
Giornate formative USPI

La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Giovedì 13 dicembre è stato presentato a Roma il “Vademecum del Centro Missionario Diocesano”, edito da EMI e redatto dall’Ufficio Nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese e da Missio, a seguito di un lavoro di rete durato oltre un anno, che ha visto coinvolte diverse realtà operanti nel variegato panorama missionario nazionale, nei tre ambiti della cooperazione, formazione e animazione.
Mons. Domenico Pompili, Sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana e Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, ha rivolto un suo saluto di benvenuto a nome della Presidenza della CEI.
Usare un linguaggio comprensibile a tutti, essere presenti dove sono le persone (per esempio anche nel digitale), saper interpellare la libertà di ciascuno in modo coinvolgente: queste le tre principali indicazioni offerte da mons. Pompili, il cui intervento è disponibile in allegato.
Prima lettura: Michea 5,1-4a
Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace!». |
Il profeta Michea è un contemporaneo di Isaia (VIII secolo). In questo passo egli dedica la sua attenzione non a Gerusalemme, ma a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide. A distanza di anni i discendenti di Davide non hanno ancora assolto alla loro missione. Occorre che venga un discendente particolare che darà origine a un nuovo inizio. Da Betlemme infatti verrà il Salvatore, discendente di Davide.
Il testo profetico non è esplicito, però lo diventa alla luce del NT e anche del vangelo odierno. Il sussultare di Giovanni nel seno di sua madre alla presenza di un altro feto, si capisce se pensiamo alla identità di Gesù. Egli viene profeticamente celebrato nella prima lettura.
Il testo di Michea è un celeberrimo vaticinio messianico. Il messia è il centro ideale e soggetto logico, anche se non sempre grammaticale. Di Lui si esalta la patria, Betlemme/Efrata (dal nome di un clan di Efratei che si era stanziato a Betlemme): una modesta borgata assurge al ruolo di protagonista perché da essa «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (v. 1).
I tempi non sono ancora maturi e, in attesa del grande evento, Israele sarà ancora alla mercé dei suoi nemici (cf. v. 2). Tra la profezia di Michea e la sua realizzazione si colloca la speranza, autentico motore della storia di Israele.
La figura del Messia è caratterizzata come il pastore che «pascerà con la forza del Signore»: affiora un tema a largo spettro biblico (cf. Ez 34; Gv 10). La espressione «con la maestà del nome del Signore, suo Dio» suona un po’ barocca, ma serve all’autore a far capire che Dio si impegna personalmente; per noi è facile leggere tra le righe la divinità del Messia (cf. v. 3).
Il v. 4 conclude l’oracolo profetico e ne riassume il significato: la pax davidica fu effettivamente vissuta nei primi anni del regno di Salomone. Ora la storia freme verso il futuro e colui che nascerà porterà la vera pace, lui chiamato «principe della pace» (Is 9,8).
Seconda lettura: Ebrei 10,5-10
Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre. |
La Bibbia ha sempre di mira una visione ‘olistica’ della realtà: la sola prospettiva biologica non basta a garantire la grandezza della vita. Che a colui che doveva nascere fossero riconosciuti indiscussi segni di grandezza morale, lo avevano detto bene le due precedenti letture: sia la muta testimonianza di Giovanni o quella esplicita di Elisabetta, sia il messag-gio della profezia di Michea. La presente lettura ha il merito di interpretare la piena consapevolezza del Messia e il suo totale ingaggio a favore dell’umanità.
La lettera agli Ebrei parla della morte di Gesù servendosi del linguaggio cultuale dell’AT. Gli ordinamenti cultuali antichi avevano funzione preparatoria e quindi transitoria. Non era ancora giunto quanto Dio desiderava. Poi arriva Cristo con l’offerta della sua vita. L’Autore trova un prezioso parallelo nel Sal 40 che egli cita nel testo greco dei LXX.
La pienezza della vita viene raggiunta con il dono della medesima, perché solo allora si tocca il vertice dell’amore di Dio («Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà») e dell’amore del prossimo («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13).
Vangelo: Luca 1,39-45
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». |
Esegesi
Troviamo ora insieme due donne, Elisabetta e Maria, che in precedenza Luca aveva presentato separatamente. Se un filo di soprannaturale comunione le legava già prima, in quanto parte attiva del progetto amoroso di Dio, ora hanno l’opportunità di incontrarsi e di comunicare.
Il brano si compone di due parti, introdotte da un quadro di riferimento cronologico-geografico: dopo l’evento dell’annunciazione, Maria si trasferisce dal nord (Nazaret) al sud (città di Giuda) (cf. v. 39). In tale contesto si colloca dapprima l’incontro delle due madri (vv. 40-45), quindi la preghiera di Maria, il Magnificat, nata in quell’occasione e per quell’occasione (vv. 45-48; in realtà continua fino al v. 55, ma il testo liturgico si interrompe prima). Dal confronto delle due parti, vediamo che la prima è dominata dalla parola di Elisabetta, mentre la seconda dalla parola di Maria. Due madri che, ciascuna a proprio modo, cantano un inno alla vita.
Dopo la stupenda esperienza di Nazaret che la promuoveva a ruolo di ‘Madre di Dio’, Maria non appare una creatura beata in se stessa, isolata nella sua intimità divina, bensì un essere corporeo, fatto di concretezza, di sensibilità e di disponibilità. Ella lascia la mistica tranquillità della sua casa e si mette in strada. Non viene detto espressamente il motivo del viaggio; tutto lascia pensare che la causa sia da ricercare nell’annuncio angelico: Maria era stata informata che la parente Elisabetta era al sesto mese di gravidanza (cf. v. 37). Il fatto che ella si fermerà tre mesi, giusto il tempo perché il bambino possa nascere, permette di concludere che effettivamente Maria intenda recare aiuto alla futura mamma. Ella si muove e va là dove la chiama l’urgenza di un bisogno. «In fretta» esprime la sollecitudine di recare il giovanile aiuto all’anziana parente. L’amore al prossimo, anche in questo caso, testimonia l’autenticità dell’amore a Dio.
Non sono fornite indicazioni geografiche, se non un generico «verso la regione montuosa, in una città di Giuda». Una tradizione del VI secolo identifica il luogo con Ein Karem, la cui scelta è forse dovuta alla bucolica serenità del luogo e al fatto di essere equidistante da Gerusalemme e da Betlemme. A noi interessa rilevare lo spostamento da Nazaret, al nord, verso la Giudea, al sud, con un percorso di circa 150 Km che richiedeva circa tre giorni di cammino. Da questo cammino, non privo di fatica e di disagi, verrà la possibilità di un incontro e quindi della lode. Cammino, incontro e lode sono quindi i tre segmenti che costruiscono l’armonia di questo racconto.
Maria si mette in cammino. Grazie a lei anche Gesù, prima ancora di nascere, è in movimento verso gli altri, profetico anticipo della sua missione itinerante che intende portare a tutti la parola che aiuta e che salva. Luca utilizza l’episodio per mettere alla luce quanto si era compiuto nell’intimità di Nazaret, che solo con il dialogo con un’interlocutrice poteva lasciare la sua segretezza e la sua dimensione individuale.
La prima scena è dominata da Elisabetta e dalle sue parole; non va dimenticato che queste si sprigionano dal suo animo quando sono sollecitate da Maria. Due eventi causano e spiegano tali parole. Il primo, apparentemente ordinario, è l’ingresso di Maria nella casa di Zaccaria con il conseguente saluto rivolto a Elisabetta. È una felice ‘provocazione’. Il saluto origina il secondo evento, il sussulto del bambino di Elisabetta che sembra riconoscere la voce di Maria e, più ancora, sembra relazionarsi a colui che ella porta in grembo.
L’incontro delle due madri è l’occasione per l’incontro dei due figli che portano in grembo, Giovanni e Gesù. Su di loro riposa lo spessore teologico del brano. Si instaura ancora a livello di feto quella dipendenza gerarchica, un misto di servizio incondizionato e di gioia piena, che caratterizzerà la vita di Giovanni. Egli testimonierà: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo: Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30). Al presente c’è una percezione che si riverbera in un sussulto di gioia. Le due madri sono ‘arche sante’, ‘ostensori sacri’ di due esseri destinati l’uno a tratteggiare la via, l’altro ad essere lui stesso via. La scena, pur dominata dalle due madri, ha il suo fulcro nella percezione che Giovanni ha di Gesù e nell’implicito riconoscimento della sua grandezza.
Effettivamente le parole di Elisabetta documentano che lo spessore teologico attraversa i ‘concepiti’ più che le madri: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (vv. 42-43). Con una espressione semitica che equivale a un superlativo («fra le donne»), Maria viene celebrata per la sua funzione o carisma (essere «Madre del mio Signore») e per la sua adesione incondizionata a tale vocazione. A lei vengono riservate una benedizione («benedetta tu») e una beatitudine («beata»).
La benedizione è una formula tipica dell’AT, dove il verbo ebraico barak e il sostantivo derivato berakah si trovano ben 398 volte. Secondo diversi studiosi, la radice ebraica brkh è collegata a berekh (= ginocchio) creando il nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi, tipico atto di adorazione e di omaggio alla divinità. Nella Bibbia le benedizioni si dividono in ‘ascendenti’ quando celebrano Dio per qualche intervento (cf. Sal 41,14) e ‘discendenti’ quando si invoca la potenza di Dio su qualcuno o su qualcosa (cf. Nm 6,24-27) o quando è lo stesso Dio a benedire (cf. Gn 1,28). La benedizione è un dono che ha rapporto con la vita; possiamo affermare che la ricchezza fondamentale della benedizione è quella della vita e della fecondità: questo vale tanto per la terra, quanto per le persone (cf. Dt 28,1-14). Lo vediamo bene nel nostro passo, quando alla benedizione per Maria viene affiancata quella per il figlio: «e benedetto il frutto del tuo grembo!». Maria viene celebrata proprio per la sua maternità. Così la benedizione viene da Dio e a Lui ritorna ora sotto forma di invocazione e di preghiera; è un riconoscere quello che Lui ha fatto.
La beatitudine del v. 45 la prima del vangelo di Luca, certifica l’adesione di Maria alla volontà divina. Ella quindi non è solo destinataria privilegiata di un arcano disegno che la rende benedetta, ma pure persona responsabile che accetta e aderisce. Maria non è una creatura che sa, ma una creatura che crede, perché si è aggrappata ad una parola nuda che ella ha rivestito di amore. Ora Elisabetta le riconosce questo amore, espresso con «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», e la celebra come la prima di tutte le donne. Maria va da Elisabetta per un servizio domestico, Elisabetta le restituisce il servizio liturgico della lode, riconoscendola benedetta come madre e beata come credente.
Il ‘cantico di Elisabetta’ (cf. vv. 42-45), dono dello Spirito, pubblicizza per il lettore e per il credente il mistero che Maria pensava affidato alla segretezza della sua intimità. Non esiste rapporto autentico con Dio che non abbia la possibilità di diventare ‘pubblico’: questo è il concetto fondamentale di carisma e Maria ha in primis il carisma di essere la «madre del mio Signore», come le riconosce la parente. L’incontro di due madri in attesa, diventa l’incontro del frutto che hanno in grembo; Giovanni percepisce la presenza del suo Signore ed esulta, esprimendo con il suo sussultare la gioia a contatto con la salvezza, che Maria potrà formalizzare nel canto che segue.
Meditazione
Con la quarta domenica di Avvento la liturgia, dopo essere ‘partita dalla fine’, dal compimento della storia e dalla venuta del Figlio dell’uomo, dopo aver ascoltato la ‘parola’ che è Giovanni il Battezzatore, l’uomo del deserto e dell’Avvento, ora nell’ultima tappa dà inizio alla lettura dei testi che nei Vangeli narrano la venuta storica del Messia. In particolare sono i ‘poveri’ di YHWH a fare la loro comparsa nella liturgia di questa domenica: saranno i ‘protagonisti umani’ di tutto il tempo di Natale: coloro che sanno accogliere! Gli umili e i poveri sono coloro che hanno occhi per vedere e riconoscere la visita di Dio. Fino alla solennità dell’Epifania saranno il modello per il credente di oggi, chiamato a vedere che Dio continua a visitare il suo popolo e a incarnarsi nella storia perché tutto in Lui sia ‘re-intestato (Ef 1,10).
E tu Betlemme, la piccola
Nel testo di Michea si parla di piccolezza e di grandezza nel medesimo tempo. Betlemme è un piccolo borgo della Giudea, chiamato ad essere il luogo della nascita di colui che «pascerà il suo popolo con la gloria del Signore».
Come da Betlemme uscì il grande Re Davide (1Sam 16,4; 17,12), il più piccolo della casa di suo padre Jesse (1Sam 16,7), colui che fece la grandezza del regno di Israele, riunendo in un’unica realtà politica tutte le tribù, così anche il Messia, figlio di Davide, colui che doveva compiere le profezie fatte al Re di stabilire per sempre la sua discendenza sul trono di Israele, viene dalla più ‘piccola’ tra le città di Giuda.
Come nella scelta di Davide, anche nella vicende che accompagnano la nascita di Gesù si scopre il volto di un Dio che segue parametri totalmente differenti da quelli che l’uomo sarebbe portato a seguire. Come ai tempi di Davide, anche ora la scelta di Dio cade sui più piccoli, perché Dio non guarda ciò che guarda l’uomo: «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7).
La gioia dell’incontro
Nel brano evangelico, il farsi strada della salvezza nella storia assume il linguaggio di un incontro. Le relazioni umane di due donne appartenenti al popolo di Israele sono il linguaggio che il vangelo di Luca utilizza per descrivere l’arrivo dei tempi del Messia. L’incontro di due donne incinte, entrambe custodi della vita che attende di sbocciare, diviene immagine della storia ‘gravida’ che sta per partorire un tempo nuovo e definitivo. Una donna sterile e anziana, come ai tempi di Abramo, il primo padre; una donna vergine, sposa pronta per l’incontro con il suo sposo, come il popolo che nel suo esilio si sente promettere da Dio di essere ‘rifatto vergine’ per grazia: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). Una donna sterile e una donna ‘vergine’ sono immagini dell’umanità che diviene capace di generare la vita. Lì, proprio lì, dove sembra che sia impossibile ogni segno di vita, ogni speranza di futuro, l’intervento di Dio fa fiorire la gioia, la danza, l’esultanza e il canto.
Ma nel vangelo di Luca si parla anche dell’incontro di due bambini non ancora nati. Un incontro che fa danzare Giovanni il Battista, che già nel grembo materno è profeta e precursore.
Questo testo di Luca è ricco di riferimenti al corpo: due donne incinte, due bambini non ancora nati, Giovanni che sussulta di gioia nel seno della madre… tutte immagini che coinvolgono il corpo in un modo molto forte e anche un po’ provocatorio. Con esse Luca ci dice che la salvezza ci raggiunge proprio nel corpo, quella dimensione — ‘dimensione’ e non ‘parte’, come spesso noi siamo portati a immaginare con un linguaggio un po’ dualistico — che nel linguaggio dell’antropologia biblica indica il luogo della relazione. Noi entriamo in relazione con il mondo e con gli altri grazie al nostro corpo. Anche questo è un annuncio provocante: la salvezza ci raggiunge nel corpo. Noi pensiamo che ci possa raggiungere nell’anima e che il corpo sia quasi un peso e un ostacolo. Invece il vangelo di Luca ci annuncia che non c’è salvezza che non passi per il corpo, perché la salvezza si gioca nell’incontro e nella relazione. Dio ha voluto descrivere sempre il suo rapporto con l’uomo e con il suo popolo come relazione, anzi come le relazioni più profonde e vere: la relazione uomo/donna, padre/figlio…
La danza di Davide
C’è un testo dell’Antico Testamento che ci può aiutare nella comprensione del Vangelo di questa quarta domenica di Avvento: 2Sam 6. In questo testo si narra di re Davide che, ormai insediatosi a Gerusalemme e dopo aver unificato tutto il regno, decide di riportare l’Arca dell’alleanza a Gerusalemme. Nell’ultima parte di questo racconto così bello e vivace viene descritto l’ingresso dell’Arca a Gerusalemme tra la festa del popolo e la danza di Davide. Anche qui il corpo è protagonista. Il grande re Davide, un peccatore dal cuore grande, ha la freschezza di un bambino nell’accogliere la visita di Dio… e sa danzare quasi nudo, senza vergogna, davanti all’Arca santa che fa il suo ingresso nella città regale: «Allora Davide andò e trasportò l’arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. Quando quelli che portavano l’arca del Signore ebbero fatto sei passi, egli immolò un bue e un ariete grasso. Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Ora Davide era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportavano l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba» (2Sam 6,12-15).
Ma questo comportamento turba la figlia di Saul divenuta moglie di Davide, Mikal. Essa si scandalizza perché Davide si rende ridicolo agli occhi del popolo: «Bell’onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!» (2Sam 6,20). Davanti al suo sdegno, la risposta di Davide è questa: «L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!» (2Sam 6,21-22).
Elisabetta e Maria sono quelle ‘serve’, quelle donne appartenenti al popolo dei poveri e degli umili, che diventeranno l’onore di Davide e che sapranno cantare, gioire e danzare per la venuta del Signore in Gerusalemme. Anche Giovanni danza davanti a Maria che porta in sé il Signore, come Davide danzò davanti all’Arca. La vergine e la sterile che sanno gioire per un incontro diventano madri, e fanno fiorire la vita; Mikal che non danza e si scandalizza della danza diviene sterile (2Sam 6,23): immagine dell’umanità che si chiude alla vita, nel momento in cui è incapace di gioire per un incontro e di accorgersi quando è visitata.
Un corpo mi hai preparato
Nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, non troviamo un
tono parenetico, bensì un annuncio. Sono le parole che l’autore mette in bocca a Cristo per annunciare, attraverso il linguaggio sacrificale-sacerdotale di questo scritto del Nuovo Testamento, il senso dell’esistenza e della missione di Cristo. È significativo che tutto si riassuma nell’espressione «mi hai preparato un corpo», facendo dell’umanità nella sua dimensione di fragilità e creaturalità, con tutto ciò che essa comporta, il luogo dell’obbedienza alla volontà del Padre. Anche se questo testo non è direttamente parenetico, tuttavia non è privo di conseguenze per la vita cristiana. L. Manicardi scrive: «Per il cristiano si tratta di vivere il corpo e di giungere a fare della propria vita un dono, un’offerta, sulla scia dell’offerta fatta da Cristo stesso. Per i cristiani ormai il corpo è il luogo dell’adempimento della volontà di Dio».
Preghiere e racconti
Andiamo fino a Betlem, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.
Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
(don Tonino Bello)
C’era una volta un lupo che viveva nei dintorni di Betlemme. I pastori lo temevano e vegliavano l’intera notte per salvare le loro greggi. C’era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era ogni volta più affamato, scaltro e arrabbiato.
Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori. L’eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell’aria.
Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.
Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.
“Quante smancerie per un cucciolo d’uomo” pensò il lupo. Ma incuriosito e soprattutto affamato com’era, li seguì nell’ombra a passi felpati.
Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell’ombra e attese.
I pastori portarono dei doni, salutarono l’uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono.
L’uomo e la donna stanchi per le fatiche e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono.
Furtivo come sempre, il lupo scivolò nella stalla. Nessuno avvertì la sua presenza.
Solo il bambino.
Spalancò gli occhioni e guardò l’affilato muso che, passo dopo passo, guardingo, ma inesorabile si avvicinava sempre più. Il lupo aveva le fauci socchiuse e la lingua fiammeggiante. Gli occhi erano due fessure crudeli. Il bambino però non sembrava spaventato.
“Un vero bocconcino” pensò il lupo. Il suo fiato caldo sfiorò il bambino.
Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.
In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza. Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: “Ti voglio bene, lupo”.
Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme. La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio.
Sotto, apparve un uomo. Un uomo vero, in carne e ossa.
L’uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.
Poi l’uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti: “È nato un bambino divino che può donarvi la vera libertà!
Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!”.
Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo… Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo. Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione. Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio!
(GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).
…non è per lo spazio d’una notte
che Dio spera contro speranza.
Mendicante sconosciuto, instancabilmente percorri
i lidi delle notti umane,
ombra tra le ombre innumerevoli
dei senza speranza.
Nella tua bocca muta si spengono i singhiozzi,
ma tu vorresti gridare, anche tu,
perché questo grido se ne vada,
come un’eco diversa,
come un richiamo nuovo,
a confondersi con il lamento crescente,
con le grida degli assetati di luce
con il terribile silenzio dei pianti soffocati,
e non resta che aprirsi
al vuoto dei marosi grigi,
all’alba che si accende non veduta.
Sul lido delle notti umane, sei il Dio senza voce.
Poiché la tua Parola fu detta in un giorno del tempo.
L’ hai pronunciata tutta,
l’hai gridata sino alla fine,
sino all’ultimo respiro del tuo Figlio.
Ma quando fu compiuta la tua Parola nella sua pienezza,
per te, Dio, venne il tempo della speranza nuda,
della speranza muta,
della speranza contro ogni speranza.
Dio eterno,
Dio sempre nuovo,
inafferrabile,
Dio di alleanza,
Dio di libertà,
dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti?
dove si annuncia la tua venuta?
La tua Parola ci rassicuri,
o Padre degli uomini,
Dio della promessa,
ora e sempre.
Presenza imprevedibile,
Dio di lunga pazienza,
Signore dell’impossibile,
noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo
della tua venuta.
Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato
per scoprire, per svelare, per generare,
non cessiamo di pregarti:
il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno,
all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo,
nostro fratello e nostro Signore, per sempre.
(Nicole Berthet).
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
———
– M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
La fede è…? Tredici conversazioni, domande e risposte utili per chi cerca, inutili, forse, per chi è prevenuto
Il libro è nato dal desiderio di alcuni giovani, liceali, universitari e neolaureati accomunati da un bisogno: avere risposte semplici e chiare alle obiezioni più comuni sulla fede che spesso sorgono nei giovani e tra i giovani.
Le domande sono state sintetizzate e raggruppate per argomento da un giovane medico, mentre le risposte sono date da un sacerdote che attinge alla sua ricca esperienza di insegnante ed educatore a contatto con il mondo giovanile. Il linguaggio è volutamente scorrevole: sono evitati termini “tecnici”, mentre si fa largo uso di episodi ed esperienze di vita quotidiana, e di ampie citazioni della Parola di Dio.
Il nuovo progetto di “comunicazione-verità” del Servizio Promozione Sostegno Economico
Il Servizio per la Promozione del Sostegno Economico alla Chiesa cattolica della C.E.L, ha realizzato il film documentario “Questo non è un film” che contiene storie di veri sacerdoti e di volontari della diocesi di Napoli, che sacrificano con amore e passione la loro vita ai malati, ai senza tetto, ai rom, o combattono senza armi la criminalità organizzata.
Si sviluppa in 4 episodi (titolati “La Scomparsa”; “Vita sul Pianeta Scampia”; “Storia d’Ammore”; “La Guerra di Ogni Giorno”) con temi diversi legati al genere cinematografico: Thriller, Amore, Fantascienza e Guerra, episodi che raccontano storie di vita difficili, con un comune denominatore: la verità.
I protagonisti dei 4 episodi sono:
– don Antonio Vitiello che gestisce “La Tenda”, un centro di accoglienza nel quartiere Sanità, per dare riparo, alloggio e pasti, ai senza tetto e a chiunque ne abbia bisogno;
– don Alessandro Gargiulo, parroco di Santa Maria del Buon Rimedio nel quartiere Scampia, che cerca di dare delle risposte concrete agli abitanti di questa zona di Napoli: grazie a don Alessandro si è creato il comitato “Dateci Facoltà” che si batte per costruire la facoltà universitaria di Medicina in questo quartiere privo di servizi per i cittadini;
– don Tonino Palmese che combatte contro l’illegalità anche attraverso un’associazione che riunisce le famiglie delle vittime colpite dalla criminalità organizzata.
– I volontari e gli operatori della Caritas di Napoli in difesa dei diritti Rom con progetti di scolarizzazione, sanitari e di integrazione, per cercare di dare loro una vita ed un futuro dignitosi.
Il progetto è stato realizzato con l’obiettivo di diffondere la conoscenza delle Offerte per il sostentamento del clero e di avvicinare un pubblico giovane al mondo e all’operato dei sacerdoti e della Chiesa cattolica. La campagna di comunicazione si è sviluppata sul web in 2 riprese: nel mese di dicembre scorso e a cavallo dei mesi di marzo e aprile 2012.
E’ possibile trovare il film documentario di 33 minuti sul web: www.questononeunfilm.it e www.insiemeaisacerdoti.it sezione “Campagna”.
Il secondo modulo 2012 del “laboratorio cultura e comunicazione” del Copercom, su “Anno della fede e comunicazione”, giunge a conclusione.
Mercoledì 5 dicembre, alle 21, l’ultimo appuntamento online sul tema “Fede, cultura e scienza dentro il frullatore digitale”.
Interverrà Ernesto Diaco, vice responsabile del Servizio nazionale per il Progetto culturale della Cei.Ecco la terza riflessione-guida del Papa (Lettera apostolica Porta Fidei): “La fede, infatti, si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche.
La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mostrare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità”.Per seguire la diretta basterà collegarsi in tempo reale al sito www.copercom.it e cliccare sul banner del laboratorio.
Per interagire con gli ospiti in chat (con domande o commenti) occorrerà inserire, quando richiesto, username e password.Per registrarsi, è sufficiente inviare un’email a info@copercom.it.
Nei giorni successivi sarà possibile rivedere l’intera puntata attraverso il Mediacenter del sito del Copercom, nella sezione dedicata ai Laboratori.
Prima lettura: Genesi 33,14-16
Ecco, verranno giorni – oràcolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa d’Israele e alla casa di Giuda. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra. In quei giorni Giuda sarà salvato e Gerusalemme vivrà tranquilla, e sarà chiamata: Signore-nostra-giustizia.
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Il messaggio della prima lettura è più che un annuncio di calda speranza. La sua funzione è di completare la prospettiva escatologica del Vangelo e di richiamare anche il dato storico dell’incarnazione. Per noi che leggiamo la profezia di Geremia, le sue parole non sono più un semplice annuncio al futuro («verranno giorni… realizzerò… farò germo-gliare…»), ma la documentazione di un futuro che è diventato il presente della storia della salvezza. La Parola di Dio documenta che le promesse divine trovano un compimento e tale compimento è Cristo. Non sarà difficile la lettura cristologica di questo passo di Geremia.
Leggiamo di fatto in filigrana il passaggio dall’AT al NT: quello che poteva riferirsi a Davide e alla sua dinastia, appartiene in modo inequivocabile a Gesù di Nazaret, il più illustre discendente di Davide. L’oracolo rivela quindi un manifesto carattere messianico.
Il brano si trova nel contesto di un messaggio di consolazione e riprende l’oracolo di 23,5-6. Esso si compone dell’impegno di Dio a realizzare le sue promesse al popolo nel suo insieme (Israele e Giuda) e ciò avviene mediante la nascita di uno che, discendente da Davide, porterà la «salvezza».
Il termine chiave che ritorna tre volte è «giustizia». Isaia aveva dato a un bambino che doveva nascere il nome profetico di ‘Emmanuele’ (Dio con noi), Geremia quello di ‘Signore nostra giustizia’. In entrambi i casi si tratta di uno che avrà uno speciale rapporto con Dio, in quanto effettivamente realizzerà, e pienamente, la volontà divina, la ‘giustizia’. Il testo messianico prepara gli animi ad accogliere Gesù di Nazaret, colui che il NT ci dirà totalmente in comunione con Dio, da essere Lui stesso Dio in quanto Figlio.
La lettura nel suo insieme invita a coltivare la speranza, virtù non facilmente reperibile nel nostro mondo. Deve essere una speranza ‘teologale’, in quanto innervata nelle promesse divine e vissuta come gioiosa attesa dal popolo di Dio. In questo senso dà senso anche al tempo liturgico che stiamo vivendo.
Seconda lettura: 1Tessalonicesi 3,12-4,2
Fratelli, il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
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La speranza e l’attesa si coniugano felicemente con l’impegno: si va incontro al Signore nell’esercizio sereno e quotidiano dei propri doveri sociali e cristiani. Tra tutti eccelle quello dell’amore.
Il brano comprende i versetti conclusivi della prima parte della lettera (capp. 1-3) e quelli iniziali della seconda (capp. 4-5). I versetti 12-13 creano un’atmosfera soffusa di preghiera e contengono due richieste per la comunità.
Nella prima Paolo domanda a Dio di appianare le difficoltà perché possa giungere a Tessalonica. È un desiderio, una sorta di augurio, bene espresso in greco dal modo ottativo che ha appunto questa sfumatura. Paolo non programma se non in comunione con la volontà divina che tutto dirige. E come precedentemente era stato Satana a bloccare il cammino verso la comunità (cf. 2,18), così ora solo Dio può concedere il raggiungimento dell’agognata meta. Il desiderio di Paolo rimane comunque aperto alle disposizioni della imperscrutabile volontà divina. È come se egli dicesse: «se, come, quando Dio vorrà». È giusto e doveroso che il missionario in servizio al Vangelo faccia dei progetti, ma è altrettanto vero che deve essere disposto a ribaltarli quando la divina Provvidenza ne proponga altri.
La seconda richiesta di preghiera tocca il cuore stesso della vita comunitaria. Paolo chiede un amore sovrabbondante, trabocchevole, perché poco amore non è ancora amore. La pienezza di amore riguarda sia l’interno, la comunità stessa, sia l’esterno, ‘rappresentato da quel «tutti» (v. 12) che abbatte inesorabilmente ogni frontiera ed ogni steccato divisorio. Solo un amore ‘a tutto campo’ permette di andare serenamente incontro al Signore. La preghiera si conclude con questa prospettiva escatologica, quasi a ricordare che solo da una visuale completa si capisce meglio la realtà.
Con una festosa immagine di luce termina la prima parte della lettera. Con 4,1 siamo in presenza di una nuova parte della lettera, come indicano chiaramente il contenuto ricco di esortazioni e il vocabolario corrispondente.
Incontro al Signore si va insieme, guidati da coloro che hanno una più matura esperienza di fede. Paolo è per la comunità di Tessalonica il padre spirituale, il maestro, il fratello e l’amico. Dato questo sottofondo, può impartire direttive del tipo «avete appreso da noi come comportarvi» (v. 1). Potrebbe sembrare presuntuoso da parte di Paolo presentarsi come modello, se non si conosce la situazione storica in cui operava. In un tempo in cui non esistevano testi scritti né tradizioni orali poiché la comunità era da poco fondata, l’unico riferimento concreto era l’apostolo con il suo insegnamento e comportamento. Egli non solo ha predicato il Vangelo, ma pure ha insegnato a incarnarlo nella vita quotidiana. Per questo motivo si offre a modello. Paolo sarebbe veramente presuntuoso se si ritenesse l’unico punto di riferimento, ma sa bene di essere solo una specie di specchio che riflette il Cristo; la formula completa compare in 1Cor 11,1: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
La richiesta, di conseguenza, non disturba più il lettore, anzi, gli mostra una dimensione inedita dell’autorità, quella di proporsi agli altri quale esempio da imitare perché tutti insieme si possa «piacere a Dio». Ravvisiamo in questa espressione un principio fondamentale dell’agire morale che consiste nella sintonia con la volontà divina (cf. la «giustizia» della prima lettura).
Quando Paolo impartisce importanti direttive, svolge un ruolo profetico perché agisce da portavoce di Gesù Cristo; al pari della parola annunciata che era recepita come «Parola di Dio» (2,13), così ora le indicazioni comportamentali vengono «da parte del Signore Gesù» (v. 2). Paolo ha appreso dal Signore, vive la sua fede e la trasmette sotto forma di testimonianza. Egli va così incontro al Signore e sollecita a fare altrettanto.
Vangelo: Luca 21,25-28.34-36
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
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Esegesi
Il brano è composto da due spezzoni (vv. 25-28: disastri cosmici e manifestazione gloriosa del Figlio dell’uomo; vv. 34-36: richiesta di vigilanza) del cosiddetto ‘discorso escatologico’, cioè che riguarda le ‘cose ultime’ (ta eschata in greco significa le realtà ultime, chiamate anche, alla latina, ‘novissimi’).
Il discorso si colora con tratti apocalittici. Il termine ‘apocalittico’ indica la rivelazione (dal greco apokalyptein: togliere il velo, rivelare) del giudizio divino, del mistero e della persona di Gesù. Può indicare un modo particolare di esprimersi caratterizzato dalla rivelazione di segreti riguardanti la fine dei tempi e il corso della storia. Poiché la descrizione è
spesso affidata a un linguaggio cifrato ricco di visioni e di simboli non raramente terrificanti, nel modo di esprimersi comune ‘apocalittico’ è divenuto sinonimo di ‘catastrofico’. Le espressioni devono essere capite nel loro significato, senza dimenticare la natura e gli artifici del linguaggio profetico apocalittico. Si tratta di un modo di comunicare, più che di
una precisa descrizione di eventi futuri. L’accenno agli sconvolgimenti cosmici e alle ‘guerre mondiali’ sono pezzi d’obbligo negli annunci profetici e rappresentavano le immagini più catastrofiche che la fantasia dell’uomo antico avesse a disposizione.
La distruzione ha effetto di trasformazione. A differenza del linguaggio popolare che intende ‘apocalittico’ solo come distruzione e basta, il mondo biblico intende la distruzione come il primo passo perché possa sorgere qualcosa di nuovo. È come l’abbattimento di una casa per costruirne una nuova. L’espressione «Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte» prepara ed è condizione perché si verifichi la novità che segue.
Infatti tutto il magma di angoscia e di negatività che precede (cf. anche la parte non registrata dal testo liturgico, per esempio i vv. 10-24), prepara ed è funzionale al grande annuncio dei vv. 27-28, cuore teologico del brano e principio ispiratore della odierna liturgia della Parola. Dopo aver ripreso un testo biblico di distruzione, quasi a voler cancellare un universo corrotto, si offre allo sguardo degli eletti la figura vittoriosa di Cristo: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria» (v. 27). Nel buio della negatività si accende la luce radiosa del Figlio dell’uomo che si manifesta «con grande potenza e gloria». È possibile una duplice lettura: quella legata al contesto del brano, di chiara matrice escatologica, e quella legata al tempo liturgico dell’Avvento che riattualizza la venuta storica di Gesù.
È un momento di grande gioia, non esplicitamente espressa, ma inclusa nelle due espressioni «risollevatevi e alzate il capo» e «la vostra liberazione è vicina». La venuta di Cristo trasforma radicalmente la storia, imprimendole il marchio positivo della novità da lui apportata. Con Lui e grazie a Lui nulla è perduto, tutto è sapientemente trasformato. Del giu-dizio e della sorte degli empi non si parla. Il discorso non culmina in una visione di giudizio, bensì in una consolante promessa per gli eletti. Si è smarrito il tono apocalittico, spesso tenebrosi e lugubre, e si è fatto spazio al tono del vangelo, lieta novella per tutti gli uomini.
All’azione di Cristo deve seguire l’impegno dei cristiani, richiamato dai vv. 34-36, il secondo spezzone del brano liturgico. Al fine di non edulcorare una realtà che rimane comunque difficile e per non lasciare gli uomini in una neghittosa attesa, il discorso vibra nella parte conclusiva sulle note dell’esortazione. Poiché la venuta di Cristo è il fatto conclusivo della storia, in quanto costituisce il termine del tempo e l’inizio definitivo dell’eternità, occorre essere saggi e vivere in operosa attesa. La saggezza sta proprio nel saper riconoscere i segni del tempo finale. L’impegno potrebbe essere riassunto nel duplice imperativo «Vegliate in ogni momento pregando». La venuta di Cristo non ci deve trovare distratti da mille cose inutili o, peggio, nocive. Vegliare è il modo storico di rispondere alla prima venuta di Gesù, la sua incarnazione. È un vegliare fatto di serena attività che rifugge dall’ansia nevrotica del futuro come pure da una dissennata irresponsabilità. È una attività in comunione con il divino, reso manifesto da quel «pregando» che Luca ama inserire con insistenza nel suo Vangelo e che anche qui mette ‘in più’ rispetto alla sua probabile fonte, il Vangelo di Marco.
Meditazione
I temi che caratterizzano la liturgia della Parola di questa prima domenica di Avvento si intrecciano simbolicamente con la prospettiva suggerita ai credenti dai testi scritturistici presentati nelle ultime domeniche del tempo ordinario. La visione che si apre al nostro sguardo è ancora quella del tempo e della storia colti nella loro fase finale, in relazione con il compimento della promessa di Dio, quella promessa di bene fondata sulla fedeltà del Signore al popolo di Israele… e gratuitamente estesa ad ogni uomo: «Ecco verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele… In quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto…» (Ger 33,14-15). Sono tempi e giorni, come ci ricorda il profeta Geremia, che verranno, e che dunque devono essere attesi nella pazienza e nella speranza, sapendo discernere fin d’ora i segni della salvezza veniente. La prospettiva che apre lo sguardo credente sugli ultimi tempi offre così una qualità singolare alla storia che l’uomo è chiamato a vivere, plasmando quegli atteggiamenti che ci permettono di camminare sul crinale del già e non ancora: la vigilanza, l’attenzione ai segni, la pazienza, il discernimento. È soprattutto la pericope di Luca ad aiutarci a focalizzare questa visione di fede sulla storia e sul suo compimento.
Pur rifacendosi al ricco immaginario apocalittico fornito dalla tradizione giudaica, la prospettiva del discorso escatologico di Gesù riportato in Luca non sembra eccessivamente preoccupata di fornire elementi di identificazione o criteri precisi di discernimento che permettano di intravedere l’approssimarsi del compimento della storia. Ciò che deve stare a cuore al discepolo è piuttosto il modo con cui si è chiamati a vivere in questa storia da credenti, tenendo sempre lo sguardo volto al compimento. Il credente può sempre cadere in due trappole: o la tentazione di una impazienza che tende ad anticipare il compimento o la rassegnazione di chi non aspetta più nulla, disimpegnandosi nella storia. Gli imperativi del discernimento (Lc 21,29-33), dell’attenzione (vv. 34-35) e della vigilanza orante (v. 36) sono un antidoto ad ogni pretesa o delusione di fronte al tempo, al suo scorrere e alle sue contraddizioni, e permettono di essere umilmente radicati e impegnati in questa storia nell’attesa di un compimento che è solo nelle mani di Dio. Si potrebbe dire che la qualità della presenza del credente nella storia è data, secondo il testo di Luca, da due movimenti. Il primo è caratterizzato dalla pazienza che permette di resistere nel tempo dell’attesa e custodire il cuore della propria vita da ciò che lo minaccia, radicati nella fedeltà di Dio alle sue promesse: «con la vostra pazienza (en te upomone) salverete la vostra vita» (Lc 21,19). Questo è l’atteggiamento che caratterizza il tempo della Chiesa, ponendo i credenti in continua tensione verso il Signore e impegnandoli a testimoniare nella storia il desiderio dell’incontro con il Veniente. Il secondo movimento, quasi contrapposto alla apparente staticità di una paziente attesa, si esprime in una sorta di liberazione, di ripresa di vita, di gioia: allora vedranno il Figlio dell’uomo venire… risollevatevi ed alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (vv 27-28). Di fronte agli eventi che annunciano un disfacimento di questo tempo e di questo mondo e che, generando angoscia e disperazione, rendono l’uomo incapace di guardare in faccia la storia per comprenderne il senso, colui che ha atteso il Figlio dell’uomo intuisce che tutto ciò che sta avvenendo orienta all’incontro. Il credente è chiamato a guardare con libertà e parresia, fiducia e desiderio il Volto del suo Signore che è vicino, anzi è invitato a scorgerlo già negli avvenimenti. Il tempo della pazienza è terminato; può alzarsi e riprendere la pozione dell’uomo libero. Ma ciò che permette il passaggio dalla pazienza alla liberazione, ciò che permette di comprendere questa storia è l’incontro con un Volto: il Volto di colui che «viene su una nube con grande potenza e gloria» (v. 27). È il Volto del crocifisso e risorto, del trafitto verso il quale ogni uomo è chiamato a volgere lo sguardo (cfr. Gv 19, 37), a rivelare il senso e il compimento della storia, di ogni storia: la storia, ogni storia è sanata e salvata dalle ferite di Colui che viene sulle nubi con grande potenza e gloria. È questa la promessa di bene e il germoglio giusto scorti da lontano dal profeta Geremia.
«Con la vostra pazienza salverete la vostra vita […] risollevatevi e alzate il capo… per comparire davanti al Figlio dell’uomo» (vv. 19.28.36). In queste espressioni del testo di Luca possiamo inoltre scorgere la dinamica della speranza, il faticoso cammino interiore che trasforma la vita del credente in spazio aperto, pronto all’incontro con il Veniente. È tuttavia necessario percorrere queste tappe per radicare la speranza nella propria vita, trasformarla in stile che da spessore alle relazioni e strappa l’esistenza al ripiegamento su di sé. Colui che dispera, si nega, perde la sua coesione interiore, abdica alla vita; il disperato è colui che non alza il capo, cioè non sa assumere la dignità propria dell’uomo. Nella parola di Gesù, invece, abbiamo tre volti della speranza, tre spazi che in progressione aprono all’incontro con il volto di colui che è la nostra speranza. Anzitutto la speranza permette di discernere la verità del tempo dell’attesa. È nella pazienza (nel senso etimologico del termine greco, «stare sotto un peso») che l’uomo può custodire integra e vera la propria vita; ma è la speranza a rendere l’attesa paziente tempo di discernimento, durante il quale, nonostante le contraddizioni (i colpi che tendono a spostarci e a far cambiare posizione), è possibile mettere a fuoco ciò che è veramente essenziale («le mie parole non passeranno»: v. 33). Chi sa dimorare nella pazienza, custodendo vigile la speranza, ha la forza di riprendere la posizione eretta, vincendo così ogni tentazione di ripiegamento. E questo è possibile perché all’orizzonte della propria esistenza, della storia (nonostante i segni contrari) scorge l’approssimarsi di ‘Colui che viene’. Se si è conservato sempre vigile lo sguardo del cuore sul volto luminoso del Risorto, allora si saprà riconoscerlo quando egli viene a liberarci. Infine, il frutto della speranza è la parresia, la piena fiducia, lo stare faccia a faccia con il Signore: lo sguardo del figlio che non ha più paura e sta in piedi, da persona pienamente liberata, davanti al suo Signore.
«Vegliate in ogni momento pregando…» (v. 36). Speranza e vigilanza diventano così i due percorsi essenziali su cui il credente cammina nel tempo. La speranza rende vigile la nostra vita, custodisce agile il nostro cuore, ravvivando in esso il continuo desiderio dell’incontro con il Veniente. E la vigilanza orante accresce in noi la speranza, nutrendo di essa ogni nostro desiderio. Un cuore non abitato dalla speranza e dalla vigilanza diventa pesante, ingombro di tante presenze che lo stordiscono.
E infine non si deve dimenticare che gli imperativi della pazienza, della vigilanza e della speranza assumono un orizzonte ecclesiale. Non sono rivolti semplicemente al singolo discepolo, ma alla comunità dei discepoli, alla Chiesa. E sulla qualità di testimonianza offerta da questi imperativi, la Chiesa gioca l’autenticità della sua presenza nel tempo e nella storia. Una Chiesa che sa attendere è una Chiesa viva: sa vivere in coscienza l’unicità e l’irripetibilità del tempo in cui è inserita; è capace di andare al di là di quello che fa, meno preoccupata di riempire con le sue opere gli spazi che la storia gli offre, quanto piuttosto preoccupata a far calare in essa il senso di una incompiutezza, di una speranza, di un cammino verso quella pienezza nell’incontro con il Veniente. «Ogni Chiesa deve lottare contro la tentazione di assolutizzare ciò che compie – ricorda Giovanni Paolo II nella Orientale Lumen 8 – e quindi di autocelebrarsi o abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito… ».
Preghiere e racconti
Dio ci dona il suo tempo
Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico. Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino.
Tutti diciamo che “ci manca il tempo”, perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha una “buona notizia” da portare: Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova. Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi “cardini” del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la “parusia”, la venuta finale che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: “Vegliate!” (Mc 13,33.35.37). E’ rivolto ai discepoli, ma anche “a tutti”, perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso. Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù.
InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.
Se andiamo alla ricerca di un motivo esemplare che possa ispirare i nostri passi, e dare agilità alle cadenze del nostro cammino in questo periodo che ci separa dal Natale, dobbiamo assolutamente rifarci alla Madonna. Lei è la Vergine dell’attesa, la Vergine dell’Avvento, la Madre dell’attesa.
Lo sapete che nel Vangelo, prima ancora che ci venga detto il suo nome, viene riferito un fremito d’attesa che ardeva nella sua anima? San Luca, prima ancora di dirci che «il suo nome era Maria» (Lc 1, 26), ci dice un’altra cosa: «In quel tempo l’angelo Gabriele venne mandato ad una ragazza promessa sposa ad un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide» (Lc 1, 26-27).
«Promessa sposa», cioè fidanzata! Noi sappiamo che la parola fidanzata viene vissuta da ogni donna come un preludio di tenerezze misteriose, di attese. Fidanzata è colei che attende. Anche Maria ha atteso; era in attesa, in ascolto: ma di chi? Di lui, di Giuseppe! Era in ascolto del frusciare dei suoi sandali sulla polvere, la sera, quando lui, profumato di vernice e di resina dei legni che trattava con le mani, andava da lei e le parlava dei suoi sogni.
Maria viene presentata come la donna che attende. Fidanzata, cioè. Solo dopo ci viene detto il suo nome. L’attesa è la prima pennellata con cui san Luca dipinge Maria, ma è anche l’ultima. E infatti sempre san Luca il pittore che, negli Atti degli apostoli, dipinge l’ultimo tratto con cui Maria si congeda dalla Scrittura. Anche qui Maria è in attesa, al piano superiore, insieme con gli apostoli; in attesa dello Spirito (At 1, 13-14); anche qui è in ascolto di lui, in attesa del suo frusciare: prima dei sandali di Giuseppe, adesso dell’ala dello Spirito Santo, profumato di santità e di sogni.
Attendeva che sarebbe sceso sugli apostoli, sulla chiesa nascente per indicarle il tracciato della sua missione.
Vedete allora che Maria, nel Vangelo, si presenta come la Vergine dell’attesa e si congeda dalla Scrittura come la Madre dell’attesa: si presenta in attesa di Giuseppe, si congeda in attesa dello Spirito. Vergine in attesa, all’inizio. Madre in attesa, alla fine. E nell’arcata sorretta da queste due trepidazioni, una così umana e l’altra cosi divina, cento altre attese struggenti. L’attesa di lui, per nove lunghissimi mesi. L’attesa di adempimenti legali festeggiati con frustoli di povertà e gaudi di parentele. L’attesa del giorno, l’unico che lei avrebbe voluto di volta in volta rimandare, in cui suo figlio sarebbe uscito di casa senza farvi ritorno mai più. L’attesa dell’«ora»: l’unica per la quale non avrebbe saputo frenare l’impazienza e di cui, prima del tempo, avrebbe fatto traboccare il carico di grazia sulla mensa degli uomini. L’attesa dell’ultimo rantolo dell’unigenito inchiodato sul legno. L’attesa del terzo giorno, vissuta in veglia solitaria, davanti alla roccia. Attendere: infinito del verbo amare. Anzi, nel vocabolario di Maria, amare all’infinito.
E noi oggi di che cosa parliamo se non di Avvento, di attesa? Voi promettete fede al Signore e con i vostri sospiri, con i vostri sentimenti, con le vostre attese, ricevete le tenerezze misteriose che vi riserva: vigilanti, così come si vive il periodo del fidanzamento, con il tripudio interiore.
Un giorno le nozze dell’Agnello le celebreremo tutti quanti. Saremo tutti invitati, tutti protagonisti. Verrà questo giorno!
Nei tempi gelidi che stiamo vivendo, nell’appannamento dei nostri entusiasmi e nella tristezza dei nostri peccati, non possiamo sentirci mancare il coraggio, al punto da non annunciarvi queste cose con forza, per quanto possano sembrare lontane, utopiche. No, non sono utopie, sono invece i luoghi dove noi realizzeremo veramente la nostra felicità, il nostro bene. Questo vi annunciamo oggi!
Le ragazze che sono davanti a me, sono anche un po’ l’icona di quello che dovremmo essere: con l’abito bianco, con la lampada accesa, in attesa; disponibili non soltanto a tenere la lampada accesa, ma anche a conservare una riserva sufficiente di olio nei recipienti, al punto che quando qualcuno ci rivolge quella preghiera così implorante e così umana che dice: «Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono!», noi possiamo rispondere non come le vergini prudenti: «No, perché non basta ne a noi ne a voi» (Mt 25, 9), ma: «Sì, vogliamo correre il rischio che non basti ne a noi ne a voi».
A voi che oggi non fuggite per la tangente dell’irreale, ma fate una scelta di concretezza, vorrei dire: «Amate il mondo e siate disponibili a dare l’olio alle lampade del mondo, perché anche il mondo possa attendere e possa vivere l’attesa».
Oggi non si attende più. La vera tristezza non è quando ti ritiri a casa la sera e non sei atteso da nessuno, ma quando tu non attendi più nulla dalla vita. E la solitudine più nera la soffri non quando trovi il focolare spento, ma quando non lo vuoi accendere più: neppure per un eventuale ospite di passaggio. Quando pensi, insomma, che per te la musica è finita. E ormai i giochi sono fatti. E nessun’anima viva verrà a bussare alla tua porta. E non ci saranno più ne soprassalti di gioia per una buona notizia, ne trasalimenti di stupore per una improvvisata. E neppure fremiti di dolore per una tragedia umana: tanto, non ti resta più nessuno per il quale tu debba temere. La vita, allora, scorre piatta verso un epilogo che non arriva mai, come un nastro magnetico che ha finito troppo presto una canzone, e si srotola interminabile, senza dire più nulla, verso il suo ultimo stacco. Attendere: ovvero sperimentare il gusto di vivere. Hanno detto addirittura che la santità di una persona si commisura dallo spessore delle attese. E forse è vero.
Oggi abbiamo preso, invece, una direzione un tantino barbara: il nostro vissuto ci sta conducendo a non aspettare più, a non avere neppure il fremito di quelle attese che ci riempivano la vita un tempo: quando, non so, aspettavi profumi di mosti, o il cigolare dei frantoi o il grembo di tua madre che si incurvava sotto il peso di una nuova vita, o i profumi dei pampini, degli ulivi, o il profumo di spigo, di mele cotogne. Forse sto scappando anch’io per le tangenti del sogno, però – dite la verità – è così standardizzata la nostra vita, è così incastrata nei diagrammi cartesiani che c’imprigionano e ci stringono all’angolo, che non sappiamo più aspettare. Intuiamo tutti che abbiamo una vita prefabbricata, per cui ci lasciamo vivere, invece di vivere.
Oggi l’Avvento c’impegna invece a prendere la storia in mano, a mettere le mani sul timone della storia attraverso la preghiera, l’impegno e starei per dire anche l’indignazione: indignatevi un po’, fratelli e sorelle! Indignatevi, perché abbiamo perso questa capacità; anche noi sacerdoti, anche noi vescovi, non ci sappiamo più indignare per tanti soprusi, tante ingiustizie, tante violenze… Tutto quello che viviamo ora, qui, non è solo una simbologia. Vorrei dirvi, cari fratelli, che questi ragazzi, Antonio e Stefano e poi Barbara e Francesca e Lorella e Miriam, devono diventare per noi una provocazione, uno scrupolo, una spina di inappagamento, messa nel fianco della nostra vita, un’icona, una «pro-vocazione», una chiamata da parte di chi sta un po’ più avanti. Con i gesti anche paradossali delle scelte audaci, ci stimolano ad essere uomini dell’attesa come Maria; ci spingono a non diffidare mai dei sogni, per essere capaci sempre di annunciare al mondo rovesciamenti da troni e innalzamenti dello stereo, come Maria, donna dell’attesa, che ha aspettato questa ricollocazione sui troni della giustizia per tutti coloro che, invece, vivono nel fetore delle stalle e nel sopruso degli egemoni, che schiacciano sempre la gente.
Attesa, attesa, ma di che? Che cosa aspettiamo?
Aspettiamo prima di tutto un cambio per noi, per la nostra vita spirituale, interiore, e poi avvertiamo che stiamo camminando su speroni pericolosi, su rocce che possono farci ruzzolare da un momento all’altro. Forse abbiamo assunto un modo non proprio allineato alla logica delle beatitudini.
Attesa quindi di rinnovamento per noi, attesa di rinnovamento per la storia dell’umanità. Attesa di cambi interiori della nostra mentalità: non siamo ancora capaci di pronunciare una parola forte per dire che la guerra è iniqua, che ogni guerra è iniqua! Ancora ci stiamo trastullando con i concetti della guerra giusta o ingiusta, o della difesa…
Abbiamo nelle mani il Vangelo della non violenza attiva, il codice del perdono, ma siamo ancora cristiani irresoluti, che camminano secondo le logiche della prudenza carnale e non della prudenza dello Spirito. Siamo gente che riesce a dormire con molta tranquillità, pur sapendo che nel mondo ci sono tante sofferenze. Sopportiamo facilmente che, all’interno della nostra città, col freddo che fa, le stazioni siano assediate da terzomondiali o da persone che vivono allo sbando, che non hanno più progetti.
Macché fidanzamento, che sogni, che attese di sandali, che profumi di vernice o di santità! Molta gente odora soltanto della tristezza dei propri sudari.
Fratelli e sorelle, vergini fidanzate, provocate questa gente! Oggi ci sono tante fotografie per voi, tanti lampeggiamenti di flash; sarebbe molto bello che ognuno di voi, con il suo obiettivo allargato, imprimesse la provocazione di un’attesa di cieli nuovi e terre nuove. Anche tu, Stefano, che ti accingi ad entrare nel consesso presbiterale; e tu, Antonio, che ci sei già entrato, che sei già lettore e annunci la parola di Dio e da oggi tocchi anche le patene, le pissidi: tocchi quello che sarà il corpo vivente del Signore. Questo contatto con i vasi sacri, col grano fatto pane, con l’uva fatta vino, ti mette in rapporto con il cosmo, con questa realtà materiale, toccabile, perché il regno di Dio viene costruito non con i fumi delle nostre utopie ma con le pietre che vengono scavate nelle cave della storia, della terra. Scommetto che anche il pane che si mangia nel cielo è intriso delle acque della nostra terra e del grano che viene prodotto dai nostri campi!
Buona attesa, dunque. Il Signore ci dia la grazia di essere continuamente allerta, in attesa di qualcuno che arrivi, che irrompa nelle nostre case e ci dia da portare un lieto annuncio!
(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 45-54).
Fratelli carissimi, dovete sapere che questo tempo beato che noi chiamiamo «Avvento del Signore» evoca due realtà e, dunque, duplice deve essere la nostra gioia, poiché duplice è anche il guadagno che ci deve portare. Questo tempo evoca le due venute del nostro Signore: quella dolcissima venuta in cui il più bello dei figli dell’uomo (Sal 44 [45], 3), il desiderato da tutte le genti (Ag 2,7 Vg), vale a dire il Figlio di Dio, si manifestò visibilmente nella carne a questo mondo, lui a lungo atteso e desiderato ardentemente da tutti i padri; ciò avvenne quando egli venne in questo mondo a salvare i peccatori. Ma questo tempo evoca anche l’altra venuta che dobbiamo aspettare con una solida speranza e che dobbiamo ricordare spesso tra le lacrime, il momento, cioè, in cui il nostro Signore, che dapprima era venuto nascosto nella carne, verrà manifestamente nella sua gloria, come canta il salmo: Dio verrà manifestamente (Sal 49 [50], 3), cioè il giorno del giudizio, quando verrà manifestamente per giudicare […]. Giustamente la chiesa ha voluto che in questo tempo si leggessero le parole dei santi padri e si ricordasse il desiderio di quelli che vissero prima della venuta del Signore. Non celebriamo questo loro desiderio per un solo giorno, ma per un tempo abbastanza lungo, poiché di solito quando desideriamo e amiamo molto qualcosa, se accade che essa viene differita per un qualche tempo, ci sembra più dolce ancora quando giunge.
Seguiamo, dunque, fratelli carissimi, gli esempi dei santi padri, proviamo il loro stesso desiderio, e infiammiamo i nostri cuori con l’amore e il desiderio di Cristo. Dovete sapere che è stata stabilita la celebrazione di questo tempo per rinnovare in noi il desiderio che gli antichi santi padri avevano riguardo alla prima venuta del Signore nostro e dal loro esempio impariamo a nutrire un grande desiderio della sua seconda venuta. Dobbiamo pensare a quante cose buone ha fatto il Signore nostro nella sua prima venuta e a quelle ancor più grandi che farà nella seconda e con tale pensiero dobbiamo amare molto la sua prima venuta e desiderare molto la seconda.
(AELREDO DI RIEVAULX, Discorsi 1, PL 195,209A-210B).
Nell’antico Testamento la Bibbia parla del mondo come della creazione buona di Dio e come del mondo dell’uomo, un mondo che Dio tiene in mano e che trasformerà nel suo mondo definitivo. Tuttavia già l’Antico Testamento sa che il mondo è incrinato, che in esso è presente il peccato, che esistono l’odio e la discordia. Secondo il punto di vista pessimistico del Qohelet, il mondo si muove in un circolo di delusione e di oppressione. I profeti interpretano il mondo a partire dalla sua fragilità, ma annunciano contemporaneamente un mondo rinnovato da Dio, un mondo colmo di giustizia e di pace.
Anche nel Nuovo Testamento incontriamo questa doppia concezione. Paolo e Giovanni interpretano il mondo in modo piuttosto negativo. Per Giovanni, il mondo si è rifiutato di credere in Gesù. È, quindi, un mondo che rimane buio, non illuminato. Parla di “questo” mondo, che si chiude di fronte a Dio. Ma contro questo mondo chiuso la fede vuole erigere un mondo opposto, nel quale Dio governa e illumina ogni cosa, nel quale l’amore di Dio permea ogni cosa. Per Paolo, il mondo è connotato soprattutto dal peccato. Ed è solo un mondo temporaneo, che il cristiano deve sopportare fino a quando Cristo presenterà il nuovo mondo. Il mondo è il luogo in cui viviamo. In esso riconosciamo la bellezza della creazione. Ma contemporaneamente il mondo è il luogo in cui ci dovremmo affermare. Dovremmo vivere nel mondo, senza lasciarci condizionare dal mondo. Viviamo piuttosto nel mondo come coloro che hanno la loro vera origine in Dio e che, quindi, plasmano e organizzano il mondo in modo tale che diventi degno di essere vissuto per tutti. Abbiamo una responsabilità verso questo mondo. Non possiamo sfruttarlo, ma dovremmo averne cura in modo tale che anche le generazioni future possano vivere bene in esso.
Se il mondo sia un luogo buono è, quindi, una domanda rivolta a noi stessi. Infatti, se sia un luogo buono per le generazioni che ci seguiranno dipende, non da ultimo, dal modo in cui lo lasceremo a loro.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2008, 181-182).
Signore del giorno e della notte,
Dio del cielo e della terra,
si avvicina l’ora della tua venuta.
Non lasciarci intorpidire in un’attesa sonnolenta.
Desta i nostri cuori alla Parola
che non cessi di rivolgerci
attraverso i secoli dei secoli.
Padrone dello spazio e del tempo,
nostro Dio, nostro Padre,
non lasciarci riaddormentare:
rendici attenti all’occasione di salvezza che ci offri,
a questi segni incipienti del Regno del tuo Figlio
che vive presso di te e tra noi
ora e sempre.
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.
– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
– Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.
PER APPROFONDIRE
“Cari genitori, studenti e docenti, ci rivolgiamo a voi consapevoli che l’Irc è un’opportunità preziosa nel cammino formativo, dalla scuola dell’infanzia fino ai differenti percorsi del secondo ciclo e della formazione professionale, perché siamo convinti che si può trarre vera ampiezza e ricchezza culturale ed educativa da una corretta visione del patrimonio cristiano-cattolico e del suo peculiare contributo al cammino dell’umanità”.La Presidenza della CEI, nel messaggio in vista della “preziosa opportunità” di avvalersi dell’Irc nel prossimo anno scolastico, ricorda che “la scuola sarà se stessa se porterà le nuove generazioni ad appropriarsi consapevolmente e creativamente della propria tradizione”.
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