“Desocializzazione” nuova malattia della vecchia Europa

l professor Matthew Fforde puntualizza: “Ci troviamo di fronte non tanto a una crisi del concepimento ma a una crisi della nascita: se avessimo permesso di nascere ai bambini uccisi con l’aborto, le statistiche sarebbero molto diverse”. C’è poi la “crisi dell’istituto della famiglia che è una caratteristica del grande processo di ‘desocializzazione’ – intimamente legata alla scristianizzazione -, vale a dire la perdita dei legami sociali”. Effetti negativi possibili anche per l’integrazione.

Le sue analisi sulla “desocializzazione” stanno facendo discutere l’Europa. Probabilmente perché il professor Matthew Fforde, britannico, ha sollevato anzitempo una serie di temi che appaiono ora di stretta attualità: le relazioni fra trend economici e sociali, le dinamiche culturali, i processi di trasformazione demografica, le prospettive che si aprono con le migrazioni di massa… Il tutto con un’attenzione che sa andare oltre i confini nazionali e capace di considerare le prospettive poste dall’insegnamento sociale della Chiesa. Nato a Londra, formatosi all’Università di Oxford, dove è stato anche docente, Fforde attualmente insegna Storia contemporanea all’Università Lumsa di Roma. Il suo volume “Desocializzazione. La crisi della post-modernità” (“Desocialisation. The Crisis of Post-modernity”) circola in inglese, francese, italiano, slovacco e sta per essere pubblicato in tedesco e spagnolo.

Una ricerca dei demografi dell’Istituto Max Planck di Rostock, Germania, sostiene che la crisi sta avendo pesanti riflessi sulla natalità in Europa. La precarietà economica e lavorativa scoraggia le giovani coppie a costruire una famiglia e ad avere figli; è un dato che si rileva nei Paesi più colpiti dalla recessione, ma vale anche per il centro e il nord Europa. Professore, lei cosa ne pensa?
“I dati demografici sono evidenti in Europa occidentale e, considerando le mentalità correnti (che meriterebbero un’analisi dettagliata, anche da un punto di vista storico) e i crescenti livelli di disoccupazione giovanile, la recente crisi economica deve sicuramente aver avuto un impatto. In materia di carenza di figli, però, vanno anche presi in considerazione altri fattori, e qui entriamo nelle caratteristiche della post-modernità (gli ultimi 50 anni o giù di lì). La cultura della famiglia come istituzione e, quindi, della paternità e della maternità, è stata indebolita. Dobbiamo inoltre fare i conti con la realtà della contraccezione, e non dimentichiamo che, in un certo senso, ci troviamo di fronte non tanto a una crisi del concepimento ma a una crisi della nascita: se avessimo permesso di nascere ai bambini uccisi con l’aborto, le statistiche demografiche in Europa occidentale sarebbero molto diverse. In altre parole, questo sviluppo dovrebbe essere fortemente contestualizzato”.

Il suo Paese, assieme alla Germania, ha spesso anticipato l’Europa nelle dinamiche sociali. Esiste questo problema nel Regno Unito?
“Il Regno Unito non ha gli stessi livelli di crescita demografica, ad esempio, dell’Italia, ma il problema della denatalità è evidente e l’attuale governo, nei suoi piani per la riforma dello Stato assistenziale, si trova ad affrontare le origini di tale fenomeno e anche le sue conseguenze a medio e lungo termine. La mia sensazione, però, è che abbiamo a che fare con cambiamenti culturali molto profondi e con le loro conseguenze che i politici spesso non riescono a percepire e altrettanto spesso non hanno il potere di intervenire su di essi”.

Un minor numero di figli, una popolazione sempre più vecchia… In questo modo si mette in pericolo anche la tenuta del welfare in Europa, non è vero?
“Il minor numero di figli e l’invecchiamento della popolazione saranno certamente fattori di forte pressione sul sistema pensionistico, sul welfare e sui servizi sanitari nazionali. Ma questo dovrebbe essere letto nel quadro della crisi dell’istituto familiare (a cui spesso hanno fatto riferimento gli ultimi Papi), il che significa – considerando i divorzi, le separazioni e i single – che milioni di anziani si troveranno a vivere da soli e dovranno rivolgersi allo Stato anziché ai loro parenti per chiedere aiuto. Questa crisi dell’istituto della famiglia è una caratteristica del grande processo di ‘desocializzazione’ – intimamente legata alla scristianizzazione -, vale a dire la perdita dei legami sociali, che negli ultimi decenni ha afflitto le società dell’Europa occidentale. Forse qui abbiamo un invito a fermarci un attimo per chiederci se la strada che abbiamo percorso in questa epoca contemporanea, segnata anche da un indebolimento della cultura cristiana, non contenesse alcuni gravi errori”.

Accanto alla crisi economica l’Europa ha continuato a registrare un notevole afflusso di immigrati. Non di rado le famiglie straniere hanno un numero maggiore di figli rispetto a quelle europee, evitando il tracollo demografico. Gli immigrati possono essere, in questo senso, una risorsa per l’Europa? 
“L’immigrazione di massa è stata una caratteristica delle società dell’Europa occidentale negli ultimi decenni. E questa pressione è destinata a continuare. La mia opinione è che si tratta di uno sviluppo sul quale non abbiamo riflettuto sufficientemente, e che spesso cade preda di facili slogan e sterili polarizzazioni. È un argomento che deve essere affrontato con grande sensibilità. Per esempio, dobbiamo affrontare la questione di quali risorse economiche risultano disponibili per gli immigrati durante questa fase di acuta crisi economica, così come emergono le conseguenze della discontinuità culturale interna che l’immigrazione di massa può causare, con tutto ciò che questo comporta in termini di coesione sociale e di identità. La ‘desocializzazione’, in questo senso, potrebbe remare contro l’integrazione”.

Giovanni Borsa SIR del 18/07/2013

XVI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Genesi 18,1-10a

In quei giorni, il Signore apparve ad Abramo alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo; prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: «Dov’è Sara, tua moglie?». Rispose: «È là nella tenda». Riprese: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio».

 

Il racconto intreccia due motivi ricorrenti nelle letterature: la visita di divinità agli uomini e la promessa di un figlio. Questi due filoni letterari che molto colpivano l’immaginazione popolare, specialmente legando al tema della vista divina premi o castighi, sono molto ben incorniciati dal tema dell’ospitalità.

     Il problema più grande dal punto di vista teologico-esegetico è il modo in cui Dio si manifesta con questa alternanza tra uno e tre, singolare e plurale che attraversa tutto il racconto. Una soluzione potrebbe essere quella di considerare Dio come accompagnato da personaggi della corte celeste. Su questa pista ci porterebbe 18,22 in cui due dei componenti della visione partono verso Sodoma, mentre Abramo rimane davanti al Signore, e 19,1 in cui si dice che i due angeli arrivarono a Sodoma. La soluzione non può comunque essere definitiva e non si deve trascurare il problema di salvare la trascendenza divina dal momento che i tre personaggi arrivati da Abramo consumano cibo. Non resta che prendere atto della complessità del racconto sotto questo aspetto che non è comunque il più importante.

     L’argomento centrale è senz’altro quello dell’accoglienza, dell’ospitalità. Il v. 1 colloca l’episodio vicino a Ebron, in una località che diventerà un celebre santuario. Va notato prima di tutto l’ora in cui i personaggi arrivano dal patriarca: è l’ora più calda, cioè l’ora in cui non si viaggia e dunque l’ora in cui non si aspetta nessuno. Il v. 2 presenta molto bene il modo in cui Abramo ha vissuto l’apparizione divina. Egli non ha visto nulla di straordinario, ma semplicemente tre uomini che stavano in piedi presso di lui. Abramo prende l’iniziativa di ospitarli senza che nulla gli venga domandato. Nei versetti successivi vengono descritti tutti i riti dell’ospitalità come viene osservata in oriente secondo un cordiale ceri-moniale. Nulla viene trascurato nonostante la sorpresa dell’arrivo. L’accoglienza è calorosa e abbondante come certifica il vitello tenero e buono di cui parla il v. 7. In quello successivo poi Abramo è ritratto in un altro squisito gesto di ospitalità: non mangia con gli ospiti, ma rimane in piedi presso di loro come segno di prontezza al servizio. Naturalmente come si usava allora le donne non compaiono al cospetto degli ospiti, tanto meno la moglie del padrone. Da parte di Abramo tutte le regole sono osservate, l’unico che agisce fuori dal galateo è proprio Dio. Egli non solo arriva in un orario che la cortesia sconsiglia, ma nel bel mezzo del pranzo domanda pure ad Abramo dove si trova sua moglie, argomento da non

toccare secondo i canoni allora vigenti. È un Dio veramente sorprendente oltre che misterioso il Dio che viene descritto in questa lettura. A questo Dio Abramo concede la sua accoglienza senza riserve. Sarà proprio questo atteggiamento di Abramo a far scoccare l’ora del mantenimento delle promesse da parte di Dio. Ripetutamente era stato assicurato ad Abramo che avrebbe avuto una discendenza (12,2.7; 13,15; 15,5; 17,5-6.8.15-19) ora è il tempo della realizzazione di quanto era stato annunciato. L’ospitalità senza riserve al Dio degli imprevisti segna il tempo dell’esaudimento.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,24-28

Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.

 

Colpisce immediatamente lo stridore tra gioia e sofferenza con il quale si apre il brano al v. 24. Le sofferenze di cui parla qui l’apostolo non sono generiche, si tratta di una situazione dolorosa specifica e ben motivata. Paolo si trova in carcere (4,10.18) e questo a motivo di Cristo e della predicazione del suo mistero (4,4). Il carcere è quindi conseguenza dell’apostolato di Paolo. Per questo egli può dichiarare di gioire; Paolo sta vivendo la beatitudine proclamata da Gesù (Lc 6,22-23) che prevede il destino dei suoi discepoli come futuro di rifiuto e persecuzione. Ma vi è un altro importante motivo da considerare per vedere come la sofferenza possa essere vissuta con gioia. Paolo offre la sua prigionia per i colossesi, sente che quanto soffre benefica effettivamente altri. La sua sofferenza diventa atto d’amore e quindi non può che recare gioia.

     Il nodo più intricato del brano è certamente l’affermazione che Paolo «completa nella sua carne quello che manca ai patimenti di Cristo». L’apostolo non vuole neppure insinuare l’idea che al sacrificio di Cristo manchi qualcosa. Infatti si è guardato bene dall’usare il vocabolario che indica la morte redentiva di Gesù in modo specifico: morte, sangue, croce. Il termine impiegato da Paolo è più generale (thlypsis) che nel linguaggio apocalittico cristiano indica le sofferenze della fase finale che prelude alla manifestazione definitiva del Messia: Mc 13,19.24. Paolo sta esponendo qui un suo punto di vista sull’attività apostolica da lui svolta: l’annuncio del vangelo e le tribolazioni ad esso connesse segnano l’ultima fase della storia salvifica. Ancora di più non va dimenticato che Paolo in 1,19-20 aveva dichiarato la presenza in Cristo di ogni «pienezza» e l’efficacia assoluta della sua opera riconciliatrice. Il verbo impiegato dall’apostolo per dire «completare» (antanaplēroō) indica un’opera congiunta che viene portata avanti insieme, ciascuno per la sua parte. Anche qui si tratta di esporre in che modo Paolo concepisca l’apostolato. L’annuncio del vangelo non è opera solitaria, ma lavoro comune con Cristo stesso. In 2Cor 1,5 Paolo aveva già detto che le sofferenze dell’apostolato erano presenza delle sofferenze di Cristo in lui. Si potrebbe pertanto arrivare quasi ad affermare che parlando di «ciò che, dei patimenti di Cristo» non siamo nella linea di una carenza da perfezionare (i patimenti di Cristo che vengono colmati dalle sofferenze umane), viceversa siamo nella linea di una perfezione che viene partecipata, cioè le sofferenze umane sono partecipazione ai patimenti di Cristo già in sé perfetti ed efficaci. 

     Dopo aver ripreso alla fine del v. 24 l’idea del beneficio che le sofferenze apostoliche recano alla Chiesa, ora al v. 25 Paolo se ne dichiara «ministro». Il servizio che egli svolge è il compimento di una vocazione, idea assai radicata nella mente di Paolo e più volte ribadita (Gal 1,1; Rm 1,1, 1Cor 1,1). Egli è stato chiamato a realizzare, a dare pienezza alla parola di Dio che ha come contenuto un unico mistero. Il termine (mysterion) indica il piano salvifico di Dio che in Gesù viene «rivelato » cioè fatto conoscere attraverso la sua stessa realizzazione. Il momento è solenne. Le generazioni precedenti non hanno potuto beneficarne, ora invece persino i pagani ne sono partecipi. Il piano salvifico di Dio ha un raggio universale, non esclude nessuno. Anzi raggiunge gli ascoltatori della rivelazione in un modo particolarmente efficace: «Cristo in voi, speranza della gloria», v. 27. Il credente viene realmente coinvolto nel mistero salvifico che Cristo realizza e che diventa in lui caparra di salvezza eterna.

     Con i vv. 25-29 Paolo fa una dichiarazione di scopo e di metodo sul suo lavoro apostolico. Lo scopo è quello di «rendere ogni uomo perfetto in Cristo» cioè configurarlo a lui in modo definitivo. Il metodo è quello di annunciare, ammonire, istituire, cioè accompagnare con fatica, costanza e sapienza il cammino di ogni credente verso la sua piena maturità.

 

Vangelo: Luca 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.

Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

Esegesi 

     La pericope che ci viene presentata oggi costituisce la conclusione del capitolo 10 ed è esclusivamente lucana. L’episodio si inserisce nell’appena cominciato viaggio verso Gerusalemme (9,51) e ne costituisce una tappa significativa in quanto propone una tematica particolarmente cara a Luca: la posizione della donna nella comunità cristiana.

     Già in 8,1-3 l’evangelista aveva descritto il seguito femminile di Gesù, una notizia che può anche non stupire il lettore contemporaneo del vangelo, ma che certamente doveva suscitare meraviglia e disapprovazione tra i contemporanei di Gesù. La pericope che abbiamo a disposizione compie un altro passo decisivo per la questione femminile. La coppia di donne protagoniste del nostro brano è conosciuta anche dal vangelo di Giovanni. Nel capitolo 11 del suo scritto il quarto evangelista le nomina ripetutamente, ma in quella occasione esse hanno un ruolo preciso: sono le sorelle di Lazzaro (11,3); sono ancora pertanto decisamente subordinate ad una presenza maschile. Qui invece Lazzaro non viene ricordato. Il nome Marta, femminile dell’aramaico mar che significa «padrone-signore», e il verbo di cui è soggetto, che viene reso dalla Vulgata e dalla nostra versione italiana come se fosse effettivamente lei la padrona di casa, creano già un’atmosfera nuova in cui la donna è protagonista. La svolta avviene però con il v. 39 che introduce l’altra sorella e il suo atteggiamento veramente inedito. Per capire la novità di questa situazione si dovrebbe ricordare Gv 4,27 in cui i discepoli si meravigliano che Gesù stia discorrendo con una donna. Non viene neanche notato il fatto che sia samaritana, ma semplicemente «donna» e perciò stesso non degna di considerazione. Lo stesso stupore dei discepoli dovette essere avvertito dai lettori contemporanei del vangelo. Gesù sta qui sovvertendo una convenzione sociale del suo tempo, o meglio si sta mostrando libero verso di essa. Accetta di essere ospitato da donne e va oltre, ammettendo una di esse come uditrice della sua parola. La formula nell’opera lucana indica l’annuncio del messaggio specifico di Gesù: Lc 5,2; At 13,7.44; 19,10. Tra Maria e Gesù non è dunque in corso una conversione qualsiasi, tanto per intrattenere l’ospite in attesa che il pranzo sia servito. Le posizioni fisiche stesse dei due personaggi dicono che qui Gesù è ritratto come il maestro che insegna e Maria come la discepola che ascolta. Nell’ambiente rabbinico circolava l’opinione secondo cui, piuttosto che consegnare la Torà ad una donna, era meglio bruciarla. Come si vede, Gesù ha un atteggiamento diametralmente opposto. Maria è ammessa anche lei nel gruppo dei discepoli senza inferiorità alcuna.

     Al v. 40 riaffiora la posizione conservatrice con l’intervento di Marta. Verrebbe quasi da paragonarla al fratello maggiore della parabola del Figliol prodigo (Lc 15,25-32). Quello non sa accettare un fratello riaccolto dal Padre nel suo perdono, Marta non capisce Maria accolta da Gesù come discepola e vorrebbe riportarla nel suo ruolo tradizionale: i servizi domestici. Forse Marta è anche la donna che non sa osare, che è restia di fronte alle novità portate da Gesù e preferisce la sicurezza dell’abitudine al gesto di fiduciosa apertura che Gesù porta.

     I 41-42 possono essere letti da un punto di vista generale e da un punto di vista particolare. Sul piano generale Gesù farebbe notare a Marta che essa si occupa di tante cose trascurando l’essenziale della vita. Dal punto di vista particolare si tratterebbe semplicemente del pranzo da preparare. Marta vuole fare bella figura preparando diverse pietanze, mentre Gesù fa notare che in un clima così familiare basterebbe benissimo una portata sola, un piatto unico. I verbi di cui Marta è soggetto indicano comunque una forte inquietudine, sproporzionata allo scopo, sia che si scelga la prospettiva generale, sia che si preferisca quella particolare.

     Non sfugga l’umorismo con cui Gesù conclude la conversazione. Infatti «la parte migliore» indica anche la porzione di cibo. La tavola non è ancora pronta e Maria si è già presa il boccone più buono. Ha fatto la sua scelta, una scelta indovinata e durevole: l’ascolto della parola di Gesù e la condizione nuova che ne consegue.

     Tradizionalmente il brano viene letto per parlare del delicato equilibrio tra vita contemplativa e vita attiva e del primato della prima sulla seconda. Del resto la questione era molto sentita dalla comunità primitiva se pensiamo che un vocabolario assai affine a quello del nostro brano evangelico (kataleipein, diakonein) si trova in At 6,2 in cui gli apostoli stessi si trovano di fronte alla necessità di una scelta tra annuncio della parola e servizio alle mense.

     Riprendendo il taglio che è stato dato al commento si dovrebbe dire che prima ancora della scelta tra vita contemplativa e vita attiva viene la scelta tra accettazione o rifiuto della parola di Gesù e delle liberanti novità che essa porta con sé. Alla base di tutto vi è certamente l’ascolto perché solo questo può portare ad equilibrate decisioni.

 

Meditazione 

     Ascoltiamo il racconto dell’ospitalità che Gesù riceve a Betania, nella casa dei suoi amici Lazzaro, Marta e Maria, dopo aver sostato, nella domenica precedente, sulla parabola del buon samaritano. «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37), aveva risposto Gesù al dottore della Legge che lo aveva interrogato su chi fosse il suo prossimo, invitandolo a imitare l’agire misericordioso e compassionevole del samaritano. Dopo il ‘fare la misericordia’ ora l’attenzione si sposta, con l’episodio di Betania, su un altro verbo fondamentale dell’esperienza credente, ‘ascoltare la parola di Dio’. Nella prossima domenica Gesù risponderà ai discepoli che gli chiederanno: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). In queste tre domeniche incontriamo così, inanellati uno dopo l’altro, tre atteggiamenti essenziali attraverso i quali si intesse la vita del discepolo di Gesù: fare la misericordia, ascoltare la parola di Dio, pregare. Sembra che Luca conosca bene il detto di Simeone il Giusto (il secondo dei Pirqè Avot, i detti dei Padri tramandati dal Talmud): «Il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torah, il culto, le opere di misericordia». Anche quando negli Atti degli Apostoli descriverà la comunità di Gerusalemme (cfr. At 2,42-47), modello esemplare di ogni comunità cristiana, tornerà a proporre queste tre fondamenta, ricordando che i discepoli erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli (l’ascolto della Parola), nella comunione dei beni (la misericordia), nella frazione del pane e nelle preghiera (la vita liturgica).

     Con l’ospitalità di Betania, l’ascolto della Parola, viene posto al centro, tra il fare la misericordia e il pregare, come se costituisse il cuore della vita del cristiano, un cuore capace di plasmare nel modo giusto ed evangelico anche le altre due opere. Senza una disponibilità all’ascolto, l’agire misericordioso rischia di scadere a mera filantropia, o la preghiera stessa a un dire (sprecare!) molte parole a Dio, come fanno i pagani o gli ipocriti, senza tuttavia entrare nel segreto autentico della relazione con lui (cfr. Mt 6,5-8). Non possiamo inoltre dimenticare che poco prima, al capitolo nono, nella scena della Trasfigurazione, era risuonato l’imperativo del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,35). Nel vangelo di Luca, il primo personaggio ad accogliere e a obbedire a questo invito è proprio Maria di Betania (una donna!) che ascolta la parola di Gesù seduta ai suoi piedi, nel tipico atteggiamento del discepolo verso il proprio rabbi.

     Tutti questi elementi, che possiamo raccogliere un po’ a introduzione del racconto di Betania, ci aiutano a mettere in luce l’importanza che, agli occhi di Luca e ancor prima di Gesù, assume l’atteggiamento discepolare di Maria. L’evangelista però non si limita a questa sottolineatura, si spinge più in là, fino a confrontare l’ascolto di Maria con l’atteggiamento dell’altra sorella, Marta, che invece era «distolta per i molti servizi» (v. 40). Questo modo di raccontare, inutile nasconderlo, ci crea qualche disagio e imbarazzo. Anche il comportamento di Marta, in effetti, è descritto con un bel verbo – diakonein, ‘servire’ – altro termine fondamentale dell’esperienza cristiana, che Gesù peraltro applica a se stesso per affermare di essere venuto non per essere servito, ma per servire. Come mai Luca sembra ora sva-lutare il servizio a vantaggio dell’ascolto? Il racconto è costruito con grande abilità narrativa e finezza spirituale. Anche l’attenzione ai suoi dettagli aiuta a comprenderlo bene, evitando i possibili fraintendimenti, in cui è facile scivolare.

     La prima cosa da osservare è che all’inizio del racconto, nella casa di Betania, regnano grande pace e armonia. Gesù entra nella casa, entrambe le sorelle lo pongono al centro della loro premura, anche se in modo diverso, Maria ascoltandolo. Marta servendolo. Per entrambe al cuore della loro preoccupazione c’è Gesù e in lui stanno accogliendo, come meglio possono, il Signore (tre volte kyrios in greco). Fino a questo punto non è stato dato alcun giudizio di valore sull’atteggiamento dell’una o dell’altra, Gesù non loda Maria né  rimprovera Marta. Improvvisamente, nell’armonia di questa casa accade qualcosa, scoppia

un piccolo dramma, raccontato nell’ultima parte dell’episodio (vv. 40-42). La difficoltà è creata da Marta e dalle sue parole: «Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (v. 40). Ho sottolineato prima come entrambe le sorelle mettano al centro della loro attenzione Gesù, ma ora Marta sposta lo sguardo da Gesù a Maria e a ciò che sta facendo, anzi, non sta facendo, lasciandola sola a servire. Meglio ancora: più che Maria, Marta sta ponendo al centro se stessa e il fatto che venga lasciata sola a servire. Non a caso Luca introduce la sua protesta precisando che Marta «si fece avanti» (v. 40). Marta sopravanza e si pone al centro; nel suo punto di vista c’è questo slittamento, una sorta di capovolgimento della prospettiva per cui al centro non c’è più Gesù da accogliere, ma ciò che lei sta facendo per lui. Sembra di ascoltare nelle sue parole un tono di sorpresa un po’ irritata: «Non ti sei ancora accorto di tutto il lavoro che sto facendo per te? Di’ dunque a mia sorella che mi dia una mano!» Per comprendere meglio potremmo riscrivere il racconto immaginando che, anziché da Marta, l’obiezione fosse sollevata da Maria, che fosse lei a protestare: «Signore, non ti curi che mia sorella si preoccupi e si agiti di tante cose; dille dunque che venga accanto a me, a sedersi ai tuoi piedi per ascoltare la tua parola».Come non accoglie l’obiezione di Marta, probabilmente Gesù non avrebbe accolto neppure quella di Maria, o non l’avrebbe fatto se avesse significato l’assolutizzazione di un solo punto di vista: il proprio. Un modo per tornare a mettere al centro se stessi e il proprio atteggiamento.

     Marta serve, ma soprattutto osserva se stessa, si guarda mentre sta servendo. L’ascolto della Parola ci aiuta a vincere questa tentazione, torna a farci mettere al centro della nostra vita la persona di Gesù e di conseguenza tutto ciò che unifica in lui la nostra esistenza. Marta si agita e si preoccupa, è divisa in se stessa; al contrario l’ascolto della parola di Dio dona armonia e pace, consentendoci, persino nella molteplicità dell’agire, di rimanere raccolti in noi stessi, unificati, non divisi, capaci di ricondurre tutto ciò che facciamo a quella sola cosa necessaria che è il Signore Gesù e la nostra comunione di vita con lui.

     In secondo luogo, l’ascolto della Parola ci rende vigilanti su un altro rischio: Marta accoglie il Signore e vuole offrirgli il meglio di ciò che possiede, desidera che nella sua casa Gesù trovi tutto ciò di cui ha bisogno. È una donna generosa, ma lo è pur sempre con la generosità del ricco, di chi dà del suo, prendendolo da ciò che possiede o che è in grado di realizzare con le proprie mani. Viceversa, l’ascolto umile di Maria esprime bene l’atteggiamento del povero, di colui che riceve a mani aperte a cuore aperto. Maria ha compreso che questo è il modo di accogliere il Signore, di stare davanti a lui, senza pensare troppo alle cose da fare, da dire o da dare, prendendole dalle proprie ricchezze; davanti al Signore bisogna anzitutto rimanere come dei poveri, che hanno bisogno di ricevere, in una vera accoglienza, in un vero ascolto.

     La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, narra l’ospitalità che Abramo offre a quei tre personaggi misteriosi, tra i quali e presente Dio stesso che visita la sua tenda. Il racconto si conclude con la promessa della fecondità di Sara: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gen 18,10). Per la Bibbia l’ospitalità è sempre feconda, genera vita, in quanto partecipa della stessa fecondità pasquale tipica del modo di essere di Dio. Ospitare l’altro non solo nella propria tenda, ma nella propria vita, significa infatti essere disposti a morire un po’ a se stessi perché l’altro possa vivere in noi e attraverso di noi. Questa è la cosa necessaria che Marta deve riconoscere: non deve ascoltare se stessa e ciò che sta facendo; deve ascoltare il Signore; non deve porre al centro se stessa, ma diminuire perché il Signore possa crescere in lei. Questo morire a se stessi è sempre fecondo, perché ci consente di rinascere a quella vita nuova che il Signore ci dona, anche in questa eucaristia, nella quale ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo pane di vita, accogliamo la sua Persona in noi come centro unificante di tutto ciò che siamo. Questa è la parte migliore di cui tutti noi abbiamo assoluta necessità.

 

Preghiere e racconti

Cerchiamo di possedere ciò che nessuno ci può togliere

Si è parlato della misericordia, ma questa virtù non ha un unico aspetto. Con l’esempio di Marta e di Maria ci viene presentata della prima l’instancabile dedizione nelle opere, della seconda la devota attenzione del cuore alla Parola di Dio. Se questo atteggiamento concorda con la fede, viene preferito alle opere stesse, come sta scritto: «Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,42). Cerchiamo anche noi di possedere ciò che nessuno ci può togliere, prestando un ascolto attento e non superficiale; infatti, perfino i semi della Parola celeste solitamente sono portati via se vengono seminati lungo la strada. Ti spinga, come Maria, il desiderio della sapienza; questa infatti è l’opera più grande, più perfetta e la sollecitudine per il ministero non ti distolga dal conoscere la Parola celeste. Non rimproverare e non ritenere che perdano tempo quelli che vedi dedicarsi alla sapienza; Salomone, quell’uomo di pace, la fece venire presso di sé (cfr. Sap 9,10). Però Marta non viene rimproverata per il suo lodevole servizio; Maria è preferita perché ha scelto per sé la parte migliore.

Gesù possiede in abbondanza molti doni e molti ne distribuisce.

Per questo Maria è più sapiente perché ha scelto quello che ha capito essere fondamentale. Del resto gli apostoli non ritennero che fosse la cosa migliore trascurare la Parola di Dio per servire alle mense (cfr. At 6,2). Ma tanto l’uno che l’altro sono compiti affidati dalla Sapienza; anche Stefano, infatti, che era stato scelto per il servizio, era colmo di sapienza (cfr. At 6,5). Perciò chi serve renda onore a chi insegna e chi insegna esorti e inciti chi serve. Uno solo è il corpo della chiesa, sebbene le membra siano differenti (cfr. 1Cor 12,12 ss.), e ciascuno ha bisogno dell’altro.

(AMBROGIO, Sul vangelo di Luca 7, 85-86, in Opera omnia di Sant’Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca 2, pp. 152-154).

Due tipi di preghiera

Per S. Teresa, dunque, non a tutti Dio concede la via contemplativa, qui da intendere appunto come la via dell’esperienza mistica; è una via che dipende dal puro dono.

Commentando il quadretto evangelico di Marta e Maria, ella applica le due figure ai due tipi di preghiera: Di S Marta non si dice che fosse contemplativa. Eppure non lascia di essere una gran Santa. Non vi basterebbe somigliare a questa donna felice che meritò tante volte di ospitare in casa sua nostro Signore Gesù Cristo, preparargli da mangiare, servirlo e mangiare lei stessa alla sua mensa? Se foste tutte assorte come Maddalena, più nessuno preparerebbe da mangiare all’Ospite divino. Orbene, immaginate che il nostro monastero sia come la casa di S. Marta, dove occorre attendere a ogni ufficio. Quelle che vanno per la via attiva non mormorino di quelle che si beano nella contemplazione, perché il Signore ne prenderebbe le difese, anche se non parlassero, dimentiche di sé e di ogni altra cosa come esse sono generalmente. Pensino che tra loro vi dev’essere pure qualcuno che prepari il cibo al Maestro, ed essa si ritenga fortunata di poterlo servire come Marta. Non dimentichino che la vera umiltà consiste nell’essere disposti ad accettare con gioia quanto il Signore vuole da noi, considerandoci indegni di esser chiamati suoi servi.

(Santa Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, 17, 5-6).

Mi sento inutile

“Niente che appartiene a questo mondo è inutile agli occhi di Dio. Né una foglia che si stacca dall’albero, né un capello che cade dalla testa, né un insetto che viene ucciso perché fastidioso. Ogni creatura o cosa possiede una ragione d’essere.

“E ciò riguarda anche a te, giovane afflitto con le vesti stracciate. ‘Mi sento inutile’, hai detto. Ma la soluzione al tuo problema si trova da sempre nella tua anima.

“Ascoltala! Altrimenti rischierai di morire, pur continuando a vivere – a camminare, a dormire, a cercare di divertirti…

“Non tentare di mostrarti utile. Sforzati di essere te stesso: è sufficiente – e fa la differenza.

“Non cercare di anticipare gli insegnamenti della tua anima: segui la voce, senza fretta né indugi. Passo dopo passo, apprenderei i segreti della tua utilità. Ci si scopre utili sia partecipando a un’imponente battaglia che può cambiare il corso della storia, sia sorridendo a uno sconosciuto che si incontra per la strada.

“È persino possibile che con quel gesto spontaneo tu abbia salvato la vita a una persona, che magari si reputava inutile e stava meditando di uccidersi – finché un sorriso gli ha donato speranza e fiducia.

“Anche se ti concentrerai sul tuo passato e rivedrai i momenti nei quali hai sofferto e sudato e sorriso sotto il sole, non potrai mai sapere esattamente quando sei stato utile agli altri.

“Di certo, però, un’esistenza non può mai dirsi inutile. Ogni anima ha una ragione precisa per trovarsi in questo mondo.

“Coloro che fanno realmente del bene agli altri non cercano di mostrarsi utili, ma si impegnano per condurre una vita retta e interessante. […] Talvolta ti sembrerà un impegno vano, eppure …

“Eppure Dio – che vede tutto – utilizzerà il tuo esempio e la tua esperienza per migliorare il mondo. E, ogni giorno, ti regalerà nuove benedizioni.”

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Milano, Bompiani, 2012, 48-49).

Racconto

“… un mercante, una volta, mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava.

Invece di trovare un sant’uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un’attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie. E c’era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto.

Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.

Nel frattempo, voglio chiederti un favore, concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d’olio. Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l’olio.

Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino. In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio.

Allora, gli domandò questi, hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?’

Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d’olio che il Saggio gli aveva affidato.

Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo, disse il Saggio. Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa.

Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d’arte appese al soffitto e alle pareti. Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d’arte disposta al proprio posto.

Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto.

Ma dove sono le due gocce d’olio che ti ho affidato? domandò il Saggio.

Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate.

Ebbene, questo è l’unico consiglio che ho da darti, concluse il più Saggio dei saggi.

Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino.”

(Paulo Coelho)

Preghiera

Marta e Maria di Betania – l’azione e la contemplazione – si trovano pienamente integrate nel vero e incomparabile modello di vita santa: nella «Maria per eccellenza», la Madre del Signore. È soprattutto a lei che dobbiamo guardare per apprendere a stare alla presenza del Signore, a scegliere la «parte migliore» senza trascurare l’umile fatica del lavoro, il servizio premuroso ai fratelli, alle membra del corpo mistico di Cristo.

O Vergine Maria,

prima e incomparabile discepola del Verbo di Dio

che tu stessa hai generato e nutrito al tuo seno,

insegnaci a rimanere con te in religioso ascolto

affinché, cessato il rumore delle nostre parole,

e placata l’agitazione per le troppe cose

in cui ci disperdiamo,

cresca in noi, con la fede,

il desiderio dell’unica cosa necessaria:

ascoltare Gesù che ci rivela

l’amore salvifico del Padre. 

Ottienici, o Madre,

un’anima profondamente contemplativa

anche nell’azione

perché sempre e dovunque

il nostro cuore indiviso

sappia stare alla presenza del Signore

e saziarsi di lui

Unico e Sommo Bene.

Amen.

(Anna Maria Canopi, da: Incontri con Gesù, Leumann, Elle Di Ci, 2009, 90).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

———

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XVI DOM TEMP ORD (C)

GMG Rio 2013: “È lo specchio di una Chiesa viva e giovane”

Mancano pochi giorni all’inizio della Gmg di Rio de Janeiro e nella città carioca fervono gli ultimi preparativi. Intanto da ogni parte del mondo i giovani cominciano a partire.

Gli italiani saranno più di 7500, con loro oltre 40 vescovi e decine di sacerdoti. Quindici i vescovi catechisti italiani, tra loro il presidente e il segretario generale della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco e monsignor Mariano Crociata; e il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. Sulla presenza italiana a Rio il Sir ha rivolto alcune domande al segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata.

Settemila e cinquecento italiani: un numero importante che testimonia la presenza convinta della Chiesa italiana rappresentata anche da tanti sacerdoti e vescovi…

“Sì, l’Italia è il primo Paese europeo per numero di partecipanti, chiaramente dopo l’America Latina che è al primo posto. Siamo molto felici di questa partecipazione: nonostante i costi proibitivi dei biglietti aerei, la voglia di condividere questa settimana di preghiera e di festa, insieme a milioni di altri giovani provenienti da tutto il mondo, ha avuto la meglio. La Cei ha voluto andare incontro ai giovani che vivono in Italia, ma sono stati essi stessi ad autofinanziarsi in vista dell’incontro di Rio”.

Con quali speranze e aspettative la Chiesa italiana parte per Rio de Janeiro?

“L’esperienza della Gmg è molto ricca e stimolante perché è specchio di una Chiesa viva e giovane, al contrario di ciò che si pensa. I giovani più di altri hanno un senso vivo dell’incontro e dello stare insieme. Essere convocati e radunarsi è in profonda sintonia con la natura della Chiesa e dell’esperienza cristiana. La speranza è che questo evento sia seme per un cammino di riflessione che continui e vada oltre la Gmg di Rio. Un cammino che ponga al centro i giovani, che tenga conto delle loro esigenze e li renda protagonisti. L’incontro con Papa Francesco sarà l’apice della Gmg ed egli di certo ci indicherà la via giusta per proseguire il cammino”.

Quali saranno le note più caratteristiche, distintive, della presenza azzurra a Rio?

“Il quartier generale degli italiani sarà come sempre Casa Italia che abbiamo voluto rendere, quest’anno in particolare, ancora più accogliente, davvero ‘casa’. Gli italiani a Rio potranno trovare lì una porta sempre aperta per le loro esigenze. Inoltre, torna come momento di incontro e di spettacolo, ma anche di riflessione, la Festa degli italiani, che prenderà le mosse dalla vita di Gesù, con gli interrogativi che la sua persona suscita e le risposte che solo Lui sa dare. A rendere i giovani protagonisti di questa festa – sia quelli presenti a Rio, sia quelli che seguiranno la diretta di RaiUno da casa – contribuirà l’uso dei social network, con cui verranno rilanciati i temi più stimolanti così da allargare il dibattito. Ci sarà anche tanta musica e divertimento”.

Il 24 luglio Papa Francesco inaugurerà un centro riabilitazione per tossicodipendenti nell’ospedale di Sao Francisco de Assis, ristrutturato grazie al contributo di un milione di euro della Cei…

“Sì, al Comitato per gli Interventi Caritativi per il Terzo Mondo – che gestisce i fondi dell’8xmille per progetti di sviluppo – è pervenuta una richiesta dall’Arcidiocesi di Rio de Janeiro per questo centro di recupero. Considerata la bontà del progetto, che prevede non solo il recupero ma anche la riabilitazione sociale del giovane, e a sostegno del grande impegno dei frati e della diocesi nel voler far fronte a un problema purtroppo molto diffuso in Brasile, abbiamo ritenuto doveroso dare il nostro contributo per un futuro migliore per i ragazzi che vi vengono presi in carico”.

Per chi resterà in Italia le regioni ecclesiastiche hanno promosso delle vere e proprie Giornate regionali della Gioventù. Qual è il significato di questi eventi?

“Di certo la condivisione. I giovani che restano vogliono sentirsi parte di questo grande evento di fede, vogliono condividere i momenti di preghiera, di riflessione e di festa. Per questo, in parte verranno aiutati dai mezzi di comunicazione che trasmetteranno, in alcuni casi solo in streaming per questioni di fuso orario, alcuni eventi come le catechesi, la Via Crucis, la Veglia e la messa finale. In parte, saranno loro stessi al centro degli eventi regionali, insieme ai loro vescovi, ai parroci, agli educatori e a tutti coloro con cui hanno condiviso il cammino di preparazione fino a questo momento. Nonostante l’ora tarda in Italia, la veglia sarà seguita in diretta da moltissimi giovani. Anche questo starà a mostrare come l’esperienza cristiana crea legami attorno alla fede, fa nascere comunità, suscita nuova vita e capacità di futuro”.

SIR del 17/07/2013

Le scelte ”personali” di Papa Francesco per la sua prima Gmg

Un Papa “venuto dalla fine del mondo” che fa il suo primo viaggio apostolico nel suo continente, anche se non è stato lui a deciderlo. Del resto, neanche Benedetto XVI aveva programmato di fare il suo primo viaggio internazionale a Colonia, nella natìa Germania, sede designata dal suo predecessore, Giovanni Paolo II, per la Gmg del 2005. Ha esordito con questo “simpatico parallelo” padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, nel briefing di presentazione della Giornata mondiale della Gioventù , in programma a Rio de Janeiro dal 22 al 29 luglio, sul tema: “Ide e fazei discípulos entre todas as nações”, “Andate e fate discepoli in tutte le nazioni del mondo”. Quello di Rio è quindi un viaggio “già deciso”, di cui Papa Francesco raccoglie l’”eredità”, ma il cui programma è stato anche “intensificato e arricchito di ulteriori eventi con il cambio di pontificato”. Rispetto al “programma più leggero” che era stato fatto per Benedetto XVI, gli elementi aggiunti sono il pellegrinaggio ad Aparecida, la visita alla favela, la visita all’ospedale, l’incontro con il Comitato del Celam. La durata è rimasta la stessa, ma in particolare è stato inserito il pellegrinaggio ad Aparecida, “molto voluto da Papa Francesco” e che quindi “occupa un giorno che invece avrebbe potuto essere di riposo in una bozza precedente di programma”. In quale lingua parlerà il Papa? “Lo vedremo”, la risposta del portavoce vaticano, ipotizzando che “in parte sceglierà il portoghese, in parte lo spagnolo”. Di seguito, il programma dettagliato del viaggio, a compiere il quale il Papa è stato invitato dai vescovi organizzatori e promotori della Giornata mondiale della gioventù, monsignor Orani Tempesta, arcivescovo di Rio de Janeiro, e il cardinale Damasceno Assis, presidente della Conferenza episcopale del Brasile, e dalla presidente Dilma Roussef, venuta in Vaticano per l’inaugurazione del Pontificato: il giorno dopo, incontrando il Papa, la presidente lo aveva invitato esplicitamente ad andare in Brasile, e Papa Francesco aveva immediatamente accettato. La presidente, ha reso noto padre Lombardi, ha invitato a partecipare alla Gmg di Rio anche i capi di Stato degli altri Paesi dell’America Latina. 

Il pellegrinaggio ad Aparecida e la visita all’ospedale. Dopo l’arrivo, lunedì 22, a Rio d Janeiro, la cerimonia di benvenuto e la visita al presidente della Repubblica, mercoledì 24 (dopo un giorno di riposo) comincia il programma intenso del Santo Padre, Con il pellegrinaggio ad Aparecida, “fortemente voluto dal Papa – ha riferito il portavoce vaticano – sia per la sua devozione mariana personale, sia per il fatto che presso questo Santuario si è svolta la grande assemblea dell’episcopato latinoamericano che ha dato luogo al documento di Aparecida, la cui redazione è stata guidata proprio dall’allora cardinale Bergoglio”. Il Papa va ad Aparecida, la mattina di mercoledì, in elicottero; arriva verso le 9.30 e si reca direttamente alla cappella del Santuario, dove venererà l’immagine e celebrerà la Messa come “atto di atto di devozione personale”. “Il Papa – ha continuato padre Lombardi – ha voluto dare a questa visita alla Madonna di Aparecida anche il significato di preghiera per la Giornata mondiale della gioventù, per i giovani che incontrerà, e anche per il suo pontificato. Quindi, una specie di consacrazione, di offerta di sé alla Madonna ma domandando la sua protezione per la Gmg e per il pontificato”. Nel pomeriggio, a Rio, il Papa visiterà l’ospedale São Francisco de Assis na Providência de Deus, un ospedale del venerabile Ordine Terziario francescano, che cura in particolare giovani, indigenti e persone dipendenti da droghe e alcol: “Questa visita – ha detto padre Lombardi – ha un significato simbolico, non solo per quelli che sono presenti in quell’ospedale, ma anche per le altre comunità, le altre istituzioni e tutte le persone che operano in questo campo”. Il Papa si reca nella cappella e poi si sposta nel cortile dove terrà il suo discorso. 

La visita alla favela. Giovedì 24, alle 11, Papa Francesco visiterà la Comunità di Varginha: “E’ una favela – ha detto padre Lombardi – di dimensioni relativamente piccole, una delle molte che si trovano inserite nel tessuto della città di Rio e delle città brasiliane. E’ considerata una favela sicura, in quanto sono state compiute operazioni per eliminare armi e droghe e consentire quindi una vita pacifica”. Il Papa si reca nella chiesa e benedice l’altare, con una preghiera specifica prevista per la benedizione dell’altare e del nuovo ambone. Poi si sposta a piedi all’interno di Varginha. Durante l’itinerario – ha affermato padre Lombardi – “è previsto che entri in una abitazione, incontri brevemente una famiglia. Poi continua il suo itinerario fino al campo di calcio, dove c’è l’incontro con la comunità e il discorso del Papa e le offerte di doni da parte dei bambini e delle persone della comunità al Papa”. “Non è il primo Papa che va a Rio in una favela – ha ricordato il portavoce vaticano – Anche Giovanni Paolo II era stato alla favela Vidigal, in uno dei suoi viaggi in Brasile. Quindi, è un atto che già Giovanni Paolo II aveva compiuto”. 

L’incontro con il Comitato del Celam. Dopo la Messa conclusiva del 29 luglio, al “Campus Fidei” di Guaratiba, il Papa alle 16 incontra il Comitato di coordinamento del Celam, il Consiglio episcopale latinoamericano. Anche questo, ha reso noto padre Lombardi, è “un incontro voluto proprio dal Papa”: il Comitato di coordinamento del Celam doveva riunirsi e il Papa ha voluto incontrarlo all’inizio dei lavori. Quello di Papa Francesco, per padre Lombardi, “sarà sicuramente un discorso significativo per quanto riguarda le prospettive della Chiesa e la missione della Chiesa nel Continente, per i rappresentanti di questo organismo che raccoglie le 22 Conferenze episcopali del Continente”

Uno studente su due è influenzato dai genitori nella scelta dell’università

Uno studente su due è influenzato nella scelta della facoltà universitaria, dai genitori. Lo rivela un’indagine dell’Associazione Donne e Qualità della Vita. Secondo i dati Istat del 2012, sono soprattutto le donne a decidere di proseguire gli studi nel post maturità e a portare positivamente a termine il percorso iniziato all’università (il 37,8 di chi acquisisce un titolo di istruzione terziaria è donna, gli uomini sono il 25,5 per cento).  

Dalla ricerca, svolta su circa 1500 studenti liceali di entrambi i sessi, emerge che al primo posto ci sono le attitudini culturali dello studente (31%), al secondo posto i risultati scolastici conseguiti al liceo nelle differenti materie (19%), al terzo l’esempio di un familiare, fratello o zio (17%), al quarto posto influenzerebbe la scelta l’offerta logistica e il modus vivendi che si trova nella città sede dell’università prescelta (15%), al quinto posto il valore del quadro docenti dell’università di destinazione (8%); tra le ultime voci la curiosa indicazione che sarebbe la casualità a determinare la scelta finale (5%).  

Ad influenzare i giovani al primo posto sono ancora i genitori: ben il 47% degli studenti, uno su due, infatti ammette di essere «mammone» e di voler decidere insieme a mamma e papà la soluzione migliore, influenzato anche dagli aspetti economici rilevanti in tempo di crisi. Al secondo posto gli amici (23%), con i quali il confronto è serrato e approfondito, il 21% sceglie invece di affidarsi al cuore ed è influenzato nella propria scelta dalle indicazioni o suggerimenti del proprio fidanzato o fidanzata. Solo un residuo 5% si affida alle indicazioni e suggerimenti dei propri professori del liceo.  

Circa il 32% degli intervistati, è ottimista sulla possibilità di impiego post laurea. Ben il 21% è invece pessimista e non crede, dopo la laurea, di poter trovare lavoro in Italia. Il 15% è convinto di dover sostenere ulteriori specializzazioni, mentre il 7% è dell’idea che dovrà seguire dei corsi di perfezionamento o master all’estero. Infine un 5% vede nerissimo ed è addirittura convinto di non riuscire a terminare gli studi. 

La ricerca ha inoltre indagato quali siano i fattori esterni alla famiglia e alle conoscenze che influenzino e condizionino maggiormente le scelte delle facoltà. Il 21% degli studenti ha indicato nei social network e nella rete la propria miglior fonte di notizie e indicazioni universitarie, un 19% ha ammesso di essere influenzato dalla pubblicità e dalla «nomea mediatica» dell’ateneo, il 16% invece indica nella reputazione e notorietà dei rettori un elemento fondamentale di scelta, il 12% indica come determinanti per la scelta le strutture dei corsi e le tipologie di esami proposte dagli atenei. 

Per quanto riguarda le aspettative dall’università il 31% degli studenti ha risposto un’opportunità di miglioramento economico, il 25% spera in una crescita culturale utile al lavoro, il 13% considera l’università come un’opportunità di accrescere le proprie conoscenze personali, il 9% considera l’iter studiorum come un mezzo per aiutare economicamente la propria famiglia mentre un «pragmatico» e «godereccio» 8% si aspetta di conoscere l’anima gemella tra i banchi dell’aula magna o durante i quarti d’ora accademici.  

LaStampa del 16/07/2013

Al cinema con i bambini per insegnare loro l’ecologia

Epic concorso Green. Succede negli States, dove al film della Fox Epic viene collegata una interessante iniziativa ‘Green’

Il modo migliore per avere degli adulti educati è crescerli bene, è ovvio, e sempre più i giovanissimi oggi si dimostrano sensibili ai messaggi ricevuti attraverso tv e cinema. 

Sarà stato questo il punto di partenza di una giocosa e intelligente operazione che ha accompagnato negli USA l’uscita in sala del film della 20th Century Fox, Epic – Il mondo segreto. 

L’animazione in 3D diretta da Chris Wedge, e basata sul libro per bambini ‘The Leaf Men and the Brave Good Bugs’ di William Joyce, racconta della adolescente M.K. in conflitto con il padre e di come finisca con l’aiutare gli Uomini Foglia del solitario Nod a difendere la foresta dai piani dei Boggan del crudele Mandrake, intenzionato invece a distruggerla. 

Questo, in pochissime parole, l’eco-blockbuster che ha chiamato a raccolta i bambini statunitensi spingendoli a riflettere su temi ‘Green e ad avvicinarsi all’ambiente attraverso esperienze proprie, dirette, che sicuramente serviranno più di tante lezioni. 
L’idea è nata dal Team Energy Star che, con altri partner, ha offerto biglietti gratuiti per vedere il film in sala (e il proprio nome a lettere luminose cubitali sui monitor di Times Square) alle prime 200 famiglie che avessero condiviso online le proprie storie sui temi ‘risparmio’ e ‘consumo consapevole’. 
Oltre a una serie di premi tecnologici, sempre strettamente improntati alla salvaguardia delle risorse e a un corretto uso delle apparecchiature elettroniche, i blogger hanno avuto la possibilità di scaricare dal sito ufficiale del Team (http://www.energystar.gov/team) un kit ideato per offrire un modo divertente di coinvolgere i nostri figli in attività ecologiche-ambientali e dimostrare come il risparmiare energia e fermare il disastro climatico utilizzando azioni semplici ed economiche non sia affatto qualcosa di ‘pesante’ 

“Siamo tutti foglie dello stesso albero”, insegna Ronin, un altro dei protagonisti del film che ancora ribadisce che viviamo tutti sullo stesso pianeta. Siamo noi a doverlo proteggere. 
E per dare ulteriore forza al concetto, e visibilità all’operazione, il ‘Green Carpet’ di New York ha raccolto molti volti noti – doppiatori del film e non – ad avvalorare la tesi: Amanda Seyfried, Colin Farrell, Beyoncé Knowles, Josh Hutcherson, Christoph Waltz, Aziz Ansari e altri. 

Un modo anche questo per condividere la missione dei Leafman e della Regina Tara, sovrana e forza vitale della foresta, e difendere la natura. Ora non resta che sperare che l’esperienza ‘metta radici’ e non venga dimenticata crescendo. 
E visto che siamo ormai prossimi all’uscita della versione homevideo del film, chissà che a qualcuno – anche in Italia – possa venire in mente un modo utile per sfruttare l’occasione… 

LaStampa 15/07/2013

Il rinnovamento di Papa Francesco

Sono diverse e significative le novità introdotte dal Motu Proprio in materia penale che il Santo Padre Francesco ha adottato ieri mentre la Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano approvava una legge di modifica del codice penale e del codice di procedura penale e un’altra legge recante norme complementari ancora in materia penale. Atti che rappresentano un ulteriore segno del rinnovamento che la Chiesa sta perseguendo: vi è l’introduzione dell’ampia categoria dei delitti contro i minori tra i quali la vendita, la prostituzione, la violenza sessuale in loro danno; la pedopornografia; la detenzione di materiale pedopornografico; gli atti sessuali con minori. A tal proposito si segnala che l’attuale legislazione vaticana va persino otre la già severa legge italiana almeno per due motivi: ai fini dell’età del consenso, da cui far discendere la responsabilità penale, considera minore ogni essere umano avente un’età inferiore ai 18 anni (nel codice penale italiano l’età del consenso è fissata a 14 anni, e solo in alcuni casi a 16 anni); i reati sopra citati sono sempre perseguibili d’ufficio (nella legislazione italiana gli atti sessuali con i minori di età superiore agli anni 10 sono perseguibili solo su querela di parte).
Aderendo alla Convenzione di Mérida delle Nazioni Unite contro la corruzione, sono state poi introdotte o novellate una serie di figure criminose relative ai delitti contro la pubblica amministrazione: il peculato, l’abuso d’ufficio, la corruzione, la concussione, il traffico d’influenze, la corruzione nel settore privato, l’autoriciclaggio. Non può non evidenziarsi che, per quanto riguarda l’ultima fattispecie, lo Stato vaticano è stato più celere e tempestivo di quello italiano a dotarsi di norme in materia di lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata. 

A tale proposito si sottolinea ancora l’innovativo art. 33 che prevede, direttamente su istanza dell’interessato, l’adozione da parte del tribunale di adeguate misure di sicurezza per il testimone, la persona offesa o un prossimo congiunto, qualora sussista un concreto ed attuale pericolo per la loro incolumità personale.
È stata introdotta la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche derivanti da reato. Anche in questo caso si segnala la più ampia portata della norma incriminatrice vaticana rispetto alla legislazione del nostro Paese. E infatti, a differenza della legge italiana (la n. 231 del 2001 che sanziona le persone giuridiche solo per determinati reati) la legislazione d’Oltretevere prevede ora che, in presenza di determinate condotte omissive o commissive, esse siano sempre responsabili allorquando i reati siano stati commessi «nel suo interesse o a suo vantaggio».

Vi è infine il capitolo non meno interessante sul nodo – a volte spinoso – della cooperazione ed assistenza giudiziaria agli altri Paesi. Ebbene lo Stato Città del Vaticano ha previsto, nella legge recante modifiche al codice penale e al codice di procedura penale, che «Per quanto concerne le rogatorie e l’estradizione (…) si osservano le convenzioni internazionali ratificate, gli usi internazionali e le leggi» (art. 37); «Agli Stati richiedenti è assicurata la più ampia assistenza giudiziaria per qualsiasi inchiesta o procedimento penale, nei modi e nei limiti previsti dall’ordinamento» (art. 38); «Nei casi espressamente previsti dalle convenzioni internazionali ratificate, non potrà essere invocato il segreto bancario per respingere una domanda di assistenza giudiziaria» (art. 40); «Nessuno dei reati di cui alla presente legge può essere considerato come un reato fiscale o come un reato politico o connesso ad un reato politico o ispirato da motivi politici, al fine di negare l’estradizione o l’assistenza giudiziaria» (art. 46).

Si tratta, come è evidente, di significative innovazioni legislative in materia penale, che erano state messe alla studio su indicazione e impulso di Benedetto XVI e che la recente ascesa al soglio pontificio di papa Francesco ha accelerato nella consapevolezza dell’urgenza per la Chiesa non solo di essere, ma anche di apparire senza ombre, e in tutte le sfaccettature dell’agire umano (anche quelle apparentemente più “tecniche”), annunciatrice credibile del messaggio evangelico. Papa Francesco avverte e segnala la necessità impellente che la Chiesa, madre e maestra, sia «luce e sale» di un mondo «affaticato e oppresso», testimone autentica della bellezza e della gioia dell’incontro con Cristo Risorto e compagna fedele dei poveri, degli emarginati e degli ultimi della terra. Ma per fare ciò, per avere la credibilità d’illuminare la coscienza troppe volte sopita dell’uomo moderno, la Chiesa non deve poter essere accusata di fare sconti a se stessa. Ha, certo, l’autorevolezza di indicare «la via, la verità e la vita» all’uomo che cade e stenta a rialzarsi, ma deve essere rigorosa in tutte le sue prassi, i suoi costumi e negli stili di vita per dimostrare ai suoi figli che è possibile non rassegnarsi alla banalità e mediocrità esistenziale della spasmodica ricerca del sesso senza amore, della ricchezza senza progresso comune e del potere senza servizio. Le riforme legislative in materia penale vanno in questo senso e indicano questo percorso.
Qualcuno un giorno ha detto che alla fine dei tempi il Signore Gesù ci chiederà non quanto siamo stati credenti bensì quanto siamo stati credibili. Anche con l’introduzione di queste modifiche al sistema penale dello Stato Città del Vaticano, il Papa ci invita tutti, come corpo vivo della Chiesa di Cristo, a essere credibili sapendo però che ciò sarà possibile solo se saremo stati prima autenticamente credenti.

 
*direttore del Dipartimento di Scienze umane dell’Università Europea di Roma;
** docente di Scienze criminali presso lo stesso Ateneo
 
Alberto Gambino* e Alessandro Benedetti**
 
Minori e corruzione, più severità
 
Abolizione dell’ergastolo, introduzione di nuovi e più particolareggiati reati (ad esempio quelli contro i minori e la divulgazione di notizie riservate), adeguamento alle convenzioni internazionali. Sono queste alcune delle principali novità della riforma del sistema penale della Città del Vaticano, varato ieri, che per volontà del Papa saranno applicate anche agli organi della Santa Sede. A illustrarle ai giornalisti sono stati il giurista Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale dello Stato Città del Vaticano, e padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana. Entrambi, rispondendo alle domande hanno collocato le nuove norme nel loro giusto contesto, facendo chiarezza anche su alcuni possibili fraintendimenti.

Innanzitutto, ha sottolineato Dalla Torre, «non bisogna confondere l’ordinamento canonico con quello statuale della Città del Vaticano. La riforma penale si riferisce infatti a questo secondo ambito». In secondo luogo non bisogna intendere queste norme esclusivamente come una risposta alle osservazioni di Moneyval. «C’è anche questo aspetto – ha precisato Dalla Torre –, ma non tutte le osservazioni di Moneyval riguardano la materia penale. Penso che subito dopo l’estate, ci saranno nuovi interventi relativi all’attività finanziaria, all’antiriciclaggio, alla lotta al terrorismo e quant’altro». 
Le fattispecie criminali sono dunque quelle commesse sul territorio dello Stato più piccolo del mondo, che se ha circa 500 abitanti  e non tutti residenti (i nunzi ad esempio vivono all’estero), viene comunque attraversato ogni anno da 18 milioni di persone per motivi religiosi, turistici e di lavoro.
Inoltre, come dispone il motu proprio adottato sempre ieri dal Papa, queste stesse norme si applicano «ai reati commessi contro la sicurezza, gli interessi fondamentali o il patrimonio della Santa Sede». E in sostanza ricadono sotto la nuova giurisdizione penale «i membri, gli officiali e i dipendenti dei vari organismi della Curia Romana e delle Istituzioni ad essa collegate; i legati pontifici (i nunzi, ndr) ed il personale di ruolo diplomatico della Santa Sede; le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione, nonché coloro che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo, degli enti direttamente dipendenti dalla Santa Sede ed iscritti nel registro delle persone giuridiche canoniche tenuto presso il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano». Tutte le norme entreranno in vigore il prossimo primo settembre.

Quali sono le novità più importanti dal punto di vista dei singoli reati? Sicuramente ha attirato l’attenzione dei giornalisti l’articolo 116 bis, che dispone: «Chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni o con la multa da euro 1.000, o da euro 5.000. Se la condotta ha avuto ad oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede, dello Stato, si applica la pena della reclusione da 4 a 8 anni. Se il fatto, di cui al comma precedente, è commesso per colpa, si applica la pena della reclusione da 6 mesi a 2 anni». Dalla Torre, però, alla domanda se questa norma sia stata disposta in seguito al caso che ha coinvolto Paolo Gabriele (l’ex aiutante di camera di Benedetto XVI) ha risposto che quella vicenda «non ha inciso in maniera determinate sull’articolo di legge».

L’altra novità di sicuro rilievo è l’abolizione dell’ergastolo e la sua sostituzione con la reclusione da 30 a 35 anni. Per il resto Dalla Torre ha sottolineato che si tratta di adeguamenti ad alcune importanti Convenzioni internazionali. Ad esempio è stato introdotto il delitto di tortura e ha ricevuto definizione la categoria dei delitti contro i minori (tra i quali sono da segnalare: la vendita, la prostituzione, l’arruolamento e la violenza sessuale in loro danno; la pedopornografia; la detenzione di materiale pedopornografico; gli atti sessuali con minori). «Questi erano reati anche prima ma ora sono stati meglio specificati. C’è la pedopornografia, per esempio, che non poteva esserci nel codice del 1889». Sempre in attuazione di convenzioni internazionali sono stati introdotti delitti come il genocidio e l’apartheid ed è stato rivisto anche il titolo dei delitti contro la pubblica amministrazione. In sostanza, come scrive Papa Francesco nel motu propriopoiché «il bene comune è sempre più minacciato dalla criminalità trasnazionale e organizzata», è necessario adottare «strumenti idonei» e favorire «la cooperazione giudiziaria internazionale», per contrastare «le attività criminose che minacciano la dignità umana, il bene comune e la pace». Ciò che appunto costituisce la ratio delle nuove norme.

Mimmo Muolo
 
Rodríguez Maradiaga: maggiore collegialità
 
«Sarebbe auspicabile, e penso che lo si farà, che ci potesse essere uno sviluppo della struttura sinodale, che ne cambiasse la metodologia di lavoro per renderla un momento che, senza essere imponente – non è necessario –, abbia una funzione non solo consultiva bensì anche decisionale». Non si sbilancia troppo, ma dove lo fa usa parole chiare il cardinale hondureño Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, parlando del suo ruolo di coordinatore degli otto cardinali scelti dal Papa per consigliarlo nel governo della Chiesa e per studiare un progetto di riforma della Curia Romana. Lo fa in un’intervista rilasciata al sacerdote torinese Ermis Segatti e pubblicata sull’ultimo numero del quindicinale Il Regno

L’arcivescovo di Tegucigalpa parla di una «sollecitazione alla collegialità» proveniente direttamente dal Concilio e di una più contingente: «Durante le riunioni prima del Conclave si avvertiva da parecchie parti questo bisogno che il Papa fosse più in diretto contatto con le Chiese locali. Il collegio cardinalizio avvertiva la necessità che anche i cardinali residenti fuori del Vaticano fossero messi in condizione di fare sentire la loro voce. Questa rimane senz’altro una grande speranza di collegialità». Rodríguez Maradiaga specifica che «parecchi di noi sostenevano che papa Benedetto non era ben informato della realtà. Nella vicenda dei Vatileaks si è visto che c’era bisogno di maggiore informazione. Pareva che alcuni documenti non arrivassero nelle mani del Papa. Si suggeriva che i documenti non pervenissero solo attraverso le nunziature e la Segreteria di stato, ma che esistesse per così dire la possibilità che un gruppo di cardinali provenienti da diversi continenti avesse accesso diretto al Papa». 

Il presule, salesiano, ricorda di aver fatto per anni il direttore di coro e anche di orchestra e di voler adottare questo stile nel suo incarico voluto da Francesco: «Non abbiamo ancora incominciato. Sto però invitando i diversi membri della commissione a fare dei sondaggi nei loro continenti, a raccogliere proposte intorno a quelle ipotesi che già si erano presentate nelle congregazioni generali prima del Conclave, e sto trovando tantissima convergenza su molti argomenti. Quando arriveremo alla prima riunione, all’inizio di ottobre, ci troveremo veramente a un punto di partenza molto buono. Ho molta speranza». Il cardinale rilancia anche una proposta che gli viene suggerita dall’intervistatore, come possibile seguito dell’Anno della fede: «Mai come oggi abbiamo bisogno di pace nel mondo. Una pace che sia soprattutto fondata sulla giustizia sociale e sulla cessazione dei conflitti… Perciò sarebbe bello che dopo l’incontro di Assisi il Papa potesse indire un Anno della pace».

 

Andrea Galli
 

A che punto è la catechesi in Italia?

Vi riporto un mio articolo apparso su Settimana (20 gennaio 2013,p.11) sulle prospettive della catechesi in Italia.

Il 10 e 11 gennaio si è svolto a Roma il secondo seminario per la verifica ed il rinnovamento della catechesi, “Verso orientamenti condivisi”, promosso dalla Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi. Il seminario fa parte di un itinerario molto articolato che, come ha ricordato Mons Paolo Sartor, prevede di “elaborare (2011-12), presentare al Consiglio permanente ed eventualmente all’Assemblea CEI (2013) e successivamente accompagnare per la recezione (2014-15) un Documento che possa ridefinire il rinnovamento della Catechesi in Italia, recependo il Documento base, in riferimento al Catechismo della Chiesa Cattolica, e tenendo conto della sensibilità cresciuta intorno alle sperimentazioni, al primo annuncio, ed alla mistagogia”. Il seminario cui hanno partecipato diversi vescovi, direttori di Ucd, esperti di catechetica, teologia e comunicazione, si è sviluppato attorno a quattro momenti: un relazione di carattere teologico affidato a Mons. Valentino Bulgarelli, catecheta e direttore UCD Bologna, la sintesi dei lavori e degli incontri svoltisi negli ultimi mesi attorno ad una proposta di indice del documento condiviso affidata a Mons. Paolo Sartor, responsabile settore catecumenato dell’UCN, una sessione di lavori di gruppo ed infine una tavola rotonda su “Tre prospettive di contenuto in vista degli Orientamenti: comunità missionaria, formazione e iniziazione”.

Nel suo intervento, Bulgarelli ha ricostruito l’evoluzione degli ultimi quindici. Uno degli snodi centrali di questo lungo processo è il rapporto tra fede e vita “che trova la sua sintesi nell’espressione, presente in tutti i testi di catechismo, «per la vita cristiana»; intesa come integrazione tra fede e vita, criterio di lettura e di valutazione dell’intera vita dell’essere umano”. È questo uno degli assi portanti del processo in corso, infatti, prosegue Bulgarelli, “Nel cammino di questi quindici anni, si intravede come il passaggio in atto, che nei diversi documenti è sostenuto, si possa rendere sinteticamente in questi termini: dalla catechesi antropologica o esperienziale così come è stata elaborata negli anni Settanta, a una catechesi in grado di offrire una proposta di primo annuncio evangelico, per iniziare, nello spirito del catecumenato, alla vita cristiana, generando un umano che abitato dal divino sia nuovo nella forma e nella sostanza”.

L’ampia riflessione di Bulgarelli si è sviluppata poi attorno a tre temi che sintetizzano a suo giudizio il cammino percorso, una sorta di tre fili rossi, che “intrecciandosi creano un tessuto gradevole e armonioso”: in primo luogo il dinamismo tra l’annuncio che deve portare alla conversione, descritta nei termini della proposta formulata dal teologo gesuita Bernard Lonergan come conversione religiosa, morale, intellettuale e mistica, per poi sfociare nella professione di fede. Ciò implica riscoprire la centralità dell’atto di fede come riposta ad un’epoca che ha messo in questione radicalmente la possibilità dell’incontro con Dio.

Infine, il terzo filo, sull’esempio del brano evangelico del buon samaritano, è dato dalla testimonianza, che vuol dire, primariamente, attenzione nei confronti di tutto ciò che riguarda l’uomo, dalle sue fragilità, come ha ricordato autorevolmente il Convegno ecclesiale di Verona, alle sue potenzialità. Si tratta, in definitiva, di tornare ad una “pastorale di proposta” e non solo di conservazione come ebbe a dire Stijn Van Den Bossche, direttore dell’UCN del Belgio.

Nella sua relazione sui contributi che in questi mesi sono stati prodotti, Paolo Sartorha utilizzato la metafora della casa come immagine di quello che potrebbe essere la catechesi del futuro e le cui ‘stanze’ potrebbero diventare un’ipotesi di indice del nuovo documento. Una casa prima di tutto ospitale, in cui si dia grande attenzione al nostro interlocutore, cominciando prima di tutto dall’assumere nei suoi confronti un linguaggio comprensibile. Non a caso, tra le prime stanze troviamo proprio l’annuncio. Un’altra è certamente dedicata al soggetto della catechesi, la chiesa intesa come la comunità nell’armonia delle sue varie componenti, che genera, mediante l’iniziazione, alla vita nuova del vangelo. Quindi il ruolo e la definizione più precisa dell’identità e della missione del catechista.
Questi temi sono stati poi ampiamente dibattuti nei lavori di gruppo, assieme alla proposta avanzata dal direttore dell’UCN, Don Guido Benzi di affiancare alla stesura del nuovo documento un glossario che aiuti a chiarire i termini in questione,come, ad esempio, nuova evangelizzazione o primo annuncio, spesso usati in accezioni equivoche.

Dal ricco dibattito sono emerse alcune sottolineature comuni, come la necessità di accettare ormai convintamente quella che don Cesare Bissoli ha definito la “rivoluzione copernicana della catechesi”: il ricentrare le attività di formazione e annuncio sempre più sull’adulto rispetto al bambino.
Nella tavola rotonda finale, sono stati poi approfonditi alcuni contenuti della catechesi, aggrediti da diverse angolazioni.

Chiara Giaccardi, docente di sociologia della comunicazione alla Cattolica di Milano, ha aiutato a cogliere le caratteristiche dei nostri contemporanei, in particolare i giovani, i cosiddetti nativi digitali. Solo capendo le trasformazioni culturali in atto, si potrà infatti disegnare un progetto catechetico adeguato. “Non è più questione di dar forma a qualcosa che c’è, – ha affermato la Giaccardi – ma di risvegliare qualcosa che si è assopito, che è stato ricoperto da altro, o che non è mai stato trasmesso”.

Il concetto di realtà si è ampliato, come ci stanno insegnando le potenzialità comunicative dei social network. Per questo, non si può più parlare di opposizione tra reale e virtuale, ma di diverse dimensioni del reale che include anche il mondo digitale.Educare quindi oggi vuol dire ripensare la propria formazione e il proprio modo di comunicare alla luce delle provocazioni che vengono dalle trasformazioni in atto.

Fondamentale è anche il dare continuità alle iniziative educative intraprese, perché noi viviamo in un’epoca che celebra gli inizi (Marc Augè) ma poi non dà continuità, così come occorre far passare il concetto della irreversibilità delle soglie di passaggio. Ci sono, nella crescita, delle trasformazioni che sono definitive: non si può tornare a fare gli adolescenti nella terza età, come invece occhieggia la moda e il sentire contemporanei.
Il tema della formazione è stato poi declinato anche da Don Pio Zuppa, cateheta e pastoralista della facoltà teologica pugliese, che alla luce degli esiti più recenti della pedagogia, ha parlato della necessità di considerare l’apprendimento non più come un’attività prevalentemente noetica, mentale, scolastica, bensì come un fatto che accade in un contesto socio-relazionale: non si apprende da soli. La comunità ecclesiale è invitata a ripensare l’azione pastorale, abbandonando il modello che impone prima il chiarimento di tutti gli elementi teorici e poi il passaggio all’azione, per affidarsi ad uno diverso, incentrato sul criterio della riflessività che mira ad imparare agendo, non delegando il momento della riflessione fuori dall’azione concreta.

Anche i luoghi classici della formazione come i seminari devono ridiventare “comunità di pratiche”, nella logica delle antiche botteghe artigianali in cui il sapere si impara sul campo, affiancandosi ai maestri depositari di esperienze vive.

La prof.ssa Maria Teresa Stimaviglio, formatrice di catechisti di Padova, riflettendo sulla sua esperienza ha ricordato l’importanza delle relazioni interpersonali perché “è dalla vita che possiamo imparare” in quanto ciò che viviamo ci forma e ci trasforma soprattutto per la vita di fede.

Decisivo è il tema della narrazione: mettere in collegamento la propria autobiografia con le narrazioni che la Scrittura ci presenta, perché più si entra nelle Scritture più si chiarifica anche la propria esistenza. Per questo, come ha ricordato l’ultimo partecipante alla tavola rotonda, il parroco cremonese don G. Nevi, è importante valorizzare l’ascolto dell’altro senza giudicarlo.

Nel chiudere la sessione, il vescovo di Como, mons Diego Coletti ha riassunto efficacemente i lavori della due giorni dicendo che si è visto in essi all’opera quella bella definizione di chiesa intesa come “la pedagogia di Dio in azione” data dal suo confratello Mons Marcello Semeraro.

Il Papa a Lampedusa: “no alla globalizzazione dell’indifferenza”

CITTA’ DEL VATICANO – Ecco il testo completo dell’omelia di Papa Francesco a Lampedusa. 

«Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Prima però vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà! Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per le sue parole. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.

«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei?». E’ un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello! Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.

«Dov’è tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, accoglienza, solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio!

«Dov’è tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuente Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io.

Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza.

Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?

Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo. «Chi ha pianto?».

Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo perdono per chi si è accomodato, si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratelllo?». Amen

COMMENTI

l Papa a Lampedusa per «toccare la carne di Cristo»
 
Non c’è altro cammino che la «prossimità»
 
Pare che Lampedusa voglia dire ‘lampo’, ‘fiamma’, a motivo dei fuochi d’avviso accesi un tempo sull’isola per orientare i naviganti. Di certo in questi mesi di navigazione della barca di Pietro, il passaggio a Lampedusa segna una tappa significativa nella rotta seguita da papa Francesco. Una tappa che lui ha deciso in breve tempo e in breve ha stabilito. Lampedusa è un luogo reale nella geografia del Mare Nostrum e al tempo stesso esistenziale. Porta di confine e d’ingresso, punto di frattura dove s’infrange la frontiera tra disperazione e speranza, dove con la dignità e la vita trova morte la speranza, non solo dei più poveri ma di noi tutti. È dunque un passaggio chiave nella rotta della riforma che Francesco sta seguendo sull’onda del Povero frate di Assisi, dal quale ha preso il nome e con il quale condivide la povertà senza farne bandiera di rivolta e senza separarla dall’umiltà. Così senza clamori, senza riflettori vuole scendere a Lampedusa tra i profughi e gli immigrati irregolari, quelli che da tanti vengono detti i ‘clandestini’. 

La parola più ricorrente nelle riflessioni di Bergoglio sulla dottrina sociale già negli anni dell’episcopato a Buenos Aires non a caso è cercanía, prossimità. «Come possiamo favorire che si manifesti sempre di più la dignità umana tante volte ferita, sminuita, schiavizzata?», scriveva nel testo di un’omelia del 2011. «La chiave è la prossimità. La prossimità è l’ambito necessario perché si possa annunciare la Parola, la giustizia, l’amore». E a partire dalle riflessioni di Aparecida in tutta l’America Latina la prossimità si è fatta tratto distintivo di una Chiesa «che si offre a tutti come una madre che esce all’incontro» (n. 370). E proprio perché è come quella di una madre che esce all’incontro, la prossimità non è una prestazione della Chiesa, non è il prodotto di una sua efficiente applicazione da esibire. Non è un impeto di generosità che si alimenta per forza propria, prodotto di strategie d’immagine o dovere da assolvere per statuto aziendale. «La prossimità è criterio evangelico concreto che è altro rispetto alle regole di un etica astratta o meramente spirituale», afferma Francesco. È una sua esigenza vitale. 

In questi ultimi giorni, con sempre maggiore insistenza, papa Bergoglio ci parla della «carne di Cristo» ci invita a «toccare la carne di Cristo, le sue piaghe». Lo abbiamo sempre visto per un tempo quasi interminabile, all’inizio e alla fine di celebrazioni o di udienze, intrattenersi a baciare ripetutamente e ad abbracciare i sofferenti. E al tempo stesso lo abbiamo sentito affermare: «Non è sufficiente costituire una fondazione per aiutare tutti, né fare tante cose buone per aiutarli. Tutto questo è importante, ma sarebbe solo un comportamento da filantropi». 

Dal suo comportamento, dal modo con cui si avvicina agli ultimi, si coglie perciò in maniera immediata che tutto questo non lo fa perché è il suo ‘mestiere’, perché rientra nelle competenze che il senso comune assegna in maniera quasi automatica alla compagine ecclesiale. Nel modo in cui insiste ad abbracciare le piaghe di Cristo, Francesco spiazza quanti imputano alla Chiesa il mero assistenzialismo e spiazza quanti l’accusano di pauperismo. Nel richiamo insistente di papa Francesco si avverte un rovesciamento che lascia intravedere il cuore ultimo del mistero della carità, imparagonabile a qualsiasi generosità, a qualsiasi filantropia. In questa prospettiva, autenticamente cristiana, la Chiesa non pone l’accento sul proprio portare ma è chiamata ad andare e toccare e curare le piaghe dei poveri perché nel piegarsi, nel chinarsi sul povero riceve, riceve essa stessa la Grazia che la fa vivere: «Quando si tocca la carne di Cristo sofferente – dice Bergoglio – può accadere che si sprigioni nei nostri cuori la speranza. È lì che possiamo ricevere la Grazia». Per questo uscire e farsi incontro ai poveri per la Chiesa è vitale. Vuol dire lasciarsi incontrare da Cristo stesso.

«Anche la vita di Francesco d’Assisi è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché ha toccato il Dio vivo. Lo stesso apostolo Tommaso – ha detto papa Francesco nell’omelia del 3 luglio scorso a Santa Marta – per trovare Dio ha dovuto mettere il dito nelle piaghe, mettere la mano nel suo costato. Questo è il cammino. Non ce n’è un altro». 

Ed è quello che lo porta oggi, che conduce adesso Francesco nell’ultima isola del Mare Nostrum a mendicare Cristo, a ricevere Cristo, a ricevere la speranza: «Allo Spirito – ha scritto – si può chiedere che risvegli in noi quella particolare sensibilità che ci fa scoprire Gesù nella carne dei nostri fratelli più poveri, più bisognosi, trattati più ingiustamente perché quando ci avviciniamo alla carne sofferente di Cristo, quando ci facciamo carico di essa, solo allora, solo allora può accendersi nei nostri cuori la speranza, quella speranza che è vita e che il nostro mondo disincantato richiede ai cristiani».

 
Stefania Falasca in Avvenire del 7/7/2013
 

Lampedusa, Papa: “Cultura del benessere porta a globalizzazione dell’indifferenza”

Durante l’omelia della messa al campo sportivo dell’isola, Papa Bergoglio ha attaccato duramente l’atteggiamento disinteressato della gente di fronte alla tragedia dei migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere le coste italiane

di Francesco Antonio Grana | 8 luglio 2013

Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno. Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io”. La condanna di Papa Francescoall’indifferenza davanti alla tragedia degli immigrati morti in mare è arrivata puntuale e durissima, stamane, nell’omelia della messa celebrata a Lampedusa, nel suo primo viaggio apostolico. “Oggi – ha affermato il Papa – nessuno si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parla Gesù nella parabola del buon samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo ‘poverino’, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, – ha aggiunto Francesco – ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ‘innominati’, responsabili senza nome e senza volto”. 

Francesco ha incalzato tutti i presenti con un esame di coscienza collettivo. “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società – ha spiegato il Papa – che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza”. Un vero e proprio mea culpa quello pronunciato a Lampedusa da Francesco. “Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito”. “Domandiamo al Signore – è la preghiera del Papa – la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”.

Francesco ha voluto esprimere anche “gratitudine” e “incoraggiamento” agli abitanti di LampedusaLinosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza che hanno mostrato attenzione agli immigranti. “Voi – ha detto loro il Papa – siete una piccola realtà, ma offrite un esempio disolidarietà“. Un altro pensiero di gratitudine Bergoglio lo ha rivolto ai “cari immigrati musulmani che stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa – ha detto loro – vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie”.

Per un giorno un’anonima Fiat Campagnola targata 081268 MI, offerta da un milanese che da vent’anni è di casa a Lampedusa, è diventata la celebra papamobile SCV1. Nelle mani di Papa Francesco, del Pontefice argentino che vuole “una Chiesa povera e per i poveri” e che da arcivescovo di Buenos Aires celebrava spesso messe in strada con gli ultimi della sua grande diocesi, un calice e una croce astile realizzati con il legno dei barconi che trasportano a Lampedusa migliaia di immigrati. Ma molto spesso trovano la morte durante il lungo viaggio della speranza prima di arrivare alla “Porta d’Europa“. Dal 1999 al 2012 nell’isola siciliana sono sbarcate 200mila persone. Dall’inizio del 2013 a oggi gli arrivi sono stati 4mila.

“Il Papa è andato a Lampedusa per piangere i morti”, ha spiegato ai giornalisti il suo segretario particolare, il maltese monsignor Alfred Xuereb. Francesco, infatti, profondamente toccato dal recente naufragio di un’imbarcazione che trasportava migranti provenienti dall’Africa, ultimo di una serie di analoghe tragedie, ha voluto pregare per coloro che hanno perso la vita in mare, visitare i superstiti e i profughi presenti, incoraggiare gli abitanti dell’isola e fare appello alla responsabilità di tutti affinché ci si prenda cura di questi fratelli e sorelle in estremo bisogno. “Quando alcune settimane fa – ha confidato ai presenti Bergoglio – ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto divicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta”.

Una visita discreta senza i vescovi della Sicilia e i rappresentati del Governo italiano: è lo stile di Francesco che vuole davvero abbracciare gli ultimi. Nella sua vita Bergoglio non aveva mai messo piede in Sicilia. “Conosco la vostra isola – aveva confidato qualche settimana fa ai vescovi della Regione – solo attraverso il film Kaos dei fratelli Taviani“. Non è un caso, dunque, se Francesco ha voluto che fosse Lampedusa il suo primo viaggio da Papa. Un segno che nel suo pontificato gli ultimi saranno davvero primi.

XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Deuteronomio 30,10-14

Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».

 

Ancora una volta è necessario retrocedere nella lettura per comprendere meglio il senso della pericope proposta nella liturgia. Bisogna leggere il v.6 dello stesso capitolo: «Il Signore tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva».

     A questa formula si ricollega il v 10 che apre la lettura e che richiede di convertirsi al Signore «con tutto il cuore e con tutta l’anima». La medesima formula ricorre in 6,5 ripresa nel vangelo come primo comandamento da osservare. Si tratta di un pensiero fondamentale sul quale il libro del Deuteronomio ricorre più volte insistendo sull’amore integrale a Dio in 10,12; 11,13; 13,3. In 26,16 invece lo stesso formulario viene usato per parlare dell’osservanza dei comandamenti di Dio e in 30,2 della conversione al Signore da attuare sempre «con tutto il cuore e con tutta l’anima». Potremmo così dire che la pericope che stiamo commentando assume un ruolo riassuntivo del messaggio del libro. È l’ultima volta che ricorre la formula appena ricordata prima: «con tutto il cuore e con tutta l’anima».

     Il nostro brano vuole persuadere il lettore circa la praticabilità di quanto ha letto nell’intera opera. Il messaggio è impegnativo perché totalizzante, ma la pretesa radicale della teologia deuteronomista non rimane una utopia; è traducibile in vita. Il cielo era un punto inarrivabile per l’uomo di allora e il mare per un popolo come Israele estraneo alla navigazione, era inaccessibile. Le immagini servono per dire che non esistono barriere insormontabili tra la parola di Dio e il cuore umano. L’interiorizzazione della parola e dei precetti divini è un altro tema assai caro al Deuteronomio: 6,6; 11,18. Forse l’autore si aspetta che sia già stato attuato l’invito di Dio? Sarebbe ingenuo rispondere di sì. Il profeta Geremia non estraneo alla teologia deuteronomista dirà chiaramente che questo non può avvenire che per dono divino: Ger 31,31-34. Anche il profeta Ezechiele annuncia la promessa della interiorizzazione della legge come dono concesso da Dio: 11,19-20; 36,27. Siamo dunque con il brano in questione agli albori di una tradizione che porterà alle prospettive profetiche appena ricordate? Non è facile rispondere. Bisognerà accontentarsi soltanto di accogliere questa affermazione della presenza interiore della parola di cui la pericope non ci dice con chiarezza a chi attribuirla. L’unica cosa che per ora interessa all’autore è evitare al suo lettore la tentazione di ritenere il suo messaggio impraticabile, mentre invece è una realtà già misteriosamente presente in lui. San Paolo riprenderà il contenuto di questa lettura in Rm 10,6-8.

 

Seconda lettura: Colossesi 1,15-20 

Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.

 

Il noto inno cristologico che viene proposto oggi come seconda lettura è molto probabilmente di composizione anteriore alla lettera cui appartiene. Può essere una testimonianza della liturgia della comunità della chiesa apostolica, un testo noto ai colossesi che può così diventare ottimo strumento di catechesi. La sua posizione iniziale nella lettera pertanto non vuole essere semplicemente celebrativa, ma fondante il messaggio teologico che l’autore darà nel suo scritto.

     L’inno è facilmente divisibile in due parti: i vv. 15-17 illustrano il rapporto esistente tra Cristo e il creato, Egli viene presentato qui come il mediatore della creazione. Nei vv. 18-20 viene presentato il ruolo di Cristo in merito alla redenzione umana.

     La prima parola con la quale Cristo viene indicato è «immagine». Per capirne il senso in modo pertinente bisognerebbe ricollocarsi nella cultura ellenistica secondo la quale l’immagine, pur restando distinta dal suo archetipo, ne costituiva una manifestazione reale. In termini semplici si può dire che la relazione tra immagine e realtà rappresentata era assai più stretto che non nella nostra cultura. Eb 1,3 che definisce Gesù rispetto al Padre come «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» costituisce una resa scritturistica di quanto è appena stato detto. Si vede così come Gesù sia una immagine assolutamente nitida di Dio, che lo rende visibile in modo chiaro; distinto dal Padre, ma sua riproduzione fedelissima. Il Dio che Gesù ci presenta era prima caratterizzato dall’invisibilità: 1Tim 1,17; 6,16; Gv 1,18; 6,46; 1Gv 4,12. Ora c’è una svolta decisiva perché nel Figlio il Padre si rende visibile: Gv 1,18; 14,9. A dire il vero esisteva già nell’ordine del creato un’immagine di Dio, era l’uomo stesso come dice bene Gn 1,26-27, convinzione che riecheggia in 1Cor 11,7; Col 3,10.

     Si tratta di una immagine che non si colloca sul piano dell’identità, né su quella dell’approssimazione. Un’immagine tuttavia insufficiente per una piena conoscenza di Dio e per la scoperta del progetto autentico del creato. Gesù, apparso in forma umana (cf. Fil 2,27), assolve entrambe i compiti: rendere visibile il Padre e comprensibile il progetto creatore.

     Egli è lo strumento della creazione, pensiero che Paolo aveva già manifestato in 1Cor 8,6 e che ritroviamo come convinzione della comunità apostolica anche in Gv 1,3 e Eb 1,2. Soprattutto Gesù è il fine per il quale il mondo viene creato. L’inno svela così che fin dall’inizio vi è un obiettivo positivo dal momento che tutto viene creato in vista di Cristo. Il modello che il Padre ha davanti a sé nella creazione del mondo e dell’uomo è il suo unigenito; e il fatto che il Padre dia al Figlio questa attenzione nella progettazione del creato fa sì che Cristo non sia più solo «l’unigenito», ma diventi anche «il primogenito» come sottolineano i vv. 17-18. Il primo si colloca ancora semplicemente nell’ordine creaturale, il secondo ormai nell’ordine nuovo stabilito da Cristo con la sua risurrezione. Vi è dunque per Cristo un primato antecedente e uno conseguente. Il suo primato antecedente (vv. 15.17) sta nel fatto che viene scelto dal Padre come modello e strumento del creato; il suo primato conseguente invece nel fatto che la sua risurrezione inaugura la sua signoria universale sull’umanità rigenerata dal suo mistero pasquale. Tutto questo, come dice il v. 19 appartiene alla volontà di Dio. Il verbo «piacere» indica infatti le decisioni di Dio in merito al piano salvifico (Mt 11,26; Lc 10,21; 12,32; 1Col 1,21). La volontà del Padre ha poi un contenuto ancora più preciso: stabilire in Cristo ogni pienezza. In 2,9 si dirà che «in Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità». È una spiegazione esaustiva. La pienezza di Cristo è pienezza di vita che si partecipa al creato in quanto vi è in lui pienezza di divinità. Il v. 20 ci riporta sul piano storico per mostrarci come si è consumata l’opera di Gesù.

     Dopo i termini grandi e speculativi ne troviamo ora due concretissimi e cruenti: sangue e croce. Sono le modalità reali in cui la riconciliazione si è consumata rendendo Cristo sintesi vitale e vivificante. Come esisteva un orizzonte universale per la mediazione creatrice, esiste anche un ordine universale ed ultraterreno per l’efficacia redentrice. Il raggio universale dell’opera realizzata da Gesù mediante la croce e chiamata riconciliazione è un tema caro all’innografia cristiana originaria come attesta anche la lettera agli Efesini: 1,10; 2,14.16.

 

Vangelo: Luca 10,25-37

 In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Esegesi 

     Il brano a nostra disposizione si divide chiaramente in due parti. La prima occupa i vv. 25-28 e si concentra sulla necessità di mettere a fuoco le cose più importanti da fare per avere la vita eterna. La seconda parte occupa i vv. 29-39 per spiegare in un modo concretissimo la focalizzazione dell’unità precedente.

     I vv. 25-28 trovano un parallelo in Mt 22,34-40 e Mc 12,28-31. In quei due passaggi si sente però il sapore di una disputa tra scuole teologiche, la necessità di trovare nell’oceano di una precettistica sofisticata almeno l’essenziale. Siamo nell’ambito di un orientamento teorico in cui la parola di Gesù diventa decisiva. È lui infatti a dare la risposta che combina

insieme i due comandamenti presi rispettivamente da Dt 6,5 quello che riguarda l’amore a Dio e (Lv 19,18) quello che riguarda l’amore al prossimo. Il testo di Luca propone differenze evidenti. La preoccupazione del dottore della legge, che come in Mt mantiene uno scopo polemico, insidioso, non è sul piano teorico, ma pratico. Abbiamo qui la medesima domanda che si ritroverà in 18,18, posta in quella occasione dal ricco che ha pure lui la preoccupazione di «ereditare la vita eterna». Questa domanda prende pertanto in Lc un rilievo notevole; la preoccupazione concreta per quanto è necessario fare per avere la salvezza interessa il terzo evangelista in un modo particolare. Sul «fare» insiste la domanda del dottore (v. 25), la prima risposta di Gesù (v. 25) e l’ultima (v. 37). La risposta alla domanda centrale però non viene formulata da Gesù. Egli la gira al dottore della legge ed è lui stesso a combinare insieme Dt 6,5 e Lv 19,18 praticamente in un comandamento unico. Mentre in Matteo e Marco si ha una precedenza chiara del comandamento dell’amore di Dio rispetto a quello del prossimo stabilendo un parallelismo (Mt 22,39) o una subordinazione (Mc 12,31), in Luca è risultata una indicazione sola, praticamente un unico inscindibile comandamento. Abbiamo già detto che non è Gesù a dare la risposta; ma va notato bene a quale fonte egli rimandi il suo interlocutore perché sia lui stesso a formularla: la legge. Gli scritti di Mosè pertanto conservano ancora secondo Gesù il loro valore di indicazione valida della volontà salvifica di Dio.

     L’amore per Dio è totalizzante, nessuna dimensione della persona umana ne è esclusa. Rispetto alla versione originale di Dt 5,6 Luca aggiunge qui anche la mente per sottolineare ancora di più l’impegno dell’uomo nell’amore di Dio. Per l’amore al prossimo si propone invece come termine di paragone l’amore a se stessi. Non si tratta di pensare all’egoismo che ognuno porta in sé o all’istinto di conservazione innato in ciascuno; si tratterebbe di un confronto negativo. Anche se le seguenti osservazioni probabilmente non sono nell’intenzione dell’autore del libro del Levitico, credo però che siano opportune. Il soggetto dell’amore vero è colui che ha con se stesso un rapporto sereno, armonioso. La conoscenza e l’accettazione di sé stanno alla base di un rapporto con gli altri veramente amorevole. Amare gli altri come se stessi non significa dunque condividere con gli altri il proprio egoismo, ma partecipare loro la propria serenità e la propria gioia di vivere.

     Un problema ora è decisivo: questo prossimo chi è? La domanda è ineludibile per quanto segue. Nella mentalità comune al tempo di Gesù il prossimo era il membro dello stesso popolo, per gli esseni addirittura solo gli appartenenti alla loro setta. La visione del prossimo era dunque assai limitata. La parabola farà saltare un simile modo di intenderla.

     I vv. 30-37 raccontano la notissima parabola che Gesù offre come risposta concreta al quesito iniziale: che fare per salvarsi? Si tratta di un caso umano presentato con grande realismo ed efficacia. La strada da Gerusalemme a Gerico, effettivamente conosciuta da Gesù (cf. Lc 18,35,19,1.28) è davvero un luogo adatto a simili fatti di cronaca. Una rapina lungo la strada lascia la vittima al bordo della medesima; a distanza non si può fare una diagnosi precisa delle sue condizioni. Per questo motivo il sacerdote, ministro qualificato del culto, e un levita, ministro di grado inferiore addetto all’ordine del tempio, non osano neanche avvicinarsi. Nell’eventualità che il malcapitato fosse morto essi sarebbero tagliati fuori dalle loro funzioni in base alle leggi di purità cultuale (Lv 21; Nm 19,11). Il soccorso a quella persona è dunque per loro un rischio che non si può correre, pena l’esclusione dalle loro mansioni professionali. Su questa linea si potrebbe notare nell’insegnamento di Gesù una nota polemica nei confronti del culto e il desiderio di superarne la formalità come già insegnavano i profeti: Os 6,6.

     Al v. 33 arriva la vera sorpresa. Il soggetto scelto per il soccorso, per la buona azione è un personaggio che l’ascoltatore di Gesù non avrebbe nominato se non per biasimarlo, rinfacciargli la sua razza bastarda (cf. 1Re 17,24-41), il suo essere eretico e scismatico (Gv 4,20). Gesù invece l’ha scelto come soggetto di un verbo delicatissimo: «ne ebbe compassione». Di questo verbo è soggetto Gesù stesso in 7,13; 15,20. Nessun ribrezzo per Gesù dunque ad identificarsi con un samaritano. Già questo è il primo atteggiamento da notare. La parabola insegnerà l’abolizione di qualsiasi barriera nei rapporti interpersonali, ma insegnando questo Gesù non farà altro che rivelare il suo cuore ed il suo stile (cf. 6,36; 15,1-3).

     I vv. 34-35 vanno letti non come cronaca, ma come completamento dei sentimenti notati prima nel samaritano. Egli non è solo capace di compassione, è capace di renderla autentica con gesti concreti, a proprie spese. Senza questa complementarietà operativa non si potrebbe parlare di misericordia. 

     Al v. 36 tocca allo stesso dottore della legge tirare la conclusione; ciò fa parte del metodo parabolico di Gesù (cf. Mt 21,28-31) e in un certo senso si riallaccia alla prima parte del brano dove era toccato ancora a lui dare la risposta al suo interrogativo.

     Il v. 37 è l’apice del brano e la risposta definitiva che trova il suo fulcro in quel «fa’». Così si capisce che per entrare nella vita eterna non c’è che una cosa da fare: vivere un amore autentico e fattivo per tutti, per qualsiasi persona, in una parola riprodurre nella propria vita l’amore senza esclusioni di Gesù.

 

Meditazione 

     «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono lasciandolo mezzo morto… Un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,30.33). Su di una strada due uomini si incontrano occasionalmente: uno è ferito, «mezzo morto», l’altro è uno straniero che sa vedere la sofferenza del fratello e farsi prossimo. Su di una strada, casualmente, a due uomini viene data la possibilità di obbedire al grande comandamento che è al cuore della Legge: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27; cfr. Dt 6,5 e Lv 19,18). Obbedire alla parola del Signore «osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge» (Dt 30,10) è dare carne, nella vita e nelle relazioni, a questa parola perché essa «è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14): questo è il messaggio che ci viene consegnato dalla liturgia della Parola di questa domenica.

     La forte dimensione di operatività, di vita, di concretezza, di obbedienza alla parola è tradotta attraverso il racconto parabolico con cui Gesù risponde ad alcuni interrogativi posti da uno scriba. È un racconto che termina proprio con questa affermazione: «Va’ e anche tu fa ‘così» (v. 37).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù, riportato in Lc 10,25-29, prende avvio da una domanda posta dallo scriba: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Ereditare la vita è ciò che sta a cuore a quello scriba. Ma quale vita cercare e come orientare ad essa tutto il cammino? La risposta di Gesù allo scriba è un’altra domanda che orienta alla Parola per eccellenza, la Torà: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (v. 26). E lo scriba stesso può trovare una risposta al suo desiderio di vita: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Nell’ascolto della Parola, di quella Parola che è spirito e vita, lo scriba stesso ha trovato una risposta al suo desiderio di vita. Gesù ha fatto emergere dal cuore di quell’uomo il bisogno più profondo e il desiderio più autentico che è nascosto in ogni uomo: quello di una vita che è dono, quello di una vita che apre alla eternità. Con la pedagogia sapiente del padre nello spirito, Gesù non ha risposto allo scriba offrendogli qualcosa di esterno a lui; l’ha semplicemente invitato a mettersi in ascolto della Parola e a scoprire che proprio la Parola traduceva quel desiderio di vita che era in lui. E veramente è questa la Parola che sta alla radice del nostro agire e del nostro essere, la Parola che sa unificare tutta la complessità della nostra esistenza (cuore, anima forze, mente), che sa orientare tutte le nostre potenzialità verso l’infinito (Dio stesso) e sa renderle vere attraverso la mediazione della nostra carne (il fratello). «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (v. 28), è la semplice constatazione di Gesù. La vita passa attraverso un fare questa precisa Parola e questa Parola è veramente tutto. È il ‘grande comandamento’: grande perché al di sopra di esso non c’è nulla; grande perché ci supera; grande perché è il nome stesso di Dio (cfr. Dt 6, 4-9).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù avrebbe potuto terminare con questo rimando alla vita: «fa’ questo e vivrai». Ma lo scriba «volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico… Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo…”» (vv. 29.36). Lo scriba pone quella domanda a Gesù per giustificarsi: fa fatica a riconoscere che non sa amare e preferisce spostare il problema al di fuori di sé. Gesù gli pone sotto gli occhi un uomo che sa amare, obbligandolo a ricollocare nuovamente la domanda dentro di sé: non è questione di chi si deve amare, ma di come si deve amare. Il samaritano è un modello di amore e da lui quello scriba deve imparare. E sotto le spoglie del samaritano c’è Gesù stesso, il ‘buon samaritano’ per eccellenza. È da lui che quello scriba deve imparare ad amare.

     La parabola narrata da Gesù allo scriba non ha bisogno di una spiegazione; attorno ad essa non dobbiamo costruire teorie o riflessioni teologiche sofisticate (cadremmo nel tranello che la domanda dello scriba tentava di porre a Gesù). È un racconto esemplare in quanto propone un comportamento da imitare; «non va trasposta da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già essa stessa su quello religioso» (B. Maggioni). Di fronte a questa parabola, che ci presenta una situazione concreta e tutt’altro che ideale, dobbiamo semplicemente seguire l’esempio del samaritano, quell’esempio che Gesù pone di fronte allo scriba dicendo: «Va e anche tu fa’ così» (v. 37). L’atteggiamento corretto di fronte a questa parabola è proprio questo: dopo averla ascoltata, non c’è altro da fare che riprendere il cammino e fare ogni giorno, a partire dalle situazioni concrete che la vita ci fa incontrare, quello che ha fatto il samaritano: «passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino… lo caricò sopra la sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (v. 34). Ciò che il samaritano ci insegna a fare è nient’altro che amare, vivere quella compassione che ci apre senza riserve e senza difese all’altro e che fa entrare l’altro nel profondo del nostro cuore, come un dono prezioso da custodire e di cui prendersi cura. Questo è il segreto della parabola che Gesù ci racconta. Ogni domanda in più è nient’altro che un tentativo di frenarci o di rimandare quello che la parola di Dio ci chiede di fare, non è nient’altro che un tentativo di giustificarci e nasconderci dietro a riserve e paure: «ma quello volendo giustificarsi disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”» (v. 29). Il vero problema non è quello di possedere una descrizione precisa che ci permetta di identificare il nostro prossimo e poi agire con sicurezza nei suoi riguardi. In un certo senso il volto del prossimo deve avere sempre i tratti indefiniti e imprevisti della gratuità; il prossimo è sempre l’altro che ‘per caso’ incontro sul

mio cammino, sul ciglio della strada, l’altro che non conosco che mi appare lontano e che, così diverso da me, forse non mi da immediatamente sicurezza. Il prossimo è ogni uomo che chiede proprio a me un gesto e una parola di vita. Il vero problema è che io devo farmi prossimo proprio di quest’uomo, concreto, non di un altro e devo farmi prossimo passandogli accanto, vedendolo, fasciandogli le ferite, prendendomi cura di lui: il vero problema è avere il coraggio di diventare prossimo di ogni fratello percorrendo la via rischiosa della compassione. La vera domanda che la parabola ci suggerisce di farci ogni volta che incontriamo un uomo, così come lo ha incontrato il samaritano, non è: chi è l’altro per me, ma: chi sono io per l’altro; «chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo…?» (v. 36).

            Notiamo infine che il racconto di Gesù non parla di Dio, ma dell’uomo. Quel samaritano, nel momento in cui sceglie di compromettersi con l’uomo sofferente, non decide di far questo perché, agendo così, osserverà la legge di Dio, quella parola che lo scriba aveva ricordato a Gesù. Anzi il samaritano è uno che non conosce la legge, a differenza del sacerdote e del levita (cfr. vv. 31-32). Il samaritano agisce così semplicemente perché di fronte all’uomo sofferente, che chiede aiuto, non gli passa per la mente nessun altro atteggiamento se non quello della compassione. Ma proprio qui sta lo stupendo paradosso di que-sto atteggiamento: senza saperlo, nella più totale gratuità, il samaritano ama come ama Dio. Anzi, senza saperlo, quel samaritano ama Dio. Quel samaritano è la rivelazione della compassione di Dio verso la nostra umanità ferita e abbandonata; quel samaritano è Gesù che si china su ciascuno di noi, che fascia le nostre ferite, che si carica delle nostre sofferenze, che ci affida alla comunità, alla Chiesa per essere curati e guariti. Ed è stupendo vedere come tutto questo non ci viene detto attraverso un linguaggio religioso che forse anche il sacerdote e il levita avrebbero saputo narrare e spiegare con molta precisione (lo scriba non aveva forse dato la risposta giusta a Gesù?), ma attraverso il linguaggio della vita, dell’umanità, conosciuto solo da chi sa amare con gratuità l’altro semplicemente perché è uomo. Solo Gesù, colui che è vero Dio e vero uomo, può raccontare Dio in questo modo ed indicarci un nostro fratello in umanità come esempio da seguire. «Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa ‘così”» (v. 37).

 

Preghiere e racconti

La parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-3 7)

Al centro della storia del buon samaritano vi è la domanda fondamentale dell’uomo. t un dottore della Legge, quindi un maestro dell’esegesi, che la pone al Signore: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25). Luca aggiunge che il dottore avrebbe fatto quella domanda a Gesù per metterlo alla prova. Egli personalmente, in quanto dottore della Legge, conosce la risposta che a essa dà la Bibbia, ma vuole vedere che cosa dice al riguardo quel profeta digiuno di studi biblici. Il Signore lo rimanda molto semplicemente alla Scrittura che questi, appunto, conosce e lascia che sia lui stesso a dare la risposta. Il dottore della Legge risponde con esattezza mettendo insieme Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Riguardo a questa domanda Gesù non insegna cose diverse dalla Torah, il cui intero significato è unito in questo duplice comandamento. Ora, però, quest’uomo dotto, che da sé conosce benissimo la risposta alla sua domanda, deve giustificarsi: la parola della Scrittura è indiscussa, ma come essa debba essere applicata nella pratica della vita solleva questioni che sono molto dibattute nella scuola (e anche nella vita stessa).

La domanda, nel concreto, è: chi è «il prossimo»? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che «prossimo» significava «connazionale». Il popolo costituiva una comunità solidale, in cui ognuno aveva delle responsabilità verso l’altro, in cui ogni individuo era sostenuto dall’insieme e quindi doveva considerare l’altro, «come se stesso», parte di quell’insieme che gli assegnava il suo spazio vitale. Gli stranieri allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano «prossimi»? Ciò, però, andava contro la Scrittura, che esortava ad amare proprio anche gli stranieri ricordando che in Egitto Israele stesso aveva vissuto un’esistenza da forestiero. Tuttavia, dove porre i confini restava argomento di discussione. In generale si considerava appartenente alla comunità solidale e quindi «prossimo» solo lo straniero che si era stanziato nella terra d’Israele. Erano diffuse anche altre limitazioni del concetto di «prossimo». Una dichiarazione rabbinica insegnava che non bisognava considerare «prossimo» eretici, delatori e apostati (Jeremias, p. 170). Inoltre era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane (Jeremias, p. 17 1), non erano «prossimi».

Alla domanda, resa in questo modo concreta, Gesù risponde con la parabola dell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che lo abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto. E’una storia assolutamente realistica, perché su quella strada assalti simili accadevano regolarmente. Passano sulla medesima strada un sacerdote e un levita – conoscitori della Legge, esperti circa la grande domanda della salvezza di cui erano al servizio per professione – e vanno oltre. Non dovevano essere necessariamente uomini particolarmente freddi; forse hanno avuto paura anche loro e hanno cercato di arrivare più presto possibile in città; forse erano maldestri e non sapevano da che parte cominciare per prestare aiuto tanto più che, comunque, sembrava che non ci fosse più molto da aiutare. Poi sopraggiunge un samaritano, probabilmente un mercante che deve percorrere spesso quel tratto di strada ed evidentemente conosce il padrone della locanda più vicina; un samaritano – quindi uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele e non è tenuto a vedere nella persona assalita dai briganti il suo «prossimo».

Bisogna qui ricordare che, nel capitolo precedente, l’evangelista ha raccontato che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, aveva mandato avanti dei messaggeri che erano giunti in un villaggio di samaritani e volevano preparare per Lui un alloggio: «Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (9,52s). Infuriati, i figli del tuono – Giacomo e Giovanni – dissero allora a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Il Signore li rimproverò. Si trovò poi alloggio in un altro villaggio.

Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos’altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell’anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l’originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Pertanto qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. lo devo diventare il prossimo, così l’altro conta per me come «me stesso».

Se la domanda fosse stata: «E’ anche il samaritano mio prossimo?», allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un «no» piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dal mio intimo, devo imparare l’essere-prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi.

Helmut Kuhn, nella sua interpretazione della parabola, va certamente oltre il senso letterale del testo e tuttavia individua correttamente la radicalità del suo messaggio quando scrive: «L’amore politico dell’amico si fonda sull’uguaglianza dei partner. La parabola simbolica del samaritano, invece, sottolinea la radicale disuguaglianza: a samaritano, che non appartiene al popolo d’Israele, sta di fronte all’altro, a un individuo anonimo, egli che aiuta di fronte alla vittima inerme dell’attacco dei briganti. L’agape, così ci fa intendere la parabola, attraversa ogni tipo di ordinamento politico in cui domina il principio del do ut des, superandolo e caratterizzandosi in questo modo come soprannaturale. Per principio essa si colloca non solo al di là di questi ordinamenti, ma si comprende anzi come il loro capovolgimento: i primi saranno ultimi (cfr. Mt 19,30). E i miti erediteranno la terra (cfr. Mt 5,5)» (p. 88s). Una cosa è evidente: si manifesta una nuova universalità, che poggia sul fatto che io intimamente già divengo fratello di tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto.

L’attualità della parabola è ovvia. Se la applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, vediamo come le popolazioni dell’Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguardano da vicino. Allora vediamo quanto esse siano «prossime» a noi; vediamo che anche il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli. In questo è compreso soprattutto il fatto che le abbiamo ferite spiritualmente. Invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Cristo, e accogliere così dalle loro tradizioni tutto ciò che è prezioso e grande e portarlo a compimento, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui contano solo il potere e il profitto; abbiamo distrutto i criteri morali così che la corruzione e una volontà di potere priva di scrupoli diventano qualcosa di ovvio. E questo non vale solo per l’Africa.

Sì, dobbiamo dare aiuti materiali e dobbiamo esaminare il nostro genere di vita. Ma diamo sempre troppo poco se diamo solo materia. E non troviamo anche intorno a noi l’uomo spogliato e martoriato? Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote pur nell’abbondanza di beni materiali. Tutto ciò riguarda noi e ci chiama ad avere l’occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell’amore verso il prossimo. Perché – come detto – il sacerdote e il levita passarono oltre forse più per paura che per indifferenza. Dobbiamo, a partire dal nostro intimo, imparare di nuovo il rischio della bontà; ne siamo capaci solo se diventiamo noi stessi interiormente «buoni», se siamo interiormente «prossimi» e se abbiamo poi anche lo sguardo capace di individuare quale tipo di servizio, nel nostro ambiente e nel raggio più esteso della nostra vita, è richiesto, ci è possibile e quindi ci è anche dato per incarico. 

I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un’interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un’interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l’uomo che li giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un’immagine di «Adamo», dell’uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l’uomo, questa creatura che è l’uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell’umanità è quasi sempre vissuta nell’oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori – sono essi forse le vere immagini dell’uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell’uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l’«alienazione» dell’uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione, perché ragionava solo nell’ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell’uomo che è caduto vittima dei briganti.

La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell’uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell’imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall’altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell’alienazione dell’uomo. Dicevano che è spoliatus supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull’umanità.

La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l’immagine della storia universale; l’uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell’umanità. Il sacerdote e il levita passano oltre – da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell’imboscata è per antonomasia l’immagine dell’umanità, allora il samaritano può solo essere l’immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite – un gesto in cui si è vista un’immagine del dono salvifico dei sacramenti – e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l’anticipo per il costo dell’assistenza.

I singoli tratti dell’allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte. Ma la grande visione dell’uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell’amore, che è l’autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell’amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.

Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall’amore (che è appunto l’essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano – seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).

(Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, capitolo 7: il messaggio delle parabole, 219-256).

Cos’è la sconfitta?

“Nel ciclo della natura, non esistono né vittoria né sconfitta: esiste solo il moto del cambiamento.

“L’inverno lotta per imporre il suo regno ma, alla fine, è costretto ad accettare la vittoria della primavera, che porta fiori e allegrezza.

“L’estate cerca di estendere il dominio dei suoi giorni caldi, giacché è convinta che il calore sia un elemento benefico per le genti. Ma finisce per piegarsi all’arrivo dell’autunno, che regala un meritato riposo alla terra.

“La gazzella si nutre di arbusti ma, contemporaneamente, è il cibo del leone. Non si tratta di una questione di forza o di scaltrezza, bensì del modo in cui Dio ha scelto di mostrarci il ciclo della morte e della resurrezione.

“In questo ciclo non ci sono vincitori né vinti, ma soltanto fasi che devono compiersi. Allorché il cuore dell’essere umano comprende un simile meccanismo, può dirsi libero: accetta senza afflizione i periodi difficili, e non si lascia trarre in inganno dai momenti di gloria.

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 25-26)

Preghiera

Signore, quando ho fame,

dammi qualcuno che ha bisogno di cibo;

quando ho sete,

mandami qualcuno

che ha bisogno di una bevanda;

quando ho freddo,

mandami qualcuno da scaldare;

quando ho un dispiacere,

offrimi qualcuno da consolare;

quando la mia croce diventa pensate,

fammi condividere la croce di un altro;

quando sono nell’indigenza,

guidami da qualcuno nel bisogno;

quando non ho tempo,

dammi qualcuno

che io possa aiutare per qualche momento;

quando sono umiliato,

fa’ che io abbia qualcuno da lodare;

quando sono scoraggiato,

mandami qualcuno da incoraggiare;

quando ho bisogno

della comprensione degli altri,

dammi qualcuno che ha bisogno della mia;

quando ho bisogno

che un altro si occupi di me,

mandami qualcuno di cui occuparmi;

quando penso solo a me stesso,

attira la mia attenzione su un’altra persona.

E così avrò la vita eterna, la vita della carità.

(beata Teresa di Calcutta).

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

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M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione, Città del Vaticano, Liberia Editrice Vaticana, 2011.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

PER L’APPROFONDIMENTO:

XV DOM TEMP ORD (C)

Credere, bene per tutti la fede è luce al servizio del mondo

Chi crede, vede. E non è mai solo. Perché la fede è un bene comune che aiuta a distinguere il bene dal male, a edificare le nostre società, e dona speranza. Non ci separa dalla realtà, la fede: al contrario, ci aiuta a coglierne il significato più profondo, e scoprire così l’intensità dell’amore di Dio per questo mondo. A consegnarci questo messaggio è la Lumen fidei, «La luce della fede», prima enciclica di papa Francesco, vero e proprio ponte tra questo pontificato appena iniziato e quello di Benedetto XVI, che aveva consegnato al suo successore la prima stesura di questo testo, che Francesco ha ripreso e completato, decidendo di pubblicarlo non alla fine, ma nel cuore dell’Anno della fede. Un testo, come ha sottolineato il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, monsignor Gerhard Müller, presentando ieri mattina l’enciclica nella Sala stampa della Santa Sede, in cui quel che immediatamente risalta, pur nelle «evidenti differenze di stile, di sensibilità e di accenti», è «la sostanziale continuità del messaggio di papa Francesco con il magistero di Benedetto XVI», a offrirci «uno sguardo comunque positivo sul mondo e sull’agire dell’uomo».

Nella Lumen fidei insomma, c’è «molto di Benedetto XVI ma c’è tutto di papa Francesco, che ha assunto il testo nel suo ruolo di primo testimone della fede», ha osservato a sua volta il prefetto della Congregazione per i vescovi, il cardinale Marc Ouellet. Per questo, ha spiegato, il testo è dunque «da considerarsi tutto di papa Francesco». Del resto, ha chiosato ancora Müller, «non abbiamo due papi ma uno solo. Da Benedetto c’è stata solo una preparazione». E, a ribadire tale concetto, il prefetto del Dicastero dottrinale della Santa Sede ha sottolineato come «nelle meditazioni che offre quotidianamente attraverso la sua predicazione, Francesco spesso ci richiama che “tutto è grazia”. Tale affermazione che, di fronte alla complessità e alle contraddizioni della vita, può sembrare a qualcuno ingenua o astratta, è invece un invito a riconoscere la positività ultima della realtà». Con tutto questo, ha concluso Müller, «l’enciclica vuole riaffermare in modo nuovo che la fede in Gesù Cristo “è un bene per l’uomo ed è un bene per tutti, è un bene comune: la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta ad edificare le nostre società, in modo che camminiamo verso un futuro di speranza”».

La luce, ha quindi messo in evidenza monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione, «è una categoria determinante per la fede e per la vita della Chiesa. Essa ritorna con particolare efficacia in un momento come questo, spesso di forte travaglio, dovuto a una crisi di fede che per i problemi che comporta ha pochi precedenti nella nostra storia». In questo senso, ha aggiunto il presule, la Lumen fidei, «è un’enciclica con una forte connotazione pastorale. Queste pagine saranno molto utili nell’impegno che toccherà le nostre comunità per dare continuità al grande lavoro intrapreso con l’Anno della fede». Papa Francesco, ha proseguito, «con la sua sensibilità di pastore, riesce a tradurre molte questioni di carattere prettamente teologico in tematiche che possono aiutare la riflessione e la catechesi». Per questo «è importante cogliere l’invito che giunge a conclusione dell’enciclica: “Non facciamoci rubare la speranza”». Un invito che il Papa «ha ripetuto più volte in questi mesi, soprattutto rivolgendosi ai giovani e ai ragazzi», e che oggi «scrivendolo nella sua prima enciclica vuole indicare che nessuno dovrebbe avere paura di guardare ai grandi ideali e di perseguirli. La fede e l’amore sono i primi a dover essere proposti», e «in un periodo di debolezza culturale come il nostro un simile invito è una provocazione e una sfida che non possono trovarci indifferenti».

«È utile sapere – ha concluso Fisichella – che in prospettiva dell’Anno della fede si era chiesto ripetutamente a Benedetto XVI di scrivere un’enciclica che venisse in qualche modo a concludere la triade che egli aveva iniziato conDeus caritas est sull’amore, e <+corsivo>Spe salvi<+tondo> sulla speranza. Il Papa non era convinto di dover sottoporsi a questa ulteriore fatica. L’insistenza, tuttavia, ebbe la meglio e papa Benedetto decise che l’avrebbe scritta per offrirla a conclusione dell’Anno della fede. La storia ha voluto diversamente. Questa enciclica ci viene offerta oggi da papa Francesco con forte convinzione e come “programma” su come continuare a vivere questa esperienza che ha visto tutta la Chiesa impegnata per un anno intero in tante esperienze fortemente significative».

 
Salvatore Mazza