“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”

Si è svolto a Reggio Calabria, presso l’Auditorium “Calipari” nel Palazzo del Consiglio Regionale della Calabria, il XLIII Convegno Nazionale dei direttori degli uffici catechistici diocesani, organizzato dall’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI.
“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo” è stato il tema dei lavori, ispirato a 2 Cor 3,2 (“La nostra lettera siete voi…”).  Si è aperto lunedì 15 giugno con il saluto e l’introduzione di don Guido Benzi, Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale.
Tra le relazioni quelle di S.E.
Mons.
Lucio Soravito de Franceschi, Vescovo di Adria-Rovigo e Segretario della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi; di S.E.
Mons.
Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi.
Mercoledì 17 giugno S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, è intervenuto sul tema “Comunità cristiane e accompagnamento delle persone in ricerca: ascolto, dialogo e questione educativa.” Il programma completo dei lavori del convegno e maggiori informazioni sulle modalità di partecipazione sono disponibili in rete, nel sito dell’Ufficio Catechistico Nazionale (http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/%22http://www.chiesacattolica.it/ucn%22)   Documenti allegati:InterventoMons.
Crociata.doc

Testrimoni del nostro tempo: Padre Pio

Ricordo di padre Pio Il frate e il sindaco socialista di Giuseppe Tamburrano Presidente della Fondazione Nenni La visita che il Papa farà alla tomba di padre Pio mi emoziona come figlio di San Giovanni Rotondo.
Una visita molto significativa perché non tutti nella Chiesa hanno amato il frate con le stimmate.
Ed evoca in me il ricordo di un villaggio contadino, di un piccolo convento francescano aggrappato alla roccia della montagna, di quel cappuccino con le mani piagate nei guanti e un volto sorridente, circondato dalla devozione quasi clandestina di pochi.
Non riesco a dissociare quelle mani e quel volto dai ricordi della mia prima giovinezza, ragazzo vivace, irriverente, propenso più a combattere per il paradiso sulla terra che ad aspirare a quello dei cieli.
Ribelle, ma padre Pio col suo sorriso dolce e ironico mi placava.
Mi voleva bene: chissà perché.
Forse perché sentiva in me il laico cristiano.
È stampato vividissimo nella mia memoria il suo viso trasfigurato, sofferente e rigato di lacrime mentre mi porge l’ostia della prima comunione.
Dopo le quotidiane sassaiole contro la squadra dei figli dei “signori” io, caporione della squadra dei figli dei “cafoni”, andavo al convento a preparare le recite che la maestra Cleonice organizzava in onore di padre Pio – ricordo sant’Agnese, interpretata da una bionda, eterea fanciulla che fu il mio primo amore: io ero nelle vesti del centurione Vinicio, convertito da Agnese – o a esercitarmi per le mie esibizioni canore: ricordo l’Ideale del Tosti che ho cantato accompagnato all’organo dal sacerdote Di Gioia.
E ricordo soprattutto l’atmosfera triste della mia casa, il volto afflitto di mio padre nel cavo della sua mano e i profondi, dolorosi sospiri di mia madre.
Mio padre, figlio di contadini, riuscì a laurearsi in giurisprudenza grazie ai sacrifici dei genitori.
Ma la passione politica lo infiammò più dell’agone forense.
Fu il leader del Partito socialista e fu eletto sindaco nelle elezioni dell’ottobre 1920.
Di quel tragico ottobre che, il giorno 14, registrò quattordici cadaveri e molti feriti tra i proletari – tante donne! – che volevano issare la bandiera rossa sul municipio e furono ricevuti a colpi di arma da fuoco dalla forza pubblica e dagli agrari.
Il destino di mio padre fu segnato: l’emarginazione sociale e civile e la miseria dell’esiliato in patria.
Mia madre apparteneva a una buona famiglia borghese e quanto era mite mio padre tanto ella era orgogliosa.
E la vedo curva sulla macchina da cucire Singer o con l’ago da ricamo lavorare per le sue “amiche” dell’establishment fascista.
E ricordo la zia Annina che viveva sola in una modesta abitazione ma godeva di buone rendite che divideva con la nipote prediletta: “Giusè, va’ a trovare zia Annina”, si raccomandava mia madre.
E mio padre, senza clienti e senza amici (tutti diventati fascisti) non diceva nulla: subiva, viveva triste, assente.
Dopo ho capito perché non voleva vedermi vestito da balilla moschettiere andare alle adunanze del sabato fascista.
“Tu lo vedi ora spento.
Avresti dovuto vederlo qualche anno fa: sembrava un leone con l’abbondante chioma al vento e la voce calda nei comizi proletari” mi diceva mia madre.
Ebbene quest’uomo mite, onesto, umiliato, escluso dal consorzio civile del paese trovò in padre Pio un vero amico, un cuore fraterno, una mente intelligente che sapeva come nessuno farlo sorridere e dargli la forza della speranza.
E non gli chiese mai: perché non entri in chiesa? Prima di morire, mio padre, cristiano autentico per tutta la vita, riconobbe il Dio cattolico.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009  Due sono le principali fonti autobiografiche  di  padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo Epistolario (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro Padre Pio sotto inchiesta.
L’autobiografia segreta (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel Diario di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, Padre Pio da Pietrelcina.
“Il cireneo di tutti” (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, Padre Pio da Pietrelcina, croficisso senza croce (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, Padre Pio.
Le stigmatisé (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo Un tormentato settennio (1918-1925) nella vita di padre Pio da Pietrelcina di Giuseppe Saldutto (Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); Alla scuola spirituale di padre Pio da Pietrelcina di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); Il Calvario di padre Pio, i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); I casi di morale di padre Pio di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), Don Luigi Orione e padre Pio da Pietrelcina.
Nel decennio della tormenta.
1923-1933.
Fatti e documenti, di Flavio Peloso (Milano, 1999); Il beato Pio da Pietrelcina di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); Il divenire inquieto di un desiderio di santità.
Padre Pio da Pietrelcina:  saggio psicologico di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); L’itinerario di fede di padre Pio da Pietrelcina nell’Epistolario di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); Nella comunione dei santi.
Santa Gemma Galgani a san Pio da Pietrelcina di Luca Lucchini (Città del Vaticano, 2005) e L’epistolario di padre Pio.
Una lettura mistagogica di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, Oltre la sapienza di parola.
Paolo di Tarso e Pio da Pietrelcina:  linee didattiche cristiane tra antichità e novità (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, Träger der Wundmale Christi (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri Le stigmate di padre Pio da Pietrelcina:  testimonianze, relazioni (San Giovanni Rotondo, 1985); La trasverberazione di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1985); Atti del convegno di studio sulle stigmate del servo di Dio padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, Il Papa e il frate (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, La terza lettera di monsignor Wojtyla a padre Pio, pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, Molti hanno scritto di lui.
Bibliografia di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1986).
(francesco castelli)
Due sono le principali fonti autobiografiche  di  padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo di Giuseppe Saldutto(Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); , i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), , di Flavio Peloso (Milano, 1999); di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); di Luca Lucchini(Città del Vaticano, 2005) e di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, , pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1986).
() (©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Le date 1887.
Il 25 maggio a Pietrelcina (Benevento) nasce Francesco Forgione.
1891.
Iniziano le vessazioni diaboliche.
1892.
All’età di cinque anni percepisce il desiderio di consacrarsi a Dio e l’anno successivo gli appare il Sacro Cuore di Gesù.
1899.
Riceve il sacramento della cresima e si accosta per la prima volta all’Eucaristia.
1903.
Entra tra i cappuccini, nel noviziato di Morcone (Benevento).
Prende il nome di fra Pio da Pietrelcina.
1907.
Emette la professione dei voti solenni.
A circa 20 anni comincia il dono dei “rapimenti”.
1910.
Il 10 agosto viene ordinato sacerdote nel duomo di Benevento dall’arcivescovo Paolo Schinosi.
Inizia il fenomeno delle stimmate.
1912.
Il fenomeno della stimmatizzazione invisibile si ripete dal giovedì sera fino al sabato.
1915.
Su richiesta di padre Agostino da San Marco in Lamis, confessa di aver subito quasi ogni settimana, da più anni, la “coronazione di spine” e la “flagellazione”.
1918.
Il 30 maggio si offre vittima per i peccatori perché la guerra finisca.
Tra il 5 e il 7 agosto vive il fenomeno della transverberazione.
Il 20 settembre Gesù Crocifisso gli appare sofferente e gli dice: “Ti associo alla mia Passione”, poi lo stimmatizza.
1919.
Primi esami medici delle stimmate.
1920.
Il 18 aprile Agostino Gemelli visita padre Pio per pochi minuti.
Dopo un brevissimo colloquio, Gemelli invia al Sant’Uffizio una valutazione non positiva sull’origine del fenomeno delle stimmate pur elogiando la vita religiosa del frate.
1921.
Dal 14 al 21 giugno si svolge la prima visita apostolica del Sant’Uffizio da parte del vescovo di Volterra, Raffaello Carlo Rossi.
Nella relazione presenta un profilo estremamente positivo del cappuccino e della sua fedeltà al Signore.
1922.
I cardinali del Sant’Uffizio scrivono al ministro generale dei cappuccini dichiarando di rimanere in osservazione su padre Pio; di evitare ogni “singolarità e rumore”; che “per nessun motivo egli mostri le così dette stimmate”; che interrompa con padre Benedetto da San Marco in Lamis “ogni comunicazione anche epistolare”; che i superiori dell’ordine si preparino a trasferire padre Pio quando il clima popolare lo consentirà.
In questo periodo giungono al Sant’Uffizio nuove accuse dal clero locale poi rivelatesi infondate.
1923.
Il Sant’Uffizio afferma che non consta la soprannaturalità dei fatti attribuiti a padre Pio ed esorta i fedeli a conformarsi a queste dichiarazioni.
Gli viene proibito di celebrare la messa in pubblico.
Sommossa popolare di tremila persone davanti al convento.
Al frate viene concessa la facoltà di celebrare in chiesa.
1923-1926.
Al Sant’Uffizio giungono costantemente numerose accuse del clero locale provocando timori e sospetti.
1931.
Il 23 maggio il Sant’Uffizio comunica la proibizione per padre Pio di celebrare in pubblico e il ritiro della facoltà di confessare.
1933.
Il 16 luglio viene autorizzato a celebrare di nuovo in pubblico e gradualmente gli viene restituita la facoltà di confessare.
1947.
Inizia la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza.
1948.
In aprile don Karol Wojtyla incontra padre Pio e si confessa da lui.
1956.
Il 2 luglio inizia la costruzione della chiesa di San Giovanni Rotondo.
1959.
Mentre la statua della Madonna di Fátima fa tappa a San Giovanni Rotondo, padre Pio guarisce da una pleurite.
1960.
Dal 30 luglio al 17 settembre si svolge la visita apostolica di monsignor Carlo Maccari.
1961.
Nuove disposizioni del Sant’Uffizio, anche sulla durata della messa di padre Pio.
1962.
Monsignor Wojtyla, vescovo ausiliare di Cracovia, scrive a padre Pio chiedendo e ottenendo la guarigione del medico Wanda Póltawska.
1963.
Nuovi contatti epistolari tra Wojtyla e padre Pio.
Il vescovo chiede preghiere per se stesso e per la sua delicata situazione pastorale.
1964.
Il cardinale Ottaviani, a capo del Sant’Uffizio, comunica la volontà di Paolo VI che “Padre Pio svolga il suo ministero in piena libertà”.
1968.
La salute di padre Pio declina.
Le stimmate iniziano a chiudersi senza lasciare alcun segno.
1968.
Il 23 settembre padre Pio muore.
1983.
Il 20 marzo si apre il processo cognizionale sulla vita e le virtù del servo di Dio Pio da Pietrelcina.
1997.
Il 20 marzo Padre Pio è dichiarato venerabile.
1999.
2 giugno viene proclamato beato.
2002.
Il 16 giugno Giovanni Paolo II proclama padre Pio santo e ne istituisce la memoria liturgica obbligatoria.
(francesco castelli) La salvezza dei «fratelli» al centro della spiritualità sacerdotale di padre Pio Tra il dolore e la bellezza di Cristo di Francesco Castelli Il 2008 è stato un anno di eccezionale importanza per la conoscenza di padre Pio da Pietrelcina.
La pubblicazione di due documenti ha svelato aspetti umani e mistici del cappuccino inediti e di profondo significato.
Nel febbraio 2008 è avvenuta la scoperta di una nuova lettera, la terza, del vescovo vicario capitolare a Cracovia Karol Wojtyla al cappuccino, nella quale il futuro Pontefice chiedeva a padre Pio di pregare questa volta anche per lui e per la propria difficile situazione pastorale.
Poi, è seguita la pubblicazione degli atti della prima visita apostolica del Sant’Uffizio, compiuta nel giugno 1921, per otto giorni, lunghi e intensi, dal vescovo di Volterra Raffaello Carlo Rossi, futuro cardinale.
Un confronto netto e serrato, ma anche equilibrato, durante il quale padre Pio fu chiamato a rispondere su tutti gli aspetti della sua vita, da quelli più semplici della quotidianità fino alle pieghe più intime della sua vita interiore e mistica.
Le risposte del frate, ben 142, trascritte e inviate sub secreto al Sant’Uffizio, offrono oggi un elemento fondamentale per conoscere la spiritualità sacerdotale di questo grande santo del xx secolo: il racconto preciso e dettagliato della stimmatizzazione e con esso della missione a lui affidata dal Signore.
Che cosa accadde dunque quella mattina del 20 settembre 1918, quando padre Pio, dopo aver celebrato la messa, si ritirò in preghiera? Quale missione fu affidata al giovane sacerdote di San Giovanni Rotondo? Padre Pio, com’è noto, era stato sempre restio nel parlare di quel giorno e di quello speciale incontro.
“Un misterioso personaggio”, così diceva, gli era apparso e gli aveva impresso i segni della passione.
Ora, invece, la pubblicazione degli atti dell’inchiesta ha svelato il contenuto e le stesse parole di quell’incontro.
È lo stesso padre Pio a riferirne, sotto giuramento, a monsignor Rossi, a tre anni di distanza dai fatti.
La mattina di quel 20 settembre “vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi (sic) della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da Lui favoriti.
Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua passione.
M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli.
In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a Lui che cosa potevo fare.
Udii questa voce: “Ti associo alla mia passione”.
E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue.
Prima nulla avevo”.
In padre Pio, dunque, l’affidamento della missione di “occuparsi della salvezza dei fratelli” era stato indissolubilmente legato con l’annuncio delle sofferenze in unione a Cristo: “Ti associo alla mia passione”.
Da quel giorno – come in parte già avveniva – quel “Ti associo alla mia passione” era divenuto la ragione della sua vita e del suo amore.
Era cresciuto in lui uno speciale amore per i suoi fratelli.
Era come un fuoco che gli bruciava nel petto.
Proprio parlando di ciò al suo padre spirituale ebbe a dire: “Per i fratelli (…) quante volte, per non dir sempre, mi tocca dire a Dio giudice, con Mosè: o perdona a questo popolo o cancellami dal libro della vita.
Che brutta cosa è vivere di cuore! Bisogna morire in tutti i momenti di una morte che non fa morire se non per vivere morendo e morendo vivere”.
Padre Pio si trovò, così, per tutta la vita, ad ascoltare un numero straripante di confessioni, ad avere una personale esperienza della consistenza del male causato dal peccato, della distruzione che esso provoca nel cuore dell’uomo, della necessità che esso sia smaltito, “smaltito con l’amore”.
Per questo “Ti associo alla mia passione” divenne un elemento caratterizzante la sua fisionomia spirituale di sacerdote nel quale percepì l’indole esigente delle purificazioni di Dio e la fecondità dell’amore sofferente che egli, come sacerdote, poteva offrire al Signore.
Da allora non si allontanò né spiritualmente né fisicamente dal confessionale.
Monsignor Rossi apprese che padre Pio vi rimaneva fino a sedici ore al giorno.
Domandare il perdono al Signore, aiutare i fratelli nella conversione spirituale divenne – con puntuale fedeltà verso l’invito di quel 20 settembre 1918 – l’imperativo della sua esistenza.
La sua domanda di perdono per i fratelli, gli ricordava “Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana e della morte in croce”.
Nascevano così in lui la gratitudine per l’amore sofferente del Signore – e questo spiegava la sua preghiera continua, notte e giorno, senza cessare – e poi la gioia di associarsi alla sua passione.
Per questo scriveva: “Sì, io amo la croce, la croce sola: l’amo perché la vedo sempre alle spalle di Gesù: (…) Deh, padre mio, compatitemi se tengo questo linguaggio; Gesù solo può comprendere che pena sia per me, allorché mi si prepara davanti la scena dolorosa del Calvario”.
Sacrifici subiti, incomprensioni, ostilità: tutto accolse pur di essere fedele al quel dono oneroso di domandare perdono per gli altri e di ottenere la gioia dell’amicizia con Dio per i suoi fratelli.
Altre sofferenze non andò a cercarle.
Anzi, a fronte di una richiesta del visitatore che gli domandava quali mortificazioni al di fuori di quelle prescritte facesse per fugare ogni dubbio, gli rispose.
“Non ne fo: prendo quelle che manda il Signore”.
“Ti associo alla mia passione” divenne così per il sacerdote padre Pio un modo tutto nuovo con il quale capire le parole del Signore: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Giovanni, 12, 32).
Anch’egli, da quando venne stimmatizzato, iniziò ad attirare molti non a sé, ma al Signore e al suo amore.
A molti, a moltissimi ottenne guarigioni fisiche ma a molti di più quelle dell’anima.
“Sono pronto a tutto – diceva – purché Gesù sia contento e mi salvi le anime dei fratelli, specie quelle che egli mi ha affidate” (18 dicembre 1920).
Da allora tanti divennero suoi figli spirituali, numerose furono le grazie, numerosissime le conversioni.
I molti che facevano ricorso a lui, andavano via soddisfatti, spiritualmente aiutati e umanamente soccorsi.
Proprio con la sua disponibilità d’amore ad associarsi alle sofferenze del Signore, padre Pio verificò visibilmente nella conversione e crescita spirituale dei suoi figli che con “Gesù entra gioia nella tribolazione”.
Così egli mostrò che “non c’è amore senza sofferenza” – “l’amore si conosce nel dolore”, scriveva – e che con l’amore sofferente egli poteva, in un mondo in cui la menzogna è potente, dare pubblica testimonianza di fedeltà all’amore e proprio così alla vera gioia.
In tale maniera il frate di Pietrelcina divenne un vero sacerdote del Signore.
Offerente della Vittima divina e vittima egli stesso, colpiva i suoi discepoli e visitatori proprio per il personale e spirituale coinvolgimento durante la messa, piena realizzazione della sua spiritualità sacerdotale.
Sono molte le testimonianze di quanti lo ricordano in modo indelebile sull’altare.
Giovanni Paolo II, menzionando la sua personale esperienza nel vederlo celebrare, ebbe a scrivere espressioni vive e forti: “Ho partecipato alla santa messa (di padre Pio), che fu lunga e durante la quale si vide la sua faccia che soffriva profondamente.
Vidi le sue mani che celebravano l’Eucaristia; i luoghi delle stigmate erano coperti con una fascia nera.
Tale evento è rimasto in me come un’esperienza indimenticabile.
Si aveva la consapevolezza che qui sull’altare, a San Giovanni Rotondo, si compiva il sacrificio di Cristo stesso, il sacrificio incruento e, nello stesso tempo, le ferite sanguinose sulle mani ci facevano pensare a tutto quel sacrificio, a Gesù crocifisso.
Questo ricordo dura fino a oggi e, in qualche modo, fino a oggi ho davanti agli occhi quello che allora vidi io stesso”.
La qualità liturgica della celebrazione di padre Pio che colpiva tutti, perfino il futuro Papa, manifestava un vero cammino interiore di graduale assimilazione a Cristo, nel dolore e nella gioia, nella morte e nella risurrezione, nell’ubbidienza e nella libertà vera.
In definitiva, in lui il “sì” alla croce e alle sofferenze permesse dal Signore divenne la via ordinaria della sua gioia e di una più profonda amicizia con Cristo come suo sacerdote.
I suoi figli spirituali dicevano e dicono di aver continuato negli anni a vedere nel suo viso qualcosa di angelico e straordinariamente sereno, nonostante la sofferenza da lui vissuta nel corpo attraverso le stimmate, e, spiritualmente, per la conversione dei peccatori.
Gioia e dolore, sofferenza e beatitudine furono e rimasero così in lui due tratti costitutivi del volto spirituale di sacerdote, proprio come Gesù che per la sua bellezza paradossale è “il più bello dei figli dell’uomo” (Salmo, 44, 3) e allo stesso tempo colui che “non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore” (Isaia, 53, 2).
Proprio parlando della paradossale bellezza di Gesù, il cardinale Joseph Ratzinger scrisse: “Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine, la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante.
Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza”.
Proprio di tale bellezza il sacerdote padre Pio ha dato testimonianza alla Chiesa e al mondo facendo della paradossale bellezza di Gesù la sua spiritualità sacerdotale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)  Dall’accoglienza alla comunione di Mario Ponzi San Giovanni Rotondo ha certamente confidenza con i grandi eventi ecclesiali.
Eventi in parte legati alla fama di santità dei figli dell’antica terra del Gargano, di padre Pio in particolare, e in parte dovuti alla tradizionale religiosità di un popolo devoto, generoso e accogliente.
Sta di fatto che la macchina che si è messa in moto per ricevere la visita di Benedetto XVI domenica prossima, 21 giugno, non ha perso un colpo e “tutto è pronto per mostrare al Papa l’anima vera del Gargano” confida a “L’Osservatore Romano” monsignor Domenico Umberto D’Ambrosio, in procinto di fare – subito dopo la visita del Papa – il suo ingresso nell’arcidiocesi  di Lecce, sede dove è stato trasferito già dallo scorso mese di aprile.
 Ha retto la Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo dal 2002 e oggi, come ultimo atto della sua missione, prepara la sua gente ad accogliere Benedetto XVI.
Ci sono tanti motivi per definire indimenticabile il momento che si prepara a vivere domenica prossima:  la visita del Papa sembra essere il prezioso sigillo al suo incarico pastorale tra queste genti del Gargano.
 Come  state  vivendo  questa vigilia?  Effettivamente è un momento particolare.
Il Papa, successore di Pietro, viene a confermarci nel cammino di fede compiuto in questi anni.
Il fatto che venga tra di noi per pregare sulla tomba del nostro santo padre Pio, e solo due giorni dopo aver inaugurato l’anno sacerdotale, sta a significare il riconoscimento del clima di ricchezza sacerdotale che si respira nella nostra terra, della fecondità della nostra testimonianza di devozione e di fedeltà al carisma del santo, al suo messaggio, che è il messaggio stesso della Croce.
Nei giorni passati abbiamo molto riflettuto su questo messaggio e sugli insegnamenti di Benedetto XVI.
Diversi vescovi si sono quotidianamente alternati nel parlarne ai fedeli della nostra diocesi ma anche ai tanti pellegrini che passano di qui.
Simbolicamente questo cammino si concluderà nella veglia di sabato notte al santuario.
Nella preparazione della visita è tornato spesso un motivo:  è la seconda volta in poco più di venti anni che un Papa viene tra di noi.
Un evento di grazia che si rinnova, dunque.
La visita di Giovanni Paolo II è rimasta nel cuore dei fedeli.
Si è fermato due giorni in questi luoghi e ha lasciato un grande messaggio di speranza.
E dalla visita di Benedetto XVI cosa vi aspettate? Intanto ci attendiamo una rinnovata percezione dell’intensità del rapporto con la Chiesa che non può ridursi alle formalità.
Un rapporto, per intenderci, del quale ci si accorge solo per necessità contingenti, cioè perché si vuole fruire dei servizi religiosi tipo il battesimo, la cresima, il matrimonio 0 quando c’è bisogno di certificazioni come se la Chiesa fosse una stazione di servizio, anche se religioso.
Ecco io mi auguro che quest’esperienza accanto a Benedetto XVI ci farà da viatico per una reale inversione di tendenza.
Accogliere milioni di pellegrini che vengono qui da ogni parte del mondo comporta uno scambio di doni spirituali con la comunità ecclesiale dei residenti? Questo è un altro degli aspetti sui quali vorrei tanto che portasse una parola nuova la visita del Papa.
È una delle questioni che io ritengo tra le più grandi che debba affrontare e risolvere questa Chiesa che sto per lasciare.
La nostra comunità quotidianamente si deve confrontare con i quattro cinque milioni di pellegrini che, solo a San Giovanni Rotondo, annualmente salgono a questo colle.
A essi vanno poi ad aggiungersi gli oltre due milioni di quelli che annualmente fanno visita all’altro grande santuario di queste terre, quello ultramillenario dedicato a San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo.
Ma è proprio questa marea di persone che si trasforma per la nostra Chiesa, una sfida da affrontare.
Non dovrebbe essere un problema visto che San Giovanni Rotondo è nota nel mondo proprio come “Città della pace e dell’accoglienza”.
Certo noi i pellegrini li accogliamo molto bene.
Garantiamo per quello che può essere il servizio religioso, la soddisfazione di loro bisogni, delle loro esigenze.
In moltissimi casi si tratta di pellegrinaggi che durano un giorno, o due al massimo però possono trascorrere tranquillamente e nel giusto clima.
Ma non è questo il problema che mi preoccupa.
La domanda che ci poniamo infatti è un’altra:  cosa diamo a questa gente? cosa possiamo ricevere da questa gente? In questi anni ho visto quasi una frattura fra queste due componenti, cioè tra la Chiesa che vive in questi luoghi e quanti qui vengono per attingere alla santità di padre Pio, a cercare, nell’incontro spirituale con lui, risposte ad attese e ad incognite che pervadono la loro esistenza, a sofferenze che portano dentro di sé sino a deporle ai piedi della tomba del santo quasi gli chiedessero aiuto per sopportarle.
Certamente si sarà fatto un’idea di cosa fare per risanare questa frattura.
Bisogna reimpostare la pastorale per far sì che sia soprattutto pastorale dell’accoglienza.
Non basta infatti continuare a dire che San Giovanni Rotondo è la città della pace e dell’accoglienza; bisogna fare di più perché in realtà non c’è un rapporto vero tra questa comunità ecclesiale e questa massa di persone che portano con sé il bagaglio della loro fede.
Né gli uni ne gli altri ricevono un granché da questa seppure fugace vicinanza.
Ecco cosa mi aspetto dalla visita del Papa.
Mi aspetto che da quanto ci dirà nei tre momenti centrali della sua visita, possano venire delle indicazioni chiare e precise per il cammino futuro di una Chiesa che è comunque già di per sé vivace e in questo momento avviata nel progetto “giovani, famiglia e missione”, affinché possa realmente trasformarsi in Chiesa in missione tra questa massa di persone che vengono a bussare alle sue porte.
Non possiamo più limitarci a dare quel poco che può essere la confessione o la celebrazione.
Tantomeno possiamo accontentarci del ritorno dal punto di vista economico per le strutture alberghiere e di ristorazione del posto e così via.
Dobbiamo offrire la ricchezza di una fede che risale alle origini della Chiesa apostolica e che vive autonomamente, separata dalla comunque provvidenziale presenza di padre Pio.
Allargando un po’ lo sguardo all’intera Capitanata ci può dire quali sono le sfide che deve affrontare la Chiesa oggi in quest’area che sembra essere particolarmente colpita dalla crisi economica? La Capitanata è un territorio molto vasto ma poco popolato.
La situazione sociale presenta diverse sfaccettature.
Lungo le nostre coste, per esempio, dove il turismo è la forza trainante, i riflessi della crisi non hanno lasciato tracce profonde.
La situazione cambia drasticamente nelle zone interne, segnate da larghe fasce di povertà, dove i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, raggiungono indici gravissimi.
È una condanna che ci portiamo dietro da sempre.
E se non fosse per quei bagliori riflessi dell’industria del turismo per tutto il territorio conosceremmo i morsi della povertà estrema.
La situazione si aggrava per la distrazione, diciamo così, di chi dovrebbe provvedere ad un’equa distribuzione delle risorse tra le diverse aree della Puglia, tanto che da qualche tempo ha ripreso forza l’ondata emigratoria.
Non ha ancora raggiunto i livelli di quella degli anni cinquanta, ma di fatto bisogna prendere atto della recrudescenza di questo fenomeno che riguarda soprattutto i giovani, tra i quali sono sempre più numerosi quelli che hanno conseguito lauree ed alte specializzazioni.
Per loro non c’è spazio in casa, non ci sono opportunità.
Dunque bisogna emigrare.
Ciò comporta non solo un distacco dalle proprie origini ma anche un cambiamento di mentalità, di atteggiamenti.
Si abbandonano tutti i principi, anche etici e morali, acquisiti per immergersi in una cultura che non gli appartiene, si imbevono di un’etica lontana dalla bontà di tutto ciò di cui si sono nutriti nella loro terra originaria.
Però la situazione oggi è talmente grave che la fuga si presenta come unica alternativa.
Noi come Chiesa, con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana (Cei) abbiamo istituto un fondo di solidarietà, abbiamo anche effettuato interventi ad ampio raggio, ma la situazione è quella che è.
Mi preoccupa piuttosto la mancata risposta da parte di chi sarebbe preposto ad intervenire, a creare strumenti e progetti che garantiscano un approccio diverso alla povertà che fa soffrire così tante famiglie.
Cassa integrazione, mobilità, licenziamenti  sembrano  essere  invece le uniche risposte alla crisi.
E questo anche perché industrie che hanno ricevuto il contributo dello Stato per aprire attività in loco, non esitano a chiudere subito dopo.
Questo crea grande sofferenza.
Ed è estremamente pericoloso perché dà il via libera ad attività criminose, alla malavita organizzata che trova sempre più abbordabili adepti tra i giovani, e anche tra i giovanissimi.
Dal punto di vista pastorale cosa la preoccupa di più? In questo periodo stiamo dedicando un’attenzione particolare alla famiglia.
Assistiamo ad un’impennata dei divorzi.
È un problema che ci assilla.
C’è un allentamento dei costumi che porta all’abbandono della fedeltà coniugale, e alla separazione.
I giovani sembrano sempre più orientati verso la convivenza più che verso il matrimonio.
C’è poi una certa recrudescenza della pratica dell’aborto.
Spesso restano coinvolti proprio dei giovanissimi, ma che hanno comunque il sostegno dei genitori.
Di qui la necessità di reimpostare una pastorale giovanile che sappia andare incontro ai giovani, andarli a cercare senza aspettare che vengano loro, offrire loro proposte recepibili da parte dei giovani stessi.
C’è anche bisogno di reimpostare la pastorale familiare, fondandola sull’aiuto di laici esemplari che  sappiano  offrire  modelli  da  imitare.
Dobbiamo cioè aiutare la gente a recuperare il senso della stabilità della famiglia, il sapore della sua genuinità, il valore di un amore che nasce dal cuore.
Il dono che il Papa ci fa è una possibilità che ci offre per trovare modi nuovi di vivere la nostra fede, per cogliere le novità che si presentano grazie all’incontro con tante persone che portano esperienze di Chiese diverse e che dunque possono costituire un arricchimento per la nostra Chiesa come valore universale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)

Fiuggi family festival 2009

Esiste una maggioranza silenziosa di italiani – spiega Andrea Piersanti, direttore artistico del festival – che non gode dell’attenzione delle maggiori istituzioni culturali del Paese.
I principali festival cinematografici, infatti, sono concepiti e organizzati pensando esclusivamente agli addetti ai lavori.
È paradossale.
Sono infatti le famiglie a garantire incassi significativi al botteghino.
Solo quando il cinema riesce a convincere il pubblico della generazione dei genitori e quello della generazione dei figli a vedere gli stessi film, la vendita dei biglietti sale in modo rilevante”.
Dieci i film in gara, che saranno giudicati da una giuria presieduta dal regista Alessandro D’Alatri che raccoglie il testimone di Pupi Avati.
Al vincitore andrà il premio che da quest’anno è dedicato a Gianni Astrei, ideatore e anima del festival, morto in un tragico incidente di montagna lo scorso primo maggio.
Alla manifestazione – organizzata con il patrocinio del Forum delle associazioni familiari, e gemellata con Cartoons on the bay, la rassegna dell’animazione internazionale organizzata da Rai Trade e diretta da Roberto Genovesi – si potrà assistere anche alle anteprime di Les Enfants de Timpelbach (“I bambini di Timpelbach”), di Nicola Bary, e di Flash of genius (“Lampi di genio”), di Marc Abraham.
Fra gli altri film in programma, il nuovo lavoro di Michael Winterbottom, Genova, con Colin Firth, Versailles, di Pierre Schöller, e Snijeg (“Neve”), di Aida Begic, vincitore del gran premio della giuria a Cannes.
Oltre a quelle sulla figura paterna è prevista anche un’altra retrospettiva sul tema “Famiglie nei cartoni”.
Ancora in forse la partecipazione di Gabriele Salvatores con il suo documentario sulle scuole di calcio (Inter Campus) che l’Inter ha aperto in tutto il mondo, mentre, dopo le polemiche per la proposta parziale al festival di Venezia, è quasi certa la proiezione dell’edizione integrale di La Rabbia (1963) con entrambi i contributi di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Guareschi.
Sulla linea della scorsa edizione, ci saranno inoltre alcuni incontri su temi socialmente rilevanti.
Fra gli altri: “Per un consultorio al servizio della famiglia e della vita”; “Famiglia e fisco”; “Tanti padri, tanti amori”; e “L’anziano, il nonno oggi”.
Un argomento, quest’ultimo sul quale si sofferma D’Alatri.
“Il tema del festival di quest’anno – rileva il regista – è incentrato sulla figura del padre e ho pensato anche ai nonni.
Ho avuto il privilegio di essere cresciuto coi nonni, e questo purtroppo credo sia sempre più raro.
In questo passaggio si è perso un anello importante della nostra tradizione, quello di tramandare le tradizioni orali, le storie, le radici, l’educazione e l’esempio all’interno della famiglia.
Mi auguro che i film selezionati siano uno sprone a un dibattito, perché i festival hanno una funzione importantissima che è quella di animare il confronto”.
“Il successo avuto nel 2008 del ciclo di lectures su temi collegati alla famiglia e alla comunicazione – gli fa eco Armando Fumagalli, responsabile del comitato scientifico del festival – ci ha spinti ad ampliare il numero di incontri con esponenti della cultura, delle istituzioni, della vita sociale e politica del Paese.
In altre parole, il festival prosegue nella sua volontà di essere un incubatore di iniziative nei settori del cinema e della comunicazione in generale”.
Anche per questo, al festival è collegato un premio per la sceneggiatura, con l’intento di portare nuove idee nel cinema italiano e una maggiore attenzione al target family.
Alcune associazioni, come Far Famiglia, Associazione italiana genitori, Associazione famiglie separate cattoliche, Amici dei bambini, nei giorni del festival terranno incontri pomeridiani per illustrare le proprie attività.
Il Movimento italiano genitori presenterà il libro Un Anno di Zapping, mentre l’Associazione famiglie numerose, grazie alla disponibilità di una struttura da quattromila posti nella nuova sede del festival – non più alla Fonte Anticolana ma nella più centrale Fonte di Bonifacio vIII – terrà nei primi due giorni la sua assemblea nazionale.
E quest’anno, grazie agli sponsor, non ci sarà bisogno di acquistare un biglietto d’ingresso.
All’entrata verrà distribuito solo un passi che servirà per prenotare la poltrona per una proiezione, ma anche per ottenere sconti e promozioni in tutta la città.
Un’occasione, dunque, in primo luogo per le famiglie, che avranno l’occasione di trascorrere una settimana di vacanza intelligente, unendo lo svago alla riflessione, ma anche per chi fa televisione e cinema e che a Fiuggi avrà l’opportunità di confrontarsi con gli utenti.
In tal senso, secondo il direttore generale Fabio Fabbi, “la manifestazione potrà dare un contributo alla crescita del sistema cinematografico italiano.
Il cinema, infatti, sempre di più, deve imparare a confrontarsi veramente con i propri spettatori e con la società nel suo insieme allargando i propri confini e il proprio pubblico.
In termini di marketing, si tratta di ampliare il target del prodotto cinematografico”.
(©L’Osservatore Romano – 20 giugno 2009) L’anteprima dell’atteso L’era glaciale 3, un cartoon in grafica computerizzata in 3d, ovvero il meglio della tecnologia cinematografica di oggi, ma anche un piacevole ritorno al passato, con la riproposizione di un classico della tv di ieri come Il giornalino di Gian Burrasca, quello con Rita Pavone e la regia di Lina Wertmüller; e ancora film nuovi dedicati alla famiglia, con le sue attese e le sue problematiche, ma anche due retrospettive sulla figura del padre nel cinema internazionale e nella televisione italiana.
Partendo dal successo della prima edizione, il Fiuggi family festival tornerà dunque quest’anno con lo sguardo al presente, senza però dimenticare il passato e quanto di buono ha regalato al grande e al piccolo schermo.
E con un’attenzione particolare al mondo dei videogiochi, cui sarà dedicata una mattinata per un confronto tra genitori e le maggiori aziende di produzione.
L’appuntamento è dal 25 luglio al primo agosto: una settimana densa di avvenimenti per tutta la famiglia, tra proiezioni e incontri di riflessione per gli adulti; cartoni animati e giochi per i più piccini.
Anche quest’anno non mancherà il concorso internazionale, volto a promuovere pellicole, anche di difficile distribuzione, che rispondono alle esigenze di un pubblico familiare interessato e attento, deciso a diventare un interlocutore importante per gli operatori del mondo del cinema.

Ralf Gustav Dahrendorf

La scomparsa di Ralf Gustav Dahrendorf merita la grande attenzione che ha suscitato, ma è necessario che del tempo scorra per consentire alla meditazione di avere la meglio sull’emozione.
È invece possibile dire subito alcune delle ragioni per le quali è opportuno che il pensiero torni con pazienza sul lascito di questo grande tedesco del Novecento.
Ralf Gustav Dahrendorf è stato uno dei migliori interpreti della eredità di Max Weber.
Interprete e non ripetitore o semplice continuatore.
A differenza di tanti altri, e innanzitutto di Marx e dei vari marxismi, Dahrendorf, sulle orme di Weber, ha rifiutato e contestato con successo ogni spiegazione monofattoriale dell’agire umano, della vicenda sociale, dei processi storici (ciò sin dalla sua prima opera, del 1957, Classi e conflitto di classe nella società industriale, in Italia presso Laterza).
Egli ha inteso combattere strenuamente l’ideologia, ogni ideologia, con la scienza e nella scienza.
Perciò tra le sue pagine troviamo ricerche e studi rilevanti per il dibattito sociologico, per quello economico, per quello filosofico, per quello storico, per quello politologico.
Per questa stessa ragione troviamo nella ricerca di Dahrendorf una vigilanza metodologica ed epistemologica costante.
Questo spirito lo ha reso sempre disponibile alla critica, critica che non mancherà neppure d’ora in avanti, ma che testimonierà anche della grandezza scientifica ed etica di questo autore che ha cercato di evitare i fumosi nascondigli dell’ideologia.
Allo stesso tempo, merita notare che una tale vastità di interessi e una tale complessità di prospettive non l’ha reso un eclettico, e neppure un pensatore da “terze vie”.
In uno dei grandi eventi della storia culturale europea del Novecento, il confronto tra “razionalisti critici” e “francofortesi” svoltosi agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso (si veda Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi), Dahrendorf – pur mantenendo equilibrio e autonomia – è chiaramente tra i primi (capofila Popper, mentre tra i secondi, capofila Adorno, compare tra gli altri Habermas).
Attento alle ragioni altrui, Dahrendorf ci lascia un lungo e ricco magistero che funge per noi da baluardo contro ogni deriva totalitaria, anche apparentemente “dotta” o “dialettica”.
Ricorrendo a un suo schema, Dahrendorf ha costantemente usato delle ragioni offerteci da Kant contro i pericoli della ben viva eredità hegeliana.
Se facciamo appena un passo indietro e sull’opera di Dahrendorf guadagnamo una prospettiva più larga, scorgiamo subito una seconda ragione per la quale essa merita schietto e paziente interesse.
L’opera (e la vita stessa) di Dahrendorf si svolge principalmente – ma non esclusivamente – a cavallo del Canale della Manica.
Tedesco, Dahrendorf studia, insegna e si affianca nella ricerca alla comunità scientifica britannica e più in generale anglosassone (per qualche verso qualcosa di simile era avvenuto con Popper, e avverrà ancora con Niklas Luhmann).
Dahrendorf ha cioè saputo riconoscere la varietà per lo meno duplice della cultura europea e della modernità europea.
Come pochi altri ha conosciuto e ha saputo relativizzare l’eredità del razionalismo francese e dell’idealismo tedesco.
Non ha ridotto a questa sola corrente la propria comprensione dell’illuminismo e della modernità, ma, prima ancora di preferirla, ha riconosciuto pari dignità all’altra variante dell’illuminismo e della modernità europea, quella critica, ben più diffusa a Nord e a Sud della Manica (un Sud – l'”Europa continentale” – che spesso tende a spacciarsi come l’intero dell’Europa e della sua cultura invece di rassegnarsi a esserne solo una parte).
In questo senso, Dahrendorf è stato un “europeo”, forse – credo – un grande “europeo”, certamente un vero europeo.
In terzo luogo, nella sua lunga vita – era nato ad Amburgo nel 1929 – Dahrendorf è stato uomo di pensiero, ma anche uomo di azione e di amministrazione (di istituzioni politiche e di istituzioni scientifiche).
Da parlamentare, o da membro della Commissione europea, da componente di qualificatissime commissioni internazionali o da guida di prestigiose istituzioni accademiche, Dahrendorf ha fatto politica nella accezione più piena del termine, da liberale (più nel senso inglese che in quello franco-tedesco del termine).
Mai è stato “intellettuale organico”, mai “indipendente” nelle fila di qualche partito, mai ha pensato l’agire come una applicazione della ideologia.
In questo senso potrebbe essere d’aiuto avvicinare il suo profilo a quello di don Luigi Sturzo.
Dahrendorf ha affrontato e gestito la sfida della prassi anche come sfida alle proprie idee, e le sue esperienze hanno puntualmente lasciato un segno nel suo pensiero.
Infine, Dahrendorf, si è sempre distinto, anche rispetto agli intellettuali della sua stessa scuola, per la capacità di ascolto delle ragioni degli avversari culturali e politici, e per l’attenzione al dato empirico.
Lui, che aveva annunciato “la fine del secolo socialdemocratico”, che aveva intuito che nel xxi secolo le democrazie avrebbero conosciuto una competizione sostanzialmente ridotta alla sfida tra “liberali di destra e liberali di sinistra” – segno di una affermazione senza precedenti della libertà e delle sue istituzioni, della democrazia, del mercato, in una parola della “società aperta” – negli ultimi anni ci ha più di una volta sorpreso rimettendo in discussione, raffinando, criticando e riformulando queste ipotesi, anticipando senza abiure il travaglio intellettuale e politico cui tutti ci espone la crisi economica (e non solo economica) nella quale siamo immersi.
In conclusione, è difficile negare che si tratti di ragioni molto forti per tornare a meditare i testi e le scelte di Dahrendorf.
Nel frattempo, mi sembra, siano sufficienti a raccomandare una speciale attenzione al tedesco divenuto cittadino britannico e poi nominato Lord dalla Regina Elisabetta ii, al professore di Amburgo, Tubinga e Costanza successivamente guida della London School of Economics e successivamente del Saint Antony College dell’università di Oxford e poi ancora docente a Berlino, al parlamentare nazionale e membro della Commissione europea, al liberale che ha compreso che le opportunità degli individui crescono insieme a legami religiosi, familiari e associativi.
(©L’Osservatore Romano – 20 giugno 2009)

Valutazione nella scuola italiana

I dati Ocse sul sistema di istruzione italiano e le prove Invalsi per l’esame di licenza media di questi giorni mettono in evidenza una situazione tipicamente nostrana: docenti e studenti non sono ancora abituati all’uso delle prove oggettive per valutare i livelli di competenza raggiunti.
Anche se le prove di ieri per l’esame di licenza, a quanto sembra, sono andate complessivamente bene, resta il dato di fondo che l’uso delle prove oggettive di rilevazione delle competenze, a differenza di quanto avviene da tempo nella maggior parte degli altri Paesi, non fa parte delle abitudini di casa nostra.
E la non dimestichezza con l’uso delle prove strutturate finisce anche per limitare il miglior conseguimento degli esiti finali delle prove stesse.
Il ministro Gelmini, nell’annunciare la sua intenzione di estendere l’idea della prova scritta nazionale anche all’esame di Stato, ha aggiunto che questo può servire a rendere usuale e familiare l’impiego delle prove oggettive, utilizzate in modo generalizzato nei Paesi dell’Ocse.
In effetti, in vista della prova nazionale, le scuole tendono a prepararsi seguendo le prove degli anni precedenti, conseguendo, in tal modo, una familiarità con quello strumento di accertamento.
Va ricordato, comunque, che le rilevazioni degli apprendimenti (quest’anno, oltre alla prova nazionale l’Invalsi ha messo in campo anche la rilevazione degli apprendimenti per le classi seconde e quarte della scuola primaria) hanno soprattutto due altre finalità dirette: conoscere i livelli complessivi di competenza della popolazione scolastica del Paese e offire uno strumento di analisi e di autovalutazione per le singole scuole.
Nel primo caso si può avere una conoscenza scientificamente corretta del “prodotto” del sistema di istruzione; nel secondo caso, con la restituzione degli esiti delle prove, si offre l’opportunità a ciascuna scuola di analizzare la propria situazione e di autovalutarsi, con la possibilità, quindi, di migliorare la propria offerta formativa e di ricercare strategie di apprendimento più efficaci.
——————————————————————————– tuttoscuola.com

XII Domenica del tempo ordinario anno B

L’inquietudine della notte della fede Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo.
Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo.
Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi.
Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza.
Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia Anche il sonno di Cristo è un segno esteriore di una realtà nascosta.
Sono come dei naviganti quelli che fanno la traversata di questa vita su di un’imbarcazione.
Anche quella barca era figura della chiesa.
E ogni persona è tempio di Dio, naviga nel proprio cuore e non fa naufragio, se prova buoni sentimenti.
Se hai udito un’offesa, è come il vento; sei adirato? Ecco la tempesta.
Se soffia il vento e giunge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato.
All’udire l’offesa, desideri vendicarti; ecco, ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio.
E perché? Perché Cristo in te dorme.
Che cosa significa: «In te Cristo dorme»? Che ti sei dimenticato di Cristo.
Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo, considera lui.
Che cosa volevi? Volevi vendicarti.
Ti eri dimenticato che egli, essendo crocifisso, disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24).
Egli che dormiva nel tuo cuore non volle vendicarsi.
Sveglialo e ricordalo.
Il ricordo di lui è la sua parola, il ricordo di lui è il suo comando.
Se in te è desto Cristo, tu dirai tra te e te: «Che razza di uomo sono io che mi voglio vendicare? Chi sono io, che mi permetto di minacciare un altro? Forse morrò prima di vendicarmi.
E quando ansante, infiammato di collera e assetato di vendetta, uscirò da questo corpo, non mi accoglierà Colui che non volle vendicarsi, non mi accoglierà colui che disse: «Date e vi sarà dato, perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,37-38).
Frenerò allora la mia collera e tornerò alla pace del mio cuore».
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia.
In tutte le altre vostre tentazioni attenetevi a ciò che ho detto riguardo all’ira.
Quando sorge una tentazione, è come il vento; tu sei agitato, c’è la tempesta.
Sveglia Cristo affinché parli con te.
[…] Imita i venti e il mare: ubbidisci al Creatore! (AGOSTINO, Discorso 63,1-3, NBA XXX/1, pp.
284-286).
Come si fa ad avere fede? «Un giorno, durante un acquazzone improvviso, ci riparammo nell’ingresso di una grotta.
“Come si fa ad avere fede? gli chiesi là dentro”.
“Non si fa, viene”.
Lei ce l’ha già ma il suo orgoglio le impedisce di ammetterlo, si pone troppe domande, dov’è semplice complica.
In realtà ha soltanto una paura tremenda.
Si lasci andare e ciò che ha da venire verrà».
(Susana Tamaro, Va dove ti porta il cuore, Rizzoli, p.
148).
Il dubbio che porta al tramonto Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione.
Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa.
Ben presto fu buio.
La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicché non si poteva vedere assolutamente nulla.
Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa.
Nella caduta, l’alpinista poteva appena vedere delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità.
Continuava a cadere… e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte.
D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare: ”Dio mio, aiutami!” Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò: ”Cosa vuoi che io faccia?” “Mio Dio, salvami!” “Credi realmente che io possa salvarti?” “Sì, mio Signore.
Lo credo” Allora, recidi la corda che ti sostiene!” Ci fu un momento di silenzio; poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.
Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda… A soli due metri dal suolo… La vita è un atto di fede Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia.
E che anche la Fede è una Notte Buia.
Di certo, non può dirsi una sorpresa.
Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia.
Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti.
Perché ‘confidano’.
Perché hanno Fede.
[…] Ogni momento della vita è un atto di fede.
(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31).
Racconto In un paese c’ era un incrocio con tre strade: verso il mare, verso la città, verso nessuna parte.
Giovanna domanda, ma dove porta la strada «verso nessuna parte»..? Tutti i saggi del paese dicono che è pericoloso, che nessuno ha fatto mai questa strada, che non si torna più….Nonostante, Giovanna un giorno si decide a percorrere quella strada pericolosa…valli, montagne…alla fine trova un cane….il cane porta Giovanna ad una casa dove abita una fata misteriosa che dice: da tanto tempo aspettavo una visita…..guarda la mia casa e prendi l’oro che vuoi…..Cosi fece Giovanna….quando tornò al paese tutti aspettavano….vedendo l’oro che portava Giovanna tutti si affrettarono a percorrere la strada che ‘porta da nessuna parte’….Non trovarono nulla.
Arrabbiati tornano da Giovanna: “sei una imbrogliona….bugiarda…”.
Non, ma soltanto che per avere l’oro si deve percorrere la strada che porta verso nessuna parte.
Preghiera Aiutami a fare silenzio, Signore, voglio ascoltare la tua voce.
Prendi la mia mano, guidami nel deserto, per incontrarci soli, Tu e io.
Ho bisogno di contemplare il tuo volto, ho bisogno del calore della tua voce, di camminare insieme…
di tacere, perché possa parlare tu.
Mi metto nelle tue mani, voglio guardare la mia vita, scoprire ciò che deve cambiare, rendere più saldo ciò che va bene, sorprendermi per le novità che mi chiedi.
Aiutami a lasciar da parte la carriera, le preoccupazioni che riempiono la testa, blocca i miei dubbi e le mie insicurezze, aiutami ad archiviare le mie risposte prefabbricate.
Voglio condividere con te la mia vita e verificarla accanto a te.
Vedere dove “preme forte e sicura la scarpa” per operare il cambio.
Portami nel deserto, Signore, liberami da ciò che mi lega, scuoti le mie certezze e metti alla prova il mio amore.
Per incominciare nuovamente, umile, semplice, con la forza dello Spirito, a vivere fedele a Te.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Giobbe 38,1.8-11 Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».
Il libro di Giobbe può essere diviso in tre parti.
La prima parte (1-2) introduce i personaggi; la seconda parte (3-42,6) contiene il dialogo tra gli attori nel quale viene esposto il grande problema della sofferenza del giusto; la terza parte (42,7-17) riferisce la sentenza di Dio al termine dell’azione.
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, ed è costituito dall’inizio del primo discorso di Dio, il quale proclama la sua onnipotenza e trascendenza con queste parole in mezzo al turbine: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,1.8-11).
Per comprendere questo testo occorre avere presente il contenuto dell’azione precedente.
Giobbe, uomo giusto, viene colpito dalla sventura; dapprima è colpito nei beni e nei figli, poi nella sua stessa carne, con una malattia dolorosa e ripugnante.
Egli rimane sottomesso a Dio.
Tre suoi amici vengono a consolarlo.
Dapprima si tratta di una conversazione a quattro; in tre cicli di discorsi Giobbe e gli amici confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina.
I tre amici difendono la tesi della retribuzione terrena; se Giobbe soffre, ciò vuol dire che egli ha peccato; e se anche egli è giusto ai propri occhi, non lo è agli occhi di Dio.
Giobbe sostiene la propria innocenza e gli altri si irrigidiscono nelle loro posizioni.
Ad essi Giobbe contrappone la propria esperienza dolorosa e la ingiustizia di cui il mondo è pieno.
Egli si scontra con il mistero di Dio il quale permette che il giusto sia afflitto.
Giobbe alterna momenti di sottomissione a Dio a momenti di protesta della sua innocenza.
In questo movimento entra in scena Dio stesso «in mezzo al turbine», cioè nello scenario delle teofanie.
Dio riprende Giobbe o meglio, Dio rifiuta di dare risposta alle domande di Giobbe perché l’uomo non ha diritto di mettere Dio sotto inchiesta in quanto Dio è l’infinitamente sapiente e l’onnipotente che non può essere misurato dalla debolezza dell’intelligenza e dalle sue categorie di giustizia.
Giobbe riconosce di avere parlato da insipiente e dà ragione a Dio.
Il brano della lettura sta nell’inizio dell’intervento di Dio.
In esso Dio espone la sua attività creatrice, nella quale si esplica l’infinita sapienza e l’onnipotenza.
Di fronte all’opera di Dio non si può che ammirarne la bellezza e grandezza.
L’onnipotenza di Dio viene esaltata attraverso la rievocazione della creazione del mare; il mare è una creatura che esprime essa stessa una immensa potenza, ma Dio ha posto dei limiti precisi alla potenza del mare e il mare non può trasgredirli.
Questa descrizione esaltante della signoria divina incute riverenza, timore, sottomissione, che sono atteggiamenti non soltanto della volontà ma anche dell’intelligenza.
L’uomo moderno ha esplorato con grande acume e capacità la creazione, lo spazio, l’universo, ha scandagliato le profondità del mare e ha cercato di spiegare i segreti del cosmo.
Il vero saggio, tuttavia, pur avendo raggiunto una tale conoscenza del mondo e capacità di dominarlo, non ne prova orgoglio, al contrario si sente piccolo e sempre superato dai feno-meni della natura e sa di essere ancora impotente di fronte a tanti suoi segreti.
Nasce spontanea la domanda: se la creazione è così inesauribile e inafferrabile nella moltitudine e profondità dei suoi segreti, che cosa sarà il Creatore? Seconda lettura: 2 Corinzi 5,14-17 Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Il passo della lettura si trova nella prima parte della epistola in continuazione con il testo della precedente domenica.
San Paolo parla dell’amore di Cristo e della conoscenza di Cristo: «L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,14-17).
La prima affermazione: Cristo è morto per tutti, rivela che Gesù ha compiuto il sacrificio in nome di tutti come capo che rappresenta l’intera umanità.
Ciò che ha valore davanti a Dio in questa morte è l’obbedienza di amore che manifesta il sacrificio di una vita interamente donata a Dio.
Dice san Paolo di Gesù ai Filippesi: «Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio lo ha esaltato» (Fil 2,8-9) e ancora ai Romani: «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
I fedeli, resi partecipi di questa morte di Gesù con il sacramento del battesimo che li immerge in essa, devono ratificare questa oblazione del Cristo con la loro vita, devono attuare ciò che dice san Paolo nella presente lettura subito dopo: quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto ed è risuscitato per loro (2 Cor 5,15).
Poi l’apostolo viene al tema della conoscenza di Cristo: «se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16).
Paolo non dice che ha conosciuto personalmente Gesù di Nazaret, afferma che tutti, anche quelli che hanno potuto conoscerlo, devono rinunciare a dare importanza alla affinità carnale con Gesù, alla conoscenza di lui secondo la carne: legame di parentela, legame di consuetudine familiare e di nazionalità.
Conclude scrivendo: «se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (2 Cor 5,17).
Dio che aveva creato tutte le cose per il Cristo, ha restaurato la sua opera, sconvolta dal peccato, ricreandola nel Cristo.
Il centro di questa nuova creazione che interessa tutto l’universo, è l’uomo nuovo, che è stato creato nel Cristo, per una vita nuova di giustizia e di santità: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).
Perciò: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,23-24).
Così l’uomo nuovo, ricreato nel Cristo, che è l’immagine di Dio ritrova la rettitudine primitiva nella quale aveva avuto origine e giunge alla pienezza della imitazione di Gesù e quindi alla pratica della esistenza morale.
Vangelo: Marco 4,35-41 In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Esegesi Il tratto della lettura nella prima parte del vangelo di Marco, ove è descritto il ministero di Gesù nella Galilea.
Racconta il prodigio della tempesta sedata con lo stile caratteristico di Marco: «In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,35-41).
Il racconto del vangelo sulla tempesta nel lago sedata da Gesù culmina nel tema della fede e mostra Gesù nella sua potestà sulla natura e sui suoi elementi.
L’episodio evoca, nei confronti di Gesù, ciò che nella Scrittura è detto di Dio nei riguardi della natura: «Tu fai tacere il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti» (Sl 65,8).
«Tu domini l’orgoglio dei mari, tu plachi il tumulto dei suoi flutti» (Sl 89,10).
«Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare, si rallegrarono nel vedere la bonaccia, egli li condusse al porto sospirato» (Sl 107, 29-30).
Tale è l’acclamazione finale nell’episodio evangelico; a Gesù anche il vento e il mare obbediscono; la sua potenza è come quella di Dio sulla natura.
Gesù nelle parole rivolte ai suoi discepoli sottolinea la necessità della fede: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
La fede che Gesù richiede fin dall’inizio della sua attività: «Credete» (Mc 1,15) e che richiederà incessantemente è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo credente rinuncia a fare affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze per rimettersi alle parole e alla potenza di colui nel quale crede.
Gesù richiede la fede particolarmente in occasione dei miracoli.
Al centurione che gli chiedeva di guarire il suo servo dice, dopo averne ammirato la fede: «Vai e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13).
Alla donna che pativa flusso di sangue, dice: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha guarito» (Mt 9,22).
Ai ciechi che gli chiedono: «Figlio di Davide abbi pietà di noi» (Mt 9,27) Gesù dice: «Credete voi che io possa fare questo? Gli risposero: Sì, Signore.
Allora toccò loro gli occhi e disse: sia fatto a voi secondo la vostra fede.
E si aprirono loro gli occhi» (Mt 9,27-30).
In tale modo i miracoli sono atti che offrono il segno della missione di Gesù e il segno della presenza del regno dei cieli.
Gesù non può compiere miracoli se non trova la fede che deve dare ad essi il loro vero significato; a Nazaret, infatti, «non fece molti miracoli a causa della loro incredulità» (Mc 13,58).
Esigendo un sacrificio dell’intelligenza e della volontà e di tutto l’essere, la fede è un atto non facile di umiltà che molti rifiutano di compiere, particolarmente in Israele, o lo compiono solo in modo imperfetto, come il padre dell’epilettico indemoniato, il quale dopo avere chiesto a Gesù la guarigione del figlio e avere ascoltato da Gesù: «Tutto è possibile a chi crede» (Mc 9,23) dice: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24).
I discepoli stessi di Gesù, che pure gli aderiscono di cuore, mostrano le difficoltà della fede perché sono lenti a credere e sono spesso rimproverati da Gesù per la loro poca fede; nell’episodio raccontato nella lettura Gesù dice: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
Quando è forte la fede opera meraviglie: «Se avete fede pari a un granellino di senapa potrete dire a questo monte: spostati di qua e là, ed esso si sposterà e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20).
«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e se berranno qualche veleno non recherà loro danno» (Mc 16,17).
L’episodio evangelico della tempesta sedata, attraverso il rimprovero di Gesù ai suoi sulla pochezza della loro fede è un richiamo all’esigenza della fede e della fiducia in Gesù nella vita cristiana come caratteristica che la distingue e che ne costituisce la specificità nel mondo in mezzo agli uomini.
Meditazione II racconto della ‘tempesta sedata’ nella versione di Marco 4,35-41 (la narrazione è presente anche in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25) è al centro della liturgia della Parola di questa domenica.
Ed è un racconto ricco di risonanze simboliche che rimandano chiaramente all’immaginario culturale e religioso biblico e che fanno da sottofondo a una narrazione segnata da significativi contrasti, interrogativi aperti, reazioni opposte.
Da una parte Marco evidenzia la signoria di Gesù che trasmette una sovrumana tranquillità interiore, espressione di quella capacità di valutare la portata degli eventi, senza lasciarsi travolgere da essi in quanto si conosce il senso di ciò che sta accadendo.
Dall’altra, di fronte a questa forza e serenità di Gesù che, singolarmente assume l’espressione simbolica del sonno (interpretata dai discepoli come una sorta di disinteresse: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?»: v.
38), c’è lo smarrimento dei Dodici su cui incombe l’esperienza della morte e che significativamente passa dalla paura al timore.
Anche la natura sembra entrare in questo gioco di contrasti, quasi ad esprimere esteriormente ciò che i discepoli stanno vivendo nel loro cuore: Marco ci descrive lo spettacolo di una natura che scatena tutta la sua forza bruta, diventando incontrollabile e minacciosa, e lo spettacolo di una natura che rivela armonia e pace.
Ed è un passaggio segnato da una parola e da un gesto che Gesù compie come risposta all’angosciata preghiera dei discepoli e che suscita un interrogativo finale: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mari gli obbediscono?» (v.
41).
La dinamica di questo racconto ci suggerisce allora alcune sottolineature.
Anzitutto notiamo che un elemento simbolico e reale allo stesso tempo, emerge come sottofondo biblico di tutto il racconto.
Ed è quello del mare.
Secondo il linguaggio che caratterizza molti testi del Primo Testamento, l’immagine del mare, caratterizzata dalla superficie instabile delle acque e dai fenomeni minacciosi e imprevedibili della tempesta, rappresenta una potenza misteriosa e oscura, una forza non domabile dall’uomo.
È l’esperienza dei naviganti descritta nel Salmo 106, i cui versetti 23-31 compongono il salmo responsoriale: travolti dalla tempesta su di un mare minaccioso, coloro «che commerciavano su grandi acque…
si sentivano venir meno nel pericolo, ondeggiavano e barcollavano…
tutta la loro abilità era svanita».
Di fronte al pericolo minaccioso e alla morte che incombe, l’uomo non ha potere, perde la sua abilità.
E appunto la reazione istintiva, connotata dalla paura della morte, che caratterizza anche i discepoli di fronte a quella «grande tempesta di vento» e a quelle «onde che si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena» (v.
37).
Secondo la Scrittura, solo Dio ha la forza di dominare questo spazio misterioso e pieno di incognite, perché solo Dio conosce i limiti entro cui questo simbolico luogo di morte può esercitare il suo potere.
Così il Signore dice a Giobbe: «Chi ha chiuso fra due porte il mare?…
gli ho fissato un limite…
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde”» (Gb 38,8-11).
Il gesto di Dio che pone le acque dentro un spazio ben delimitato è il gesto della creazione (cfr.
Gen 1,9-10).
Ma Dio ha anche potere di piegare il mare e la sua forza bruta mettendolo a servizio del suo disegno di salvezza: il mare può diventare un cammino di liberazione, una strada sicura per il popolo di Dio (il passaggio attraverso il mar Rosso narrato in Es 14).
La straordinaria ricchezza di queste immagini bibliche è come condensata nel gesto e nella parole di Gesù; proprio in quel Gesù, che Marco ci presenta anche molto umano, stanco, affaticato e per questo addormentato, si rivela la potenza di Dio.
Gesù assume così i tratti del Kyrios, il Signore della creazione e dell’esodo.
Vediamo che Gesù, svegliato e quasi rimproverato dai discepoli terrorizzati (v.
38), «si destò».
Questo movimento segna il passaggio dal sonno all’atteggiamento di colui che veglia ed è ben presente a se stesso e agli eventi che lo circondano; ma indica anche il passaggio da una situazione oscura e pericolosa segnata dalla morte incombente, alla vita (abbiamo qui una allusione alla dinamica pasquale).
Ma significativa è anche la parola che Gesù pronuncia sul mare sconvolto dalla tempesta: «minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”» (v.
39).
Gesù ha l’ultima parola sul creato, sulla storia, su tutte le forze che la compongono e che la minacciano, perché tutto il creato e ogni evento dipendono da quella parola, in quanto solo essa ha la forza di creare e di rivelare il logos di tutto.
Ecco perché a quella Parola «anche il vento e il mari gli obbediscono».
Se tutta la scena con il suo straordinario dinamismo ha la forza di rivelare l’identità di Gesù, essa permette anche di sottolineare l’atteggiamento del discepolo di fronte a questo volto che si rivela.
Diventa allora fondamentale l’interrogativo con cui si chiude l’episodio: «Chi è dunque costui?» (v.
41).
A un certo punto Gesù domanderà ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29; la domanda che è posta da Marco al centro del cammino del discepolo).
L’interrogativo pieno di stupore e di timore con cui si conclude il racconto della ‘tempesta sedata’ è come un avvio a questa consapevolezza che il discepolo deve maturare a riguardo della identità di Gesù.
Ed è una consapevolezza che mette in gioco la fede.
Ecco allora una altro interrogativo che Gesù stesso pone e a cui il discepolo deve dare una risposta proprio a partire da ciò che ha vissuto: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v.
40).
Nei discepoli c’è fede, perché prendono con loro Gesù «così com’era, sulla barca» (v.
39).
C’è fede perché nel pericolo si accostano a Gesù e lo supplicano: «Maestro…».
Ma manca in loro ancora fede, c’è un cammino ancora da compiere, devono ancora comprendere molto di Gesù.
E soprattutto il salto di qualità da compiere, proprio a partire dalla esperienza vissuta, è quello che permette di passare dalla paura ad una abbandono totale nelle mani di Gesù, quel Gesù che li ha «scelti perché stessero con lui» (Mc 3,14), quel Gesù che, pur addormentato e apparentemente assente, conosce il cammino da seguire.
La fede dei discepoli deve compiere un salto; deve, simbolicamente, passare all’altra riva.
E proprio l’atteggiamento che suscita la domanda finale, segna l’inizio di questo passaggio.
Alla fine il discepolo non ha più paura, ma ha timore, è il timore di fronte alla grandezza e alla potenza di un Dio che può veramente calmare il mare agitato delle vicende umane, un Dio che si prende cura della fragilità e della paure dell’uomo per educarlo alla fede in Lui.
Forse il discepolo ha sempre bisogno di sentirsi rivolgere questa domanda da Gesù: Non avete ancora fede? Solo così il discepolo può camminare dietro a Gesù e comprender che la sua fede in lui deve incessantemente compiere altri passi, passare attraverso mari in tempesta, sperimentare pace e calma ed essere sempre accompagnata dall’interrogativo: Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?

Classe terza – Giugno

Seconda fase dell’attività Gli insegnanti presentano l’ultimo testo-guida, riguardante il termine della vita umana.
4) La conclusione dell’avventura Quale “buona morte”? – Morire con dignità Il termine “eutanasia” ha, di per sé, un significato positivo: “buona morte”.
Morire con dignità significa, per ogni essere umano, affrontare questo inevitabile momento, per quanto possibile, in modo sereno…
cosa può significare? In un contesto fortemente “tecnologico”, accettare la dimensione di un mistero non riducibile alla nostra misura diviene sempre più difficile: si vorrebbe poter controllare razionalmente anche la propria morte, poterla gestire…
Questa tendenza, nella visione materialistica prevalente oggi, può condurre alla convinzione di essere padroni assoluti della propria vita, di poter scegliere, al limite, quando e come interromperla; questo potere su di sé, questo voler essere il Dio di se stessi sembra rientrare in un’ottica di lotta disperata per “salvare il salvabile”, soffrendo il meno possibile in un’esistenza fondamentalmente inspiegabile, forse priva di senso, forse frutto soltanto di un caso che condanna gli esseri umani a vivere come animali troppo intelligenti e consapevoli.
Il Cristiano ritiene di non poter in nessun caso disporre della vita altrui e propria, che è dono di Dio: soltanto Lui può decidere quando debba iniziare e finire, per il bene di ciascuno dei suoi figli; Egli soltanto conosce il mistero di ogni esistenza, unica e irripetibile, donata perché l’amore venga appreso e vissuto.
Ogni essere umano può trovare il senso della vita anche attraverso la sofferenza, che può essere un mezzo di crescita eccezionale per scoprire ciò che realmente conta: l’assoluta esigenza dell’amore dato e ricevuto come unico senso possibile dell’avventura terrena.
Si comprende il significato del “darsi” nella solidarietà e del ricevere e l’incommensurabile valore di ogni persona, a partire dai propri cari, quando si farebbe qualsiasi cosa ‒ e si perde così ogni egoismo ‒ per evitare a qualcuno la sofferenza, quando ci si accorge sulla propria pelle che l’amore soltanto l’allevia realmente…
È evidente come le gravi difficoltà ci offrano occasioni ineguagliabili per diventare ciò che possiamo realmente essere…
al massimo grado: responsabili, pronti ad apprezzare i valori autentici.
Secondo l’uomo di fede, l’avventura più importante e conclusiva dell’esistenza terrena, il passaggio alla vita piena con Dio attraverso l’oscuro tunnel della morte, può essere affrontata serenamente con il suo aiuto e il sostegno dei propri cari.
Le sofferenze conclusive della vita possono avere senso come tutte le altre, se vissute insieme a un Padre che non permette nulla che non conduca a varcare una “nuova soglia”.
Il nostro stesso coraggio, quando viene a galla, non manca di spalancare nuovi orizzonti, di farci evolvere e diventare nuovi.
Lo stato di malattia grave, anche cronico e irreversibile, rappresenta comunque una condizione di vita, delicata e misteriosa: secondo i Cristiani, ipotizzare un’interruzione della vita “per pietà” rappresenta un pericoloso arbitrio.
L’essere umano è imperfetto: può agire per sottile egoismo e non per amore, per il desiderio inconscio di eliminare i problemi troppo grossi ‒ come occuparsi per anni di un lungodegente, o di una persona in coma o comunque in stato di incoscienza…
‒ In sintesi, gestire con dignità morte e malattia può comportare, secondo una certa ottica, il diritto illimitato all’autogestione della propria esistenza, fino al suicidio assistito chiamato eutanasia; in un’altra ottica, la persona umana non può avere questo diritto, né chiedere ad altri di essere suoi complici: il suicidio assistito comporta l’intervento medico.
Anche molti non cristiani condividono con i credenti l’idea che il rifiuto dell’eutanasia non rientri in una questione di opinioni, ma che esprima la difesa di un principio universalmente condivisibile: quello del rispetto assoluto del mistero della vita, della “sacralità” della vita.
«Perché lasciare ai soli cristiani l’onere e l’onore di difendere il valore della vita?» affermava il filosofo torinese Norberto Bobbio, non credente.
– L’eutanasia L’eutanasia è un intervento medico indolore mirato ad abbreviare o decisamente sopprimere la vita, su richiesta di un malato cosciente.
Si può verificare soprattutto in situazioni-limite di malattia terminale mortale, dolorosa e causa di degrado della persona.
Sembrerebbe particolarmente legata a un pericolo di abuso tale scelta da parte di un “tutore” che decida al posto di un malato incosciente.
«L’esperienza dimostra che molti malati terminali temono più la sofferenza o il dover dipendere dagli altri, che la morte» osserva Daniel Kevles, esperto in bioetica.
Il più delle volte, l’eliminazione del dolore e l’assistenza psicologica fanno scomparire questa richiesta.
Chiedere di morire è spesso una disperata richiesta di aiuto, a cui in campo medico è doveroso rispondere con i massimi sforzi nell’ambito innanzitutto della terapia del dolore! Leggi che autorizzassero l’eliminazione di un malato con enormi esigenze potrebbero significare una pericolosa tendenza al disimpegno nei confronti della ricerca di una sempre migliore assistenza.
Afferma l’anziano senatore Giulio Andreotti: «Mi preoccupa la deriva disumana cui si andrebbe incontro, ho paura degli scivolamenti.
Se si afferma che l’eutanasia è lecita giuridicamente, temo che ci si avvii verso una china di disumanità, per cui si rischia di discutere se la malattia è curabile o no, se i vecchi sono necessari o inutili…».
La Chiesa cattolica, nel corso di tutta la sua tradizione, ha sempre condannato l’eutanasia vera e propria in quanto «uccisione deliberata, moralmente inaccettabile, di una persona umana» (EV, 65).
– L’accanimento terapeutico «È lo sforzo di prolungare a oltranza e con ogni mezzo fornito dalla tecnologia medica, la vita dei malati terminali, nonostante la loro sofferenza e impotenza.
Si tratta di interventi sproporzionati ai risultati che si potrebbero ottenere in situazioni in cui la morte si preannuncia imminente e inevitabile.
Certo, curarsi è un dovere.
Ma la rinuncia a mezzi straordinari sproporzionati non equivale certo al suicidio o all’eutanasia» (Carlo Fiore in Etica per giovani, ElleDiCi, p.
301).
Tali mezzi potrebbero essere per esempio interventi chirurgici effettuati senza speranza di guarigione, unicamente prolungando l’esistenza per breve tempo, con sofferenze aggiuntive.
Anche l’accanimento terapeutico è inaccettabile per il cristiano: può essere un voler “forzare la mano di Dio” in modo opposto all’eutanasia, ma altrettanto poco rispettoso della vita nel suo naturale concludersi.
– Le cure palliative Esse sono attente alla qualità della vita che resta; si basano sulle migliori terapie antidolorifiche possibili, ma anche sull’atteggiamento di presenza costante di chi assiste e di attenzione alle esigenze di un malato mai solo; sull’“umanizzazione” del ricovero ospedaliero e del rapporto tra medico e paziente.
Secondo lo studioso di bioetica G.
Russo, l’eutanasia è dunque «una risposta semplicistica e sbrigativa nei confronti di sentimenti umani come il dolore e lo smarrimento angoscioso della sofferenza.
La richiesta di eutanasia, da qualunque parte venga (paziente, medico, società), è soltanto l’evidenziarsi di una triste realtà di mancanza di effetti, mancanza di cure, solitudine».
Terza fase dell’attività L’insegnante di scienze potrà approfondire alcuni aspetti fondamentali a sua scelta; l’insegnante di religione proporrà il seguente questionario agli allievi, perché sintetizzino le conoscenze ed elaborino opinioni personali, dopo aver letto con attenzione tutti i testi-guida.
1) Definisci con parole tue i seguenti concetti.
– Bioetica.
– Embrione e cellule staminali.
– Eutanasia.
– Accanimento terapeutico.
– Cure palliative.
2) Secondo te, è giusto ricercare “principi universali” validi per tutti gli esseri umani? La difesa della vita fa parte di questi principi? Se sì, in quali modi condivisibili da tutti la vita può essere tutelata? 3) Secondo un determinato modo di intendere l’esistenza, la persona umana può disporre della vita: la propria, anche decidendo di porvi fine, e anche quella altrui, con l’interruzione volontaria di gravidanza o decidendo, al posto di un malato non cosciente, di interromperne l’esistenza per il suo bene.
Secondo questa posizione, il medico dovrebbe poter accondiscendere legittimamente alle richieste.
Un’altra ottica ritiene che la vita umana, al contrario, sia indisponibile; che le richieste di morte siano in realtà richieste di aiuto a cui è doveroso rispondere con il massimo della solidarietà umana e con le cure palliative, non agendo come chi, per rispettare la libertà di un uomo che scavalca il parapetto per buttarsi nel fiume, gli darebbe una spinta per aiutarlo…
– Quali sono le motivazioni di chi aderisce alle due diverse visioni sulla disponibilità della vita? – Qual è la posizione della Chiesa cattolica? – Esprimi, se te la senti, una tua opinione, motivandola.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida.
Unità di lavoro interdisciplinare (religione, scienze)  Seconda parte OSA di riferimento per l’Irc Conoscenze  – Fede e scienza, letture distinte ma non conflittuali dell’uomo e del mondo.
– Vita e morte nella visione di fede cristiana.  Abilità  – Confrontare spiegazioni religiose e scientifiche del mondo e della vita.
– Descrivere l’insegnamento cristiano sui rapporti interpersonali, l’affettività e la sessualità.
– Motivare le risposte del Cristianesimo ai problemi della società di oggi.
– Confrontare criticamente comportamenti e aspetti della cultura attuale con la proposta cristiana.  Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere:  termini e concetti fondamentali riguardanti la bioetica; la posizione della Chiesa cattolica su alcune questioni di bioetica, nel confronto con opinioni diverse.
– Esprimere opinioni motivate sui “vincoli morali” che la scienza dovrebbe avere e sul concetto di “tutela della vita umana”.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale  – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Sviluppare interesse alla distinzione tra bene e male, alla ricerca della verità.  1) Dalla Dichiarazione sull’eutanasia della “Congregazione per la dottrina della fede” della Chiesa cattolica.
«Bisogna ribadire con tutta fermezza che nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano, feto o embrione, bambino o adulto, vecchio malato incurabile o agonizzante.
Nessuno può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato la sua responsabilità, né può acconsentirvi.
Nessuna autorità può imporlo o permetterlo.
Si tratta infatti della violazione di una legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità».
2) Dal Manifesto dell’eutanasia firmato, nel 1973, da 37 personalità del mondo culturale.
«È crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere, che le si rifiuti l’auspicata liberazione quando la sua vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire…
Ogni individuo ha diritto di vivere con dignità, ha anche il diritto di morire con dignità».
3) Da un documento della Pontificia Accademia per la Vita.
«È dichiarando curabile il dolore e proponendo come impegno di solidarietà l’assistenza verso colui che soffre, che si afferma un vero umanesimo: il dolore richiede amore e condivisione solidale, non la sbrigativa violenza della morte anticipata.
Il cosiddetto principio di autonomia, con cui si vuole talvolta esasperare il concetto di libertà individuale, non può certo giustificare la soppressione della vita propria o altrui: l’autonomia personale, infatti, ha come presupposto primo l’essere vivi, e reclama la responsabilità dell’individuo, libero per fare il bene secondo verità…».
4) Sull’accanimento terapeutico.
«Sappiamo che non è facile tracciare una linea netta di demarcazione tra la cura dell’ammalato e l’accanimento terapeutico, cioè quando un trattamento non è più una cura ma diventa una violenza contro la persona.
Però sappiamo anche che la persona, nel prendere una decisione, deve tener presenti i seguenti elementi oggettivi.
Anzitutto che la vita non è in potere dell’uomo.
L’uomo porta in sé il dovere di vivere la sua vita in tutta la sua estensione.
È un talento che deve far fruttificare e di cui dovrà rendere conto.
Ma se non ha diritto alla morte, non ha neppure il dovere di conservare la sua vita a ogni costo.
C’è un limite oltre il quale può decidere di non essere più curato.
Quando? Possiamo cercare di offrire dei criteri oggettivi che servono da guida nella formulazione di questo giudizio.
Si possono rifiutare le cure quando si constata che la terapia è inefficace o inutile; quando è penosa e procura sofferenza e umiliazione, senza produrre risultati significativi; quando si utilizzano mezzi terapeutici sproporzionati ed eccezionali, senza previsioni di miglioramento.
Sospendere le cure sproporzionate non significa interrompere le cure ordinarie.
E tra le cure ordinarie dobbiamo mettere l’alimentazione e l’idratazione, anche quando sono realizzate in modo diverso da quello comune.
E dobbiamo contemplare adeguate terapie contro il dolore, anche se possono accorciare la vita» (Giordano Muraro).

Classe seconda – Giugno

Unità di Lavoro interdisciplinare di educazione alla mondialità (religione, italiano) OSA di riferimento (Irc) Conoscenze – L’opera di Gesù e la missione della Chiesa del mondo.  Abilità – Documentare come le parole e le opere di Gesù abbiano ispirato scelte di vita fraterna, di carità e di riconciliazione nella storia dell’Europa e del mondo.   OSA di riferimento per l’Educazione alla convivenza civile Conoscenze – Consapevolezza delle modalità relazionali da attivare con coetanei e adulti.  Abilità – Leggere e produrre testi e condurre discussioni argomentate su esperienze di relazioni interpersonali significative.
Obiettivi Formativi trasversali ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere con parole proprie il concetto di educazione e auto-educazione alla mondialità, di accoglienza del diverso e di dialogo; di “responsabilità a vasto raggio”.  Conoscenze e abilità per l’IRC – Conoscere e descrivere le motivazioni e le risorse che fanno di un Cristiano un “abitante del mondo”.  Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale (considerabili come trasversali) – Sviluppare, sul piano della crescita umano-relazionale, capacità di ascolto, dialogo, conoscenza e rispetto dell’altro, condivisione e accoglienza.  – Voler distinguere, sul piano morale, tra bene e male.   – Riconoscere il contributo del pensiero cristiano al progresso culturale e sociale dell’Europa e dell’intera umanità.  Prima fase dell’attività  Gli insegnanti presentano agli allievi il primo testo-guida, che introduce il concetto di “mondialità” come scelta di “orizzonti illimitati” nel cui ambito vivere.   1) Mondialità.
«La mondialità è innanzitutto un sentimento che porta un uomo a sentirsi parte di un tutto umano e ambientale-ecologico.
Essa è inoltre una visione del mondo caratterizzata anche dal valore della diversità, in cui la famiglia umana è intesa come una comunità di popoli diversi (fratellanza universale).
Per mondialità s’intende un complesso di comportamenti informati al principio della responsabilità: agire nel presente con la coscienza di essere responsabili del futuro del mondo» (C.
Nanni, Educare alla convivialità, Ed.
EMI, p.
9).
Educare (per genitori e insegnanti) e “autoeducarsi” (per giovani alla ricerca del loro modo di abitare il mondo) alla mondialità può significare:  • far conoscere ‒ e voler conoscere ‒ i problemi e le ingiustizie planetari legati a un uso sbagliato delle risorse naturali, ai soprusi politici ed economici a danno dei poveri, alla violazione dei diritti umani, alla mancanza di pace, a una tecnologia esasperata che compromette l’ambiente naturale…  • fornire e trovare motivazioni per decidere di partecipare al “miglioramento del mondo” come si può, certi che l’oceano…
sia fatto di gocce.
Gradualmente, crescendo, un ragazzo della tua età potrà decidere di buttarsi nella mischia, di non stare a guardare il mondo come uno spettatore critico e, dopo un po’ di vita trascorsa, fatalmente annoiato…
Senza rischi, senza l’indignazione per le ingiustizie, senza tentativi appassionati perché qualcosa “vada meglio”…
che vita sarebbe? Abbiamo tutti un gran bisogno di appartenenza a una realtà umana di cui essere elementi attivi, di contribuire a un lavoro di squadra che crei quei legami insostituibili tra persone che ben conosce chiunque abbia “faticato insieme” per raggiungere un obiettivo importante: in un’orchestra, in un’equipe medica…
In quest’ottica, come non avvertire un legame con l’intera umanità, sulla base delle esigenze, delle gioie, dei dolori e delle fatiche che condividiamo tutti, quel legame che il Cristiano vive come una vera e propria fratellanza? Il Cristiano ha una risorsa particolare: si sente sostenuto da Cristo risorto lungo il suo cammino; se sa di non poter cambiare il mondo con le proprie forze, si sente di affermare, con san Paolo: «Tutto posso, in Colui che mi dà forza».
La comunità dei credenti, la Chiesa, è chiamata a insegnare con l’esempio e la diffusione della Parola un amore illimitato per il mondo, patria e casa comune dei figli di Dio.
Come migliorarlo e curarlo, il mondo, se lo sentiamo casa nostra, abitato da tanti fratelli diversi per convinzioni e abitudini, ma uguali per esigenze e sentimenti “di base”? Abbiamo tutti bisogno di libertà e tenerezza, di cibo e di istruzione…
Possono sorgere in noi pressanti interrogativi.
Che cosa potrei fare per il coetaneo che è nato in una baraccopoli indiana, che è intelligente forse più di me, ma che non potrà mai avere un’opportunità? Cosa c’entro io con le guerre, la fame, il terrorismo? Occorrerà, per rispondere a domande come queste,  • cercare, conoscere gli “operatori di giustizia” (pensiamo all’enorme lavoro dei missionari nel Terzo Mondo) per imitarli, capire le loro motivazioni, i mezzi che adoperano…
Sarà un’imitazione che dovrà nascere soprattutto da piccole occasioni quotidiane.
Ciò potrà voler dire leggere libri o articoli su grandi uomini, ma soprattutto cercare di comprendere a fondo l’amico più grande che nel tempo libero fa animazione tra i piccoli lungodegenti di un ospedale pediatrico, o semplicemente la propria mamma che ha instaurato un dialogo con l’immigrato, senza lavoro, che tenta di sopravvivere portando le buste della spesa fino all’auto dei clienti, al supermercato, sperando in qualche mancia…  • Sarà essenziale, per aprirsi al mondo, considerare la diversità culturale e religiosa come occasione di dialogo e quindi di arricchimento reciproco, ricercando i valori condivisibili (sentimenti, comportamenti, idee) nel rispetto delle inevitabili divergenze, per poi costruire senza pregiudizi rapporti interpersonali che uniscano, nella ricerca di un bene comune…
Si inizia a cambiare il mondo partendo da se stessi, dilatando gli orizzonti del cuore.
Chi si rende conto del problema della fame può scegliere di evitare gli sprechi, chi riflette sulla sofferenza portata dalla guerra può diventare un costruttore di pace tra i suoi amici, chi prende coscienza del dramma dei poveri potrà entrare nel mondo del volontariato…
Terza fase dell’attività Gli insegnanti potranno impegnare la classe in uno dei seguenti laboratori interdisciplinari.
a) La classe si divide in gruppi.
Ogni gruppo dovrà inventare un racconto breve (a scelta realistico, fantastico, di fantascienza…) per esprimere una riflessione su un tema a scelta tra quelli proposti: – l’accoglienza del diverso; – l’importanza del dialogo; – l’importanza del senso di responsabilità.
Gli insegnanti potranno ipotizzare una valutazione comune dei racconti; l’insegnante di religione terrà conto soprattutto della “profondità di pensiero” nell’esprimere valori.
b) I gruppi inventeranno scenette della durata di cinque-dieci minuti sulle tematiche precedenti, “in positivo” (accoglienza e dialogo realizzati, un’assunzione di responsabilità…) oppure “in negativo” (dialogo fallito ecc.) La classe rifletterà così sui messaggi ricavati dalla drammatizzazione, sulle caratteristiche concrete dell’accoglienza, del dialogo e del senso di responsabilità.
La domanda – Come ci si può “auto-educare” alla mondialità? Oltre alle vie proposte, hai in mente altri comportamenti e scelte possibili? Quali risorse particolari e motivazioni possiede il Cristiano? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Seconda fase dell’attività Gli insegnanti propongono l’esperienza di una giovane donna, un esempio illuminante di amore per l’intera umanità.
2) L’infermiera Cristina 9 dicembre 1993.
Maria Cristina è al lavoro, puntuale e dolce come sempre, nel suo ambulatorio di Mogadiscio.
All’improvviso sulla porta si presenta un somalo con due pistole in pugno.
Pretende dei soldi.
L’infermiera non ne ha.
Per reazione e in preda a un raptus di follia, il bandito le scarica addosso 9 colpi.
La rosa dei proiettili colpisce in pieno la giovane volontaria.
Maria Cristina Luinetti stramazza a terra ferita gravemente.
Morirà poco dopo il ricovero nell’ospedale da campo.
Si chiudeva per sempre la felice parentesi africana di questa ragazza ventiquattrenne, dai lunghi capelli neri e dal sorriso incantevole.
Era arrivata in Somalia il 20 novembre come crocerossina, per salvare vite umane, “arruolata” in quel corpo speciale a carattere umanitario che è la Croce Rossa.
In cambio, lasciava su questa terra la sua vita e il rimpianto di un servizio generoso e sereno.
A giorni sarebbe tornata in Italia, felice di aver regalato energie e cure alle vittime della guerra tribale che insanguinava da mesi l’incantevole paese africano.
La sua non voleva essere una semplice avventura giovanile.
Era la risposta al profondo desiderio di aiutare chi soffre.
Il giorno prima della partenza da Cesate, un piccolo paese della cintura industriale milanese, per Mogadiscio aveva indirizzato alla zia Maria Rosa una lettera che sapeva di testamento.
Scriveva che in caso di un suo “ritorno in bara” non avrebbe voluto fiori e cerimonie ufficiali, ma solo una funzione religiosa e l’alta uniforme da crocerossina.
È stata accontentata.
Forse presentiva ciò che si è fatalmente verificato.
Il parroco don Carlo che la vedeva tutte le domeniche mattina a messa ricorda: «Era felice, entusiasta del compito che andava a svolgere in Africa.
Da tanto tempo aspettava questa occasione.
Cesate le andava un po’ stretta: il suo cuore, il suo desiderio di servire l’umanità richiedeva spazi più ampi».
Questi spazi li ha trovati nella terra sabbiosa e assolata di Mogadiscio.
Avrebbe voluto incontrarli anche in una seconda tappa, in Mozambico, dove sarebbe andata dopo questa prima missione ufficiale.
Non ha fatto in tempo.
I colpi di pistola di uno squilibrato hanno spento per sempre la sua voglia di rendersi utile agli altri.
Il volontariato era la passione di Maria Cristina, un’autentica vocazione: «Voleva andare ad aiutare la gente, non parlava d’altro», ripete oggi il fratello Massimiliano, 22 anni.
Un ideale che le era cresciuto dentro molto presto.
A quindici anni, il tempo in cui normalmente le ragazze pensano al divertimento e alla bella vita, Maria Cristina decide di diventare crocerossina.
Una scelta che orienta sempre di più il suo futuro.
In attesa di realizzare il suo sogno, alterna gli studi di danza e di informatica a quelli da infermiera e alla pratica: lascia la sua abitazione e si trasferisce a casa del nonno novantenne, infermo e bisognoso di attenzioni e di cure.
Nel giugno 1992 ottiene il diploma di infermiera volontaria.
Passa l’estate nell’ospedale di Saronno, in quell’anticamera di emergenze e dolore che è il Pronto soccorso.
Ha fretta di imparare al meglio la professione per ottenere quanto prima il visto di partenza per le frontiere più difficili.
Le viene concesso nel novembre 1993.
Un visto per un biglietto di andata senza ritorno.

Classe prima – Giugno

Unità di Lavoro di approfondimento interdisciplinare (religione, educazione artistica)  OSA di riferimento Conoscenze – Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.  Abilità – Ricostruire le tappe della storia della Bibbia.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere i materiali, gli antichi strumenti scrittori, il passaggio dal rotolo al codice in relazione alla nascita del testo biblico.
– Conoscere alcuni fondamentali ritrovamenti archeologici riguardanti i più antichi testi biblici.  Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Possedere essenziali conoscenze bibliche e riconoscere il contributo del pensiero biblico al progresso culturale, artistico e sociale dell’Europa e dell’intera umanità.  3) I ritrovamenti di Qumran  Nel 1947, a qualche decina di chilometri da Gerusalemme, a Qumran, un pastorello di 13 anni, in cerca di una capra che gli era sfuggita, trovò una misteriosa caverna in mezzo a un paesaggio aspro e desertico, presso il grande lago salato del Mar Morto.
In quella grotta scoprì enormi giare stracolme di rotoli manoscritti su cuoio e papiro; si trattava delle più antiche copie dell’Antico Testamento giunte fino a noi.
I monaci Esseni, autori delle copie, facevano parte di una comunità ebraica che attendeva il Messia.
I manoscritti risalgono a un periodo compreso tra il II secolo a.C.
e il I secolo dopo Cristo: si tratta di tutti i libri della Bibbia ebraica tranne uno (Ester).
Il più noto manoscritto è il famoso Rotolo A di Isaia: lungo quasi 7,5 metri, risale a più di 2200 anni fa.
17 pezzi di pelle sono stati cuciti per formare questo rotolo; il testo ebraico è consonantico, senza l’inserimento delle vocali che solo nel Medioevo diverrà usuale.
Gli Esseni avevano consacrato la vita alla trasmissione dell’Antico Testamento, scegliendo di vivere una vita di studi e meditazione, mettendo i beni in comune e vivendo semplicemente in capanne e grotte.
All’avvicinarsi delle legioni romane che li avrebbero sterminati, all’epoca della ribellione giudaica repressa da Tito, nascosero nelle grotte vicine alle loro abitazioni i risultati del loro lavoro.
Prima fase dell’attività Gli insegnanti di religione ed educazione artistica presentano alla classe il testo-guida; l’insegnante di educazione artistica potrà approfondire soprattutto l’affascinante argomento dei “codici miniati”.
2) Dal rotolo al codice  Nell’antichità classica e durante i primi secoli della cristianità, la scrittura e la lettura del rotolo di pergamena o papiro procedevano su colonne orizzontali; per evitare che si deteriorasse o si piegasse, veniva avvolto su due bastoncini di legno o di osso disposti alle due estremità del manufatto.
Durante il trasporto, i rotoli venivano legati e custoditi in casse rettangolari o cilindriche.
Il rotolo era deficitario per conservare lunghe opere letterarie (per il libro degli Atti degli Apostoli sarebbe occorso un rotolo di circa 9 metri!) e per consultarle; nel caso della Bibbia, esso rendeva davvero difficile la ricerca dei passi della Scrittura.
I Cristiani del II secolo furono così indotti a ricercare soluzioni editoriali diverse.
Per i Cristiani non provenienti dall’ebraismo, il ricorso al codice fu anche una scelta finalizzata a differenziarsi dagli Ebrei, staccandosi dalle loro consuetudini.
I codici erano composti da fogli sovrapposti e cuciti di papiro o pergamena; quest’ultima permetteva di scrivere sulle due facciate.
Essi agevolavano la consultazione dei libri biblici; copertine rigide li protessero da agenti atmosferici e dall’usura del tempo.
Seconda fase dell’attività Laboratorio Gli insegnanti propongono alla classe, divisa in gruppi con portavoce, di ricercare a casa, con l’aiuto dei genitori, notizie sui più importanti ritrovamenti archeologici riguardanti la Bibbia.
I gruppi riordineranno i dati reperiti da ciascun allievo con l’aiuto dell’insegnante di educazione artistica, evidenziando con l’insegnante di religione i motivi dell’importanza delle scoperte archeologiche prese in considerazione in relazione a una migliore conoscenza di fatti biblici o della storia del testo.
I gruppi prepareranno semplici relazioni, esposte poi ai compagni dal portavoce.
Rispondi.
1) Confronta: – il papiro e la pergamena; – il rotolo e il codice.
2) Cosa sono i “codici miniati”? Spiega con parole tue.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida I più antichi testi biblici 1) Materiali e strumenti scrittori  Il materiale scrittorio della Bibbia era quello tipico delle diverse epoche antiche: la pietra (le Tavole della Legge), l’argilla, il cuoio, le tavolette spalmate di cera, papiro e pergamena.
Questi ultimi soprattutto vennero utilizzati per i testi letterari e grazie a essi la Bibbia è giunta fino a noi.
– Il papiro    Il papiro è un vegetale palustre che anticamente cresceva spontaneamente presso il Nilo, in Etiopia, in Palestina, in Mesopotamia e anche in Sicilia; il termine significa “ciò che appartiene al re”, infatti la lavorazione e il commercio del papiro, in Egitto, erano monopolio statale.
Esso fu utilizzato come supporto scrittorio per la Bibbia dal III millennio a.C.
fino al 300 d.C.
circa; era abbastanza economico, ma piuttosto delicato soprattutto in condizioni climatiche umide.
Strisce sottili ricavate dal midollo del papiro venivano bagnate e sovrapposte a strati, alternando quelli con strisce orizzontali a quelli con strisce verticali…
Poi gli strati venivano battuti, levigati e fatti essiccare al sole; i papiri più pregiati erano giallo/bianchi anziché giallo/brunastri.
A seconda dell’estensione del testo da trascrivere, incollando opportunamente più fogli di papiro si otteneva un rotolo (il cosiddetto “volumen”); esso veniva conservato in giare o recipienti cilindrici e immerso nell’olio di cedro per tenere lontani i parassiti.
Clamoroso è stato il ritrovamento di un papiro egiziano di oltre 42 metri!  – La pergamena    La pergamena è ricavata dalla lavorazione della pelle degli animali giovani, quali la pecora, la capra, il vitello e l’antilope.
Prevalse sul papiro a partire dal IV secolo d.C.; era più robusta ed era più facile ottenerla, anche se era più costosa.
Per la Bibbia, fu usata fino al X secolo d.C., epoca in cui si iniziò ad adoperare carta ricavata dalla lavorazione di cotone, canapa e lino, diffusa da mercanti arabi che erano venuti a contatto con la civiltà cinese.
Gli artigiani che producevano le pergamene (“percamenarii”) nel Basso Medioevo abitavano un borgo specifico delle città, vicino a una sorgente (l’acqua è un elemento essenziale per la lavorazione delle pelli): i procedimenti per lavare, raschiare, depilare, impermeabilizzare e levigare le pelli erano lunghissimi.
Tinture conclusive con porpora, oro e argento per pergamene di particolare importanza erano costosissime: nel IV secolo d.C., san Gerolamo cercò di opporsi a questi “sprechi” riguardanti soprattutto manoscritti del Nuovo Testamento…
– Strumenti    Ogni scriba dell’antichità doveva sapersi fabbricare le proprie “penne”: il “calamo”, un fusto sottile di legno ricavato da varie piante o in metallo, che fu strumento di scrittura fino al sesto secolo d.C.; la penna d’oca, ricavata dalle piume remiganti dei volatili.
L’inchiostro era di due tipi: una miscela a base di nerofumo e gomma, impiegato dalle classi meno abbienti e una miscela di acido tannico ricavato dalla quercia, solfato di ferro, gomma arabica (resina dell’acacia) e acqua detto inchiostro ferrogallico e adoperato a partire dal III secolo d.C.
Nei monasteri medievali, i monaci copisti (amanuensi), grazie alla cui pazienza possediamo oggi un patrimonio inestimabile di cultura antica, disponevano di un set di strumenti quali il calamaio, antico contenitore portatile in terracotta del calamo, poi sostituito da un corno di toro, spugne bagnate per lavare e cancellare i fogli e un coltello utile per l’immediata cancellatura degli errori.    4) Lo splendore dei codici miniati   Con “codici miniati” ci si riferisce a manoscritti su pergamena abbelliti con decorazioni artistiche.
L’espressione deriva da “minium”, il pigmento rosso ricavato dal piombo, il colore prevalente con cui furono decorati i bordi delle pagine, i titoli e le lettere iniziali dei manoscritti.
L’arte orientale bizantina, dopo il V secolo d.C., influenzò la miniatura italiana; si diffusero colori prevalentemente scuri.
In Francia, l’oro splendeva negli esemplari più sfarzosi, mentre le illustrazioni interne dei codici, raffiguranti scene bibliche e ritratti dei grandi personaggi delle Scritture, tendevano a distorcere le proporzioni delle figure umane per lanciare messaggi simbolici.
Durante il Medioevo, le figure umane risultarono via via più accurate, più piccole e più realistiche.

Agora

di Maria de falco marotta Alejandro Amenábar, è un regista “difficile”.
Affronta con rigore i temi più controversi del nostro vivere quotidiano, premio Oscar per l’intimista Mare dentro che noi abbiamo visto alla Mostra di Venezia , ponendo poi domande all’autore, dice che il suo film da quasi 50 milioni di euro Agora portato al Festival di Cannes 2009 fuori Concorso, ha l’obiettivo di “far sentire il pubblico come se stesse seguendo una troupe della CNN mentre documenta qualcosa che accade nel IV secolo dopo Cristo”.
Bisogna credergli: E’ talmente serio, giovane e introverso che sicuramente il suo lavoro sarà apprezzato da molti.
Ma non da tutti.
Nell’Egitto del IV secolo a.C, la storia di Hypatia di Alessandria, primo astronomo-filosofo donna dell’Occidente.
Spinto dal desiderio di raccontare una storia su Romani e Cristiani nell’Antico Egitto, il regista spagnolo di origine cilena ha individuato la sua eroina nella figura di Ipazia, figlia di Teone, ultimo direttore della celeberrima biblioteca di Alessandria, e donna simbolo della tolleranza della società greco-romana di quel tempo.
Con la sua Himenóptero, Amenábar ha coinvolto la Mod Producciones di recente creazione e Telecinco Cinema, mettendo assieme un cast internazionale che recitasse in lingua inglese e permettesse di lanciare il film sul mercato internazionale.
A vestire la tunica di Ipazia è la star britannica Rachel Weisz (The Constant Gardener, La Mummia).
La vediamo insegnare astronomia, matematica e filosofia ai suoi allievi, in quel tempio della saggezza che doveva essere allora la Biblioteca alessandrina.
Ma mentre tra quelle mura si discetta di Aristotele e si preconizza l’eliocentrismo, per le strade e le piazze della città governata dall’Impero Romano d’Oriente cresce ed esplode il dissidio tra le religioni: cristiani contro pagani ed ebrei.
Presto i parabalani incappucciati(funzionari romani che disdegnano la propria vita per la causa della Chiesa.
In genere, sono attivisti, monaci, guerrieri e becchini, fanatici, ignoranti, violenti ) spingeranno la folla ad attaccare nel nome di Cristo gli adoratori degli déi e, nonostante la mediazione romana, la Biblioteca verrà saccheggiata e distrutta.
Il resto è storia, con la sola eccezione del servo Davus, personaggio inventato, interpretato dal giovane inglese Max Minghella.
Lo spettatore potrebbe trovare noiose e fintamente intellettuali le numerose discussioni “scientifiche” ma quello che non sfuggirà è la scelta di portare sul grande schermo questa martire del paganesimo che ha tutto l’aspetto di un attacco frontale del regista al Cristianesimo e non genericamente al fanatismo religioso.
All’uscita di Agora difficilmente le stanze del Vaticano apprezzeranno le scene in cui i cristiani sbudellano la gente urlando come invasati o vengono visualizzati come formiche nere che si affrettano sulla preda con una efficace ripresa dall’alto velocizzata.
Chi è il regista Alejandro Amenábar (Santiago del Cile, 1972) è figlio di madre spagnola e di padre cileno.
La sua famiglia si trasferisce in Spagna quando lui ha un anno, facendolo crescere e studiare a Madrid.
Scrive, produce e dirige il suo primo cortometraggio, “La cabeza”, a 19 anni, e ne ha 23 quando debutta nel lungometraggio con “Tesis” che in Spagna riceve molti premi.
Il suo “Apri gli occhi” riscuote in Spagna un enorme successo e viene distribuito in tutto il mondo: è stato ultimamente oggetto di un remake hollywoodiano diretto da Cameron Crowe e intitolato “Vanilla Sky”, con Tom Cruise (che ne è anche il produttore), Penelope Cruz (protagonista anche della versione originale) e Cameron Diaz.
“The Others” – interpretato in modo perfetto da Nicole Kidman e prodotto da Tom Cruise – è il suo primo film girato in lingua inglese, presentato alla Mostra di Venezia, dove ha riscosso un grande successo di pubblico e critica.
Ha realizzato la colonna sonora di tutti i suoi film, nonchè di molti altri, tutti iberici.
Nel 2004 gira “Mare dentro”, un film sulla vita del tetraplegico Ramon Sampedro e il delicato tema dell’eutanasia, che segna una svolta nel suo cinema che riceve premi dal Festival di Venezia, da E.F.A., il premio Goya, e la candidatura al premio Oscar come miglior film straniero.
Presentando a Cannes 2009 Agorà(piazza, assemblea) ha dichiarato: «Il mio Agorà contro ogni fondamentalismo.
Ipazia (Rachel Weisz) filosofa e scienziata, martire del politeismo ad Alessandria, capitale culturale del Mediterraneo nel IV secolo della nostra era, controllata dall’Impero romano d’Oriente e centro di attriti tra il politeismo e i due monoteismi, l’uno frutto dell’eresia dell’altro: giudaismo e cristianesimo.
La vergine Ipazia – aggiunge- era uno spirito aperto, praticava la misericordia e fu torturata e uccisa dai cristiani alla vigilia del tracollo del mondo classico.
La sua vicenda ricorda – in senso opposto – quella di Gesù».
Attorno a lei, gli ex allievi, l’aristocratico (Oscar Isaac), convertito al cristianesimo onde avere la carriera pubblica che si aspettava; e lo schiavo (Max Minghella, figlio di Anthony), fanatico nella nuova fede.
In Agorà i ruoli di buoni e cattivi sono distribuiti per fazione.
Il tragico degli scontri politico-religiosi è che ognuno ha le sue ragioni” Il film: titolo internazionale: Agora titolo originale: Agora paese: Spagna, USA anno: 2009 genere: fiction regia: Alejandro Amenábar data di uscita: ES 02/09/2009 sceneggiatura: Alejandro Amenábar, Mateo Gil cast: Rachel Weisz, Max Minghella, Oscar Isaac, Ashraf Barhom, Michael Lonsdale, Rupert Evans, Homayoun Ershadi fotografia: Xavi Giménez scenografia: Guy Dyas costumi: Gabriella Pescucci musica: Alejandro Amenábar produttore: Fernando Bovaira produzione: Mod Producciones, Himenoptero, Telecinco Cinema distributori: Mars Distribution (FR) rivenditore estero: Focus Features International Chi era questa straordinaria scienziata? Ipazia era l’erede della Scuola alessandrina, la più notevole comunità scientifica della storia dove avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo… e i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale.
Filosofa neoplatonica, musicologa, medico, scienziata, matematica, astronoma, madre della scienza sperimentale (studiò e realizzò l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro).… e, come scrisse Pascal, «ultimo fiore meraviglioso della gentilezza e della scienza ellenica».
Nei suoi settecento anni la Scuola alessandrina aveva raggiunto vette talmente elevate nel campo scientifico, che sarebbe bastato lasciar vivi e liberi di studiare Ipazia e i suoi allievi per acquisire 1200 anni in più di progresso.
Ma su Ipazia e sull’intera umanità si abbatté la più grossa delle sventure: l’ascesa al potere della Chiesa cattolica e il patto di sangue stipulato con l’impero romano agonizzante.
Questo patto – oltre alla soppressione del paganesimo – prevedeva la cancellazione delle biblioteche, della scienza e degli scienziati, l’annullamento del libero pensiero, della ricerca scientifica (nei concilî di Cartagine, infatti, fu proibito a tutti – vescovi compresi – di studiare Aristotele, Platone, Euclide, Tolomeo, Pitagora etc.).
Alla donna doveva essere impedito l’accesso alla religione, alla scuola, all’arte, alla scienza.
In poche decine di anni il piano venne quasi interamente realizzato.
Ma Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino e Cirillo – i giganti del nascente impero della Chiesa – trovarono, sulla loro strada lastricata di roghi e di sangue, un ultimo impedimento: una giovane bellissima creatura a capo della Scuola alessandrina, una scienziata con una dirittura morale impossibile da piegare la quale, al termine d’una giornata di studio e di ricerca, si gettava sulle spalle il tribon – il mantello dei filosofi – e se ne andava in giro per Alessandria a spiegare alla gente – con ingegno oratorio e straordinaria saggezza – cosa volesse dire libertà di pensiero, l’uso della ragione.
E Cirillo, vescovo e patriarca di Alessandria, ordì il martirio di Ipazia.
Uccidere ingiustamente un qualunque essere umano è troncare una vita, spezzare una possibilità, ma trucidare una creatura come Ipazia è arrecare un danno incalcolabile all’umanità intera, è uccidere la speranza nel progresso umano.
Questo delitto segnò la fine del paganesimo, il tramonto della scienza e della dignità stessa della donna.
Segnò la definitiva affermazione del gruppo più astuto, raffinato, vorace, spietato e feroce prodotto dalla specie umana: da quel marzo del 415 d.C.
la Chiesa Cattolica, oltre a imprigionare, torturare, bruciare vivi popoli interi, incatenò la mente degli uomini per manovrarli, dirigerli, dominarli, alleandosi sempre con il potere e con l’ingiustizia.
Nessun mea culpa potrà mai restituire all’umanità tanto sangue innocente e tanti secoli di progresso mancato.
In quel 415 d.C.
a nulla valse la voce isolata del prefetto Oreste, che cercò inutilmente di difendere e di salvare la scienziata.
Quando giunse ad Alessandria, Oreste si recò a rendere omaggio a Ipazia, astro incontaminato della sapiente cultura.
Da lei apprese che non poteva definirsi realmente pagana perché «qualunque religione, qualunque dogma, è un freno alla libera ricerca, e può rappresentare una gabbia che non permette d’indagare liberamente sulle origini della vita e sul destino dell’uomo».
Ipazia gli raccontò che dopo l’incendio della biblioteca, il prefetto Evagrio le aveva proposto di convertirsi al cristianesimo in cambio di maggiori sovvenzioni per la sua scuola e che lei aveva rifiutato dicendo: «Se mi faccio comprare, non sono più libera.
E non potrò più studiare.
È così che funziona una mente libera: anch’essa ha le sue regole».
Dopo il massacro di Ipazia, il vescovo e patriarca Cirillo governò Alessandria da padrone assoluto per i successivi trent’anni.
I libri di Ipazia e di tutta la Scuola alessandrina furono bruciati (con la sola eccezione del suo commento alla Syntaxis), la sua memoria cancellata.
A parte Ierocle (di cui sono rimaste solo due modeste opere di filosofia neoplatonica) e il poeta Pallada che con i suoi versi cantò l’irreprensibilità dei costumi, l’alto sentire, l’accuratezza e il savio giudicare della filosofa e scienziata alessandrina, tutti i discepoli della scienziata scomparvero e di loro, del loro pensiero, delle loro opere, nulla è rimasto.
Alcuni riuscirono ad emigrare in India (tra cui Paulisa, autore dell’opera astronomica Paulisa siddhānta), importandovi le ultime scoperte di trigonometria ed astronomia.
Ci è pervenuta, però, una parte dell’opera di uno degli allievi preferiti di Ipazia: Sinesio di Cirene, vescovo di Tolemaide.
Dalle sue lettere indirizzate alla maestra, si apprende che Ipazia è stata la madre della scienza moderna in quanto, all’analisi teorica dei problemi di fisica e di astronomia, faceva seguire la sperimentazione pratica (il grande matematico del ‘600 Pierre de Fermat, studiando l’idroscopio realizzato dalla scienziata alessandrina, rese omaggio «alla grande Ipazia, che fu la meraviglia del suo secolo»).
Mentre la sua maestra era ancora in vita, Sinesio scriveva: «L’Egitto tien desti i semi di sapienza ricevuti da Ipazia».
Le testimonianze antiche su Ipazia sono offerte, principalmente, da quattro storici: Socrate Scolastico (Storia Ecclesiastica), Filostorgio (Storia Ecclesiastica), Sozomeno (Storia della Chiesa) – tutti contemporanei di Ipazia -, e Damascio, ultimo direttore dell’Accademia platonica di Atene, che scrisse di lei 50 anni dopo il suo massacro.
Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino e Cirillo vennero fatti santi.
Sant’Ambrogio, San Giovanni Crisostomo, Sant’Agostino e San Cirillo d’Alessandria sono stati elevati, inoltre, al rango di dottori e padri della Chiesa universale.
Per i successivi 1200 anni la Chiesa di Roma manovrò principi, re ed imperatori per tenere a freno il suo più acerrimo nemico: il sapere, la conoscenza.
Soprattutto la scienza della Scuola alessandrina.Il 17 febbraio dell’Anno Santo 1600 la Chiesa di Roma fece bruciare vivo Giordano Bruno, il filosofo e scienziato che aveva studiato gli atomisti greci e che attraverso le opere di Democrito aveva capito l’essenza di quegli universi infiniti che Ipazia aveva intuito.
Il 22 giugno 1633 la Chiesa di Roma fece imprigionare ed abiurare il padre della scienza moderna Galileo Galilei, il quale aveva proseguito l’opera iniziata dalla Scuola alessandrina e da Ipazia nella sperimentazione della scienza e che, nel Dialogo sui massimi sistemi del mondo, aveva avuto il coraggio di proporre l’ipotesi eliocentrica che Aristarco di Samo aveva formulato nel 280 a.C.
nella Scuola alessandrina e che Ipazia aveva elaborato.
Papa Pio XII nel 1944, per festeggiare i 1500 anni della morte di San Cirillo d’Alessandria (la cui opera teologica è alla base del dogma della Vergine Madre di Dio) promulgò l’enciclica Orientalis Ecclesiae, per «esaltare con somme lodi» e «tributare venerazione a San Cirillo», a colui che aveva cacciato e fatto massacrare ebrei, nestoriani, novaziani (chiamati catari – puri) e pagani da Alessandria d’Egitto.
Il vescovo-patriarca S.
Cirillo aveva studiato per cinque anni – dal 394 al 399 – nel monastero della montagna della Nitria, nel deserto di San Marco, e lì era stato ordinato Lettore.
In questo monastero aveva stretto vincoli di amicizia con gran parte dei monaci parabolani (di cui si servì per sterminare ebrei, nestoriani, novaziani e pagani) e soprattutto con Pietro il Lettore, a cui sedici anni dopo ordinò di trucidare Ipazia… l’ultima voce libera, l’ultima luce femminile di sapienza dell’antichità.
Purtroppo le donne che tentarono di studiare e d’inserirsi nel mondo della scienza dovettero combattere su due fronti: il primo risaliva ai tempi di Platone, che le considerava esseri inferiori per natura (e questo sembra incredibile: Platone, Aristotele e i più grandi pensatori che ha prodotto il genere umano, che hanno dato vita all’attuale libertà di pensiero, ebbene… consideravano la donna inferiore per natura); il secondo… il ruolo secondario assegnatole proprio dai padri fondatori della Chiesa (Sant’Agostino… e San Giovanni Crisostomo che affermò che la donna porta il marchio di Eva e che Dio non le ha concesso il diritto di ricoprire cariche politiche, religiose o intellettuali).
Infatti se Ipazia fosse stata uomo, l’avrebbero solamente uccisa.
Essendo donna, dovevano farla a pezzi, nella cattedrale cristiana, per rendere quel massacro simbolico d’un sacrificio.
Per escludere, nel cammino dei secoli a venire, metà del genere umano.Ipazia ci ha insegnato che la via della ragione – la via dell’esperienza personale non mediata da altri, la ricerca continua della verità sulla nostra vita, verità che racchiude il nostro corpo, la mente, l’universo, l’intelligibile… come direbbero gli antichi filosofi, la metafisica… che vuol dire il raggiungimento d’un principio supremo non creatore, ma che è e che si evolve insieme a noi – è la via a cui ha diritto ogni essere umano.
Naturalmente, colto e rigoroso com’è A.
Amenabar, si è documentato su fonti storiche e su altri studi di cui non citiamo che la minima parte.Eccole: Fonti • Cirillo, Homilia VIII, in J.
P.
Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXXVII • Esichio di Mileto, Fragmenta, in «Fragmenta Historicorum Graecorum», Paris, Didot 1841-1870 • Damascio, Vita Isidori, Hildesheim, Olms 1967 • Filostorgio, Historia Ecclesiastica, in J.
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Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXV; Epitome in Fozio, Bibliotheca, 8 voll., Paris, Les Belles Lettres 1959 • Palladas, in Antologia Palatina, Yorino, Einaudi 1978 • Sinesio, Opere, Torino, UTET 1989 • Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica, in J.
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Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXVII • Sozomeno, Historia Ecclesiastica, in J.
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Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXVII • Suda, Lexicon, Lipsia, Teubner 1928 • Teodoreto, Historia Ecclesiastica, Berlin Akademie Verlag 1954 • Teone, Commentaria in Ptolomaei syntaxin mathematicam I-II, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 1936 • Teone, Commentaria in Ptolomaei syntaxin mathematicam III-IV, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 1943 • Teone, Le Petit commentare de Théon d’Alexandrie aux Tables faciles de Ptolomée, tr.
da A.
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Saur 2001 ISBN 978 3 598 77695 3 • Antonio Colavito, Adriano Petta, Ipazia, scienziata alessandrina.
8 marzo 415 d.C.
(romanzo), prefazione di Margherita Hack, Milano, Lampi di Stampa 2004 • Aida Stoppa, Ipazia e la rete d’oro (racconto), in Aida Stoppa, Sette universi di passione, Colledara, Andromeda 2004, pp.
20-34 e anche: Nell’Egitto del IV secolo a.C, la storia di Hypatia di Alessandria, primo astronomo-filosofo donna dell’Occidente.
Spinto dal desiderio di raccontare una storia su Romani e Cristiani nell’Antico Egitto, il regista spagnolo di origine cilena ha individuato la sua eroina nella figura di Ipazia, figlia di Teone, ultimo direttore della celeberrima biblioteca di Alessandria, e donna simbolo della tolleranza della società greco-romana di quel tempo.
Con la sua Himenóptero, Amenábar ha coinvolto la Mod Producciones di recente creazione e Telecinco Cinema, mettendo assieme un cast internazionale che recitasse in lingua inglese e permettesse di lanciare il film sul mercato internazionale.
A vestire la tunica di Ipazia è la star britannica Rachel Weisz (The Constant Gardener, La Mummia).
La vediamo insegnare astronomia, matematica e filosofia ai suoi allievi, in quel tempio della saggezza che doveva essere allora la Biblioteca alessandrina.
Ma mentre tra quelle mura si discetta di Aristotele e si preconizza l’eliocentrismo, per le strade e le piazze della città governata dall’Impero Romano d’Oriente cresce ed esplode il dissidio tra le religioni: cristiani contro pagani ed ebrei.
Presto i parabalani incappucciati(funzionari romani che disdegnano la propria vita per la causa della Chiesa.
In genere, sono attivisti, monaci, guerrieri e becchini, fanatici, ignoranti, violenti ) spingeranno la folla ad attaccare nel nome di Cristo gli adoratori degli déi e, nonostante la mediazione romana, la Biblioteca verrà saccheggiata e distrutta.
Il resto è storia, con la sola eccezione del servo Davus, personaggio inventato, interpretato dal giovane inglese Max Minghella.
Lo spettatore potrebbe trovare noiose e fintamente intellettuali le numerose discussioni “scientifiche” ma quello che non sfuggirà è la scelta di portare sul grande schermo questa martire del paganesimo che ha tutto l’aspetto di un attacco frontale del regista al Cristianesimo e non genericamente al fanatismo religioso.
All’uscita di Agora difficilmente le stanze del Vaticano apprezzeranno le scene in cui i cristiani sbudellano la gente urlando come invasati o vengono visualizzati come formiche nere che si affrettano sulla preda con una efficace ripresa dall’alto velocizzata.
Alejandro Amenábar (Santiago del Cile, 1972) è figlio di madre spagnola e di padre cileno.
La sua famiglia si trasferisce in Spagna quando lui ha un anno, facendolo crescere e studiare a Madrid.
Scrive, produce e dirige il suo primo cortometraggio, “La cabeza”, a 19 anni, e ne ha 23 quando debutta nel lungometraggio con “Tesis” che in Spagna riceve molti premi.
Il suo “Apri gli occhi” riscuote in Spagna un enorme successo e viene distribuito in tutto il mondo: è stato ultimamente oggetto di un remake hollywoodiano diretto da Cameron Crowe e intitolato “Vanilla Sky”, con Tom Cruise (che ne è anche il produttore), Penelope Cruz (protagonista anche della versione originale) e Cameron Diaz.
“The Others” – interpretato in modo perfetto da Nicole Kidman e prodotto da Tom Cruise – è il suo primo film girato in lingua inglese, presentato alla Mostra di Venezia, dove ha riscosso un grande successo di pubblico e critica.
Ha realizzato la colonna sonora di tutti i suoi film, nonchè di molti altri, tutti iberici.
Nel 2004 gira “Mare dentro”, un film sulla vita del tetraplegico Ramon Sampedro e il delicato tema dell’eutanasia, che segna una svolta nel suo cinema che riceve premi dal Festival di Venezia, da E.F.A., il premio Goya, e la candidatura al premio Oscar come miglior film straniero.
Presentando a Cannes 2009 Agorà(piazza, assemblea) ha dichiarato: «Il mio Agorà contro ogni fondamentalismo.
Ipazia (Rachel Weisz) filosofa e scienziata, martire del politeismo ad Alessandria, capitale culturale del Mediterraneo nel IV secolo della nostra era, controllata dall’Impero romano d’Oriente e centro di attriti tra il politeismo e i due monoteismi, l’uno frutto dell’eresia dell’altro: giudaismo e cristianesimo.
La vergine Ipazia – aggiunge- era uno spirito aperto, praticava la misericordia e fu torturata e uccisa dai cristiani alla vigilia del tracollo del mondo classico.
La sua vicenda ricorda – in senso opposto – quella di Gesù».
Attorno a lei, gli ex allievi, l’aristocratico (Oscar Isaac), convertito al cristianesimo onde avere la carriera pubblica che si aspettava; e lo schiavo (Max Minghella, figlio di Anthony), fanatico nella nuova fede.
In Agorà i ruoli di buoni e cattivi sono distribuiti per fazione.
Il tragico degli scontri politico-religiosi è che ognuno ha le sue ragioni”