parole: Dice il Signore Dio (v. 4). Il fatto che il profeta è mandato ed esercita la sua missione («un profeta si trova in mezzo a loro», v. 5) dimostra — di per sé e indipendentemente dall’ascolto che avrà («ascoltino o non ascoltino») che Dio è presente nella storia del suo popolo e veglia sul suo piano salvifico. Il fatto stesso della presenza di un profeta prova l’interesse di Dio per il suo popolo.

c) Destinatari della missione sono gli Israeliti, storicamente gli esuli delle 10 tribù del nord ed il resto del regno di Giuda. La storia lunga della loro infedeltà, considerata sia nel passato («i loro padri») che nel presente («di me fino ad oggi», v. 3) è caratterizzata come storia di ribelli non contro una legge o un patto, ma «contro di me» (cf. v. 5).

Tre espressioni caratterizzano l’infedeltà degli israeliti:

— si sono rivoltati contro di me (v. 3), per la precisione si tratta del gesto arrogante con cui il suddito rifiuta il vassallaggio al proprio sovrano;

— hanno peccato (v. 3), cioè hanno trasgredito precisi obblighi e statuti che avevano con me;

figli testardi e dal cuore indurito (v. 4). Alla lettera: impudenti di faccia e duri di cuore. Il peccato si traduce in un duplice indurimento, interiore (cuore) ed esteriore (faccia), che solo un cuore di carne (cf. Ez 36,26) potrà eliminare.

Seconda lettura: 2 Corinzi 12,7-10

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Ci troviamo all’interno della terza sezione della 2Cor, rappresentata dai capp.  10-13. È una sezione particolare che si può definire globalmente Apologia di Paolo (come fa la Bibbia di Gerusalemme) dai toni violenti e sferzanti: l’Apostolo difende il suo ministero contro alcuni «falsi apostoli» (11,13) che lo accusano e lo screditano davanti alla comunità di Corinto. L’Apostolo parla anche di se stesso, facendo in certo qual modo il proprio elogio. La lettura odierna rappresenta un momento importante di questa confessione autobiografica (11,22-12,13), riconoscendo che dietro la sua debolezza agisce la potenza di Dio (12,7-10).

Siccome precedentemente ha parlato di favori e rivelazioni, Paolo parla ora di una prova particolare destinato a evitare che egli monti in superbia (v. 7).

Il breve brano presenta alcuni punti, che vanno chiariti. Consideriamo le seguenti espressioni:

a) una spina nella carne, termine enigmatico, variamente interpretato nella storia dell’esegesi: malattia cronica, persecuzioni (padri latini e greci), tentazioni contro la castità (Gregorio Magno), ecc. Oggi si tende a vedere nella «spina» una malattia che poneva intralci e ritardi al ministero di Paolo.

b) un inviato di Satana, inteso in senso metaforico, esprime la convinzione ebraica secondo cui prove, disgrazie, sofferenze, vengono non da Dio, ma da Satana. È la stessa concezione che troviamo nel libro di Giobbe (cf. Gb 2.6).

c) mi vanterò, mi compiaccio (vv. 9.10), sono verbi che dovrebbero avere come oggetto realtà gloriose: vittorie, virtù, imprese, ecc. Paradossalmente qui hanno come oggetto delle condizioni di cui umanamente ci si vergogna: «debolezze», «infermità», «angosce», ecc.

d) quando sono debole, è allora che sono forte (v. 10). Altro noto paradosso.

Questi paradossi esprimono questa convinzione di Paolo: è la potenza salvifica di Cristo che opera in lui quando è debole. Ecco perché non solo accetta le prove, ma addirittura si vanta e si compiace in esse.

Vangelo: Marco 6,1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.  Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Esegesi

Dopo una serie di prodigi culminati nel racconto di una risurrezione (c. 5) si direbbe che Mc comincia a preparare il destino di condanna e di morte, cui Gesù va incontro, narrando le reazioni di scetticismo e di rifiuto che egli affronta nella sua stessa patria (6,1-6), cioè a Nazaret. È questo il brano del Vangelo di questa domenica.

— Lo stupore, in senso scettico, che l’insegnamento di Gesù desta nei suoi compatrioti, si esprime in una serie incalzante di cinque domande (vv. 2-3). Esaminiamone distintamente il senso:

a) Prima domanda: Da dove gli vengono queste cose? (v. 2), «queste cose» sono le cose che insegna. L’insegnamento di Gesù potrebbe avere diverse origini, ed il dove? varie risposte: dal cielo o dagli uomini (cf. Mc 11,30), da Satana (3,22.30), ecc. Il fatto che, pur conoscendone il nome, i suoi compatrioti lo indichino ripetutamente dicendo «costui» esprime distanza e dubbio.

b) Seconda domanda: dietro l’insegnamento c’è un certo tipo di sapienza che secondo gli ascoltatori egli non possiede da sé, ma gli è stata data. Questo passivo esige un completamento, un agente: sapienza data da chi? Le risposte possono essere due: o da Dio (passivo «divino»), o da Satana (passivo «diabolico»). Il fatto che i compatrioti si scandalizzino di lui (v. 3) indica che essi pensino alla seconda, non alla prima, possibilità.

c) Terza domanda, relativa ai prodigi cui si assiste (vedi cap. 5). Se i prodigi avvengono attraverso le mani del taumaturgo, la domanda che ci si pone è: chi opera questi fatti tramite Gesù? Se si esclude che egli sia il Messia, non resta altra risposta che questa: non Dio, ma il diavolo opera questi strani miracoli.

d) Quarta e quinta domanda, partono dall’origine di Gesù, nota a tutti, per affermare che non può essere il Messia, che invece — secondo la tradizione ebraica — non sarebbe stato conosciuto da nessuno, date le sue origini misteriose. Di Gesù si indica prima la nota professione personale, il falegname (non «il figlio del carpentiere» come in Mt 13,55), e poi le persone della sua parentela: figlio di Maria (probabilmente è avvenuta già la morte di Giuseppe), con «fratelli» e «sorelle» (congiunti) a tutti noti.

Ed era per loro motivo di scandalo (v. 3). «Scandalizzarsi» propriamente designa una caduta provocata da un inciampo (skándalon). Nel Nuovo Testamento spesso questo termine lo si indica in senso religioso, un’occasione di peccato, una seduzione all’apostasia e all’incredulità. Gesù diventa occasione di scandalo per i suoi compaesani, perché in certo senso ne provoca la caduta (peccato di incredulità) con il suo insegnamento e le sue azioni.

Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria (v. 4). Indirettamente e senza grosse polemiche, Gesù reagisce enunciando il principio del profeta disprezzato in patria; e non solo nel suo paese natio, ma anche tra i suoi parenti e nella sua stessa famiglia. Marco accentua questi due ultimi termini (parentela, famiglia) radicalizzando così il rifiuto che Gesù ha trovato tra i suoi (vedi 3,21). Dicendo «un profeta» e attribuendo a sè tale detto, in qualche modo Gesù rivendica la dignità e le prerogative del profeta escatologico rifiutato dagli altri.

E lì non poteva compiere nessun prodigio (5a). Frase apparentemente in contrasto con quella che segue: impose le mani a pochi malati e li guarì (5b). In realtà, l’evangelista non vuole assolutizzare il principio che l’incredulità escluda del tutto i miracoli e paralizzi la compassione di Gesù. Con il v. 5b vuole lasciarci un’impressione positiva.

Si meravigliava della loro incredulità (v. 6). Anche se ha enunciato il principio del v. 4 (un profeta non è disprezzato che…). Gesù prova un certo stupore verso l’incredulità dei suoi. Questo vuol dire che, benché sia di regola così, l’incredulità non è, per lui un fatto scontato, da accogliere con supina rassegnazione.

Meditazione

La pagina evangelica di questa domenica ci narra la visita di Gesù alla sua città natale. È la prima volta che Gesù, dall’inizio del suo ministero pubblico, fa ritorno nella sua patria. A Nazaret «era stato allevato» (Lc 4,16) e aveva trascorso i primi trent’anni della sua vita (cfr. Lc 3,23), conducendo un’esistenza segnata dall’ordinarietà e dalla condivisione del comune destino dei suoi abitanti. Gli evangelisti non ci dicono pressoché nulla di questi anni di vita ‘nascosta’ e noi non possiamo far altro che prendere atto di questo riserbo rispettando un silenzio che, forse, la dice lunga sulla ‘serietà’ di quel mistero che noi chiamiamo incarnazione.

Possiamo immaginare la curiosità e l’animazione dei nazaretani nel rivedere un loro concittadino diventato tanto ‘famoso’ negli ultimi tempi (già dopo il primo miracolo a Cafàrnao si dice che «la sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea»: Mc 1,28). Una curiosità che si tramuta in stupore appena cominciano a sentirlo parlare nella loro sinagoga, nella consueta celebrazione liturgica sabbatica. «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?…» (vv. 2-3). L’evangelista accumula qui una serie di ben cinque domande per dare corpo a tutta la meraviglia degli abitanti di Nàzaret: come è possibile che quest’uomo parla in questo modo e compie tali cose? Lo conosciamo bene tutti: è uno di noi…! E così lo stupore iniziale cede subito il passo a un atteggiamento di scetticismo e di incredulità: «Ed era per loro motivo di scandalo» (v. 3b). È lo sconcerto di chi non riesce a mettere insieme una sapienza e una potenza che si reputa non possano venire altro che da Dio con le modeste e umili origini di colui che è conosciuto come «il falegname, il figlio di Maria» (v. 3a). Come può il divino conciliarsi con un umano così ‘umano’? Come può Dio manifestarsi in una realtà così quotidiana e familiare? La presunta conoscenza di Gesù da parte dei nazaretani è l’ostacolo più grande alla loro apertura di fede, a una fede che si apre a un ‘oltre’ che travalica l’immediatezza della propria esperienza quotidiana, pur non negandola. «La meraviglia è un pochino sempre a doppio esito: c’è la meraviglia che vuol capire, che si lascia educare a capire. […] E c’è invece la meraviglia che non nasce dall’intelligenza, cioè dalla volontà dell’uomo di capire, di piegarsi e di incontrare la verità o comunque ciò che gli si manifesta: ma è la meraviglia della ragione, che conduce a misurare questa cosa secondo il metro che sono io. Questa meraviglia conduce all’incredulità e al rifiuto, mentre la prima conduce all’ammirazione, si lascia educare dall’avvenimento, si lascia piegare» (G. Moioli).

È  significativo che a questa meraviglia incredula faccia eco l’amara meraviglia di Gesù: «E si meravigliava della loro incredulità» (v. 6a). Gesù non riesce a capacitarsi che si possa arrivare a un tale livello di incredulità. E proprio tra i suoi parenti, nella sua casa, nella sua patria… Sembra una costante nella storia della salvezza, ma proprio i più vicini, coloro che dovrebbero conoscere meglio l’inviato di Dio, che vantano con lui una certa familiarità, sono quelli che meno accolgono il suo messaggio, che più si chiudono alla sua azione. Ne sono testimonianza le parole disincantate che il profeta Ezechiele riceve da parte del Signore: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli… Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito…» (Ez 2,3-4; prima lettura). Il detto popolare, citato da Gesù, sul profeta disprezzato tra i suoi (cfr. Mc 6,4) è una conferma di questo atteggiamento di ‘ribellione’ del popolo al quale Dio manda i suoi messaggeri. Si potrebbe dire che Gesù è sì stupito e sorpreso di questo rifiuto, ma non impreparato: conosce, infatti, la sorte di tutti i profeti che lo hanno preceduto.

In questo clima di incredulità Gesù non può compiere alcun miracolo. La non-fede degli abitanti di Nàzaret ha il triste effetto di ridurre all’impotenza Gesù («E lì non poteva compiere nessun prodigio»: v. 5a); al contrario della fede della donna emorroissa e del capo della sinagoga Giairo (cfr. Mc 5,21-43), che permettono a Gesù di sprigionare tutta la sua potenza salvifica, capace persino di risuscitare i morti! La fede può tutto (cfr. Mc 9,23), l’incredulità invece rende impossibile ogni opera di Dio. I gesti e i prodigi che Gesù compie sono sempre in vista della fede e in risposta a essa; per questo non ha alcun senso un miracolo fuori dall’’ambito vitale’ in cui solamente esso può avvenire.

Tuttavia, prima di lasciare la sua città, Gesù riesce a compiere qualche guarigione (cfr. v. 5b), segno che il rifiuto non è stato totale: qualche barlume di fede si è trovato anche lì, tra i suoi compatrioti. L’insuccesso sperimentato non ferma la ‘corsa’ del vangelo: a dispetto di tutto, Gesù continua a percorrere i villaggi della Galilea portando a tutti la sua parola di vita. Anche da profeta inascoltato e disprezzato continua a diffondere con fiducia il seme del vangelo.

Un’ultima osservazione circa la ‘parentela’ di Gesù. Già in Mc 3,33 Gesù chiedeva ai suoi ascoltatori: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Conosciamo la risposta che lo stesso Gesù da subito senza aspettare la reazione dei suoi interlocutori. Qui a Nàzaret, dove Gesù giunge con i suoi discepoli (la sua ‘nuova famiglia’), si fa ancora più acuto il contrasto tra parentela ‘carnale’ e parentela ‘di fede’. La prima non è negata, né  disprezzata, ma, ai fini della comunione con il Signore, deve sfociare nella seconda. Perché il solo legame che rende ‘familiari’ del Figlio dell’uomo è l’obbedienza della fede e l’ascolto sincero della parola di Dio.

Preghiere e racconti

Viveva di fede come noi

«Quanto avrei voluto essere sacerdote per poter predicare sulla Madonna! Una sola volta sarebbe stata sufficiente per dire tutto quello che penso a questo proposito. Prima avrei fatto capire quanto poco conosciamo la sua vita. Non occorre dire cose inverosimili o che non sappiamo; per esempio che, da piccola, a tre anni, la Madonna ha offerto se stessa a Dio nel Tempio con sentimenti ardenti di amore e del tutto straordinari ; mentre forse ci é andata semplicemente per obbedire ai suoi genitori… Perché una omelia sulla Madonna possa piacermi e farmi del bene, occorre che io veda la sua vita reale, non la sua vita supposta ; e sono certa che la sua vita reale era molto semplice. Ce la mostrano inabbordabile, mentre bisognerebbe mostracela imitabile, fare vedere le sue virtù, dire che viveva di fede come noi, dare delle prove di questo per mezzo del Vangelo in cui leggiamo : « Non compresero le sue parole » (Lc 2,50). E questa parola molto misteriosa : « I suoi genitori si stupivano delle cose che si dicevano di lui » (Lc 2,33). Questo stupirsi suppone un certo meravigliarsi, non è vero? Sappiamo bene che la Madonna è Regina del Cielo e della terra, eppure è più madre che regina, e non occorre dire a motivo delle sue prerogative, che lei eclissi la gloria di tutti i santi, come il sole al suo sorgere fa scomparire le stelle. Mio Dio! quanto questo mi appare strano! Una madre che fa scomparire la gloria dei suoi figli! Io penso tutto il contrario, ritengo che essa farà crescere molto lo splendore degli eletti. È bene parlare delle sue prerogative, ma non occorre dire soltanto questo… Forse qualche anima andrà fino al punto di sentire allora una certa lontananza con una tale creatura talmente superiore e dirà : « Se le cose stanno così, ci accontenteremo di andare a brillare in un angolino».Ciò che la Madonna aveva in più rispetto a noi, era il fatto che non poteva peccare, che era esente dalla macchia originale, ma d’altra parte, è stata meno fortunata di noi, poiché non ha avuto la Madonna da amare, e questa è una tale dolcezza per noi».

(Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), carmelitana, dottore della Chiesa, in Ultimi colloqui, 21/08/1897).

Secondo la fede

Così la multiforme sapienza di Dio distribuisce la salvezza degli uomini con una molteplice e insondabile compassione e accorda il dono della sua generosità secondo la capacità di ciascuno. Per le guarigioni stesse che opera non vuole regolarsi sull’uniforme potenza della sua maestà, ma sulla fede che trova in ciascuno di noi o che egli stesso ha distribuito. L’uno crede che per essere purificato dalla lebbra basti la sola volontà di Cristo; Cristo lo guarisce con il solo assenso della sua volontà dicendo: «Lo voglio, sii guarito» (Mt 8,3). Un altro lo supplica di venire da lui e di resuscitare sua figlia imponendole le mani; entra a casa sua e gli concede l’oggetto della richiesta nella maniera sperata (cfr. Mt 9,18). Un terzo crede che la salvezza risieda nell’ordine dato con parole: «Dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8); con il comando della sua parola restituisce alle membra illanguidite il loro vigore primitivo: «Va’ e ti sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13). Altri sperano di trovare guarigione toccando la frangia del suo vestito; egli dona loro con generosità il dono della salute (cfr. Mt 9,20). Accorda agli uni la guarigione delle loro malattie su loro richiesta, ad altri offre un rimedio spontaneo, altri li esorta alla speranza dicendo: «Vuoi essere guarito?» (Gv 5,6); porta il suo aiuto ad altri che non speravano più. Sonda i desideri degli uni, prima di soddisfare la loro volontà: «Che volete che vi faccia?» (Mt 20,32). A un altro che non sa per quale via ottenere quello che desidera, dice con bontà: «Se credi, vedrai la gloria di Dio» (Gv 11,40). Su altri effuse abbondantemente la sua potenza di guarigione al punto che l’evangelista riferendosi a essa concluse: «Egli guarì tutti i loro malati» (Mt 14,14); presso altri, però, l’abisso senza limiti dei suoi benefici venne bloccato tanto che si disse: Gesù non poteva operare nessun miracolo a causa dell’incredulità (cfr. Mc 6,5-6). E così la generosità di Dio si conforma alla capacità di fede dell’uomo, al punto di dire a uno: «Ti avvenga secondo la tua fede» (Mt 9,29); a un altro: «Va’ e ti sia fatto come hai creduto» (Mt 8,13); e a un altro: «Ti sia fatto come tu vuoi» (Mt 15,28); e a un altro ancora: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34).

(GIOVANNI CASSIANO, Conferenze 13,15, SC 54, pp. 175-176).

I sepolcri imbiancati

II maestro sembrava non essere assolutamente toccato da ciò che la gente pensava di lui, pur non essendo sempre un rigorosissimo osservante. Quando i discepoli gli chiesero come avessero raggiunto questo grado di libertà interiore, egli rise forte e disse: «Fino a 20 anni non mi è importato nulla di che cosa la gente pensasse di me; dopo i 20 anni mi preoccupavo immensamente di che cosa pensassero i miei vicini; poi un giorno, dopo i 50 anni, capii improvvisamente che essi non pensavano minimamente a me».

(Racconto ebraico).

Questi è davvero il profeta

Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14). […] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr. Is 9,6). E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.

(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant’Agostino, pp. 564-566).

Ogni giorno è da vivere

Ogni mattina

è una giornata intera

che riceviamo dalle mani di Dio.

Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi.

Non vi è nulla di troppo e nulla di «non abbastanza»,

nulla di indifferente e nulla di inutile.

È un capolavoro di giornata

che viene a chiederci

di essere vissuto.

Noi la guardiamo come una pagina d’agenda,

segnata d’una cifra e d’un mese.

La trattiamo alla leggera

come un foglio di carta.

Se potessimo frugare il mondo

e vedere questo giorno elaborarsi

e nascere dal fondo dei secoli,

comprenderemmo il valore di un solo giorno umano.

(M. Delbrêl).

Bramo la tua voce, o Dio

Quando mi fermo stanco sulla lunga strada

e la sete mi opprime sotto il solleone;

quando mi punge la nostalgia di sera

e lo spettro della notte copre la mia vita,

bramo la tua voce, o Dio,

sospiro la tua mano sulle spalle.

Fatico a camminare per il peso del cuore

carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,

la voglio riempire di carezze,

tenerla stretta:

i palpiti del tuo cuore

segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

(Rabindranath Tagore)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

XIV DOM TEMP ORD ANNO B