GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO Lectio-Anno B

Prima lettura: Daniele 7,13-14

Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.

La visione del Figlio dell’uomo in Dn 7,13ss chiude la prima visione apocalittica del nostro libro. La si trova al centro del c. 7 e poi alla fine della spiegazione dei simboli (7,26s). Nella prima parte, sotto lo sguardo profetico del veggente, si svolge la paurosa attività delle 4 bestie simboliche, che salgono dalle acque del mare mosse dai 4 venti. Esse rappresentano 4 famosi re, che dalle descrizioni sembrano identificarsi con l’impero babilonese («terribile leone dal cuore d’oro»), con l’impero medo («orso che divora Babilonia»), con il persiano («leopardo» dalle 4 teste di regnanti), con il greco («mostro dai denti di ferro, che tutto

stritola» assieme al tiranno che combatte contro i Santi di Dio, probabilmente l’empio Antioco IV del 168 a.C. persecutore dei pii Giudei).

Si trattava di eventi del passato collegati alla situazione contemporanea, visti secondo la nota concezione apocalittica: l’agitarsi delle acque primordiali, da cui provengono le forze del male, sotto il vigile controllo della ruah, lo spirito di JHWH, come in Genesi 1,1-2; governanti e imperi si muovono quali strumenti dell’onnipotente Dio d’Israele.

Lo dimostra l’improvvisa apparizione di un Vegliardo che, circondato da miriadi di esseri celesti, siede sul trono a giudicare le 4 bestie, togliendo loro ogni potere e condannandole alla morte. A questo punto irrompe la scena del nuovo sovrano dei popoli.

v. 13: «ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo». Il personaggio viene dall’alto, e non più dagli abissi dell’oceano; è un essere dalle sembianze umane, non ben definite, superiori a quelle di un semplice mortale; non più sotto il simbolo di bestie mostruose e feroci… Egli è come l’angelo-principe di una grande nazione (10,13).

v. 14: «Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano». A lui sono affidati i poteri regali su tutte le nazioni della terra: un regno che non vedrà mai il tramonto. Nella prospettiva del messianismo escatologico reale rappresenta l’intervento definitivo del Dio d’Israele sulle vicende della storia, proiettato in un futuro indeterminato

(l’eschaton), l’‘ahar, il seguito degli anni nella forma di un governo collettivo, consegnato al «resto santo» del popolo prediletto, i Santi dell’Altissimo. Non si esplicita se esso sarà di tipo terreno o spirituale. Si dichiara però che sia il rappresentante ideale (il figlio dell’uomo), sia la sua sovranità vengono dall’alto, proprio come la piccola pietra che si stacca dal monte e annienta le potenze del male (Dn 2,45).

Vi si intravede la figura personale di un Inviato dal Signore Onnipotente, già delineato negli scritti dell’epoca giudaico-maccabeica (Parabole di Enoc, del 95 circa a.C.): considerato come «Re celeste, assise presso la gloria divina, che dovrà un giorno rendersi manifesto,

quale giudice del cielo e della terra, dei vivi e dei morti». È il Messia del giudizio universale, che in Mt 25,31 ss assegnerà a ogni uomo la sorte eterna in base al comandamento del sincero amore fraterno, e dirà l’ultima parola su tutta la storia dell’umanità: «gli rispose Gesù: Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64).

Seconda lettura: Apocalisse 1,5-8

Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

Siamo all’inizio della grande rivelazione profetico-apocalittica di Giovanni. Dopo il breve prologo (1,1-3) in cui si presenta il tema di tutta l’opera: — esposizione dei mirabili eventi prossimi ad accadere, così come l’autore li ha appresi da Cristo, a utilità di chi legge e ascolta —, si entra immediatamente in dialogo con le 7 chiese della cristianità d’Asia, a cui saranno indirizzate le 7 epistole (cc. 2-3), dettate dal Figlio dell’uomo, il Vivente in eterno, apparso a Giovanni in estasi (1,9-17).

Il veggente si introduce con un saluto ai destinatari e con l’augurio di «grazia e pace» da parte di Colui che è, era e viene (il Padre divino), dei 7 Spiriti che stanno davanti al suo trono (Lo Spirito, cioè, con i suoi 7 doni, che da Lui proviene), e di Cristo Gesù. Di questi in particolare vengono esaltate le eccelse prerogative in 3a persona (vv. 6-7) e più direttamente in 1a persona (v. 8).

v. 5a: «Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra». Son i titoli della grandezza di Gesù, visto nel suo ruolo di rivelatore supremo delle realtà divine («testimone fedele»), protagonista della storia salvifica (il «primo» a risorgere), dominatore delle vicende umane (signore dei signori).

vv. 5b-6: «A Colui che ci ama e ci ha liberati… a lui la gloria e la potenza». Al richiamo di quei titoli sgorga dal cuore del profeta una elevata dossologia: — egli è colui che per amore ci ha lavati nel suo sangue, purificandoci dai nostri peccati e facendo di noi (ormai uniti vitalmente a Lui) una comunità sacerdotale di fronte al resto dell’umanità, per la lode di Dio suo Padre; a Lui si renda ogni onore e gloria per sempre…

v. 7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà». Egli è il maestoso Personaggio, già contemplato da Daniele e annunziato dallo stesso Maestro divino nel processo di Caifa (MC 14,62), a cui è conferito ogni potere in cielo e in terra, dinanzi al quale compariranno un giorno tutte le genti, anche coloro che lo hanno trafitto, perché ne siano giudicati (Zc 12,9).

v. 8: «Io sono l’Alga e l’Omega… Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». Ora parla lo stesso Gesù: — Egli non è il trasumanato eroe esaltato dalle mitologie orientali, ma Colui che è Principio e Fine di tutte le cose, Alfa e Omega cioè Colui che comprende e supera tutto ciò che esiste o è pensabile, che è (JHWH), che era ab aeterno, che viene in ogni epoca e si presenta sempre a nuovo nelle sue manifestazioni e nelle sue gesta, mai pienamente definibile dalla mente umana; centro e ragione d’essere di tutti gli avvenimenti che seguiranno, meta gloriosa dell’umanità e dell’universo! —.

Vangelo: Giovanni 18,33b-37

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Esegesi

Il tratto di Gv 18,33-38a è la parte centrale del processo di Gesù dinanzi a Pilato (18,28-19,16). I capi dei Giudei che hanno deciso per conto loro di mandare a morte Gesù lo hanno condotto presso il tribunale del procuratore romano, perché sia lui a pronunziare la sentenza definitiva, quale detentore supremo del jus gladii (il diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma). Dopo aver essi dichiarato che il Rabbì di Galilea, secondo il loro giudizio, era un trasgressore della legge e reo di morte. Pilato rientra nel pretorio per interrogare Gesù e rendersi personalmente conto della colpevolezza di Gesù (18,28-33): era nel suo diritto.

Qui l’evangelista Giovanni riporta il luminoso dialogo tra il Maestro divino e il rappresentante della potenza pagana. Il discepolo vi ha impresso qualche barlume della sua intima comprensione del Cristo: ne ha fatto l’epifania della sua Regalità divina.

v. 33: «Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» L’interrogatorio comincia con la chiara accusa dei capi giudei: Gesù avrebbe preteso di essere uno dei seducenti Messia, pretendente alla guida del suo popolo (Lc 23,3). «Gesù il nazareno, il re dei Giudei»: sarà il titolo posto sulla croce per ordine dello stesso Pilato (19,19).

v. 34: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» Gesù, prima di rispondere, vuole chiarificare in che senso il governante di Roma intendeva quel titolo: nel senso del popolo giudaico che aspettava la venuta di un Messia, leader religioso inviato dall’alto, ovvero nel senso di un condottiero politico liberatore dal giogo straniero, come poteva immaginarlo un romano? Pilato parlava secondo la concezione degli ebrei, o secondo la propria mentalità?… Il procuratore respinge quasi con sdegno la prima ipotesi. Non gli interessava proprio nulla delle credenze di quella gente: «Sono forse io Giudeo?». A lui preme sapere se davvero quell’imputato ha commesso le gravi trasgressioni per cui i suoi connazionali lo hanno sottoposto al suo giudizio! E conclude: «che cosa hai fatto»? (v. 35).

v. 36: «Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo». Il divin Maestro ora può parlare liberamente e illustrare la sua reale posizione di fronte al tribunale di Roma. Egli poteva rassicurare il rappresentante dell’impero, dicendo di non aver fatto nulla, né contro l’ordine  sociale, né contro l’autorità dei Cesari accettata dal suo popolo (Lc 20,20-26), ma ha preferito attirare l’attenzione di quell’uomo a qualcosa di più profondo e convincente: la caratteristica incontrovertibile della sua Persona, quella che Giovanni ha già molte volte sottolineato nel suo racconto: la trascendenza del messaggio di Cristo.

Egli promuove un regno che non appartiene all’ordinamento di questo mondo visibile (8,23), poggiato sulla forza delle armi e del consenso popolare. Il governatore lo può ben constatare: non c’è alcun suo fautore che lo difenda contro le ingiuste accuse dei suoi avversari (18,8.11).

v. 37: «Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re». All’insinuazione, sembra un po’ ironica di Pilato: «e allora saresti Re, tu?» «tu così solo e improvviso?» (trad. ad litt. dal greco), il divino accusato prosegue: — Io sono realmente Re, nel senso che ti ho indicato, e sono venuto al mondo per testimoniare quel che ho visto e conosco (3,13; 8,23; 19,35): la realtà di un altro mondo, una realtà soprasensibile, che supera tutte le cose e le concezioni di quaggiù; realtà percepibile da chi è pronto ad accettare la Verità. Chi infatti è aperto alla verità riconosce la mia voce (10,3) e mi segue (3,31-36; 1 Gv 19,18-20). Il mio sarà così un regno nuovo, senza violenza e soprusi di alcun genere, basato solo sulla libera accoglienza del Trascendente, che è presso di ognuno e si rivela attraverso la mia parola (8,26).

Siamo al centro di tutta la Rivelazione del Verbo divino fattosi uomo, così come si presenta nel quarto Vangelo: il Verbo che risplende tra le tenebre e manifesta a tutti la verità dell’Amore infinito del Creatore, e aggrega, chiunque vi aderisce, alla sua stessa vitalità eterna e consostanziale col Padre; si rimane nel mondo, ma non si è più di questo mondo (17,11.16).

Pilato, tuttavia, è ancora lontano da quella verità, e se ne esce con una battuta:  «ma cos’è la verità?» (18,38a).

Meditazione

Con questa domenica si chiude l’anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa inviterà i credenti ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudi­ziario, amministrativo, e così via). Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. È, infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le sca­denze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade. Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagi­ne del Vangelo a scandire il tempo dell’anno liturgico perché i creden­ti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la sto­ria stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei. Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito Santo sulla Chiesa inviando i discepoli sino agli estremi confini della terra. L’anno liturgi­co, insomma, è Cristo stesso («annus est Christus», diceva l’antica sag­gezza cristiana) che ci viene donato.

In questo singolare «anno» non si commemora un assente, ricordan­do magari con affetto i momenti salienti della sua vita. Si tratta, invece, di una realtà ben più profonda: la memoria liturgica rende presente in mezzo a noi il mistero stesso che celebriamo. Nell’anno liturgico tra­scorso di domenica in domenica siamo stati presi per mano dalla Santa Liturgia e portati appunto accanto a Gesù, dentro la sua vita, seguen­dolo passo dopo passo in tutto il suo itinerario verso il Padre che sta nei cieli. E così accade ogni anno. Ma non è una stanca ripetizione. Se gli «anni liturgici» continuano a ripetersi, è perché non termina mai la nostra condizione di discepoli, ossia di seguaci del Signore. Abbiamo sempre bisogno di riascoltare la Parola di Dio e di riprendere a seguire Gesù perché cresciamo con lui «in sapienza, in età e in grazia», come scrive Luca. Il Vangelo che viene annunciato in questa domenica ci porta vicino al Signore, unico pastore della nostra vita, perché noi ascoltandolo lo seguiamo e seguendolo lo amiamo.

Quest’ultima domenica dell’anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, re dell’universo. È la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. È una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. È la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che men­tre vediamo Cristo, come re dell’universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto. Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? È lo scetticismo di Pilato di fronte all’affermazio­ne di coloro che gliela avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: «Tu sei il re dei giudei?». L’aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l’affer­mazione fatta da Pilato: «Tu lo dici, io sono re!». Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: «Il mio regno non è di questo mondo». E ne porta una prova lampante: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei». È tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarez­za: «il mio regno non è di questo mondo». In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: «Il mio regno non è di quag­giù». La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul con­senso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall’alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l’avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di «uno, simile a figlio d’uomo» che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal «vegliardo» il «potere, la gloria e il regno». E la visione continua con una scena grandiosa: «Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto». La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pie­nezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra.

Al contrario, pur non essendo del mondo, il potere di Cristo si esercita sulla terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: «Dunque, tu sei re?». È come dire che l’accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per «rendere testimonianza alla verità». E aggiunge: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!». La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell’amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perdu­to, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» ( Gv 3,16-17). Gesù è il volto concreto dell’amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone della inimmaginabile «passio­ne» di Dio per gli uomini. È vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell’amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia. L’amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. È una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall’inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandez­za, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla «veri­tà» di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l’amore sconfigge ogni male, compresa la morte. In questa domenica che chiu­de l’anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell’amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: «Ecco, viene son le nubi del cielo e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batte­ranno il petto».

Preghiere e racconti

La Verità e le verità

«Credo che la nostra maturità umana dipende dalla capacità di unificare noi stessi e il nostro sguardo sulla realtà. Altrimenti rischiamo di rimanere preda di un molteplice illusorio, di verità, libertà, parole…»

Esercizio non facile in una società multiculturale come quella in cui viviamo, dove si incrociano esperienze, tradizioni e religioni diverse e dove chi parla di una sola verità rischia di essere o di apparire un integralista. «Senza dubbio questo rischio c’è – ammette don Ignazio -, ma la verità di cui parlo io è la verità dell’indicibile. Quando la verità è dicibile c’è molta difficoltà a definirla come l’unica verità. La verità unica è quella che parla a tutti e quando non riesce a farlo bisogna essere prudenti a definirla l’unica vera verità. Quando diciamo che la parola è una noi siamo convinti di appartenere a questa verità, ma questa verità non ci appartiene, perché è molto più grande di noi e non possiamo gestirla né possiamo avere con essa un rapporto ideologico. Noi apparteniamo alla verità e all’infinito, ma l’infinito non ci appartiene».

(Dal libro di Enzo Romeo, I solitari di Dio. Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 10).

Dio-verità

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.

Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.

Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Volete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio?  Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).

Imparare a riconoscere Gesù

Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manifesta in maniera chiara, che non ci dice come fare. Adagio adagio, però, si capisce che il Signore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca. Noi diventiamo veri ricercatori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.

Così cresciamo. Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col programma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema. Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca. Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è crescita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).

Il mio Regno non è di questo mondo

Ascoltate, giudei e gentili; ascoltate circoncisi, ascoltate incirconcisi; ascoltate, regni tutti della terra: «Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo. Il mio Regno non è di questo mondo (Gv 18,36)». Non lasciatevi prendere dal vano timore da cui fu colto Erode il Grande, quando gli fu annunciato che era nato Cristo e, nell’intento di far morire Gesù, uccise così tanti bambini (cfr. Mt 2,3.16). «Il mio Regno non è di questo mondo», dice Gesù. Che volete di più? Venite nel Regno che non è di questo mondo; venite con fede e non vogliate diventare crudeli per la paura! È vero che in una profezia Cristo, parlando di Dio suo Padre, dice: «Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo» (Sal 2,6), ma quella Sion e quel monte non sono di questo mondo. Che cos’è il Regno di Cristo? Sono quelli che credono in lui, a proposito dei quali egli dice: «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16), anche se egli voleva che rimanessero nel mondo, e per questo prega il Padre per essi: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal male» (Gv 17,15). Per questo anche qui non dice: «Il mio Regno non è in questo mondo», ma dice: «II mio Regno non è di questo mondo». E dopo aver dimostrato questo dicendo: «Se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai giudei» (Gv 18,36), non dice: «Ora il mio Regno non si trova in questa terra», ma dice: «Il mio Regno non è di questa terra». Il suo regno, infatti, è in questa terra fino alla fine dei secoli, e porta in sé la zizzania mescolata con il grano fino al momento della mietitura, che avverrà alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo Regno tutti gli scandali (cfr. Mt 13,38-41). E questo non potrebbe avvenire se il regno non fosse qui, sulla terra. Tuttavia, non è di questa terra, poiché è in esilio in questo mondo. A quelli che fanno parte del suo Regno egli dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 115,2,NBA XXIV, pp. 1520-1522).

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).

Preghiera

Troppe volte, Signore Gesù,

abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani,

ai vari dominatori del mondo.

Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro

e dall’angoscia del pericolo,

ci rivolgiamo ad altri «re».

Solo l’amore e la fiducia che ne deriva

liberano l’uomo dalla fobia

e dalla tirannia della sua presunzione.

Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo

e a guardare nel tuo futuro.

Tu, Re di misericordia,

ricordati di noi nel tuo Regno,

facci percepire il palpito del tuo cuore.

Un mondo disgregato dalla diffidenza,

dal dubbio e dallo scetticismo

trova solo in te la salvezza.

Il tuo Regno non è fatto

di splendido isolamento,

ma di profonda solidarietà

con l’umanità redenta.

Il tuo Regno non impone diffidenza,

ma libera, salva, assicura speranza.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXIV DOM TEMP ORD CRISTO RE ANNO B

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

Animatori nell’opera d’integrazione tra cristianesimo e società

Quella dell’animatore della co­municazione e della cultura non è una figura passata di moda.

«Ci sono persone già pronte per l’o­pera di integrazione tra cristianesimo e società. E che potranno essere snodi im­portanti perché il Vangelo parli il lin­guaggio della rete senza il quale è ormai impossibile entrare in contatto con le generazioni di oggi», osserva monsignor Domenico Pompili, sottosegretario del­la Cei e direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, tirando le fila della sessione residenziale del corso Anicec che si è tenuta a Roma dal 9 all’11 novembre.

Una tre giorni intensa che ha privilegiato lo scambio e ha pun­tato i riflettori su quanto bolle in pento­la a livello locale:

«L’officina digitale è il luogo che ha scompaginato il modo di tradizionale di fare i convegni: in catte­dra sono saliti loro, gli studenti, per pre­sentarci le loro esperienze», sottolinea Pompili evidenziando come si sia passati «dal broadcasting allo sharing, ossia dal­la trasmissione alla condivisione».

È l’e­sperienza a dimostrare che «gli anima­tori sono protagonisti sul campo e con la loro creatività e competenza sono in grado di colmare il gap tra Vangelo e cul­tura ».

I progetti presentati – dai percor­si multimediali per l’apprendimento del­la Divina Commedia fino alla preven­zione nella scuola con il coinvolgimen­to della polizia postale, ai supporti digi­tali interattivi per ambienti ecclesiali e ai profili Facebook delle parrocchie – sono la testimonianza concreta «dell’atteg­giamento proattivo» dell’animatore.

Che sa, spiega Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e antropologia dei media al­l’Università Cattolica di Milano, «antici­pare gli scenari, ridurre i danni, operare una verifica continua, non proibire ma riorientare le tecnologie nello loro forme più conviviali, volte cioè alla comunio­ne». Per padre Antonio Spadaro, diret­tore de La Civiltà Cattolica, è essenziale «avere una esperienza diretta dei social network e sulla base di essa articolare u­na riflessione che porti prima all’azione e poi alla valutazione di ciò che è stato realizzato».

All’animatore è richiesta dunque «una sensibilità per i cambia­menti in atto» e allo stesso tempo «un o­recchio attento alla realtà concreta de­gli ambienti ecclesiali».E loro sono pronti. «Il Signore è stato fan­tasioso e mi ha fatto scoprire questa via», confida Ida Marengo di Cuneo, ‘volon­taria per l’arte’ al Museo diocesano San Sebastiano.

«Creare un sito di cui non ci si dimentichi in breve tempo» è ciò che Laura Foglino proporrà alla parrocchia della Resurrezione di Torino. Maria Chia­ra di Parma lavorerà invece per «creare una sinergia tra i media diocesani, in vi­sta di un percorso comune».

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Avvenire

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio-Anno B

Prima lettura: Daniele 12,1-3

In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.

Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.

La struttura dei 14 capitoli del libro di Daniele, a cui appartiene il brano della prima lettura, è molto semplice. Si tratta infatti di un libro nel quale prevale l’elemento narrativo, composto dal racconto delle vicende di Daniele alla corte del re Nabucodonosor (cap. 1-6), dalla descrizione delle sue visioni (capp. 7-12) e da tre episodi molto noti (il caso di Susanna, la confutazione dei sacerdoti del Dio Bel e l’uccisione del Drago-idolo: capp. 13-14). Più complesso è invece il modo con cui questo libro biblico trasmette il suo messaggio. Gli esegeti infatti collocano il libro di Daniele al culmine di quella produzione letteraria che nel Giudaismo è conosciuta come letteratura apocalittica. Questo genere letterario è stato molto utilizzato dagli autori dei testi apocrifici (quelli non accettati nel canone biblico): le loro immagini, le loro speculazioni sui numeri, le descrizioni di grandi bestie e di angeli, i segni

premonitori della fine del mondo sono stati utilizzati (ma molto più sobriamente) anche dagli autori di alcuni libri biblici o di parti di essi (Daniele, parti di Is, Ez, Zc, Apocalisse).

Il contenuto dell’apocalittica è racchiuso nel significato stesso di questo termine, che in greco significa «rivelazione». Al popolo biblico (e nel NT alla comunità cristiana) che si sente sfiduciato e che sta per cedere alla tentazione di sentirsi definitivamente abbandonato dal suo Dio, l’autore sacro assicura la «rivelazione» di Dio attraverso visioni, sogni, immagini e simboli che il destinatario sa comprendere e interpretare (a differenza della difficoltà che incontriamo noi oggi). L’angoscia dei tempi di persecuzione (sia per il popolo biblico che per i cristiani) favoriva l’utilizzazione del genere letterario dell’apocalittica; esso solo permetteva di proiettare l’attuale situazione di sofferenza nella vittoria definitiva che Dio avrebbe saputo riportare sul male e sui persecutori del suo popolo. Il momento dell’angoscia e della persecuzione veniva così considerato come via alla definitiva vittoria di Dio e dei buoni.

In questo contesto va letto anche il brano della prima lettura. «Il tempo di angoscia» va compreso alla luce della riflessione che l’apocalittica fa sul momento presente della persecuzione: esso è preludio alla vittoria di Dio e del bene, non alla sconfitta e all’annullamento del suo popolo. «Si troverà scritto nel libro» è l’immagine biblica che rasserena l’uomo: egli fa parte del progetto di Dio («il libro»), un progetto buono e destinato a realizzarsi nel bene; perciò l’uomo non deve temere né il fallimento né l’abbandono. «Michele» è uno degli angeli che l’apocalittica colloca a protezione delle nazioni. Secondo l’angelologia giudaica ogni nazione ha un angelo protettore, descritto spesso come «capo» o «principe» o «comandante» di eserciti celesti (cf. Dan 10,13).

«Vita eterna e l’infamia eterna» esplicitano la condizione dell’uomo davanti a Dio, dopo la risurrezione, a seconda del ruolo che ciascuno ha rivestito nella vita presente. Il momento della persecuzione sembra dar ragione ai più forti e alle potenze del male e sembra porre fine a tutto ciò in cui il popolo biblico ha sempre creduto. La «rivoluzione» che Dio fa al suo popolo è che la vera sorte e il vero destino dell’uomo sono definiti da Lui nell’aldilà e non nell’alternarsi continuo delle vicende di questo mondo.


Seconda lettura: Ebrei 10,11-14.18

Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.

La lettera agli Ebrei propone il tema del sacerdozio di Cristo, un tema che non viene trattato esplicitamente nei Vangeli. Nell’esporre la sua riflessione, l’autore di questa lunga «omelia» (come viene definita la Lettera agli Ebrei) si sofferma ora sul confronto tra il sacerdozio dell’AT e quello di Gesù, evidenziandone le differenze. Il primo era ereditario nell’ebraismo, infatti, la carica di sommo sacerdote (almeno fino ai tempi di Erode il Grande) era a vita e veniva trasmessa ai discendenti. Inoltre ad esso poteva accedere solo chi apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi. Nel NT, invece, il sacerdozio costituisce uno speciale rapporto tra il credente e Gesù, una particolare chiamata, una risposta radicale alla sua sequela, cioè una vocazione.

I sacerdoti dell’AT ripetevano ogni giorno e ogni anno gli stessi sacrifici e le stesse feste, senza tuttavia ottenere la salvezza e il perdono definitivo («Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati»). Il sacrificio di Gesù, invece, è definitivo ed esaustivo: con l’offerta di se stesso al Padre sulla croce ha ottenuto «una volta per sempre» la salvezza per tutta l’umanità.

L’espressione «si è assiso per sempre alla destra di Dio» (che ricalca il Salmo 110 messianico-sacerdotale) sottolinea l’unicità («una volta per sempre») e la definitività del sacerdozio di Cristo; l’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera «sacerdotale» è stata perfetta e non ha bisogno di essere ulteriormente completata con ripetizioni di riti e sacrifici, come invece avveniva nel sacerdozio levitico.

Fondamentalmente il sacerdozio di Cristo consiste nell’aver egli sempre compiuto la volontà del Padre e nell’essersi offerto a lui nella totale disponibilità del suo essere (come le vittime sacrificate), fino ad accogliere docilmente la croce per la salvezza definitiva dell’umanità.

Vangelo: Marco 13,24-32

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.

Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.  In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

Esegesi

Il brano evangelico contiene la conclusione del «discorso escatologico» di Gesù. In questo discorso sugli «ultimi avvenimenti» (come significa in greco il termine éscathon) si intrecciano e si sovrappongono vari elementi: la descrizione della distruzione del tempio di Gerusalemme la descrizione della fine del mondo, l’esortazione alla vigilanza e il ricorso ad alcuni temi cari al genere letterario dell’apocalittica. Gli studiosi hanno cercato di collocare in un certo ordine tutto questo complesso materiale e di interpretarlo per una migliore comprensione del messaggio che l’evangelista vuole comunicare al lettore (cf. J. Dupont, La distruzione del tempio e la fine del mondo. Studi sul discorso di Mc 13, Ed. Paoline, Roma 1979, pp. 44-54).

Questo messaggio è profondamente radicato nella Bibbia e nella persona di Gesù. La Bibbia annuncia in ogni sua pagina l’avvento del Regno di Dio e Gesù realizza nella sua persona e nella sua vita questa promessa. Il nostro brano utilizza le immagini del genere letterario dell’apocalittica («in quel giorno», «quella tribolazione», «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi», «il sole si oscurerà»), ma il contenuto e totalmente aperto alla salvezza portata da Gesù e alla sua presenza nel mondo, da Lui amato e salvato (a differenza delle immagini apocalittiche che lo vedono destinato alla catastrofe).

Questa salvezza è stata possibile grazie all’incarnazione di Gesù e alla sua obbedienza al Padre, accettata fino alle estreme conseguenze, compresa l’esclusione dalla sua rivelazione di quanto in essa non rientrava (la conoscenza e la divulgazione del momento preciso della fine del mondo). Anche il cristiano deve rinunciare a calcoli cronologici, ma deve spendere ogni giorno della sua vita aderendo alle parole e al vangelo di Gesù, che realizzano la promessa biblica del Regno di Dio, «vicino» ad ogni generazione che si succede.

Meditazione

Ci stiamo ormai avviando verso la conclusione dell’anno liturgico. Il brano del Vangelo che viene annunciato in questa domenica fa parte del «discorso escatologico» («delle realtà ultime»), che in Marco com­prende tutto il capitolo 13 (è il discorso più lungo riportato dal secon­do evangelista). Gesù è appena uscito dal tempio, dove ha fatto l’elogio di una povera vedova che ha gettato nel tesoro tutto quanto aveva per vivere, e si sta dirigendo verso il monte degli ulivi da dove si può ammi­rare lo splendore del tempio. I discepoli, guardando questa incredibile costruzione, ne restano colpiti, e uno di loro dice a Gesù: «Maestro, guarda che pietre e che costruzione!». Ed in effetti si trattava di un complesso architettonico che suscitava le meraviglie di chiunque lo avesse veduto. Nello stesso Talmud si legge: «Chi non ha visto ultimato il santuario in tutta la sua magnificenza, non sa cosa sia la sontuosità di un edificio» (Sukka 51b). Gesù, quasi interrompendo le affermazioni di meraviglia del discepolo, dice a tutti che di quella costruzione non sarebbe rimasta pietra su pietra. I discepoli, al sentire queste parole, restano ovviamente stupiti e increduli. I tre più intimi, cui si aggiunge Andrea, subito chiedono quando tale disastro dovrebbe accadere. E Gesù risponde con un lungo discorso nel quale descrive gli avvenimen­ti degli «ultimi giorni». Il brano evangelico che è stato annunciato in questa domenica (Mc 13, 24-32) riporta il punto culminante del discor­so. Gesù, dopo aver parlato della «grande tribolazione» di Gerusalemme, annuncia che seguiranno sconvolgimenti cosmici: «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le poten­ze che sono nei cieli saranno sconvolte». E aggiunge: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».

Il testo evangelico suggerisce che il «Figlio dell’uomo» non viene nella stanchezza delle nostre abitudini, e neppure si inserisce nel natu­rale sviluppo delle cose. Quando egli verrà porterà un cambiamento radicale sia nella vita degli uomini che nella stessa creazione. Per espri­mere questa trasformazione profonda — una sorta di violenta interruzione della storia — Gesù riprende il linguaggio tipico della tradizione apocalittica allora molto diffusa, e parla di crollo cosmico, di scardinamento del sistema planetario. Già il profeta Daniele aveva preannuncia­to: «Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popo­lo, chiunque si troverà scritto nel libro». I testi della Scrittura non aval­lano, però, una sorta di «teoria della catastrofe», secondo la quale deve esserci prima l’inabissarsi del mondo in un completo fallimento per poter quindi attendere finalmente Dio che volgerà al bene ogni cosa. No, Dio non arriva alla fine, quando tutto è perduto; Egli non rinnega la sua creazione, che è stata creata tutta buona (cfr. Gn 1); nel libro dell’Apocalisse, infatti, leggiamo: «Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà esistevano e furono create» (4,11). La Scrittura, in tutte le sue pagine, esorta piuttosto ad operare (e ad invocare) per l’instaura­zione di una creazione nuova secondo l’immagine della città futura descrittaci nelle pagine finali dell’Apocalisse: «Vidi un cielo nuovo e una terra nuova; il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (21,1-2). Lo sconvolgimento del creato, che ci sarà, è finalizzato appunto all’instaurazione di questa «Gerusalemme» ove tutti i popoli della terra saranno radunati come in un’unica grande famiglia. Se del tempio che vedevano gli apostoli non sarebbe rimasta pietra su pietra è perché nella futura Gerusalemme non ci sarà più un tempio, appun­to come sta scritto: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’On­nipotente e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21, 22).

Gesù parla di «ultimi giorni», ma dice anche che tali rivolgimenti avverranno in «questa generazione», ossia nel tempo che coinvolgeva i suoi ascoltatori. Del resto era la stessa presenza di Gesù a realizzare lo sconvolgimento del corso normale della vita del mondo; basti pensare a quanto accadeva con la sua predicazione e a quanto accadde con la sua resurrezione. L’irruzione del «Figlio dell’uomo» era ormai avvenu­ta e sarebbe continuata per tutte le generazioni che si sarebbero succe­dute lungo la storia. Il «giorno del Signore», prefigurato da Daniele e dagli altri profeti, irrompe in ogni generazione, anzi in ogni giorno della storia (è questo il vero senso della scansione degli anni in prima e dopo Cristo). E suggestiva l’espressione usata da Gesù sulla prossimi­tà degli «ultimi giorni». Egli dice: «sappiate che egli è vicino, è alle porte». Questa immagine è usata anche altre volte dalle Scritture per esortare i credenti ad essere pronti per accogliere il Signore che passa. «Ecco, il giudice è alle porte», scrive Giacomo nella sua lettera (5,9). E l’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Alle porte di ogni giornata della nostra vita c’è il Signore che bussa, c’è il «giorno ultimo» che attende di essere accolto, c’è il giudizio di Dio che intende trasformare il tempo che già ora viviamo.

La «fine del mondo» deve avvenire ogni giorno; ogni giorno dobbia­mo far finire un piccolo o un grande pezzo del mondo cattivo e malva­gio che, non Dio, ma gli uomini costruiscono. Del resto i giorni che passano finiscono inesorabilmente; di essi non resta più nulla se non il loro bagaglio di bene o, purtroppo, di male che noi realizziamo. La Scrittura ci invita ad avere davanti agli occhi questo futuro verso cui siamo diretti: la fine del mondo non è la catastrofe, ma l’instaurazione della città santa che scende dal cielo. Si tratta di una città, ossia di una realtà concreta non astratta che raccoglie tutti i popoli attorno al loro Signore. Questo è il fine (e, in certo modo, anche la fine) della storia. Ma questa città santa deve essere seminata già da ora nei nostri giorni, perché possa crescere e trasformare la vita degli uomini a sua immagi­ne. Non si tratta di un innesto automatico e facile. Gesù parla anche di opposizioni e persino di tradimenti, insomma di un cammino che richiede vigilanza, attenzione e anche lotta. E tuttavia non manca di assicurare i suoi della sua protezione. Dice loro: «nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime». Del resto ogni generazione cristiana deve percorrere la via trac­ciata dal Maestro. C’è quindi una fatica quotidiana che ogni credente deve compiere per costruire il mondo nuovo che Gesù è venuto ad iniziare. Ma la perseveranza nell’ascolto del Signore e nella sua sequela sono la garanzia della salvezza. Ricordando quanto Gesù ha detto: «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

Preghiere e racconti

Cambiare la storia

Chi spera cammina,

non fugge!

Si incarna nella storia!

Costruisce il futuro,

non lo attende soltanto!

Ha la grinta del lottatore,

non la rassegnazione di chi disarma!

Ha la passione del veggente,

non l’aria avvilita di chi si lascia andare.

Cambia la storia, non la subisce!

(don Tonino Bello)

Dopo l’11 settembre

Il paradosso del nostro tempo nella storia è che

abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse,

autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.

Spendiamo di più, ma abbiamo meno,

comperiamo di più, ma godiamo meno.

Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole,

più comodità, ma meno tempo.

Più conoscenza, ma meno giudizio,

più esperti, e ancor più problemi,

più medicine, ma meno benessere.

Beviamo troppo, fumiamo troppo,

spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco,

guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo,

facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi,

vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.

Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà,

ma ridotto i nostri valori.

Parliamo troppo, amiamo troppo poco

e odiamo troppo spesso.

Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere,

ma non come vivere.

Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.

Siamo andati e tornati dalla Luna,

ma non riusciamo ad attraversare la strada

per incontrare un nuovo vicino di casa.

Abbiamo conquistato lo spazio esterno,

ma non lo spazio interno.

Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.

Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.

Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.

Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.

Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.

Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni,

per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.

Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta,

grandi uomini e piccoli caratteri,

ricchi profitti e povere relazioni.

Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi,

case più belle ma famiglie distrutte.

Questi sono i tempi dei viaggi veloci,

dei pannolini usa e getta,

della moralità a perdere,

delle relazioni di una notte,

dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto,

dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.

E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina

e niente in magazzino.

Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera,

e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri,

o di cancellarle.

Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora,

perché non saranno con te per sempre.

Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno

che ti guarda dal basso in soggezione,

perché quella piccola persona presto crescerà

e lascerà il tuo fianco.

Ricordati di dare un caloroso abbraccio

alla persona che ti sta a fianco,

perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore

e non costa nulla.

Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari,

ma soprattutto pensalo.

Un bacio e un abbraccio possono curare ferite

che vengono dal profondo dell’anima.

Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti,

perché un giorno quella persona non sarà più lì.

Dedica tempo all’amore,

dedica tempo alla conversazione,

e dedica tempo per condividerei pensieri preziosi della tua mente

E ricorda sempre:

la vita non si misura da quanti respiri facciamo,

ma dai momenti che ci tolgono il respiro.

(George Carlin).

Le due venute

Noi annunciamo non solo una, ma due venute di Cristo, la seconda molto più risplendente della prima. La prima si compì sotto il segno della pazienza, la seconda porta la corona del regno regale. Per lo più, infatti, il Signore nostro Gesù Cristo si manifesta in duplice modo: in due nascite, una da Dio prima dei secoli e una dalla Vergine al compimento dei secoli; in due discese, una nel nascondimento come pioggia sul vello (cfr. Sal 71 [72] ,6) e una che alla fine sarà manifesta; in due venute: nella prima, avvolto in fasce dentro la stalla e, nella seconda, avvolto da un manto di luce (cfr. Lc 2,7; Sal 103 [104] ,2); nella prima, sottoposto all’umiliazione della croce che non giudicò vergognosa e, nella seconda, scortato da schiere angeliche nella gloria. Crediamo fermamente, dunque, non solo alla prima venuta, ma attendiamo anche la seconda. Se nella prima abbiamo detto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21,9), nella seconda ripeteremo di nuovo le stesse parole e così correndo incontro al Signore insieme agli angeli, prostrandoci diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23,39). Il Salvatore verrà di nuovo non per essere giudicato, ma per giudicare quelli che l’hanno giudicato. […] Viene il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli, viene nella gloria nell’ultimo giorno; vi sarà infatti la fine di questo mondo e sarà creato un mondo nuovo. Sarà rinnovata la terra sommersa da corru-zioni, furti, adulteri e ogni genere di peccati, il mondo bagnato di sangue misto a sangue (cfr. Os 4,1), perché questa meravigliosa dimora dell’uomo non resti colma di iniquità. Questo mondo possa perché ne appaia uno migliore. […] Passeranno le cose che ora vediamo e verranno quelle migliori che attendiamo, ma nessuno pretenda di sapere quando. Sta scritto: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7). Non devi temerariamente pretendere di sapere che cosa accadrà dopo, né supinamente adagiarti nel sonno. Sta scritto: «Vegliate perché nell’ora in cui non l’aspettate verrà il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42.44).

(CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi 15,1.3-4, PG 33.869A-B; 872C-873; 876A).

La biblioteca di Dio

Credo che in qualche punto dell’universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell’uomo. Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.

(Isaac Bashevis Singer).

Trova il tempo

Trova il tempo di pensare;

trova il tempo di pregare;

trova il tempo di ridere.

È la fonte del potere;

è il più grande potere sulla terra;

è la musica dell’anima.

Trova il tempo per giocare;

trova il tempo per amare ed essere amato;

trova il tempo di dare.

È il segreto dell’eterna giovinezza;

è il privilegio dato da Dio;

la giornata è troppo corta per essere egoisti.

Trova il tempo di leggere;

trova il tempo di essere amico;

trova il tempo di lavorare.

È la fonte della saggezza;

è la strada della felicità;

è il prezzo del successo.

Trova il tempo di fare la carità;

è la chiave del Paradiso.

(poesia scritta sul muro della Casa dei bambini di Calcutta).

Insegnami ad usare bene il tempo

Dio mio,

insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai

e ad impiegarlo bene,

senza sciuparne.

Insegnami a prevedere senza tormentarmi,

insegnami a trarre profitto dagli errori passati,

senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.

Insegnami ad immaginare l’avvenire senza disperarmi

che non possa essere quale io l’immagino.

Insegnami a piangere sulle mie colpe senza cadere nell’inquietudine.

Insegnami ad agire senza fretta,

e ad affrettarmi senza precipitazione.

Insegnami ad unire la fretta alla lentezza,

la serenita’ al fervore, lo zelo alla pace.

Aiutami quando comincio,

perche’ e’ proprio allora che io sono debole.

Veglia sulla mia attenzione quando lavoro,

e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.

Fa’ che io ami il tempo che tanto assomiglia alla Tua grazia

perche’ esso porta tutte le opere alla loro fine e alla loro perfezione

senza che noi abbiamo l’impressione di parteciparvi in qualche modo.

(Jean Guitton)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER APPROFONDIRE:

XXXIII DOM TEMP ORD ANNO B

1° incontro-studio su: “Eucarestia e carità”

La diocesi di Orvieto-Todi, in collaborazione con la Pontificia università lateranense,

promuove il 16 e 17 novembre, nel Palazzo dei Congressi di Orvieto, il primo incontro di studio su “Eucaristia e carità” in preparazione all’apertura del Giubileo eucaristico concesso da Benedetto XVI per il 750° anniversario del miracolo di Bolsena e della Bolla Transiturus, con la quale papa Urbano IV nel 1264 istituì la festa del Corpus Domini.

Ad aprire l’incontro mons. Benedetto Tuzia, vescovo di Orvieto-Todi.

Tanti i relatori previsti; tra gli altri, mons. Mauro Cozzoli, docente di teologia morale alla Pontificia università lateranense (Pul), don Roberto Nardin, docente di teologia sacramentaria alla Pul, padre Corrado Maggioni, docente alla Pontificia facoltà teologica Marianum, Claudio Strinati, storico e critico d’arte, don Antonio Mastantuono, docente di teologia pastorale e catechetica alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale-sez. San Luigi di Napoli, padre Vittorio Viola, docente dell’Istituto teologico di Assisi, padre Alvaro Cacciotti, docente della Pontificia università Antonianum di Roma.

Nel corso del Giubileo eucaristico 2013-2014 seguiranno altri due incontri di studio sull’Eucaristia e le virtù teologali, in vista di un grande convegno internazionale di studi eucaristici che si svolgerà nel 2014.

 

La famiglia nelle situazioni di fragilità

Un pomeriggio per riflettere su “La famiglia nelle situazioni di fragilità”.

È l’appuntamento che il biennio di specializzazione in teologia pastorale della Facoltà teologica del Triveneto propone mercoledì 14 novembre, dalle 15 alle 18, nell’aula magna della Facoltà (ingresso da via del Seminario 7, Padova).

“Molteplici – si legge nella presentazione dell’iniziativa – sono le situazioni di fragilità che le famiglie incontrano lungo il ciclo di vita di tutti i loro componenti. Esse sono aggravate dai tratti frammentari, individualisti ed efficientisti che caratterizzano il clima culturale della tarda modernità e dalla povertà di relazioni vitali che si riescono a intessere nella società liquida contemporanea.

I contributi della giornata di studio affronteranno la questione cercando d’interpretare alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana le situazioni che oggi rendono le famiglie vulnerabili ed evidenziando alcune possibili vie di soluzione”.

All’incontro, rivolto specificatamente a studenti e operatori pastorali, ma aperto a tutta la cittadinanza, interverranno Riccardo Battocchio, docente di teologia sistematica alla Facoltà teologica del Triveneto, Aristide Fumagalli, docente di teologia morale nel Seminario arcivescovile di Milano, e Basilio Petrà, docente di teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.

XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO Lectio – Anno B

Prima lettura: Deuteronomio 6,2-6

Mosè parlò al popolo dicendo: “Temi il Signore tuo Dio os­servando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il fi­glio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così sia lunga la tua vita.

Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il lat­te e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno so­lo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore”.

Come purtroppo diverse volte avviene per i brani liturgici, il testo biblico è stato ritagliato in modo non rispettoso dell’andamento originario. Nel suo tenore completo e primario il testo consterebbe avere due sezioni.

La prima va dal v. 1, escluso dalla versione liturgica, al v. 3. Essa è un invito a dare concretezza al «timore di Dio», cioè alla considerazione di Lui per quello che è nella sua divinità e autorità, attraverso l’osservanza di «tutte le sue leggi e di tutti i suoi comandi». Senza entrare nella analisi dei due diversi termini giuridici noteremo qui semplicemente la completezza tipica del linguaggio deuteronomista. Nessuna prescrizione divina deve essere trascurata, nessun giorno della vita può trascorrere senza la premura di custodirle. Tutto l’arco generazionale che un uomo può conoscere da se stesso fino ai suoi nipoti deve costituire anche la durata dell’osservanza.

Altra caratteristica del Deuteronomio è quella di legare all’obbedienza alla legge dei benefici concreti. Il primo è la longevità. Poco prima in 5,16 la lunga vita era già stata promessa come conseguenza dell’osservanza del quarto comandamento. Il secondo è la posterità numerosa, contenuto tipico delle promesse fatte ai patriarchi (Gentile 12,2; 13,14-16; 15,5 ecc.) e prospettiva decisamente appetibile nella cultura dell’antico vicino oriente. Vita e discendenza sono così punto di convergenza delle aspirazioni umane e delle promesse divine; Dio desidera dare all’uomo ciò a cui egli tende. L’ambiente storico entro il quale queste promesse si realizzeranno è la terra promessa, anche qui indicata come la «terra dove scorre latte e miele» (cf. Es 3,8.17; 13,5; 33,3). L’immagine poetica rende assai bene l’impressione che si ha arrivando dal deserto di Giuda alle zone più fertili della terra d’Israele. Per un popolo di nomadi abituati all’aridità e spoliazione del deserto una terra come quella a cui Dio conduceva non poteva che meritare una descrizione come quella che ormai ci è familiare.

La seconda sezione va dal v. 4 al v. 9, ma nella lettura liturgica abbiamo solo i primi due versetti di questo passaggio tra i più noti della letteratura biblica.

Come si sa gli ebrei recitano tre volte al giorno la preghiera dell’ascolta, costituito appunto da Dt 6,4-9. Più che un’orazione esso è una professione di fede. La dichiarazione più importante, cioè «il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno so­lo» nel testo originale è un accoppiamento di due sentenze nominali, vale a dire di due proposizioni in cui il verbo essere è assente. Oltre alla traduzione ufficiale italiana che lo ripete in entrambe si avrebbe dunque anche la possibilità di lasciare il predicato verbale in una sola delle affermazioni. Si avrebbe così come prima possibilità di traduzione: JHWH è il nostro Dio, JHWH solo. Reso così il testo pone una dichiarazione fortissima di monoteismo, oltre a YHWH non esiste nessun altra divinità. Non si tratta solamente di una affermazione teorica, ma di una dichiarazione che polemizza con l’avversario cananeo del Dio d’Israele Baal, il cui culto esercitava fascino sugli israeliti e trascinava effettivamente al peccato. La seconda possibilità di traduzione sarebbe: YHWH nostro Dio è un solo JHWH. In questo caso la polemica sarebbe con i diversi santuari locali che rischiavano di creare un pluralismo confusionario di tradizioni teologiche, non sempre controllabili nella ortodossia e una conseguente sospetta pluralità di culti. Si ricorderà certamente che il tema portante della tradizione deuteronomista è l’unicità del tempio e del culto a Gerusalemme, tenacemente voluta e realizzata da Giosia. La scelta legittima della versione CEI si pone nella linea della proclamazione del monoteismo più puro.

Se YHWH è l’unico Dio deve essere amato con assoluta totalità. In altre formule in cui si richiede l’impegno dell’israelita il Deuteronomio implica solamente il cuore e l’anima (4,29; 10,12; 11.13; 26,16; 30,1.6.10), nel nostro testo anche le forze, cioè l’attività fisica dell’uomo viene implicata. L’amore a Dio non rimane quindi una questione di semplice interiorità, ma tutte le facoltà umane vengono coinvolte: intelligenza, volontà, sentimenti, fantasia, creatività, ben consapevoli che fermandoci qui l’elenco è molto lontano dall’essere completo.

All’israelita viene chiesto di «amare» il suo Dio. Il verbo ebraico esprime una gamma vasta di relazioni affettive. Con esso si può indicare l’amore coniugale, quello filiale o fraterno, l’affetto che lega due amici. Se ritenessimo Osea uno degli ispiratori del messaggio deuteronomista, e il suo influsso non è certamente da escludere, bisognerebbe dare la precedenza all’affetto filiale (cf. Os 11,1-4 e Dt 8,5; 14,1) e a quello sponsale, largamente impiegato dal grande profeta per indicare l’alleanza tra Dio e il suo popolo tradita da Israele, custodita invece dal suo sposo. A Israele viene dunque chiesto di vivere l’alleanza con il suo Dio come l’esperienza affettiva più intensa, più piena, veramente unica.

Seconda lettura: Ebrei 7,23-28

Fratelli, [gli Israeliti] sono diventati sacerdoti in gran nume­ro, perché la morte impediva loro di durare a lungo; Cristo in­vece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore.

Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato so­pra i cieli; che non ha bisogno ogni giorno, come gli altri som­mi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso.

La legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore al­la legge, costituisce tale il Figlio reso perfetto in eterno.

Nella sezione 7,20-25 la lettera agli Ebrei parla della immutabilità del sacerdozio di Cristo. Al centro del brano vi è la citazione di Sal 110,4 che riporta il giuramento divino: «tu sei sacerdote per sempre». Il brano liturgico illustra il contrasto tra il sacerdozio numericamente molteplice e qualitativamente insufficiente dei ministri della alleanza antica e il perfetto, intramontabile sacerdozio di Cristo. La causa principale dell’imperfezione del sacerdozio della vecchia economia era la morte. Impedendo agli addetti al culto di durare, ne imponeva la sostituzione e i limiti spaziali a cui l’essere umano è soggetto se ne esigeva anche un grande numero.

Il compito del sacerdote è quello di esercitare una mediazione. Attraverso l’offerta di sacrifici, libera gli uomini dai peccati e li rimette in comunione con Dio. Dopo la sua risurrezione Gesù rimane a pieno titolo nella sua dimensione di eternità e vi rimane anche con la sua glorificata umanità. Non più soggetto alla morte, il suo sacerdozio è intramontabile sia nell’aspetto dell’intercessione sia in quello dell’offerta. Per quanto riguarda l’intercessione, la lettera agli Ebrei aveva già presentato questo ruolo di Gesù in 4,14-16 e vi ritornerà sopra la prossima domenica in 9,24. Circa l’offerta, invece, la presente lettura è uno dei passaggi più decisi nell’affermare l’unicità dell’offerta di Cristo al v. 28. Gli altri punti in cui la nostra lettera ribadisce questo insegnamento sono: 9,12.25-28; 10,12-14.18.

Così l’ufficio sacerdotale di liberare dal peccato e riavvicinare a Dio è perfettamente compiuto da Gesù.

Nel v. 26 una serie di aggettivi tratteggia il ritratto ideale di sacerdote che Gesù realizza. In primo luogo Egli è definito «santo». In questa qualifica si assommano le relazioni fondamentali della persona che anche Gesù vive: con Dio, con i fratelli, con se stesso. La santità del resto è la condizione imprescindibile per celebrare e per partecipare al culto e di conseguenza è la prima caratteristica che il Sacerdote unico ed efficace deve innanzitutto possedere. L’aggettivo «santo» si riferisce ai rapporti con Dio vissuti nell’espletamento di tutti i doveri verso di Lui; si tratta della «pietà» come coltivazione dei doveri religiosi nella più assoluta delicatezza e fedeltà. Viene poi l’attributo «innocente» con il quale si illustra il rapporto con il prossimo, dal quale rapporto è esclusa ogni malizia, ogni doppiezza, ogni inganno o falsità per prevaricare sull’altro. La relazione con il prossimo che viene qui illustrata non conosce ombra di male. Infine il Sacerdote ideale è definito «senza macchia», qualifica che nel testo originale è espressa con un solo termine, un aggettivo appunto. Qui si parla del rapporto interno che il soggetto ha con se stesso, con la propria coscienza anch’essa estranea al male. Così si capisce perché e in che modo al Sacerdote era necessario essere separato dai peccatori. Non si trattava di una distanza fisica, cosa che per altro Gesù non ha mai vissuto venendo anzi qualificato «amico dei peccatori» (Mt 11.19; Lc 7,34), ma di una differenza interiore che costituisce l’unicità di Gesù anche nella sua umanità.

La nuova condizione nella quale il Figlio si trova è il santuario celeste (4,14; 9,1). Lì espleta nella vera e piena intimità col Padre l’ininterrotta e fruttuosa mediazione per l’umanità.

Il v. 27 accenna ad una attività quotidiana che il sommo sacerdote ebraico in realtà non espletava. Il culto giornaliero nel tempio infatti era officiato da ministri di grado inferiore. Può darsi che l’autore sacro alluda ad una offerta di farina che si teneva tutti i giorni a spese del sommo sacerdote a ricordo ed espiazione della tolleranza che Aronne ebbe verso gli israeliti quando fabbricarono il vitello d’oro (Es 32). In ogni caso è fuori discussione che quando presiedeva le solenni celebrazioni il sommo sacerdote non si collocava al di sopra del popolo, ma all’interno di esso, solidale con la condizione peccaminosa d’Israele e bisognoso come gli altri di perdono.

Gesù invece costituisce una eccezione spiegata dal testo sacro non tanto in virtù dell’ontologia di Cristo, alla quale specialmente il prologo della lettera era stato dedicato (1,1-4), ma per la perfetta coincidenza tra sacerdote e vittima che esclusivamente in Gesù viene riscontrata. Egli ha offerto se stesso non solo fisicamente, ma ancora di più tale offerta consumata è frutto di un’adesione totale e spontanea alla volontà del Padre, come ben mostrato in 10,3-10, che per altro pure si conclude con la perentoria affermazione dell’unicità del sacrificio di Cristo.

Nel v. 28 viene posta una distinzione tra il sacerdozio della vecchia economia, basata sulla legge, e quello di Gesù che ha come fondamento un giuramento divino, ricordato al v. 21, che non appartiene alla versione liturgica. Distinto è il fondamento della funzione sacerdotale, ma soprattutto differente la qualità. Il sacerdozio di Cristo è perfetto per quanto Egli ha sofferto (2,10) e per l’intercessione perpetua e valida che Egli sempre esercita a nostro favore (6,20).

Vangelo: Marco 12,28b-34

In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli do­mandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio no­stro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua for­za. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di que­sti”.

Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secon­do verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olo­causti e i sacrifici”.

Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il co­raggio di interrogarlo.

Esegesi

Nell’ultima settimana della sua vita, trascorsa a Gerusalemme, Gesù frequenta assiduamente il tempio svolgendovi una intensa attività didattica. Marco raccoglie nel capitolo 12 del suo vangelo l’insegnamento impartito dal Signore prima della sua passione e lo conclude con l’episodio dell’offerta della vedova, che sarà il brano evangelico della prossima domenica.

Il v. 28 viene praticamente tralasciato dalla lettura liturgica. Esso invece spiega perché lo scriba si rivolge a Gesù. Egli aveva assistito al modo in cui Gesù aveva risolto il caso propostogli dai sadducei per mostrargli come fosse arduo e ingenuo sostenere la dottrina della risurrezione e così costringere Gesù ad arrendersi alle loro credenze narrando una situazione alla quale, secondo loro era impossibile dare equa soluzione. Il modo in cui Gesù aveva sostenuto la controversia e l’aveva risolta aveva suscitato fiducia nello scriba accendendo in lui la convinzione che avrebbe potuto ricevere da un simile personaggio la soluzione per un problema ben più importante. Nella selva di precetti in cui il giudaismo di allora si era inceppato non era per nulla facile trovare l’albero dal quale avere la vita, e ai grandi studiosi della legge e caposcuola della sua interpretazione non veniva risparmiata la domanda su quanto fosse essenziale riassumesse in sé la pratica di tutta la religiosità ebraica. A conti fatti risultava che i precetti da vivere erano 613 divisi in prescrizioni e divieti. I primi erano calcolati in 248, cifra che secondo l’anatomia di allora elencava le diverse membra del corpo; i secondi invece corrispondevano al numero di giorni dell’anno: 365.

Un grande maestro di aperte vedute vissuto prima di Gesù aveva sintetizzato la pratica religiosa con parole che anticipano la regola d’oro: «Non fare agli altri ciò che non piace a te» (cf. Mt 7,12; Lc 6,31). Un altro maestro che si lasciò coinvolgere nella seconda rivolta giudaica morendovi martire, Rabbi Aqiba, proponeva l’amore del prossimo.

La risposta di Gesù parte dall’uso già invalso al suo tempo di recitare quotidianamente la preghiera dell’Ascolta, proponendo così, come passo essenziale per arrivare alla vita, la fede nell’unico Dio e le pratiche conseguenze che ne derivano e che risultano evidenti nella prima lettura.

Mentre la domanda dello scriba chiede che si offra un solo comandamento come vertice della prassi religiosa, spontaneamente Gesù ne aggiunge un secondo, preso da Lv 19,18: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Normalmente con il termine «prossimo» si intendeva una persona appartenente al popolo d’Israele, non si debordava dunque dai confini nazionali, religiosi e razziali. Per quanto riguarda l’amore, l’altro veniva identificato come colui con il quale si ha in comune quanto è fondamentale nell’identità. Sebbene poco più avanti rispetto alla regola proposta da Gesù, e precisamente in Lv 19,34, si ingiunga di estendere questo amore anche al forestiero che abita in Israele con la motivazione che gli stessi ebrei sono stati forestieri nel paese d’Egitto, non si è mai superata la barriera religiosa e razziale nella prassi dell’amore al prossimo. Gesù intende dare invece a questa seconda norma un respiro certamente universale. Nel vangelo di Marco non abbiamo passi che affrontino direttamente il problema della identità del prossimo, come avviene invece in Luca con la parabola del buon samaritano (10,29-37); tuttavia credo che l’aver scelto un centurione romano come soggetto della più importante professione di fede nel suo vangelo (15,39) sia una prova di come l’orizzonte universalistico di Gesù sia stato da lui assai ben percepito.

Con la sua risposta Gesù ha creato un legame indissolubile tra l’amore di Dio e quello del prossimo. Rimane certamente una chiara scala di valori per cui l’amore a Dio mantiene la precedenza assoluta, ma saldamente legato all’amore ai fratelli senza preclusioni.

L’entusiasmo dello scriba per la risposta di Gesù si esprime in un commento che istituisce un paragone tra amore e culto. Il primo, vissuto nella prospettiva data da Gesù, mantiene di gran lunga la precedenza sull’apparato rituale, anzi è l’amore stesso a diventare la forma più alta di culto, come è avvenuto per Gesù, e come la seconda lettura ha ricordato.

Il v. 34, che conclude il brano, mostra come Gesù abbia riscontrato in questo scriba vera sapienza, e la dichiarazione fatta a suo riguardo: «Non sei lontano dal regno di Dio» è di grande importanza. Anzitutto essa ci dice che Gesù non ha prevenzioni verso nessuno, nonostante che in 12,38 (vangelo della prossima domenica) Gesù inviterà la folla a non prenderli come modello. In 11,27 gli scribi insieme ai sommi sacerdoti e agli anziani avevano assunto verso Gesù un atteggiamento sfavorevole e inquisitorio, mentre in 16,53 e in 15,1 lo stesso gruppo di persone appare come il regista umano della passione di Gesù. In 15,31 gli scribi saranno presenti sotto la croce a schernire Gesù insieme ai sommi sacerdoti.

Questa barriera di odio però per Gesù non ha per lui alcun valore. Egli sa riconoscere il bene che c’è nel cuore anche di chi appartiene ad una categoria ostile incoraggiando questo avversario a proseguire sulla vita che conduce a fare l’esperienza veramente liberante di Dio. Il regno infatti, primo e fondamentale annuncio di Gesù (1,15) altro non è che la potenza di Dio che rende gli uomini liberi dal male conducendoli fino a quella realtà di cui il regno è sinonimo, cioè la pienezza della vita (cf. 10,43-48).

Meditazione

Il Vangelo di questa domenica ci porta nel tempio di Gerusalemme, ove Gesù ha già affrontato i sacerdoti, i farisei, gli erodiani e i sadducei. Interviene ora uno scriba, il quale si inserisce nel dibattito ma con animo diverso da coloro che lo hanno preceduto. Egli pone a Gesù una domanda vera, decisiva: «Qual è il primo di tutti i comandamen­ti?». Da esso, in effetti, dipende tutta la vita, nella sua globalità e nel suo svolgersi quotidiano Gesù, davanti ad una domanda come questa, non fa attendere la sua risposta. Cita anzitutto un passo del Deuteronomio da tutti conosciuto essendo la professione di fede che i pii israeliti recitano ogni giorno, mattina e sera: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4- 5). E poi aggiunge: «Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scri­ba, a differenza della gran parte dei colleghi presenti, concorda con Gesù e nel rispondere cita anche lui, quasi a dimostrare la continuità dell’insegnamento della Scrittura, un brano tratto dal primo libro di Samuele: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligen­za e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,32-33). E saggio e sincero questo scriba, tanto che Gesù gli rivolge un complimento che ognuno di noi gradi­rebbe: «Non sei lontano dal regno di Dio». Gesù non disprezza nessu­no, neppure coloro che altre volte lo avevano contrastato, anzi coglie il desiderio di quell’uomo che vuole capire.

Ma qual è il contenuto del consenso tra Gesù e il suo interlocutore? È il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo; due comandamenti, a tal punto uniti, da essere la stessa cosa. E questa unità che Gesù sottolinea. La prima comunità cristiana lo aveva ben compre­so. L’apostolo Giovanni, quasi a commento del brano evangelico che abbiamo ascoltato, scrive: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21). L’unione tra questi due comandamenti è un originale e chiarissimo insegnamento di Gesù, sebbene, come mostra la risposta dello scriba, già nel Primo Testamento è presente sia l’amore per l’unico Dio che quello per il prossimo. Gli israeliti, oltre che ad amare Dio sopra ogni cosa, sono altresì chiamati ad amare tutti i membri del popolo, particolarmente i più deboli, i piccoli, gli orfani, le vedove e gli stranieri (furono stabilite anche delle apposite leggi perché tutto ciò fosse attuato). Ma in Gesù questo duplice amore trova il suo compimento, la sua esaltazione sino ai limiti più alti. In lui si uniscono, si fondono, si identificano perché discendono dallo stesso Spirito. Gesù è colui che ama; è il compassionevole, il misericordioso, l’unico buono. È l’uomo che sa amare più di tutti e meglio di tutti.

Gesù ama il Padre sopra ogni cosa. Nelle pagine evangeliche emerge il particolarissimo rapporto tra Gesù e il Padre; un rapporto di dipendenza totale. È la ragione della sua stessa vita. Gli apostoli sono ammaestrati dalla singolare confidenza e dal totale abbandono che egli riponeva nel Padre, sino a chiamarlo con il tenero appellativo di «papà» (Abbà). E quante volte lo hanno sentito dire che l’unico scopo della sua vita era fare la volontà di Dio: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34)! Gesù è davvero l’esempio più alto di come si ama Dio sopra ogni cosa. Gesù ha amato con la stessa intensità anche gli uomini. Per questo «si è fatto carne». Nella Scrittura leggiamo che Gesù ha tanto amato gli uomini da lasciare il cielo (ossia la pienezza della vita, della felicità, dell’abbondanza, della pace e della consolazione) per stare in mezzo a noi. E nella sua esistenza c’è stato come un crescendo di amore e di passione per gli uomini, sino al sacrificio della sua stessa vita.

Ma cosa vuol dire amare «come se stessi»? Bisogna, appunto, guardare Gesù per poterlo capire. Lui infatti sa indicarci qual è il vero amore per noi stessi. Non di rado l’ignoranza in tale campo è notevole. Talora si cerca una felicità che non è tale, un benessere che non scende nel profondo; una libertà che è sottomettersi ancor più supinamente alla schiavitù di questo mondo. Gesù sembra dire: se ti rinchiudi nel tuo egoismo, non ti ami; se sei ripiegato sui tuoi interessi, ti vuol male, rovini la tua vita, ti rattristi; e così via. È, quanto accadde a quell’uomo ricco che non volle lasciare le ricchezze per seguire Gesù. Il senso dell’amare gli altri come se stessi è ben spiegato da altre parole dette da Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35); e ancora: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). Gesù, che ha vissuto per primo e sino in fondo queste parole, suggerisce che la felicità sta nell’amare gli altri più di se stessi. Tuttavia, è così intenso l’amore che ciascuno ha per sé, che almeno riversiamo l’intensità di questo amore sul nostro prossimo, e rendere­mo migliore la nostra e la vita degli altri.

Si tratta di una parola alta ed ardua. Chi può metterla in pratica? Bisogna rispondere che nulla è impossibile a Dio. Ed in effetti questo tipo di amore non si apprende da soli o sui banchi della scuola degli uomini; al contrario, in questi luoghi si apprende, e fin da piccoli, ad amare soprattutto se stessi e i propri affari, contro gli altri. Il tipo di amore di cui parla Gesù si riceve dall’alto, è un dono di Dio; anzi è Dio stesso che viene ad abitare nel cuore degli uomini. La prima lettura ci ricorda che esso nasce dall’ascolto, come la fede: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze». Ascolto e amore sono strettamente congiunti. Non si può amare Dio se si con­tinua ad ascoltare se stessi, e quindi ad amare se stessi. Ci si dovrebbe onestamente chiedere come mai spesso non cambia la nostra vita, nonostante frequentiamo con fedeltà la casa di Dio. Forse perché non ascoltiamo con il cuore e non ci portiamo nel cuore la parola di Dio, che sola trasforma e converte. Il libro del Deuteronomio insiste su questo comandamento, che è alla base di tutta la legge. Il profeta Geremia interpreterà tutta la storia di Israele e la profezia come una storia di ascolto e non ascolto di Dio: «Il Signore vi ha inviato con assi­dua premura i suoi servi, i profeti, ma voi non avete ascoltato e non avete prestato orecchio per ascoltare quanto vi diceva» (Ger 15,4-5). Anche oggi ogni ebreo osservante si rivolge ogni giorno a Dio con la preghiera dello Shemà, che comincia proprio con Dt 6,4. Solo ascoltan­do e riconoscendo l’unicità di Dio sulla propria vita si potrà imparare ad amare Dio e il prossimo.

La santa Liturgia della domenica è il momento privilegiato per rice­vere il grande dono dell’amore, quando ascoltiamo la parola di Dio e incontriamo il Sommo Sacerdote, che Dio ha stabilito una volta per sempre, il Signore Gesù che si offre per noi sull’altare, lui, come si legge nella Lettera agli Ebrei, il «santo, innocente, senza macchia, sepa­rato dai peccatori ed elevato sopra i cieli». In lui noi troviamo l’amore perfetto, perché egli ci ha amato tanto da dare la sua vita per noi. Per questo, nel giorno del Signore, con gioiosa riconoscenza, avviciniamoci all’altare. Anche noi, come quello scriba saggio, ci sentiremo ripetere: «Non sei lontano dal regno di Dio».

Preghiere e racconti

Parlami della felicità e dell’amore

Durante quel terzo giorno, il giovane principe non aprì quasi bocca. Mi ascoltava e tornava a sprofondare nelle sue riflessioni, come se, sentendo avvicinarsi la fine del viaggio, volesse assorbire tutte le mie esperienze.

“Parlami della felicità e dell’amore”, mi chiese all’improvviso.

“Bell’argomento” esclamai con un sospiro. […] “L’esperienza mi ha insegnato che non esiste la felicità senza l’amore, intenso come una costante passione per la vita e un continuo stupore di fronte a tutto ciò che percepiamo attraverso i nostri sensi: colori, movimenti, suoni, odori o forme che siamo. […] La strada più diretta e più semplice per la felicità è rendere felici le persone attorno a noi”, conclusi.

Dopo una pausa di silenzio, notando che il mio giovane amico mi ascoltava attento proseguii: “Quanto all’amore, la più grande verità mai detta è che si apprende ad amare solo amando. Tutti possiedono una grande capacità di offrire amore, anche solo con un sorriso, che arricchisce chi lo dà e chi lo riceve”. […] “L’amore vero”, proseguii, “si concentra su quello, che fa bene agli altri e dimentica se stesso. Per questo tipo di amore, capace di accettare tutto e perdonare tutto, non c’è niente di impossibile. Se trattiamo gli altri per quello che sono, continueranno a essere sempre gli stessi, ma se li trattiamo per quello che potrebbe diventare, raggiungeranno tutta la loro pienezza. Questo è un amore altruista, che perfeziona tutto ciò che incontra e non lascia nessuno indifferente.”

[…] “E come faccio a sapere chi si merita il mio aiuto e il mio amore?” chiese il giovane principe.

“Spesso risparmiamo il nostro aiuto per offrirlo solo a chi se lo merita davvero. È un grave errore, perché non spetta a noi giudicare i meriti altrui, cosa oltremodo difficile, ma semplicemente amare. Come accade con il perdono, chi più ama più si arricchisce. In fin dei conti, se Dio ama tutti gli essere umani allo stesso modo, che diritto abbiamo noi di escludere alcuni e preferire altri? Chi si approfitta della tua bontà va semplicemente compatito. E in più, se dedicherai la tua vita a scoprire il meglio della gente, finirai per trovare il miglio di te stesso.”

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 101; 104-105)

Una leggenda irlandese

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affliggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono. Le caratteristiche richieste erano le seguenti: 1) amare Dio e 2) amare gli altri esseri umani.

Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente potè mettersi in viaggio alla volta del castello. Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano: «Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?»

Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente potè accedere nella sala del trono.

Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore.

«Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada».

«Sì», rispose il re. «Quel mendicante ero proprio io».

«Ma non siete un vero mendicante. Siete il re».

«Sì, sono il re».

«Perché avete fatto questo?», chiese, allora, il giovane.

«Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali.

Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore.

Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani. Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!»

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 109-110).

Il mistero dell’Amore

«Auguro a tutti di sentire in voi un po’ di quell’amore che non dipende dal fatto che in questo momento siate amati da una persona o che siate innamorati di qualcuno. L’amore è una qualità divina. Rende magica la nostra vita. Quest’amore è in ognuno di noi e ci circonda nella creazione che ci abbraccia, nella presenza d’amore di Dio che ci avvolge e nelle persone che ci amano.

Auguro a tutti voi che vi sappiate amati e che troviate gusto nell’amore con cui amate gli altri. E ho fiducia nel fatto che, nelle vostre esperienze d’amore, nelle delusioni d’amore e nella gioia che l’amore ha suscitato in voi, riconosciate e percepiate il mistero di un amore che non è più fragile, su cui possiate sempre fare affidamento, che non si esaurisce mai perché si alimenta dalla sorgente dell’amore divino che fluisce in voi. Se avvertite in voi quest’amore, potete stare certi di essere in Dio, che  siete iniziati al più grande mistero di Dio, il mistero del suo amore».

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 61-62)

Amare Dio

Esiste un terzo oggetto del mio amore: Dio. Oltre a me stesso e agli altri, devo amare il Signore mio Dio con tutta la mia mente, il mio cuore e la mia forza. Amare Dio aggiunge una dimensione nuova e diversa all’amore. Nonostante quanto ci piacerebbe credere, di fatto non possiamo dare a Dio nulla che Egli già non possegga. Dio non ha bisogno di noi come noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Soltanto coloro che sono indigenti provano dei bisogni, e Dio non è indigente. In ogni caso, Dio ci domanda di amarci gli uni gli altri e ci promette che qualunque cosa facciamo per il più piccolo dei suoi figli, lo considererà come fatto a Lui.

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 71).

Amare il prossimo

Dice Kiekegaard “è proprio dell’amore cristiano scoprire che il nostro prossimo esiste… e che ognuno di noi è il prossimo di qualcuno. Se amare non fosse un dovere, il concetto stesso di ‘prossimo’ non avrebbe alcun significato. Ma solo quando noi amiamo il nostro prossimo, solo allora l’egoismo insito nell’amore preferenziale viene estirpato, e conservato invece il sereno equilibrio dell’eterno.”

(Cit. Leo BUSCAGLIA, Amore, Mondatori, Milano, 1972, 168).

Pioggia dentro

Una sera di pioggia.

Su un marciapiede della città

un vecchio steso per terra.

Inginocchio accanto a lui

mi lascio interrogare dai suoi occhi

annebbiati dal viso.

Il suo sguardo penetra il mio

per raccontarmi,

nel silenzio,

la sua vita infelice,

la solitudine,

il desiderio di amare,

l’attesa d’una famiglia….

Una voce alle mie spalle mi rassicura

che la colpa è della società,

ma arriva un’ambulanza,

raccoglie da terra quel problema

e se lo porta via.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto  Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 44).

Amare me stesso

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre». La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri”».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

Saggezza

Una coppia di novelli sposi chiese:

«Cosa dobbiamo fare

perché il nostro amore duri?».

Rispose il maestro:

«Amate insieme altre cose».

Preghiera

O Dio unica fonte di tutto ciò che esiste, tu sei il Padre nostro: donaci l’amore perché, fedeli al tuo comandamento, possiamo amarti con cuore indiviso, cercando te in ogni cosa. Insegnaci ad amarti «con tutta la mente»: illumina la nostra intelligenza, perché libera dal dubbio e dalla vana presunzione sappia scoprire il tuo disegno di salvezza nella storia e nelle circostanze quotidiane.

Fa’ che ti amiamo «con tutte le forze», consacrando a te e al tuo servizio le nostre capacità e i nostri limiti, le nostre azioni e le nostre impotenze, i nostri risultati e i nostri fallimenti. Aiutaci, Signore, ad amarti in ogni fratello che tu ci hai posto accanto e che tu hai amato per primo, fino al sacrificio del tuo Figlio. La sua oblazione eterna ci dia la forza e la gioia di perdere noi stessi nella carità per ritrovarci pienamente in te che sei l’Amore.

 

* P er l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXI DOM TEMP ORD ANNO B

UN’AGENDA PER LA FAMIGLIA: LAVORO E SCUOLA

In Umbria il primo dei 16 Convegni pubblici regionali promossi dall’Ac

Sabato 3 novembre 2012 a Foligno, presso l’Istituto San Carlo, con inizio alle ore 16.30, si terrà il primo dei 16 Convegno pubblici regionali promossi dalla Presidenza nazionale dell’Azione Cattolica Italiana congiuntamente alle Delegazioni regionali dell’associazione allo scopo di offrire un contributo alla fase di preparazione alla prossima Settimana sociale dei cattolici italiani, in programma a Torino dal 12 al 15 settembre 2013.

Si tratta di occasioni di discernimento e confronto con la società civile e con le istituzioni del territorio a partire dagli argomenti che saranno oggetto di riflessione durante i lavori dell’assise torinese.

Il tema di questo primo incontro pubblico regionale è “Un’agenda per la famiglia: lavoro e scuola”.

Interverranno Luca Diotallevi, vice presidente delle Settimane Sociali, Marcello Rinaldi, dirigente dell’Istituto Agrario di Todi, Valentina Di Maggio, responsabile del “Progetto Policoro” della diocesi di Assisi-Nocera-Gualdo, e Ulderico Sbarra, segretario regionale della Cisl. Le conclusioni sono affidate al presidente nazionale dell’Ac, Franco Miano, e al vescovo della diocesi di Foligno, mons. Gualtiero Sigismondi.

Come sottolinea Stefano Sereni, delegato regionale Ac Umbria, «in questo momento di grave crisi economica e occupazionale, come Azione Cattolica riteniamo opportuno un momento di discernimento che possa portare a un nuovo impegno come cittadini, affinché scuola e lavoro possano trovare nuove sinergie e idee di sviluppo, in una regione dove non mancano uomini e donne di buona volontà pronti a confrontarsi e a impegnarsi affinché le famiglie possano tornare a guardare con speranza al futuro, e al futuro delle nuove generazioni in particolare».

«Una nuova fase di sviluppo non solo economico potrebbe passare – rileva ancora Stefano Sereni – attraverso una diversa considerazione e un diverso impegno verso gli Istituti Tecnici Superiori, che fino a qualche decennio fa sfornavano ragazzi con una buona possibilità di collocazione sul territorio. Una diversa formula della formazione professionale e un utilizzo più efficace dei fondi che le Regioni mettono a disposizione potrebbero dare maggiori possibilità occupazionali a tanti nostri giovani, che senza un lavoro degno di questo nome difficilmente riusciranno nel progetto di formare una nuova famiglia».

* Ulteriori informazioni saranno disponibili collegandosi al sito:
http://www2.azionecattolica.it/conv-pub-reg-2012-13

Sospesi tra cielo e terra

di Gionatan De Marco

Felicità, gioia, beatitudine! Sono parole che fanno vibrare in profondità il cuore di tutti e soprattutto dei giovani.

Sono la ricerca continua nascosta o palese in ogni azione, in ogni scelta che si compie, ogni giorno e … per tutta la vita! Ma chi può darci la gioia, quella vera, quella piena, e chi può indicarci la via per raggiungerla?

Io sono venuto perchè abbiate la gioia e la vostra gioia sia perfetta”

Sono le parole di Gesù di Nazareth! E’ lui la sorgente della gioia vera e piena, ed è Lui che indica la strada per raggiungerla: la strada delle Beatitudini! Beati … Beati … Beati…

Con le sue profonde e insieme semplici riflessioni e il suo stile agile, vicino allo stile, alla sensibilità e alla vita dei giovani, don Gionatan offre un aiuto per incamminarsi sulla via delle Beatitudini.

Possano molti, stimolati da queste riflessioni, mettersi alla sequela di Gesù!Potranno attestare al mondo intero che la felicità è possibile!

+ Vito de GrisantisVescovo di Ugento – S. Maria di Leuca

Gionatan De Marco, giovane sacerdote della Diocesi di Ugento – S. Maria di Leuca, nasce a Tricase (Le) l’8 ottobre 1981 e il 13 dicembre dello stesso anno inizia il suo cammino di vita cristiana con il dono del Battesimo, ricevuto dalle mani di don Tonino Bello.E’ ordinato sacerdote il 26 agosto 2006.Attualmente è Assistente diocesano dell’Azione Cattolica

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTI

Prima lettura: Apocalisse 7,2-4.9-14

Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio». E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele. Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello». E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen». Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».

Davvero il santo è merce rara, come qualcuno va pessimisticamente dicendo? La prima lettura risponde abbattendo statistiche tendenti al ribasso.

Dopo la solenne scenografia celeste (cf. cap. 4) e la migliore comprensione del senso della vita e della storia grazie all’intervento dell’Agnello (cf. cap. 5), inizia la progressiva apertura dei sette sigilli che rendevano finora inaccessibile il libro (cf. cap. 6). La storia è striata di sangue e di sofferenza, ma non affidata ad un cieco destino di morte. Coloro che stanno dalla parte di Dio e dell’Agnello non sono risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, sono però risparmiati dalla distruzione totale e dall’annientamento. La loro vita non cade nell’oblio, perché accolta e trasfigurata.

Tre tappe scandiscono il brano: il sigillo impresso al gruppo dei 144.000 (vv. 2-4), il gruppo internazionale dei salvati (vv. 9-12) e la loro identità (vv. 13-14). All’inizio viene ritardato l’intervento punitivo dei 4 angeli, per permettere a un quinto di segnare il numero degli eletti. Rielaborando una scena del profeta Ezechiele (cf. Ez 8-10), l’autore proclama la salvezza che raggiunge il resto di Israele, computato in 144.000, cioè 12.000 per tribù (elencate nei vv. 5-8, tralasciati dal testo liturgico). Il numero, più qualitativo che quantitativo, viene dal prodotto di 12 (numero delle tribù di Israele), per 12 (numero degli apostoli, continuatori dell’antico popolo ma anche fondamento del nuovo), per 1.000 (numero di grandezza divina); esso designa una grande quantità di salvati provenienti dal giudaismo. (Per alcuni autori — per esempio Prigent — si tratterebbe dei cristiani nella loro totalità; Ap 14,3 ripropone il numero e parla di «i redenti della terra»).

Distinto dal precedente si pone un altro gruppo, questa volta internazionale, impossibile a quantificarsi perché «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare». Alcune precisazioni valgono per una loro prima identificazione (cf. v. 9: stanno in piedi, perché sono vivi come l’Agnello con il quale sono posti in relazione (gli stanno davanti), indossano vesti bianche (colore che li accomuna al mondo del divino e in modo particolare alla risurrezione di Cristo) e reggono delle palme (segno che condividono con Lui la vittoria sul male e godono della pienezza della vita); in seguito saranno identificati con maggior precisione. Di loro viene riferito il canto celebrativo che accomuna Dio e Agnello, segno evidente di una perfetta comunione esistente tra i due esseri, cui viene attribuito il merito della salvezza. Alla celebrazione si associa praticamente tutta la corte celeste in una dossologia che comprende 7 titoli (numero della pienezza). Infine, l’espediente della domanda del vegliardo, elemento tipico del genere letterario apocalittico, favorisce la piena decodificazione dei salvati: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14). I salvati sono pertanto coloro che traggono origine (ieri, oggi e sempre) dalla morte redentrice di Gesù (la «grande tribolazione»). Sono i santi che partecipano ora alla liturgia celeste, condividendo una vita di piena comunione, dopo aver partecipato, durante la vita mortale, alla passione di Cristo.

Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-3

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.

La santità è amore. La lettera che celebra l’amore di Dio e dell’uomo ci propone la fonte dell’amore e, di conseguenza, la fonte della santità.

I vv. 1-2 sono il canto entusiastico della comunità che si scopre già fin d’ora figlia del Padre che sta nei cieli: «quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!». Il testo non parla di Cristo, ma di lui hanno trattato i due capitoli precedenti e non si dà amore del Padre se non in Cristo. Il legame a lui stacca e isola la comunità dal mondo, qui inteso come la realtà negativa che si oppone a Dio; il mondo è principio di non-amore, di non-santità. Esiste quindi una incompatibilità radicale, perché i credenti sono abilitati ad una dignità di figli che li nobilita. L’amore divino è realtà che previene e che investe l’uomo, recandogli un dono inatteso e impensabile. Dio è sorgente dell’amore e quindi di ogni santità che è nell’uomo il riflesso di Dio. Se i vv. 1-2 suscitano e alimentano la nostalgia della santità, ad un impegno personalizzato sollecita il versetto successivo.

Infatti, proprio alla possibilità di rendere efficace tale riflesso, pensa il v. 3 che completa il quadro indicando l’impegno della comunità per rispondere al dono divino. Così dalla contemplazione stupita ed ammirata di quello che Dio è e fa, si passa alla collaborazione dell’uomo che accoglie responsabilmente il dono. Uno strumento privilegiato di accoglienza è la continua purificazione, atteggiamento di conversione necessario per lasciarsi invadere da Dio: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (v. 3). Al gloriarsi della propria dignità di figli ricevuta in dono, segue l’adeguamento che è lo sforzo continuo fatto di piccole trasformazioni. Conversione è l’imperativo affidato all’uomo, dopo che gli è stato comunicato l’indicativo (realtà) della sua condizione di figlio: «purificare se stesso» vuole dire rendersi pronti alla sequela di Cristo, andare con lui incontro al Padre. Adottato questo principio di vita, si capisce il seguito, non registrato dalla lettura odierna, del cristiano che non pecca, ovviamente perché si sviluppa in lui quel «germe divino» (v. 9) che è il principio di santità, la vita stessa di Dio, che lo rende figlio nel Figlio.

Vangelo: Matteo 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Esegesi

Il brano delle beatitudini elettrizza la odierna liturgia della parola. Esso inaugura il discorso del monte, il primo dei cinque grandi discorsi che strutturano il vangelo di Matteo. È la prima parte del primo discorso, cioè l’intonazione di tutte le parole di Gesù. Si comprende subito l’importanza attribuita dall’evangelista a questo proclama, chiamato senza troppa enfasi la magna charta, del cristianesimo. Lo potremmo quindi intendere come il suo manifesto, la sua carta costituzionale. E come in ogni stato la Costituzione è l’elemento sorgivo e strutturante delle varie componenti, una stella polare cui fare sempre riferimento, così il brano delle beatitudini caratterizza lo statuto cristiano. Il richiamo ad esso dovrà essere continuo e costante per non smarrire mai la bussola della propria identità. L’evangelista Matteo prepara il lettore con una concentrazione di particolari: è sulla montagna che Gesù presenta il suo pensiero, esattamente come Mosè aveva ricevuto le disposizioni divine sul monte Sinai; Gesù si pone a sedere assumendo l’atteggiamento dell’autorità che legifera; attorno sta il gruppo dei discepoli che non ricevono una informazione o una comunicazione, ma un insegnamento che dovrà poi trasformarsi in vita vissuta (cf. Mt 5,1.2).

Se già la presentazione era solenne, l’impressione di maestosa autorevolezza promana ora dal messaggio, ritmato da una serie di «beati». Il termine ‘felice’ ‘beato’ (makàrios in greco, da cui il nome proprio Macario e il termine ‘macarismo’ per indicare la beatitudine o

felicità) si trova 50 volte nel NT, ma collegato in forma litania compare solo nel nostro brano e nel passo parallelo di Luca che crea il contrasto tra 4 beatitudini e 4 guai (cf. Lc 6,20-26). Proclamando le beatitudini, Gesù riprende in parte lo stile dell’AT: sono dichiarati felici gli uomini che vivono secondo le regole dettate dalla sapienza (cf. Sir 25,7-10); nei salmi è proclamato beato l’uomo che teme (= ama) il Signore, dimostrando tale amore con l’osservanza della sua volontà espressa nella sua legge (cf. Sal 128,1; 1,1). Difficilmente si trovano due beatitudini insieme e mai sono ad esse associati i guai come nella combinazione di Luca.

Nel giudaismo di poco anteriore a Gesù è dato trovare, come nel nostro caso, la presenza di una sequenza di beatitudini e anche la loro combinazione con i ‘guai’: questi si spiegano forse per la viva speranza dei tempi ultimi. Sempre in tale contesto si incontra il discorso diretto («voi»), sconosciuto all’AT e presente in Mt 5,11. A differenza dell’AT, non ci sono frasi secondarie che specificano le beatitudini.

Pur con qualche somiglianza letteraria con l’AT e con il giudaismo, possiamo affermare l’originalità della presentazione di Matteo. Troviamo infatti due gruppi di quattro beatitudini che si corrispondono anche nel numero delle parole. Nel primo gruppo si presenta per lo più una condizione di sofferenza, nel secondo un determinato comportamento. I vv. 11-12 sono diversi: in essi compare il discorso diretto e forse sono una rielaborazione redazionale in forma di beatitudine di un detto di Gesù. Dobbiamo senz’altro riconoscere la novità assoluta e senza precedenti del contenuto. Diversamente dalla prospettiva della letteratura sapienziale che additava una salvezza futura e terrena. Gesù annuncia una salvezza presente e senza restrizioni: tutti hanno accesso alla felicità, a condizione che siano legati a lui. Sganciati da lui, le beatitudini non hanno senso. È lui ad inserire coloro che lo seguono nella condizione di cittadini del regno, di figli di Dio.

Le beatitudini sono piccole frasi che si intrecciano come una litania per proclamare una felicità davvero strana: «Beati i poveri in spirito… beati gli afflitti…». Dopo averle ascoltate, non sarà difficile essere presi da uno shock. Proclamare la felicità dei poveri, degli affamati, dei perseguitati sembra una evidente e sconcertante falsità che cozza contro la più elementare esperienza. Sarebbe come dichiarare che la loro disgrazia vale una benedizione: da qui alla mistificazione il passo è breve, perché sembra una buona soluzione per mantenere le cose allo stato di fissità, senza tentarne un miglioramento. L’accusa di conservatorismo arriva subito e facilmente. Si potrebbe aggiungere pure la volontà di sottrarre l’uomo alle responsabilità e agli impegni che lo ancorano al presente. Così, ad una prima reazione, il proclama delle beatitudini diventa il manifesto di una mortificante sclerosi che certo non onora Dio e che impoverisce l’uomo. Sotto la bandiera di un sublime ideale si fa passare un ordine invertito di valori umani.

Che cosa possiamo rispondere?

Le beatitudini sono proclamate da Gesù che annuncia solo quello che vive. Sarebbe sorprendente che un uomo che tutti riconoscono di una inimitabile coerenza abbia iniziato la sua predicazione (così in Matteo) con un clamoroso bluff. Le beatitudini sono il prisma che rinfrange non solo l’attitudine, ma anche i veri atteggiamenti di Lui.

La prima cosa da sapere e da imparare consiste nella convinzione che la felicità attinge al mondo interiore. La felicità nasce dall’anima stessa; non si trova per strada, non si compra né si vende. Essa è un’attitudine interiore che risveglia un comportamento visibile. Le beatitudini sono un appello a cambiare vita e prima ancora a modificare sensibilmente la propria mentalità. E questo avviene orientandosi verso Dio: ecco la realtà del «regno dei cieli» che apre la prima e la più importante delle beatitudini; ecco il passivo divino «saranno consolati» che andrebbe reso meglio «Dio li consolerà», mostrando anche nella traduzione che la fonte della consolazione è Dio stesso. Così di seguito, tutto rimanda a Dio.

La forza sta tutta qui: Gesù annuncia quello che egli vive. In lui si riscontra identità tra messaggio e messaggero, tra il dire, l’agire e l’essere. Il segreto dell’efficacia della sua missione sta nella totale identificazione col messaggio che annuncia: egli proclama la ‘buona novella’ non solo con quello che dice o fa, ma con quello che è. Ed egli è in perfetta comunione con il Padre, di cui esegue pienamente la volontà. Allora anche le difficoltà (o disgrazie) che accompagnano e segnano inesorabilmente la vita di ogni uomo, assumono un significato diverso prendono senso perché integrate in una vita che parte da Dio e che a Lui arriva. Questa è la santità.

Meditazione

È bene per noi, uomini e donne della terra, ancora sotto il dominio del peccato e della morte, pregare con chi è passato attraverso la grande tribolazione, la morte, colei che sembra allontanare definitivamente da Dio e dalla vita che egli ci ha donato. E, mentre celebriamo la liturgia, ci uniamo a coloro che celebrano la liturgia del cielo e cantano la lode di Dio. Sono i santi, uomini e donne diversi, che si sono fatti ascoltato­ri della Parola di Dio e discepoli di Gesù, scegliendo di vivere non per se stessi, ma per lui che è morto e risorto per noi. La Chiesa, nostra madre, in modo sapiente, anticipa la festa di tutti i Santi alla memoria dei fedeli defunti, quasi per aiutarci a comprendere il mistero della morte e perché non siamo dominati dalla paura. Il Signore infatti non abbandona gli uomini all’abisso della morte e nel Figlio Gesù, primo­genito di una moltitudine di fratelli, ci fa già cantare nella liturgia la gioia della resurrezione. La memoria dei santi accanto a noi ci aiuta a guardare con speranza il tempo che viviamo; soprattutto ci aiuta a non vivere prigionieri del nostro piccolo mondo, della terra su cui cammi­niamo, neppure delle realtà ecclesiali di cui siamo parte. Vi è una mol­titudine immensa di uomini e donne, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua, che insieme a noi e alla nostra comunità canta la salvezza che viene da Dio attraverso l’Agnello e ci rende partecipi di un popolo grande, in cui la diversità di origine e di cultura non diventa motivo di divisione e di inimicizia. È il popolo di Dio, sacramento dell’unità della famiglia umana, come ha detto il Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, liberato dall’odio, dalla divisione, dall’inimicizia, da tutti quei motivi di separazione che ancora non permettono agli uomini di vivere sulla terra quella visione del cielo.

Le parole dell’Apocalisse sembrano descrivere un altro mondo, lon­tano, irraggiungibile, impossibile da realizzare nel nostro. Sì, siamo di fronte davvero a un mondo altro, diverso da quello di tutti i giorni, spesso costellato di divisioni, contrapposizioni, inimicizie, che impedi­scono l’unità e intralciano il superamento del proprio io in una comunione e una sintonia con gli altri. Ci sono ancora troppe inimicizie che passano nei cuori di ognuno. Quante divisioni ancora tra i popoli, quanti conflitti nella vita di ogni giorno, fondati sulla difesa di se stessi e del proprio interesse. Le parole dell’Apocalisse rimangono una visio­ne e una profezia, ma sono anche una vocazione, quella di ognuno dei cristiani che da uomini della terra diventano uomini spirituali e si fanno discepoli del Signore, entrando già fin d’ora a far parte di quella moltitudine immensa. E un popolo di poveri, di gente che piange, di miti; di affamati e assetati di giustizia, di misericordiosi, di puri di cuore, di operatori di pace, di perseguitati per causa della giustizia e del Signore. Sembra un popolo di deboli, perché i poveri sono disprez­zati, coloro che soffrono abbandonati, i miti dileggiati, i cercatori di giustizia e di pace considerati degli ingenui, i perseguitati dimenticati, come tanti cristiani nel mondo. Qual è la loro forza se non di essere in quel popolo? Quale la loro felicità e beatitudine se non nella certezza che Dio realizzerà la sua parola e che fin da oggi sono radicali nella promessa di Dio? Questo Vangelo, che abbiamo ascoltato molte volte, traccia un itinerario tanto diverso dal vangelo di questo mondo, che proclama beati i ricchi, i forti, i belli, i furbi, coloro che fanno il loro interesse. La Chiesa lo ripropone nella solennità di tutti i santi, per farci comprendere qual è la via della santità, a cui tutti siamo chiamati.

Si vive talvolta una vita modesta, incentrata su se stessi, istintiva e suscettibile, ci si accontenta di quanto si riesce a percepire dal nostro orizzonte quotidiano, impauriti davanti alle grandi visioni. Così la visio­ne di Dio si appanna e svanisce. Per far parte di quella moltitudine immensa e poter incontrare il Dio della vita passando attraverso la grande tribolazione senza soccombere, bisogna essere più ambiziosi nell’amore, non tiepidi e calcolatori, non avari ed egoisti, non chiusi nel proprio mondo di buoni, che giudicano gli altri. I martiri, che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello e di cui la Chiesa fa sempre memoria, ci indicano la forza di una vita spesa nell’amore. Uno degli ultimi, che la Chiesa proclamerà beato, è don Pino Puglisi, un sacerdote che ha dato la sua vita per il Vangelo e non ha ceduto alla mentalità violenta e mafiosa da cui era circondato. La visione di Dio ci chiama ad essere santi, a vivere sulla terra come cittadini del cielo, familiari e cercatori di Dio, amici dei poveri e dei bisognosi per poter essere un giorno con loro, miti in un mondo pre­potente e violento, operatori di pace là dove permangono piccoli o grandi conflitti, affamati di quella giustizia di Dio, che mai è disgiunta dalla misericordia e non invoca la vendetta sul colpevole e sul malvagio. Se vogliamo un mondo migliore e più umano, percorriamo la via della santità, che ci è così bene indicata nelle beatitudini. E, se vogliamo realizzarla, uniamoci ai poveri, perché sono i primi beati, i primi a far parte del regno di Dio. Gesù, secondo i Vangeli sinottici, incontra per primi i discepoli e i poveri, i malati, gli indemoniati. Tutti loro fanno parte della sua famiglia. E noi potremo esser ugualmente felici, percor­rendo la via che il Signore ha proclamato dal monte delle beatitudini, nuovo Sinai, come la legge di Dio, l’insegnamento nuovo che porta a compimento l’antico senza abolirne il valore.

A noi, discepoli dell’unico che ha vissuto tutte le beatitudini, il Signore Gesù, viene chiesto di lasciarci attrarre da questo popolo, ribel­landoci all’individualismo che ci vorrebbe divisi. Le beatitudini sono le parole che ogni giorno ci permetteranno di far parte della famiglia di Dio e di gustare la gioia e la bellezza di essere un noi, un unico popolo, dove non esistono più confini di nazione, tribù, popolo, lingua. Ci tro­viamo davanti all’antico sogno di Dio che volle gli uomini non nemici né divisi, ma fratelli. Oggi nella festa di tutti i santi lo vediamo realizzar­si e ci sentiamo coinvolti in un disegno di amore che va oltre quanto siamo in grado di comprendere e di vivere ogni giorno. Non tiriamoci indietro per paura di perdere noi stessi. Aspiriamo alla santità, che è comunione con il Signore, vita gioiosa con i fratelli e amica dei poveri. Viviamo l’audacia di essere uomini e donne di quella moltitudine immensa, che non accetta la divisione come un fatto normale né il conflitto come naturale. La vittoria di Gesù sulla morte, la testimonian­za di coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello, raf­forzano la nostra esistenza in un mondo di gente incerta e impaurita e ci aiutano a guardare al futuro con speranza e con la certezza che il Signore non permetterà al male di soffocare i tanti segni di bene che i suoi discepoli custodiscono. La beatitudine dei discepoli di Gesù sarà la gioia di continuare a vivere in quella moltitudine immensa e senza con­fini, popolo di umili e di poveri, santificato dalla presenza di Dio e reso forte dal suo amore che ha vinto la morte.

Per questo ovunque nel mondo i cristiani continuano incessante­mente ad innalzare la loro lode al Padre e all’Agnello, primogenito di quella moltitudine immensa: «Amen, lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli». Nella preghiera di lode essi ritrovano la forza per l’agire, la speranza che si fa tenace ricerca della pace contro il pessimismo e il realismo triste di chi accetta l’inimicizia come un fatto naturale e inevitabile. La visione di Dio ci precede sempre. Non dimentichiamolo! E l’Eucaristia in qual­che modo la rende più vicina perché ci rende più vicini al Signore e ci fa parte già in questo mondo di quella moltitudine immensa che cele­bra la vittoria di Dio sul male. Mentre egli si manifesta a noi, siamo costituiti come suo popolo e ci avviciniamo a lui in quella comunione di amore che diventa canto di lode e rendimento di grazie.

Preghiere e racconti

La santità è sempre giovane

«Cari amici, la Chiesa oggi guarda a voi con fiducia e attende che diventiate il popolo delle beatitudini”. “Beati voi, afferma il papa, se sarete come Gesù poveri in spirito, buoni e misericordiosi; se saprete cercare ciò che è giusto e retto; se sarete puri di cuore, operatori di pace, amanti e servitori dei poveri. Beati voi!”. E’ questo il cammino percorrendo il quale, dice il papa vecchio ma ancora giovane, si può conquistare la gioia, “quella vera!”, e trovare la felicità. Un cammino da percorrere ora, subito, con tutto l’entusiasmo che è tipico degli anni giovanili: “Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio. Comunicate a tutti la bellezza dell’incontro con Dio che dà senso alla vostra vita. Nella ricerca della giustizia, nella promozione della pace, nell’impegno di fratellanza e di solidarietà non siate secondi a nessuno!”.

“Quello che voi erediterete”, continua il papa in quelle che sono parole sempre attuali, “è un mondo che ha un disperato bisogno di un rinnovato senso di fratellanza e di solidarietà umana. È un mondo che necessita di essere toccato e guarito dalla bellezza e dalla ricchezza dell’amore di Dio. Il mondo odierno ha bisogno di testimoni di quell’amore. Ha bisogno che voi siate il sale della terra e la luce del mondo. (…) Nei momenti difficili della storia della Chiesa il dovere della santità diviene ancor più urgente. E la santità non è questione di età. La santità è vivere nello Spirito Santo”.

Una scelta di vita, una scelta che dà senso, una scelta per vivere e testimoniare ciò che ogni cristiano sa: “Solo Cristo è la ‘pietra angolare’ su cui è possibile costruire saldamente l’edificio della propria esistenza. Solo Cristo, conosciuto, contemplato e amato, è l’amico fedele che non delude”.

(Giovanni Paolo II, a Toronto, nella  la GMG 2002).

Ciò che ho scritto di noi

Ciò che ho scritto di noi è tutta una bugia

è la mia nostalgia cresciuta sul ramo inaccessibile

è la mia sete tirata su dal pozzo dei miei sogni

è il disegno tracciato su un raggio di sole

ciò che ho scritto di noi è tutta verità

è la tua grazia

cesta colma di frutti rovesciata sull’erba

è la tua assenza

quando divento l’ultima luce all’ultimo angolo della via

è la mia gelosia

quando corro di notte fra i treni con gli occhi bendati

è la mia felicità

fiume soleggiato che irrompe sulle dighe

ciò che ho scritto di noi

è tutta una bugia

ciò che ho scritto di noi è tutta verità.

(Nazim Hikmet)

Le beatitudini bibliche

Fra i dieci gruppi in cui si possono distribuire e raccogliere le diverse beatitudini bibliche, uno solo riguarda il possesso dei beni materiali. È la beatitudine di un padre che, per merito della fecondità della moglie, si trova provvisto di un certo numero di figli, sani e robusti, e che, perciò, passa onorato e riverito tra la gente della sua città. Ma altre beatitudini di ordine materiale non esistono. Né i ricchi, né i potenti, dominatori, eroi, né, molto meno, i gaudenti, fecero parte, direttamente, per le beatitudini bibliche, del numero dei beati. Anche la ricchezza, certamente, rientrò nella visione biblica antico-testamentaria, tra i beni desiderabili per la vita di ogni uomo. La povertà e l’indigenza non ebbero mai buona accoglienza. A differenza, però, delle beatitudini sia egiziane che greche, le beatitudini bibliche non credettero mai che la ricchezza, da sola, bastasse a dare felicità. E neppure, quindi, la gloria, la potenza, il prestigio.

Anche questi, certamente, apparvero e furono stimati beni altamente desiderabili. Ma non vennero ritenuti affatto costitutivi della felicità umana. Furono cioè dei beni integrativi, ma non costitutivi.

Servendoci, quindi, di questa distinzione fra beni costitutivi e beni integrativi, l’unico grande bene costitutivo non fu, in realtà, secondo nove dei dieci gruppi di beatitudini, che Dio; ovvero, meglio, il possesso, da parte dell’uomo, di tutti gli atteggiamenti più genuini e autentici verso la realtà divina: la fede in un unico Dio (gruppo I); piena confidenza e speranza nella sua azione salvifica (II); rispetto profondo, timore e amore (III); umile confessione delle proprie colpe e desiderio di perdono (IV); stima e attiva partecipazione all’incremento del culto e la liturgia del tempio (V); attento sguardo sapienziale e attento ascolto alla presenza di Dio nel mondo e nella storia (VI); stima della Legge come riflesso e testimonianza della manifestazione dell’azione salvifica di Dio (VII); rispettoso comportamento verso l’ordine della giustizia (VIII); e, infine, umile accettazione anche di una qualche menomazione fisica, di uno stato di sofferenza (X).

Siamo, quindi, come si vede, di fronte a un complesso di atteggiamenti religiosi, per i quali l’uomo, consapevole delle sue incapacità, limitatezze, non si chiude orgogliosamente in se stesso, ma riconosce che solo in Dio trova la sua completezza.

(A. MATTIOLI, Beatitudini e felicità nella Bibbia d’Israele, Prato, 1992, 542s.).

Il paese della felicità

Se la felicità si trovasse anche solo nel paese più lontano e il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, partiremmo comunque subito.

Perché sarebbe in ogni caso più facile raggiungerla là che non nell’unico posto dove si trova davvero, il posto che è più vicino del paese più vicino eppure è più lontano del paese più lontano, perché questo posto non si trova fuori, ma dentro di noi.

(Thorkild Hansen)

Perché dovrei aiutare soprattutto i deboli?

Friedrich Nietzsche ha rimproverato al cristianesimo di glorificare la dimensione della debolezza e di condannare la dimensione della forza. Il cristianesimo sarebbe diventato, quindi, una religione dei gretti, nella quale la forza non ha posto e dalla quale le personalità forti si sentono respinte. Anche se Nietzsche esagera nella sua critica al cristianesimo, ha sottolineato tuttavia un aspetto importante: il cristianesimo non può diventare una religione della debolezza, altrimenti alla lunga non può dispiegare nessuna forza in questo mondo.

San Benedetto lo sapeva. Ammonisce l’abate a trattare i confratelli in modo tale che i forti vengano sollecitati e i deboli non vengano umiliati. Questa è per me una regola fondamentale e saggia. I forti hanno bisogno di una sfida per crescere e mettere i loro punti forti al servizio della comunità. Una comunità che glorifichi i deboli può togliere il respiro anche ai forti. In questo modo danneggerebbe se stessa. C’è bisogno di un buon equilibrio fra forti e deboli. Entrambi dovrebbero essere sfidati e dovrebbero poter vivere nella comunità in modo tale da crescere in essa.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 145).

Posso vivere basandomi sui valori e tuttavia avere successo?

I valori ci conferiscono valore e dignità. La vita di chi fa attenzione ai valori nella sua sfera personale acquisterà valore. Chi non si orienta più ai valori perde il rispetto per se stesso e per gli altri. La sua vita avrà sempre meno valore. Lo tirerà giù. La parola “valore” viene dal latino valere, che significa “essere forte e sano”. I valori ci danno, quindi, una forza interiore. Rendono sana la nostra vita. Se costruisco sui valori, quello che creo con la mia vita avrà un fondamento solido. Non crollerà con facilità, come si può osservare con le persone che costruiscono la loro casa di vita sulla sabbia delle loro illusioni o delle immagini ingannevoli. Alla lunga può resistere solo chi costruisce la sua casa su un terreno solido. E tale terreno solido sono i valori o gli atteggiamenti fondati sui valori, le virtù note fin dall’antichità: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e gli atteggiamenti cristiani come la fede, la speranza e la carità. Solo che rende giustizia alla propria essenza e chi rimane fedele con coraggio a quello che è importante per lui, chi accetta la propria dimensione e non segue continuamente esigenze smisurate, solo chi è saggio e valuta correttamente la situazione concreta, potrà vivere bene a lungo. E a lungo termine avrà anche successo nella vita.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 149).

Preghiera

Signore Gesù Cristo,

custodisci questi giovani nel tuo amore.

Fa’ che odano la tua voce

e credano a ciò che tu dici,

poiché tu solo hai parole di vita eterna.

Insegna loro come professare la propria fede,

come donare il proprio amore,

come comunicare la propria speranza agli altri.

Rendili testimoni convincenti del tuo Vangelo,

in un mondo che ha tanto bisogno

della tua grazia che salva.

Fa’ di loro il nuovo popolo delle Beatitudini,

perché siano sale della terra e luce del mondo

all’inizio del terzo millennio cristiano.

Maria, Madre della Chiesa, proteggi e guida

questi giovani uomini e giovani donne

del ventunesimo secolo.

Tienili tutti stretti al tuo materno cuore. Amen.

(Preghiera del Papa, al termine della Giornata della Gioventù di Toronto).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia. Tempo ordinario. Seconda parte, Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

PER L’APPROFONDIMENTO:

TUTTI I SANTI (Anno B)

Intervista al Cardinal Bagnasco sul Sinodo dei Vescovi

“Il punto non è venirne a capo, ma tenere desto il fuoco. Ascoltando quest’agorà delle genti mi sono accorto che passione per il Vangelo fino alla morte ce n’è molta”.

Lo ha detto il card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ieri sera, su Tv2000, intervistato da alcuni giornalisti dell’emittente dei cattolici e di Radio Inblu sul significato del Sinodo dei vescovi appena concluso.

Il tesoro tra le mani. “Gli eventi della Chiesa non vogliono ripetere un ritornello ma ridestare questa fiamma”, ha risposto spiegando la funzione del Sinodo, “perché l’amore bisogna rimotivarlo e accorgersi del tesoro che si ha in mano. Il dramma più grave, quando l’uomo vive una difficoltà, è sentirsi solo. Allora tutto pare insormontabile, si arrende e diventa passivo. È invece giusto sapere che, in qualunque momento, l’uomo incontra Cristo che lo precede”.

Incontrarsi di persona. “Conoscenza e ragionevolezza della propria fede, alimentata nella cura amorevole di Gesù Cristo, in un contesto che non è favorevole”: questa è la sfida a cui siamo chiamati. “L’incontro personale con Gesù”, senza il quale “anche il pensiero di Cristo sarà difficile da interiorizzare e tradurre in termini vivi”, va inserito, ha spiegato il porporato, “nell’aria che respiriamo tutti”, perché “i cattolici non vivono sotto una campana”. C’è, però, “una strana separatezza tra la fede proclamata e i criteri desunti, aspirati in modo acritico dall’aria del secolarismo”, che non è diffuso “solo nel mondo occidentale, ma anche in quei territori di recente tradizione cattolica”.

Una voce forte e costante. A proposito dei diritti dei cristiani in Medio Oriente e Nord Africa, la Chiesa, ha sottolineato il card. Bagnasco, “dev’essere coscienza critica. Non maestra che bacchetta ma profezia. Profezia vuol dire incarnarsi nella storia, nel mondo, come ci ha insegnato il Maestro. La Chiesa – ha proseguito – dev’essere sempre presente ovunque, seguendo, col discernimento che lo spirito le dona, quei semi buoni da valorizzare, in ordine alla dignità della persona umana”. In merito al fondamentalismo, “da qualunque parte venga”, la Chiesa “deve elevare ed eleva la sua voce, forte e costante, insieme alla sua preghiera”, che vuol dire “denunciare violazioni diritti fondamentali e invocarne in tutte le sedi il rispetto”. È doveroso però, ha aggiunto, che “anche la comunità internazionale parli forte e costante”.

Farsi profezia. Sul valore della “Chiesa profetica” il presidente Cei si è soffermato spiegando come “nell’Antico Testamento ‘profetico’ è chi guarda le cose con gli occhi di Dio, cogliendone così la verità e l’esito. Ma lo è anche colui che anticipa un mondo nuovo, secondo Dio. È la comunione il miracolo che autentica l’annuncio, e si fa profezia del mondo nuovo. Ma c’è la profezia – ha aggiunto – anche nel momento in cui la Chiesa parla e annuncia il Vangelo, quando la Chiesa richiama l’errore di certi stili, e dice ‘no’. A volte questo non è capito, ma il ‘no’ è solo l’altra faccia del ‘sì’. Dire che un comportamento porta alla rovina è profezia”.

Cuore materno e pulsante. Sul tema della famiglia, “la Chiesa si deve porre facendo pulsare il suo cuore materno. Ma, in quanto madre delle genti, dev’essere anche maestra” e dunque “accompagnare, sostenere, incoraggiare, dare fiducia, dire una parola di verità”. Per rispondere alle esigenze delle famiglie contemporanee, “nel documento ‘Sacramentum caritatis’ – ha segnalato il porporato – vengono indicati nove modi per partecipare alla vita della Chiesa, pur nell’impossibilità di accostarsi alla comunione”. In questo contesto, una “grande solitudine abbraccia i nostri ragazzi”, che “vogliono essere amati, tutto il resto è relativo. Se sentono che le figure educative vogliono loro bene e sono là per loro, tutto il resto si dipana. Il linguaggio, seppur con la sua importanza, non è prioritario ma secondario rispetto al cuore che essi cercano”.

Creature di confine. Quanto all’evangelizzazione, “dobbiamo far emergere la dimensione costitutiva della persona”, che è fatta di fiducia. L’uomo “non può vivere senza fiducia. In questo senso il limite, che è parte costitutiva della persona, è un grandissimo alleato del Vangelo”, perché “l’esperienza che facciamo del limite ci dice che abbiamo bisogno degli altri, che non possiamo vivere chiusi in noi stessi, ma solo andando incontro con fiducia al dono fatto di noi stessi agli altri. Io – ha detto il card. Bagnasco – ho molta fiducia nel bisogno di fiducia. Chi ha paura di perdere la vita e la trattiene, la perderà davvero. Chi la dona, invece, la troverà”. Di qui “il passaggio dagli altri all’Altro, l’unico che può riempire il cuore umano, piccolo ma creato per l’infinto. L’uomo, d’altra parte, è una creatura di confine, tra terra e cielo, tempo ed eterno”.

Un’antropologia integrale. Il card. Bagnasco ha riservato una riflessione anche all’impegno dei cattolici: “Quanto più politica, economia e finanza segnano difficoltà e scandali, tanto più il cattolico non si può ritirare, anzi è chiamato in causa. Il suo è un dovere: ciascuno, secondo la propria vocazione e capacità, deve partecipare al bene pubblico. Non certo per voglia di potere, ma per servire al bene comune, non per imporre legislazione di fede ma in nome di un’antropologia integrale, che scopriamo alla luce del Vangelo ma non prescinde dall’uso della ragione”.

Come la luna. “Trasparenza” e “credibilità” sono state, infine, le parole che il card. Bagnasco ha indicato in risposta agli scandali che possono coinvolgere la Chiesa: “Il Santo Padre ci indica continuamente la via della trasparenza”, e “la credibilità è un desiderio che dobbiamo avere per Lui, il Signore. ‘La Chiesa è come la luna, che riflette la luce del sole’, diceva Sant’Ambrogio. Dobbiamo pensare ad essere credibili e fedeli”.