Qui e ora (1984-1985)

LUIGI GIUSSANI, Qui e ora (1984-1985),  Editore: BUR Biblioteca Univ.
Rizzoli, Milano 2009,  EAN: 9788817028684, pp. 484, € 12,00 II quarto volume della serie “L’equipe”, in cui si riproducono le lezioni e i dialoghi di don Giussani con i responsabili degli universitari di Comunione e Liberazione.
“lo sono la resurrezione e la vita: credi tu questo?” Come si può rispondere alla domanda che Cristo rivolge a Marta, davanti a Lazzaro, il fratello morto? In altre parole, com’è possibile la fede oggi? L’uomo che ha detto: “lo sono la via, la verità e la vita” è risorto, cioè è contemporaneo alla storia.
“Sarò con voi fino alla fine dei secoli.” Dove lo si vede? Dove lo si tocca? Dove lo si ascolta? Ora, duemila anni fa come adesso, è l’appartenenza a Cristo presente e reale, che ci tocca attraverso determinate circostanze umane, a rendere possibile l’esperienza di una nuova consistenza, di una resurrezione dell’umano, in qualunque condizione.
Quella di metà anni Ottanta fu segnata dal rapido estendersi di un nichilismo gaio, sulle macerie di progetti e ideologie.
In quello scenario, che non fu solo universitario, spiccava ancor più la tenuta e la crescita di una presenza non determinata dalla volontà di un esito sociale e politico, ma dal riconoscimento di Cristo risorto e da una passione di testimonianza

Katyn

Quanti vedranno la pellicola, sappiano che quelle che li dividono dall’Agnus Dei composto da Krzysztof Penderecki – sconvolgente chiusura, su schermo nero, del film – sono poco meno di due ore di grande cinema.
E non è per un modo di dire.
«Meditate che questo è stato»: davanti all’opera di Wajda viene alla mente un passo dell’epigrafe che apre Se questo è un uomo di Primo Levi, anche perché questo racconto per immagini emerge – letteralmente – dalla nebbia, che non è solo quella dei libri di Storia.
Eppure, nonostante la palese bestialità, atrocità della vicenda che sta alla sua base, Katyn non è il prodotto partorito con spirito vendicativo o astio ideologico dal figlio di una delle vittime.
È tutt’altro, è sorprendentemente tutt’altro: Katyn è un’opera corale sull’accadere, sul porsi di un fatto, sulla verità di questo fatto e sul rapporto di ciascuno (e della sua libertà) con la verità di questo fatto.
Verità che durante il film vedremo negata, distorta o sminuita dal Potere, Potere inteso come affermazione di un’idea sulla realtà, cioè su quel che è accaduto.
Come ogni forma d’arte che valga questo nome, la pellicola è una forma di incontro: dietro quei 113 minuti c’è – ultimamente – qualcuno che chiede la nostra attenzione, la nostra pazienza.
Meglio, la carità della nostra attenzione e della nostra pazienza.
Per stare ad ascoltare quello che ha da dire, per stare a vedere quello che ha da mostrare.
E, come sempre, c’è più di un modo di “entrare” nel racconto: l’immedesimazione con uno dei personaggi, l’emozione per una certa sequenza, il moto d’animo per una delle figure di contorno…
Va detto che – almeno come esposizione temporale, cronologica dei fatti – il film è costruito in modo non immediato: Katyn abbraccia più storie personali e più personaggi lungo un periodo di circa sei anni che va dal settembre/novembre 1939 al 1945.
Non ci si faccia dunque spaventare dalle frequenti didascalie che lo scandiscono (17 settembre 1939, novembre 1939, primavera 1940, 13 aprile 1943, 1945, …) così come dalla presenza dei non pochi personaggi che lo animano (il capitano, il sott’ufficiale, il generale, l’ingegnere che progetta aerei, la moglie del capitano, la moglie e la figlia del generale, la sorella – anzi le sorelle – dell’ingegnere, …).
Nel fare presente questo eventuale elemento di fatica, invitiamo quanti vorranno accostarsi alla visione del film a chiedere innanzitutto per sé la libertà, il coraggio di lasciarsi sfidare dal suo contenuto, il coraggio di lasciar emergere una domanda – anzi la domanda – sull’origine, sull’identità, sulla consistenza della speranza che anima i personaggi – donne e uomini; mogli, mariti e figli; fratelli e sorelle; civili e soldati (già, i “soldati”…) – che vedranno raccontati sul grande schermo.
Pensiamo soprattutto ai quindici minuti finali, chiusi dall’Agnus Dei di cui già si diceva.
Fosse solo per il balenare, l’emergere dei contorni di questa domanda, avremmo già di che ringraziare l’ottantatreenne regista.
E nel provare a rispondere, “meditiamo che questo è stato”.
Buona visione.
(Leonardo Locatelli) Katyn – Basati sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, i rigorosi, potenti, “magistrali” 113 minuti di Katyn (2007) sono stati realizzati dal prolifico sceneggiatore e regista polacco Andrzej Wajda (classe 1926, premio Oscar 2000 e Orso d’Oro 2006, entrambi alla carriera) attingendo a diari, lettere, confessioni e analizzando anche i documenti ufficiali conservati negli archivi polacchi, statunitensi, inglesi e relativi a quello che in patria è tutt’ora considerato il più tragico lutto nazionale.
Non stupiscano quindi la lucidità e la pulizia non solo formali che caratterizzano questo film, nel quale è la Storia a fare capolino.
La pellicola ruota infatti attorno al massacro – avvenuto nella primavera del 1940 nel tentativo di cancellare l’intellighenzia di un intero Paese – di oltre 22.000 ufficiali, riservisti, medici, avvocati, professori e guardie di confine polacchi (tra i quali anche Jakub Wajda, il padre di Andrzej) fatti prigionieri dall’Armata Rossa al momento dell’invasione russa della Polonia, scattata sedici giorni dopo quella della Wehrmacht.
Decine di migliaia di persone eliminate con un colpo alla nuca per mano degli uomini della NKVD, la polizia politica di Stalin guidata da Lavrentij Berija, e sepolti in fosse comuni nelle foreste di Katyn (una collina coperta di abeti che domina il fiume Dnepr, nei pressi di Smolensk), Tver, Char’kov e Bykownia.

Un documento della Compagnia delle Opere sulla scuola

Con un approccio nuovo e veramente significativo il documento che la Compagnia delle Opere dedica alla scuola, e che qui presentiamo, evidenzia la stretta connessione che intercorre tra il tema educazione e il tema istruzione.
Le proposte che qui vengono avanzate per un cambiamento del sistema scolastico sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.
I punti sono noti: autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; reale valutazione del sistema scolastico; nuova professionalità e carriera per i docenti; personalizzazione dei percorsi; abolizione del valore legale del titolo di studio.
Sono tutti punti essenziali, la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male.
A tutti questi temi il nostro giornale ha già dedicato moltissimi interventi di approfondimento e continuerà a farlo.
Il punto caratterizzante del documento è un altro: non solo la centralità del tema educazione, ma la diretta consequenzialità e correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.
Non si creerà mai un sistema talmente perfetto da rendere superfluo il rapporto educativo tra docente e studente, elemento centrale della scuola; ma non si darà mai vera incidenza alla tensione educativa se la si lascerà a lato delle problematiche della scuola (riducendola di fatto a ciò che è lo svago del sabato sera rispetto alla settimana lavorativa).
Nel documento “Una scuola che parla al futuro” è segnata una stretta interdipendenza tra i due aspetti.
Basta confrontare i punti essenziali alla voce “Educazione” e le proposte programmatiche, e si vedrà che dai primi discendono le seconde: quando si dice che «la prima condizione che realizza l’educazione è la presenza di figure adulte autorevoli» significa, di conseguenza, che è necessario che ci siano «docenti e dirigenti come veri professionisti» (d’altronde, finché lo studente continuerà a guardare al professore come a un fallito nella scala sociale tutto resterà molto difficile); quando si dice che «l’autorevolezza deriva dalla partecipazione ad un cammino unitario di costruzione del proprio io» e che «gli alunni non sono da intendere come il terminale astratto di iniziative che li vedono passivi», ne deriva la necessità di avere «percorsi di studio flessibili e personalizzati».
E così via.
Le esigenze educative si concretano in scelte di politica scolastica, che non saranno mai la soluzione perfetta, ma permetteranno o di facilitare il processo educativo, o quanto meno (e già sarebbe molto!) di non ostacolarlo.
Questa è dunque la grande sfida che questo documento lancia nel dibattito sulla scuola.
In un momento in cui, per altro, l’emergenza educativa è sempre più evidente e centrale.
In questo senso, le molte indagini e ricerche (alcune recentissime) che testimoniano la totale indifferenza degli studenti verso la loro esperienza scolastica sono un dato drammatico e ineludibile: i docenti non sono un punto di riferimento, né umano né culturale; le cose che contano veramente le si imparano altrove; la scuola non è né buona né cattiva, ma semplicemente indifferente, perché da essa non ci si aspetta nulla.
Ecco come educazione e istruzione vengono allora a coincidere: nel momento in cui ci si rende pienamente conto che, come fu detto autorevolmente, non c’è cosa più assurda della risposta a una domanda che non si pone.
Far emergere la domanda di sapere e conoscenza è compito educativo, che si realizza dentro un’autorevole e riconosciuta professionalità didattica che abbia come fine l’istruzione.
Un ultimo appunto, che rende particolarmente importante e attuale il documento Cdo: proprio in questi giorni l’Assemblea della Conferenza episcopale italiana ha rilanciato il tema educazione come tema del prossimo decennio.
Significa che c’è una grande responsabilità, non solo per i cattolici, e un impegno per tutti, in termini di riflessione, approfondimento, lavoro concreto: l’educazione e la scuola dovranno essere i pilastri del dibattito politico-culturale nei prossimi anni.
Per consultare il documento: Scuola e futuroIl sussidiario Oggi il ministro Gelmini, attesa al meeting di Rimini per un suo intervento, è chiamata anche implicitamente a fornire risposte ad un documento predisposto dalla Compagnia delle Opere dedicato alla scuola e contenente una stretta interconnessione tra educazione e istruzione.
Ne parla sul proprio sito la testata on-line “Il sussidiario” che riporta il testo integrale del documento.
Le proposte avanzate dalla Compagnia delle Opera – osserva l’editoriale de “Il sussidiario” – per un cambiamento del sistema scolastico “sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.”.
I punti trattati dal documento e che chiamano in causa la Gelmini sono: – autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; – reale valutazione del sistema scolastico; – nuova professionalità e carriera per i docenti; – personalizzazione dei percorsi; – abolizione del valore legale del titolo di studio.
“Sono tutti punti essenziali – fa notare Il sussidiario – la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male”.
“Il punto caratterizzante del documento è la diretta correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.”

Adozione dei libri di testo

Con Ordinanza n.
4328 dell’8 agosto, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello del Ministero dell’istruzione che aveva chiesto di sospendere la sentenza del Tar Lazio sui libri di testo.
La sentenza, originata da un ricorso di docenti lombardi sostenuti dalla Cgil-scuola territoriale, aveva ritenuta non legittima la disposizione ministeriale per l’adozione dei libri di testo nella parte in cui non prevedeva la deroga al vincolo quinquennale o sessennale dei testi adottati, qualora un nuovo docente assegnato alla classe avesse ritenuto opportuna una scelta diversa.
Il Consiglio di Stato, nel respingere qualche giorno fa, per mancanza dei motivi di urgenza, la richiesta del Miur di sospendere l’applicazione della sentenza del Tar Lazio che riconosce il diritto di docenti neo-trasferiti di derogare dal blocco quinquennale dei libri di testo adottati, ha richiamato una sua recente ordinanza in merito che sembra porre fine alla questione.
Il 19 maggio scorso, infatti, lo stesso Consiglio di Stato ha emesso l’ordinanza n.
2540 con la quale in modo inequivocabile chiarisce l’eventuale diritto dei docenti neo-assegnati ad una scuola di derogare dal blocco di adozione quinquennale dei libri di testo e di rivendicare il diritto di modificare l’adozione.
“l’impostazione seguita dall’amministrazione nella circolare impugnata – recita l’ordinanza –  secondo la quale il trasferimento dell’insegnante non costituisce specifica e motivata esigenza che consente, ai sensi dall’art.
5 del D.
L.  1 settembre 2008, n.137, il cambio di libri di testo prima del decorso del quinquennio, appare conforme al dettato normativo, che sottolinea l’eccezionalità dei casi nei quali è consentito il suddetto cambio, e non appare irrazionale, in quanto le valutazioni del docente subentrante non costituiscono evento obiettivo, tale da imporsi come eccezione alla volontà del legislatore”.    

XXII Domenica del tempo ordinario anno B

Questo popolo mi onora con le labbra Fratelli, siamo umili, deponendo ogni vanagloria, vanità, stoltezza, ira e adempiamo ciò che sta scritto; lo Spirito santo dice, infatti: «Il saggio non si vanti della sua saggezza, né il forte della sua forza, né il ricco della sua ricchezza, ma chi si vanta si vanti nel Signo-re, di cercarlo e di praticare il diritto e la giustizia» (cfr.
Ger 9,22-23; 1Re 2,10; 1Cor 1,31; 2Cor 10,17).
Ricordiamoci soprattutto delle parole del Signore Gesù, quando ci insegnava la benevolenza e la grandezza d’animo.
Così diceva: «Siate misericordiosi per ottenere mi-sericordia; perdonate per essere perdonati, come farete, così sarà fatto a voi; come date, co-sì sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata con voi; la misura con la quale misurate, verrà usata con voi» (cfr.
Mt 6,14-15; 7,1-2; Lc 6,31.36-38).
Attacchiamoci saldamente a questo comandamento e a questi precetti per procedere umili e obbedienti nelle sue sante parole; dice infatti la sua santa Parola: «A chi rivolgerò lo sguardo, se non al mite, al pacifico e che teme le mie parole?» (Is 66,2).
Uniamoci, dunque, a quelli che vivono la pace nella fede, non a quelli che fingono di volerla con ipocrisia.
Dice infatti: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; Mc 7,6).
E ancora: «Con la loro bocca benedicono, con il loro cuo-re maledicono» (Sal 61 [62] ,5).
E ancora: «Lo amavano con la bocca e con la lingua gli mentivano, il loro cuore non era retto con lui, né rimanevano fedeli alla sua alleanza» (Sal 77 [78] , 36-37).
[…] Cristo appartiene agli umili e non a quelli che si elevano sopra il suo gregge.
Lo scettro della maestà di Dio, il Signore Gesù Cristo, non è venuto nella vanaglo-ria e nell’orgoglio, anche se avrebbe potuto, ma nell’umiltà, come lo Spirito santo aveva detto di lui.
Sta scritto infatti: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il brac-cio del Signore a chi fu rivelato? Noi l’abbiamo annunciato in sua presenza: è come un bambino, come una radice in terra arida; non ha apparenza, né gloria» (Is 53,1-2).
Vedete, carissimi, quale modello ci è dato! (CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinti 13.15-16, SC 167, pp.
120-126).
L’umiltà «Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l’abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).
«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra a-biezione, ma nell’amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).
Verità e umiltà Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce all’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.
Per tanti anni, per troppi anni, mi sono battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza.
Il più sovente l’ho nascosta, preferendo apparire in pubblico con una bella ma-schera di sicurezza.
E’ l’orgoglio che non vuole accettare l’impotenza, è la superbia che non fa accettare di essere piccolo; e Dio, poco alla volta, me l’ha fatto capire.
Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.
E’ un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il ca-techismo, avrei guadagnato quarant’anni.
Ora l’impotenza mia la metto tutta in faccia al-l’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza.
E mi pare essere giunto il momento d’un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare insieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito.
Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.
E in questo incontro fra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.
E’ lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.
E’, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.
E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’ è verità, e senza verità non c’ è umiltà.
(Carlo Carretto) Preghiera Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia.
Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito per-seguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli.
Permettici di riconosce-re le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’au-tenticità della nostra relazione con te e fra di noi.
Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi.
Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare.
Ci impe-gniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.
Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di di-ventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 4,1-2.6-8 Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signo-re, Dio dei vostri padri, sta per darvi.
Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osservere-te i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sa-rà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”.
Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invo-chiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
La prima lettura ci presenta Mosè che parla al popolo e lo esorta a mettere in pratica la legge del Signore: esortazione, che costituisce il tema fondamentale del Deuteronomio (Dt 4,l; cf.
5,1; 6,1; 8,1; 11.
8-9).
I versetti iniziali del capitolo quattro sono costruiti con termini e forme linguistiche tipi-che dello stile deuteronomistico: «Ora, Israele (Shemá Israel); «Signore, Dio dei vostri padri»; «i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo».
Questi versetti sono come un preludio musicale, nel quale vengono anticipati i motivi dell’intera composizione (cf.
N.
Lohfink, Ascolta Israele, Esegesi di testi del Deuteronomio, Paideia Brescia 1965, p.
106).
Mosè invita con insistenza il popolo a mettere in pratica gli ordinamenti che egli ha ri-cevuto da Dio ed insegna al popolo.
La conseguenza della pratica dei comandamenti è la vita: Israele, attraverso l’obbedienza ai comandamenti è introdotto nella sfera della vita del Signore.
La libertà piena sarà raggiunta nella terra «che il Signore ha giurato di dare ai vo-stri padri e alla loro discendenza» (Dt 11,9; cf.
Dt 8,1).
Anche la vita libera e serena nella terra è legata all’obbedienza ai precetti.
La disobbedienza può comportare la perdita della terra, come è il caso di Israele in esilio, quando il Deuteronomio viene scritto.
Allora sorge una domanda angosciante; Israele che non ha più la terra, non ha più il tempio, può anco-ra distinguersi come popolo di fronte alle altre nazioni? I versetti 6-8 del capitolo 4, insie-me con tutto il libro del Deuteronomio, rispondono: «Israele senza terra e senza tempio è ancora una nazione distinta dalle altre, perché la sua identità di popolo di Dio gli è data dalla Tôrà del Signore, che contiene ordinamenti più saggi e più giusti di tutti quelli degli altri popoli.
Questa risposta del Deuteronomio sarà molto preziosa anche dopo la distru-zione del secondo tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C.
da parte dei romani.
Intorno alla Tôrà si ricostituirà l’identità del popolo e la testimonianza al Dio unico, peculiare missione di Israele fra le genti, si esprimerà nella pratica dei precetti, l’osservanza dei precetti della Tôrà costituisce la saggezza e l’intelligenza di Israele «agli occhi dei popoli, i quali, udendo par-lare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt 4,6).
Israele, oltre che per gli ordinamenti, si distingue per la particolare vicinanza a Dio.
In ebraico c’è un gioco di parole fra «vicino» (qarob) e «invocare» (qarà).
Israele, in esilio, apparentemente abbandonato dal suo Dio, lo ha ancora così vicino, che lo ascolta ogni volta che lo invoca, la vicinanza di Dio non è per Israele legata a un luogo, ma all’ascolto della sua Parola, che deve essere messa in pratica sempre e dovunque.
Dopo la colpa, c’è la possibilità del ritorno (teshuvà) «perché il Signore tuo Dio è un Dio mise-ricordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 4,31).
In questa luce si capisce l’entusiasmo del Deuteronomio e di altre pagine bibliche, in particolare i Salmi, per i decreti e gli ordinamenti della Tôrà, che costituisce il patrimonio prezioso di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende vicino a Dio in un modo del tutto peculiare.
Seconda lettura: Giacomo 1,17-18.21-22.27 Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento.
Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di veri-tà, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.
Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfa-ni e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
I quattro versetti del primo capitolo della lettera di Giacomo (17-18.21.27) che la liturgia ci fa leggere oggi fanno parte della pericope 1,17-27, che è un’esortazione ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio, perfettamente in linea con la prima lettura.
Giacomo si rivolge a discepoli di Gesù ebrei con un linguaggio a loro familiare.
Dio è Padre della luce e Padre di coloro che «per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità» (Gc 1,18).
I figli da lui scelti devono rispondergli con l’obbedienza, segno dell’ac-cettazione dei suoi doni, che sono permanenti e perfetti, non caduchi come quelli degli uomini (Gc 1,17).
Perfetta è la legge, che è il dono di Dio per eccellenza; essa è «la legge della libertà» (Gc 1,25).
La lettera di Giacomo, entrata nel canone allo stesso titolo delle lettere paoline, può aiu-tarci a mantenere un atteggiamento equilibrato nei confronti della Tôrà di Mosè, che gli e-brei religiosi del tempo di Gesù e dei secoli posteriori fino ad oggi hanno sempre cercato di mettere in pratica e di insegnare ai figli di generazione in generazione.
La presenza della lettera di Giacomo nel canone, ci ricorda che non possiamo farci una rivelazione su misura.
La Bibbia presenta spesso pagine che sembrano a una prima lettura in contraddizione, non dobbiamo di fronte alle difficoltà scegliere una pagina, ignorando l’altra.
Non possiamo parlare di grazia senza la legge; la legge (Tôrà) è il dono gratuito di Dio per eccellenza, come dice il Deuteronomio, il segno del patto di alleanza, che costitui-sce Israele nella realtà di popolo di Dio e lo fa vivere come tale.
I cristiani, se provenienti dal giudaismo, come dovevano essere quelli a cui Giacomo scriveva, devono continuare a seguire la legge di Dio «perfetta e legge della libertà», come ha dato l’esempio Gesù stesso.
Paolo stesso, nella lettera ai Romani dice: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati» (Rom 2,13).
Anche i cristiani venuti dal paganesimo, non sono esonerati dal mettere in pratica la Paro-la di Dio, l’esempio di Gesù vale anche per loro.
Resta la problematica dell’interpretazione e del modo di applicazione, che si fa acuto per i cristiani provenienti dal paganesimo, co-me ne costatiamo il riflesso nella pagina evangelica.
Vangelo: Marco 7,1-8.14-15.21-23 In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva lo-ro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro.
Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Esegesi La pericope evangelica Mc 7,1-23, di cui leggiamo oggi i versetti 1-8, 14-15.21-23 è co-struita intorno alla problematica fondamentale di come distinguere il «comandamento di Dio», dal «precetti degli uomini».
Non è messa in discussione la Tôrà (insegnamento, leg-ge) data da Dio a Mosè sul Sinai, ma la sua interpretazione e le modalità della sua messa in pratica.
Gesù si scaglia in maniera molto polemica contro «le tradizioni degli uomini», che possono far dimenticare le esigenze fondamentali dei precetti divini, non contro que-st’ultimi, che invece devono essere eseguiti, come lui stesso da l’esempio.
I personaggi messi in scena dal brano sono nel primo quadro: i farisei e alcuni scribi ve-nuti da Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli (vv.
1-13); nel secondo: Gesù e la folla, chia-mata da lui (14-15.[16]); nel terzo: Gesù e i discepoli rientrati in casa (17-23).
La cornice è poco attendibile storicamente, è un pretesto per fissare l’attenzione sulle problematiche discusse.
Farisei e scribi, infatti, arrivati addirittura da Gerusalemme, pon-gono a Gesù una domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione de-gli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,5) e poi scompaiono di scena, senza ri-spondere all’invettiva polemica di Gesù, nei loro confronti.
Dobbiamo rilevare che non è Gesù a commettere un’infrazione rituale (cf.
Mc 2,23), ma solo i discepoli non seguono la regola, presentata come facente parte della «tradizione de-gli antichi» (Mc 7,3).
Il desiderio di purificazione, che si manifestava nei bagni rituali, nelle immersioni, a-spersioni e abluzioni varie era diffuso nelle popolazioni antiche, non solo in Israele.
Il Vangelo di Marco presenta la regola di lavarsi le mani prima di prendere cibo come co-mune sia ai farisei sia a tutti i giudei (Mc 7,1-3).
Una affermazione, dice Piero Stefani nel suo commento al brano, che «appare difficilmente valida se situata all’epoca di Gesù.
Il la-vaggio delle mani (e dei piedi) si presenta, infatti, come esplicito precetto biblico solo nel caso del sacerdote che deve seguirlo prima di entrare nel luogo sacro per compiervi un’of-ferta (Es 30,17-21; cf.
Dt 21,6-7), (ma nulla era richiesto, neppure al sacerdote, in relazione alla consumazione del cibo comune).
All’epoca di Gesù, però, particolari gruppi di ebrei (detti chaverini), che si proponevano di realizzare la santificazione di ogni aspetto della vi-ta, e che perciò tendevano a comportarsi nelle loro case come i sacerdoti nel tempio, adot-tarono la prassi di lavarsi ritualmente le mani prima di mangiare.
È proprio quest’esten-sione della sacralità, tanto accentuata da farla in un certo senso coincidere con la profanità, indicò una delle vie che consentiranno all’ebraismo di proseguire la propria vicenda anche dopo la distruzione del secondo tempio.
Tuttavia questi gruppi (di cui non è neppure uni-versalmente condivisa l’identificazione con i farisei) rappresentavano solo una piccola mi-noranza della popolazione, non certo «tutti i giudei» (Mc 7,3).
Solo dopo la distruzione del tempio (in una data incerta, ma anteriore alla metà del II secolo), tale norma fu estesa a tut-ti e integrata nella codificazione della Mishná; in tal modo essa, secondo lo spirito proprio della tradizione ebraica, divenne, nonostante fosse stata promulgata dai maestri, tanto va-lida come se provenisse direttamente dal Signore, cosicché tuttora, quando si compie que-sta abluzione (detta notilat judalm), si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, o Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comanda-to il lavaggio delle mani».
È però assai difficile ritenere che all’epoca di Gesù qualcuno po-tesse recitare una simile benedizione.
Sullo sfondo di queste precisazioni, risulta quanto meno strano che in Marco (ma non in Matteo 15,1-20) il discorso sulla purità prosegue fino a sfociare in una presa di posizione relativa alla stessa esistenza di cibi ritualmente puri (kasher).
«Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non entra nel cuore, ma nel ventre e va fino alla fogna?.
Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,18-19).
Non vi è dubbio infatti che le norme sulle purità del cibo non possono in alcun modo ritenersi «tradizioni degli uomini» (o degli antichi) (cf.
Mt 15,2.2.6; Mc 7,8.9.13); al contrario, esse devono venir considerate solidamente fondate sulla Tôrà scritta (Pentateuco) (cf.
Lv 11; Dt 14,3-20).
Né vi è alcuna indicazione che Gesù e i suoi discepoli (almeno prima della pa-squa) non si attenessero a questi precetti (stando a quanto pronunciato da Pietro nel libro degli Atti se ne dedurrebbe anzi il contrario, cf.
At 10,14; 11,8).
La disputa sui cibi divenne argomento di dibattito e tensione entro le comunità cristiane di origine pagana (cf.
Gai 2,11-14; Rm 14,1-6), perciò si è ragionevolmente proposto di veder proiettati sulle pagine evangeliche i motivi propri di tali dispute.
Subito dopo la discussione sull’impurità, Marco afferma che Gesù «partito di là, andò nel territorio di Tiro e Sidone» (Mc 7,24; cf.
Mt 15,21); espressione quest’ultima che nel suo indicare una terra pagana assume un significato non tanto geografico quanto teologico (cf.
1Re 17,8-16; Le 4,25-26).
Nella grande sezione del libro degli Atti (10, 1- 11,18), le tre volte avvenuta e le due volte raccontata visione di Pietro indicano chiaramente che il non consi-derare più impuro nessun cibo, in quanto tutto è purificato, deve ritenersi come grande metafora del rapporto (profondamente mutato dalla vicenda pasquale) tra figli d’Israele e figli delle genti; tant’è vero che Pietro stesso riassume il senso della sua visione con queste parole: «Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano (koinos) e im-mondo (kathartos) (At 10,28).
Ai nostri giorni perciò, quando le polemiche interne a quelle primitive comunità sono ormai lontane, è legittimo (o addirittura richiesto) sostenere che la possibile partecipazione universale, attraverso la fede in Cristo, alla discendenza di A-bramo da parte dei figli delle genti (cf.
Gal 4,29) non solo non esclude, ma anzi addirittura comporta che i figli di Israele, popolo sacerdotale (Es 19,6), la cui elezione non è stata tolta (Rom 11,29), continuino ad essere assoggettati a norme più rigide a motivo della propria e altrui santificazione.
Si è detto che il giudaismo, così come vissuto dai farisei (e/o dai chaverim), affrontava il problema della santificazione d’Israele (e santificare qui significa separare), e questo com-pito si distingue marcatamente dalla dinamica tipica della predicazione del regno e del buon annuncio di salvezza tipico di Gesù e degli apostoli.
Per più aspetti tale affermazione appare convincente, ma ciò non dovrebbe impedire di comprendere adeguatamente le re-gole insite in tale santificazione, che non coincidono affatto, come una superficiale lettura di qualche passo evangelico indurrebbe a credere (cf.
Mt 15,1-20; 23,1-36; Mc 7,1-23; Lc 15,38-52), con un ipocrita tentativo di sostituire un’osservanza puramente esteriore all’ese-cuzione di più gravi e precisi precetti etici.
Per comprenderlo basterebbe tenere presente l’ovvia quanto dimenticata distinzione che «ritualmente impuro» non equivale affatto a «moralmente riprovevole».
Non a caso la maggior parte delle regole bibliche sulla purità indicano la maniera di purificare un’impu-rità contratta in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come ad esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf.
ad es.
Lv 12,1-8; 15,1-27; Num 19,11-22; Lc 2,22).
Una tipica espressione rabbinica per indicare la canonicità di un testo sacro è quella di sostenere che esso «rende impure le mani» (cf.
m.
Jadaim 3,5); tale espressione sarebbe da sola sufficiente ad indicare l’ambito in cui il giudaismo colloca la sfera dell’impurità o della purità, sfera che ha a che fare non con l’eticità (e ancor meno con l’igiene), bensì con una santificazione della vita compiuta secondo una procedura che non dovrebbe venir schernita, non foss’altro a motivo della millenaria fedeltà con cui è stata osservata da Israe-le» (P.
STEFANI, Sia santificato il tuo nome.
Commenti ai Vangeli della domenica.
Anno B, Marietti Genova 1987, p.
163-166).
Se è dall’interno di noi che hanno inizio gli impulsi malvagi o quelli buoni, nel nostro stato di creature corporee abbiamo bisogno anche di segni esterni; proprio il gesto del la-vaggio rituale delle dita, con la recita di un versetto di un salmo («Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato».
Sal 51,4) è il gesto che il sacerdote compie nel rito della messa subito dopo la preparazione delle offerte, prima di iniziare la grande preghiera eu-caristica.
Meditazione Spesso, nei racconti evangelici, ci imbattiamo in lunghe ed aspre polemiche che vedono a confronto Gesù, il suo comportamento e la sua parola, con l’élite più rappresentativa e impegnata della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi.
Questi, alcune volte conte-stano a Gesù o ai suoi discepoli un comportamento non conforme alle pratiche religiose comunemente e tradizionalmente accolte nel mondo giudaico; altre volte, invece lo inter-rogano su questo o quell’aspetto della Scrittura per sapere ciò che realmente pensa.
In ogni caso questi incontri producono sempre tensione, scontro e si rimane stupiti dalla durezza con cui spesso Gesù reagisce di fronte a quel mondo spirituale e giuridico di cui i farisei erano rappresentanti.
Soprattutto ciò che sembra irritare maggiormente Gesù non è tanto l’interpretazione della Scrittura che caratterizzava la visione religiosa di questi uomini, quanto piuttosto la loro sfacciata incoerenza che nascondeva, sotto una apparenza di per-fezione, una autosufficienza idolatrica, quella radicale doppiezza di vita che si concentra nel titolo con cui spesso i farisei sono chiamati: ipocriti.
È il caso della situazione presentata nel capitolo 7 di Marco il brano proposto in questa domenica (anche se la liturgia presenta solo una scelta di versetti per dare maggiore unita-rietà al contenuto).
«Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (v.
5).
L’interrogativo stupito e irritato che gli scribi e i farisei pongono a Gesù è dunque motivato da un comportamento ‘spavaldo’ dei discepoli, i quali sembrano non tener in nessun conto le prescrizioni della legge.
Il rap-porto tra Scrittura e Tradizione/tradizioni (vv.
6-13) e la relazione tra puro e impuro (vv.
14-23) che caratterizzano il dibattito che segue a questa domanda, mettono a fuoco un aspetto fondamentale.
Ciò che è in questione in questa polemica, non sono tanto delle pratiche re-ligiose, la loro validità o meno.
Al centro c’è la relazione con Dio, la scoperta del luogo profondo e vero in cui questa relazione prende forma e da qualità a tutta la vita.
Ma, proprio a partire da questo testo di Marco, ci si può domandare: erano realmente così i farisei? Citando il testo di Isaia 29,13, Gesù si rivolge ai farisei in questi termini: «Be-ne ha profetato Isaia di voi, ipocriti…
Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuo-re è lontano da me» (v.
6).
L’ipocrisia è una prerogativa dei farisei oppure è qualcosa che si nasconde nel cuore dell’uomo? E perché, in ogni caso, l’ipocrisia poteva essere un rischio di questa categoria dei persone? Farisei e scribi di fatto rappresentavano la parte religio-samente più impegnata di Israele, seriamente preoccupata di tradurre nella vita concreta quel rapporto con Dio, quella saggezza che sgorgava dalla parola e che caratterizzava l’u-nicità del popolo dell’Alleanza.
La responsabilità personale, l’interiorità della decisione morale, il profondo senso della santità e dell’alterità di Dio, la consapevolezza del dono ricevuto nella Legge orientavano questi uomini nella ricerca di una sincera e radicale fedeltà alla volontà di Dio.
Ma corre-vano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata.
È il rischio che porta a una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attra-verso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri.
La gratuità di una relazione, lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà.
Gesù smaschera questo pericolo mettendo a confronto ciò che l’uomo cerca (in questo caso ciò che i farisei difendono) e ciò che Dio desidera dal-l’uomo.
E c’è un primo confronto che colpisce.
Il testo del Deuteronomio mette in bocca a Mosè queste parole: «…quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7).
Colui che è il Santo, la cui tra-scendenza sembra rendere la creatura molto lontana da un incontro, è il Dio vicino, sem-pre disponibile quando lo si invoca, è il Dio che ha deciso di fare storia con l’uomo, di camminare con lui.
Pur restando irriducibile alla creatura, si lascia trovare ogni giorno e la sua vicinanza si trasforma in fedeltà all’uomo e alla sua storia.
Dio non è lontano; è l’uomo che spesso cammina per altre vie e colloca il suo cuore in luoghi diversi da quelli in cui può scoprire il volto di Dio.
E Gesù ricorda la parola di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6).
Ecco il pericolo: la pretesa di accostarsi a Dio, rimanendo tuttavia estranei a Lui, lontani.
E questo avviene quando il cuore della vita non aderisce veramente a Dio e alla sua parola, anche se si pretende di rendere un culto che è, alla fine, pura appa-renza.
Ma c’è un luogo in cui questa vicinanza si fa presenza efficace, parlante: è la Parola stes-sa di Dio contenuta nella Scrittura.
Ancora Mosè ricorda al popolo di Israele: «Israele, a-scolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica , perché viviate…
quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza» (Dt 4,1.6).
A Israele, il Signore chiede di ricambiare la fedeltà di cui Egli ha dato prova lungo il cammino di liberazione attra-verso il deserto, con l’obbedienza e l’ascolto di una Parola di vita e di saggezza.
Ed ecco al-lora un altro contrasto: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini…
Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13).
L’uomo ha bisogno di attualizzare una obbedienza alla parola di Dio: è la legge della In-carnazione.
Ma deve sempre tenere presente questo: che la parola di Dio resta continua-mente aperta, anzi è la porta per un incontro vivo e personale con il Signore.
Non basta os-servare un precetto, se poi non si incontra veramente il volto del Signore.
E questo avviene quando si va al cuore della Parola, al luogo dove si rivela ciò che Dio vuole da noi.
E su questo punto Gesù è molto chiaro: il rischio che si incontra nell’assolutizzare un modo concreto di tradurre la Parola, è quello di non riuscire più ad andare al cuore di essa.
Come il cuore della Parola ci rivela la volontà di Dio, ce lo fa incontrare, così è il cuore dell’uomo il luogo che deve essere custodito nella verità e nella purezza.
Ecco il terzo con-trasto che Gesù ci presenta.
L’impurità che ci impedisce di accostarci a Dio o la purezza che ci permette di entrare nel luogo dove abita, non sono da ricercare fuori dell’uomo.
E se c’è un comportamento esterno che ostacola il nostro rapporto con Dio o con i fratelli, in ogni caso il punto di partenza è sempre nel cuore dell’uomo: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male…»(v.
21).
Il cuore dell’uomo non purificato è il covo di vizi che causano la rovina (cfr.
Lc 6,45).
E Gesù ci offre anche un elenco di ‘propositi di male’ (dialogismoi kakoi): dodici vizi, sei al plurale e sei al singolare che manifestano lo stato negativo del cuore attraverso un errato rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, con gli altri.
L’ultimo vizio, la stoltezza, e la sintesi di un cuore intaccato dalla impurità e la fonte di ogni altro vizio: lo stolto è l’uomo che «non conosce Dio», l’uomo che dimentica e di-sprezza Dio, l’uomo lontano da Dio.
«Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (v.
20): non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio in chissà quale luogo perfetto e irreale; ci si deve purificare dal peccato che portiamo dentro di noi.
È il cuore malvagio che ci rende incapaci di avvicinarci a Dio; ciò che unisce ed avvicina a Dio è il cuore nuovo, il cuore puro che Dio stesso crea nell’uomo, in tutti, peccatori e giusti, giudei e pagani.
I farisei si accontentavano di prendere il pane con mani lavate; Gesù ci di-ce che per ‘afferrare’ il pane non servono mani pure, ma il cuore ‘secondo il Signore’.
Il pa-ne, il cibo, sono i simboli della vita, il simbolo della parola che è vita e che Gesù stesso ci dona.
Per ricevere da lui questo pane di vita si deve avere un cuore nella verità, un cuore che ama, un cuore buono, che desidera la vita.
Subito dopo questa disputa, Marco colloca l’episodio della donna siro-fenicia (Mc 7,24-30).
A questa donna, pagana e perciò impura, Gesù dirà: «Non è bene prendere il pane di figli e gettarlo ai cagnolini» (v.
27).
Così ri-sponderà la donna: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei fi-gli».
La consapevolezza umile di una lontananza da Dio rende il cuore di quella donna pu-ro e lo avvicina a Dio: può sedersi alla mensa ed afferrare il pane che vi è posto sopra, il pane del Figlio.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Le nuove regole di valutazione

Giro di vite sull’ammissione alla maturità, superbravi alla media in via d’estinzione e docenti di religione che dopo lo stop del Tar Lazio ritornano in pista per l’attribuzione del credito scolastico.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto del presidente della Repubblica numero 122, il Regolamento sulla Valutazione degli alunni è legge.
Un provvedimento che conferma una serie di cambiamenti introdotti già quest’anno (come i voti numerici sin dalla scuola primaria e il voto di condotta) ma che contiene almeno tre importanti novità.
La prima, che susciterà certamente polemiche, è quella sui docenti di religione, recentemente estromessi dal Tar Lazio dal computo del credito.
Il regolamento non tiene affatto conto della sentenza e siccome ha valore di legge a tutti gli effetti potrebbe “sanare” definitivamente la questione relativa ai crediti e rendere superfluo anche il ricorso al Consiglio di stato annunciato dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini.
Se così fosse la frequenza della religione cattolica potrebbe garantire agli alunni che se ne sono avvalsi, alla stessa stregua di altre attività anche extrascolatiche, un punticino di credito in più.
Il tutto, a partire dai prossimi esami di riparazione di settembre e a discrezione dei singoli collegi dei docenti.
In questo modo, le insistenti pressioni dei vescovi sul ministero dell’Istruzione, con buona pace di coloro che hanno sostenuto a gran voce la laicità dello Stato e dell’istruzione pubblica, avrebbero ottenuto il risultato sperato.
E l’impegno della Gelmini sarebbe stato mantenuto.
Altra novità che è destinata a fare discutere è la stretta, peraltro annunciata, sull’ammissione agli esami di stato della scuola secondaria superiore.
Dal prossimo mese di giugno, per essere ammessi alla maturità occorrerà avere almeno 6 in ogni disciplina.
Cosicché un buon voto in condotta o in educazione fisica non servirà a colmare lacune e brutti voti in altre materie.
Già quest’anno, con l’introduzione soft della media del 6 per l’ammissione, il numero di “caduti” prima delle prove d’esame è cresciuto del 25 per cento.
E l’ulteriore stretta rischia di decimare gli aspiranti agli esami.
Novità in vista anche per la scuola media.
Dal prossimo anno scolastico, il voto finale degli esami di licenza scaturirà da un conteggio matematico: la media aritmetica dei voti conseguiti all’ammissione, nelle singole prove scritte (tre o quattro), nelle prove Invalsi (i due test di italiano e matematica) e nel colloquio.
Tanto per avere un’idea, quest’anno i licenziati con dieci decimi sono stati quasi otto su 100.
Ma dalla prossima tornata avere il massimo dei voti diventerà quasi impossibile, perché basta avere soltanto quattro 9 e per il resto tutti 10 per vedersi sfuggire il diploma con 10.
E per i più bravi le commissioni avranno a disposizione anche la lode.
(20 agosto 2009) Pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto del presidente della Repubblica.
La normativa non tiene conto della recente sentenza del Tar del Lazio.
Nelle nuove regole di valutazione i prof di religione daranno i crediti.
Per l’ammissione alla maturità servirà la sufficienza in tutte le materie.
All’esame di terza media sarà quasi impossibile ottenere il massimo dei voti.

Il Tar del Lazio su Irc e credito scolastico

Il Tar del Lazio su Irc e credito scolastico   Sergio Cicatelli     In agosto i giornali sono a corto di notizie e allora si lascia spazio volentieri a dibattiti vuoti o polemiche superficiali per riempire in qualche modo le pagine.
C’è chi approfitta di questa situazione trovando facile ospitalità per “notizie” abilmente costruite e destinate a sopravvivere alla propria reale consistenza.
È il caso della sentenza del Tar del Lazio n.
7076, che è esplosa su TV e giornali tra l’11 e il 12 agosto scorsi, con titoli che parlavano di esclusione degli Idr dagli scrutini e interviste inneggianti alla recuperata laicità della scuola.
Chi si è fermato alla lettura dei giornali (o almeno di certi giornali) avrà immaginato un terremoto scolastico; chi ha cercato di documentarsi meglio avrà compreso la reale portata della sentenza e della notizia ad essa collegata.
Vogliamo quindi provare a ricostruire la vicenda, riconducendola entro i suoi effettivi confini giuridici ed evitando di discutere sui massimi sistemi (valore della religione, tradizioni storiche, laicità dello stato e della scuola, ecc.) come hanno fatto tanti degli esperti che, da posizioni diverse, sono intervenuti nei giorni scorsi sull’argomento cadendo nella trappola della polemica precostituita.
  Anzitutto, il merito della questione.
Non si parla assolutamente di esclusione degli Idr dagli scrutini ma solo del contributo dell’Irc al credito scolastico negli ultimi tre anni di scuola superiore, in vista dell’esame di stato.
Il Tar del Lazio ha riunito insieme in un’unica trattazione due ricorsi che impugnavano le ordinanze ministeriali del 2007 e 2008 sugli esami di stato (OM 26/07 e OM 30/08), in cui era previsto (art.
8, cc.
13-14) che l’Irc potesse intervenire nella banda di oscillazione del punteggio di credito insieme agli altri fattori previsti dal regolamento d’esame (frequenza, partecipazione al dialogo educativo, attività integrative, crediti formativi extrascolastici).
Sull’OM 26/07 il Tar si era già espresso nel maggio 2007 disponendone la sospensione, ma la sua ordinanza (n.
2408) era stata tempestivamente annullata dal Consiglio di Stato (sez.
VI, decreto presidenziale cautelare n.
2699 del 31-5-2007 e ord.
2920 del 12-6-2007).
Incuranti di quell’annullamento, i ricorrenti – che nel frattempo hanno chiamato a raccolta altri alleati costituendo un cartello di ben 24 associazioni e comunità religiose non cattoliche (con sigle invero talvolta sovrapponibili) – hanno riproposto il medesimo ricorso contro l’ordinanza dell’anno successivo e il Tar ha abbinato inopinatamente la trattazione di entrambi i ricorsi (del resto identici) nella sentenza attuale pur conoscendo già la posizione contraria del superiore Consiglio di Stato.
In secondo luogo, diamo un’occhiata alle date.
La prima udienza pubblica in merito si tiene l’11 febbraio 2009, in singolare coincidenza con l’ottantesimo anniversario del primo Concordato.
La camera di consiglio si svolge il 6 maggio e la sentenza porta la data del 17 luglio.
C’è da chiedersi come mai sia finita sui giornali solo il 12 agosto, ma forse i registi della comunicazione hanno voluto assicurarsi una platea sgombra da altri eventi per ottenere una maggiore risonanza.
Inoltre, non va dimenticato che i ricorsi riguardano le ordinanze del 2007 e del 2008, relative ad anni scolastici che hanno da tempo concluso e perfezionato le loro operazioni; e la sentenza non ha alcuna efficacia sull’anno scolastico ancora in corso, che vedrà concludere nei prossimi giorni gli scrutini lasciati in sospeso a giugno per gli studenti che dovevano recuperare qualche materia.
Ma siamo certi che qualche zelante docente o dirigente non mancherà di sollevare la questione, comunque priva di qualsiasi fondamento giuridico.
Pare che anche contro l’ordinanza di quest’anno (OM 40/09) sia stato fatto ricorso, ma il Tar non si è ancora pronunciato.
Nel frattempo, lo scorso 19 agosto è uscito in Gazzetta Ufficiale l’atteso regolamento della valutazione (DPR 20-6-2009, n.
122), che scioglie ogni dubbio ribadendo che l’Idr partecipa regolarmente all’attribuzione del punteggio per il credito scolastico (art.
6, c.
3).
Infine, è curioso che il Tar del Lazio si sia pronunciato sulla questione dopo aver già respinto (con sentenza n.
7101 del 2000) il medesimo ricorso sull’ordinanza del 1999.
Ma si tratta di sezioni diverse del medesimo Tar: mentre nel 2000 era intervenuta la sezione terza bis del Tar laziale, da qualche anno il solito gruppo di ricorrenti ha trovato un insperato alleato nella sezione terza quater del medesimo Tar, che è già intervenuta in altre occasioni (puntualmente amplificate dalla stampa) su questioni relative alla valutazione dell’Irc.
Il collegio giudicante – composto dal dr.
Mario Di Giuseppe, presidente, e dal dr.
Umberto Realfonzo, relatore, di volta in volta affiancati da un terzo giudice – si era infatti già occupato di valutazione dell’Irc (ordinanze nn.
741-742 del 2006) disponendo la sospensiva della CM 84/05 che all’epoca aveva consentito il rientro dell’Irc in un unico documento di valutazione.
Il Ministero era stato di conseguenza costretto ad emanare le note del 3-2-2006, del 9-2-2006 e del 12-2-2006 con cui si precisava che le istituzioni scolastiche avrebbero prima “potuto” e poi “dovuto” redigere le consuete schede separate di valutazione dell’Irc.
  La posizione della sezione terza quater del Tar laziale è facilmente riassumibile nella tesi della natura religiosa e non scolastica dell’Irc, nonostante il Concordato del 1984 lo abbia collocato «nel quadro delle finalità della scuola» e la successiva Intesa del 1985 abbia fissato tutti gli aspetti che ne fanno un insegnamento pienamente scolastico (programmi didattici, libri di testo, percorsi di formazione degli Idr).
Non è forse un caso che spesso, quando non cita formalmente norme costituite, il Tar parli di scelta della “religione cattolica” e non di scelta dell’“insegnamento” della religione cattolica, non volendo – forse inconsciamente – riconoscere valenza scolastica (di insegnamento) a quella che per esso rimane una scelta di fede e una dichiarazione di appartenenza.
I giudici della sezione terza quater, infatti, collocano l’Irc nell’ambito della «tutela di valori di carattere morale, spirituale e/o confessionale» che da un lato legittimano le diverse confessioni religiose a ricorrere e dall’altro riducono le coordinate scolastiche dell’Irc.
Essi sono consapevoli di entrare in contraddizione con i colleghi che nel 2000 si erano invece pronunciati a favore dell’Irc, ma contestano la logica della precedente pronuncia, fondata «su un presupposto logico e giuridico che non può essere condiviso, cioè che l’insegnamento di una religione, qualunque essa sia (sia cattolica che di altri culti), possa essere assimilata a qualsiasi altra attività intellettuale o educativa in senso tecnico del termine», dato che «qualsiasi religione – per sua natura – non è né un’attività culturale, né artistica, né ludica, né un’attività sportiva né un’attività lavorativa ma attiene all’essere più profondo della spiritualità dell’uomo ed a tale stregua va considerata a tutti gli effetti».
Già nelle ordinanze del 2007 la sezione terza quater aveva anticipato in forma sintetica le sue opinioni ritenendo «l’insegnamento della religione come una materia extracurriculare, come è dimostrato dal fatto che il relativo il giudizio – per coloro che se ne avvalgono – non fa parte della pagella ma deve essere comunicato con una separata “speciale nota”»; per altro verso, «sul piano didattico, l’insegnamento della religione non può a nessun titolo, concorrere alla formazione del “credito scolastico” di cui all’art.
11 del D.P.R.
n.
323/1988, per gli esami di maturità, che darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l’insegnamento religioso e né usufruiscono di attività sostitutive».
Con simili premesse, è facile ai giudici Di Giuseppe, Realfonzo e Amicuzzi accogliere oggi le ragioni dei ricorrenti, che possono essere sinteticamente riassunte come segue: 1) il divieto di discriminazione fissato dallo stesso Concordato del 1984 come conseguenza della scelta effettuata sull’Irc; 2-a) la disparità di trattamento tra chi si avvale dell’Irc e chi non se ne avvale, 2-b) l’indeterminatezza dei criteri di valutazione del credito scolastico che possono dar luogo ad ulteriori discriminazioni, 2-c) la tardiva pubblicazione delle istruzioni che fissano criteri per la valutazione di attività scelte in precedenza; 3) l’illegittimità costituzionale dell’art.
9 del Concordato stesso per la disparità di trattamento tra le diverse confessioni religiose.
Con atti separati alcuni hanno anche sostenuto che l’attribuzione del credito condizionerebbe la scelta di avvalersi dell’Irc.
È abbastanza facile notare invece che: 1) il divieto di discriminazione, in ragione del principio costituzionale di uguaglianza, non può essere interpretato a senso unico come possibile solo nei confronti di chi non si avvale dell’Irc ma deve valere anche a tutela di coloro che si avvalgono dell’Irc, impedendo che siano posti in difficoltà con il tentativo di rendere inefficace ai fini scolastici la scelta effettuata; 2-a) la scelta sull’Irc inevitabilmente determina una condizione diversa tra chi se ne avvale e chi non se ne avvale (altrimenti non avrebbe senso scegliere) e si deve solo evitare che la diversità diventi discriminazione con l’imposizione di una condizione deteriore (ad entrambe le parti) in ragione di quella scelta; 2-b) i criteri di valutazione sono istituzionalmente affidati alla discrezionalità delle singole scuole a motivo della loro autonomia (DPR 275/99, art.
4, c.
4) e del carattere tecnico della valutazione stessa; 2-c) le ordinanze sugli esami sono sempre state pubblicate in corso d’anno con istruzioni che si ripetono ogni volta per consuetudine consolidata, anche se si deve riconoscere che la sede più appropriata per le disposizioni sull’Irc sarebbe stata il regolamento dell’esame o una sua integrazione; 3) la legittimità costituzionale dell’art.
9 del nuovo Concordato è stata riconosciuta una prima volta dalla Corte costituzionale con la sentenza 203/89 (qui si intravede una nuova fragile contestazione, relativa all’uguaglianza tra confessioni religiose, ma la distinta definizione delle rispettive condizioni negli articoli 7 e 8 della Costituzione dovrebbe sufficientemente convincere circa la legittimità delle soluzioni adottate).
Per evidenti ragioni di spazio dobbiamo sorvolare sulle questioni procedurali e sugli errori tecnici commessi dai giudici.
Su questi ultimi – per non lasciare nel vago l’accusa – ci limitiamo a segnalare che il divieto di voto e di esame viene attribuito, insieme alla scheda separata di valutazione, al Protocollo addizionale del nuovo Concordato mentre è materia normata dall’art.
309 del DLgs 297/94 sulla base di autonome disposizioni risalenti addirittura al 1930; inoltre si sostiene che le ordinanze del 2007 e 2008 si pongono «in palese contraddizione con le precedenti analoghe ordinanze ministeriali», quando invece le norme impugnate risalgono all’OM 128 del 1999 e sono state puntualmente ribadite da tutti i Ministri succedutisi da allora, da Berlinguer a De Mauro, a Moratti e a Fioroni, come dimostra del resto il precedente ricorso risolto dal Tar nel 2000.
Sarebbe inoltre da approfondire l’uso parziale e tendenzioso che i giudici della sezione terza quater fanno delle sentenze della Corte costituzionale, estraendo dal contesto affermazioni incomplete.
Nel 1989, per esempio, la Corte costituzionale si espresse in maniera ambigua, scrivendo che «con l’accordo del 18 febbraio 1984 emerge un carattere peculiare dell’insegnamento di una religione positiva: il potere suscitare, dinanzi a proposte di sostanziale adesione ad una dottrina, problemi di coscienza personale e di educazione familiare, per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di libera scelta».
L’Irc non propone assolutamente di aderire ad una fede ma solo di conoscerne correttamente i contenuti, come provano tutti i programmi didattici emanati negli ultimi venticinque anni.
D’altra parte, proprio la Corte costituzionale nella stessa sentenza n.
203 descrive l’Irc come «non implicante una pretesa di adesione diversa o superiore rispetto a quella richiesta per qualsiasi altra materia d’insegnamento».
I giudici della sezione terza quater, invece, sfruttano astutamente l’equivoca espressione della Corte costituzionale per sostenere che, «sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico, proprio per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede stessa».
E introducono addirittura il sospetto che la valutazione dell’Irc sia da collegare «alla misura della adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito» o che il profitto degli avvalentisi più convinti «potrebbe essere condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede».
  Già solo alla luce di queste sommarie considerazioni risulta facile concludere che la sentenza 7076/09 è solo uno strumento di propaganda ideologica, visto che gli stessi giudici sono intervenuti inutilmente su anni scolastici conclusi e senza che gli interessati abbiano impugnato gli scrutini in cui si sarebbe verificata la supposta disparità di trattamento.
Sull’anno scolastico 2008-09 la sentenza non ha alcuna efficacia, sia perché l’anno è regolamentato dalla specifica OM 40/09 che finora non è stata annullata da alcuna ulteriore disposizione, sia perché è adesso in vigore il regolamento della valutazione (DPR 122/09) che riconosce all’Irc il ruolo di contribuire al credito scolastico.
Inoltre, non è difficile immaginare l’esito del ricorso annunciato dal ministro Gelmini al Consiglio di Stato (e non avrebbero dovuto far fatica ad immaginarlo neanche i giudici della sezione terza quater, visto che l’organo superiore si era già pronunciato in materia).
Ciononostante, la disputa ferragostana sull’Irc è risolta ma non dissolta, perché gli agguerriti ricorrenti non mancheranno di far partire nuovi attacchi alla normativa oggi contenuta nel DPR 122/09 (la Cgil ha da tempo annunciato ricorsi), quanto meno per via dell’incomprensibile distinzione – questa sì discriminante – che il Ministero ha voluto introdurre tra chi frequenta l’Irc e chi frequenta le attività alternative (art.
2, c.
5, e art.
4, c.
1).
D’altra parte, l’obiettivo era quello di riattizzare la polemica sull’Irc rilanciando argomenti e slogan privi di fondamento giuridico ma efficaci su un’opinione pubblica distratta e superficiale.
Come scriveva Beaumarchais: «Calunniate, calunniate.
Qualcosa resterà».

Cultura e Religione: Unità 3

Schema  Per introdurci 1.
L’esperienza
            Elaborazione.              Battiato: E ti vengo a cercare – integrazioni degli Autori  Stella – Venditti – integrazioni dei collaboratori OF:   L’alunno apprende ad interpretare nelle suggestioni che gli vengono dalla natura         o nelle intuizioni che attraversano la propria esistenza una presenza misteriosa che le alimenta.
2.
L’intepretazione
           Cielo: Eliade             Notte stellata: Van Gog – integrazioni degli Autori                    Stonehenge   – integrazioni dei collaboratori  3.
Suggestioni per un progetto
            Vado in cerca di Dio: Slamo 42              Per un bilancio – integrazioni degli Autori  Salmo 92             Il Signore rende stabile il mondo – integrazioni dei collaboratori 4.
Inserisci un tuo commento     Nel riquadro in fondo:       Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Per scaricare l’intera Unità.
         UdA 3  Schema  Per introdurci 1.
L’esperienza
            Elaborazione.              Battiato: E ti vengo a cercare – integrazioni degli Autori  Stella – Venditti – integrazioni dei collaboratori OF  2.
L’intepretazione
           Cielo: Eliade             Notte stellata: Van Gog – integrazioni degli Autori                    Stonehenge   – integrazioni dei collaboratori  3.
Il progetto
            Vado in cerca di Dio: Slamo 42              Per un bilancio – integrazioni degli Autori  Salmo 92             Il Signore rende stabile il mondo – integrazioni dei collaboratori 4.
Integrazioni proposte nel testo – integrazioni degli Autori – integrazioni dei collaboratori 5.
Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Per scaricare l’intera Unità:                                             > > >   more UD volto per Dio

Unità 3 Sperimentatori

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“Siamo il popolo della Bibbia. Qui siamo tornati a casa”.

“Il nostro compito è costruire piccoli paradisi” di Giulio Meotti “Siamo tornati a casa”, proclama il cartello all’ingresso di Givat Assaf, un avamposto israeliano che prende il nome da un colono ebreo ucciso dai palestinesi.
Il leader della comunità, Benny Gal, spiega così la loro presenza: “In questo punto preciso, 3.800 anni fa, la terra d’Israele fu promessa al popolo ebraico.
Se ci portano via di qui, in pericolo sarà l’aeroporto internazionale Ben Gurion”.
Givat Assaf è uno dei capisaldi della “Hilltop Youth”, la gioventù delle colline, la seconda generazione di coloni che sta organizzando la resistenza all’evacuazione degli insediamenti giudicati illegali, i cosiddetti “outpost”, al centro delle trattative fra il primo ministro israeliano Netanyahu e l’amministrazione Obama.
Per questi giovani il risorgimento ebraico passa, come all’inizio del Novecento, dal confronto gomito a gomito con gli arabi.
Le regole del processo di pace non sembrano scalfirli.
I soldati israeliani, quelli con cui i coloni condividono brigate e divisa, devono trascinarli via a forza quando da Gerusalemme arriva l’ordine di evacuazione.
Chi resta, vive palmo a palmo con la morte.
Lo scorso aprile uno di questi giovani è stato ucciso a colpi di ascia.
In caso di conflitto non conta la legge dello Stato, ma quella del Signore.
È come la frontiera americana dell’epopea western.
Guai a pensare che sia un fenomeno di estrema destra, categoria priva di senso in Israele.
Con Ariel Sharon primo ministro sono nati 44 avamposti.
Altri 39, secondo i dati di Peace Now, furono edificati sotto Rabin, Peres e Barak, i protagonisti dei negoziati di Oslo.
Gli esecutivi laburisti non hanno fatto quasi nulla per impedire che gli avamposti si moltiplicassero.
Israele non li considera enclave ribelli, almeno a giudicare dalle cospicue forze di sicurezza messe a loro protezione.
Alcuni hanno strade pavimentate, fermate degli autobus, sinagoghe, perfino campi sportivi.
Si va dal semplice container piazzato in cima a una collina o qualche fila di baracche, sino a veri e propri insediamenti realizzati con prefabbricati tipo post terremoto.
Per la preghiera del sabato serve un minyam, il quorum necessario di dieci uomini.
Basta questo per fare un outpost.
Così si trovano dieci famiglie di peruviani convertiti all’ebraismo in un avamposto appena fuori l’insediamento di Efrat, tra Betlemme e Hebron.
David Ha’ivri, originario di Long Island, è uno dei leader della gioventù delle colline e vive con moglie e figli a Kfar Tapuach.
Il villaggio è celebre per il miele che vi si produce, ma soprattutto per essere citato nella Bibbia, nel capitolo 12 del libro di Giosuè.
È una delle trenta città conquistate dagli ebrei al loro arrivo migliaia di anni fa.
Oggi è uno degli insediamenti di punta della Cisgiordania, che i coloni chiamano con i nomi biblici di Giudea e Samaria.
Della “Hilltop Youth” fanno parte giovani nati e cresciuti nelle colonie, che hanno deciso di abbandonare il tetto paterno nei grandi conglomerati per andare ad annidarsi in cima alle colline.
Pregano in sinagoghe spesso fatte di terracotta.
Si costruiscono la casa con le proprie mani, sono single o appena sposati, da pochissimo genitori.
Si ritengono la nuova avanguardia dei coloni.
Il loro motto è: “Costruiamo e il permesso arriverà”.
Vivono a un tiro di schioppo dagli arabi.
Si muovono a cavallo o con un asino.
È una nuova generazione imbevuta di un nazionalismo mistico che si coniuga al pionierismo e all’ascetismo, rigetta il consumismo delle grandi città sulla costa e vive di ideologia e ardore.
Le donne indossano il mitpahat, l’equivalente ebraico, meno avvolgente e più delicato, del chador islamico.
Gli uomini hanno capigliature al vento, lunghi riccioli laterali e camicie a quadri.
“Sono giovani che incarnano l’ideologia della Torah e l’autosacrificio”, ci spiega Ha’ivri.
“La salvezza di Israele e del popolo ebraico non può venire da politicanti che pensano che la battaglia per la terra sia un gioco tattico.
Dieci anni fa abbiamo iniziato a creare avamposti.
Sono giovanissime coppie che hanno deciso di essere pionieri come i genitori, credono nel sionismo, sono idealisti, pronti a lasciare ogni esistenza confortevole nelle grandi città o nelle grandi colonie.
Vogliono essere autosufficienti, con tutti i limiti che questo comporta”.
Shani Simkovitz dirige la Gush Etzion Foundation.
È americana e ha cinque figli.
“Questa è terra contesa, da patteggiare, non terra occupata”, spiega.
“Più di tremila anni fa i nostri padri ci hanno dato una terra, che non è Roma, non è New York, ma questa: la terra ebraica.
Ci hanno mandato qui a costruire, a coltivare, a vivere, ci hanno sostenuto sempre, soprattutto Rabin, Peres e gli altri laburisti.
Fino a oggi.
I miei figli sono nati qui, ma non c’è più terra legale su cui costruire, il governo da tempo non concede più permessi per una casa, per questo nascono gli outpost.
Gli avamposti sono estensioni delle comunità esistenti.
Ma lo stesso avviene a Gerusalemme, dove migliaia di israeliani abitano al di là della Linea Verde”.
Un altro leader delle colline vive in un agglomerato di roulotte abbarbicate sul monte Artis, chiamato Pisgat Yaakov, che significa la collina di Giacobbe.
Un luogo isolato d’inverno, tanto lì nevica.
Tra queste trenta famiglie c’è Yishai Fleischer, il fondatore di Kumah, un’organizzazione che promuove alyah, cioè immigrazione di ebrei in Israele, e conduce un programma radiofonico di grande successo.
“Abbiamo una vita idilliaca e naturalistica, è una regione bellissima, in mezzo alle montagne”, ci dice Yishai.
“I nostri padri hanno camminato qui tremila anni fa, siamo un po’ come i nuovi hippy.
Lavoriamo la terra.
C’è molta musica, religione, è una vita felice.
Preghiamo, meditiamo, conduciamo un’esistenza spirituale.
Siamo il popolo aborigeno.
Ero a New York, da studente credevo nel sionismo e decisi che questo era il posto dove avrei dovuto vivere.
Abbiamo quello che ci serve.
Ci sentiamo pionieri, siamo dei veri sionisti.
Molti miei amici sono religiosissimi e lavorano nel settore high tech.
I nostri figli crescono con valori autentici”.
È una vita, ammette Yishai, molto pericolosa.
“Giro armato, odio le pistole, non significa che debba usarle, ma devo proteggere la mia famiglia.
Il nostro villaggio è citato più volte nella Bibbia, per questo attrae molte persone.
Lei vive a Roma, una città sacra per il suo popolo, il mio è nato e cresciuto in Israele.
Qui senti di essere parte della terra e del cielo.
Siamo cresciuti sapendo che il prossimo passo sarebbe stato il nostro”.
Yishai sa bene che i coloni non sono amati dagli israeliani che vivono sulla costa.
“Siamo isolati nell’opinione pubblica, ma lavoriamo ogni giorno per migliorare.
Oggi il nazionalismo non è “cool”, non è politicamente corretto.
Non mi aspetto di conquistare i cuori delle persone che non vivono qui.
È semplice: questa è la nostra terra.
Secondo le norme internazionali, secondo la Bibbia, secondo la storia.
Viviamo in tempi eccitanti in cui il popolo ebraico torna a casa.
Quando ci svegliamo la mattina non pensiamo alla pace, ma a condurre una vita felice, dignitosa e piena di amore.
Dobbiamo essere vigili, ci sono persone qui che vogliono ucciderci in quanto ebrei.
Hanno la stessa ideologia dei nazisti.
Gli europei non si sono interessati alla sorte degli ebrei sessant’anni fa, e allora stiano lontani da noi oggi.
Sappiamo perché siamo qui, abbiamo una missione che portiamo avanti tutti i giorni.
Il nostro posto è qui”.
David Ha’ivri descrive così i giovani delle colline: “Molti sono contadini o pastori, ci sono studenti, tutti pionieri che vivono in zone desertiche, vuote, senza abitanti, non ci sono palestinesi cui venga sottratto alcunché, i coloni piantano alberi, coltivano la terra, portano acqua, cibo, elettricità.
Nei grandi insediamenti la sicurezza è ben organizzata, ma in queste comunità di poche famiglie il peso della sicurezza è enorme.
La seconda generazione è molto più attaccata alla terra della prima, sono nati qui, il loro sangue viene da qui.
Sono persino più religiosi dei padri”.
Molti di questi avamposti sono stati creati negli anni proprio lì dove i palestinesi avevano ammazzato un colono.
Come Itay Zar, che oggi vive in un outpost intitolato al fratello ucciso.
Venti famiglie, una dozzina di scatole di metallo, quaranta bambini e un maneggio per cavalli.
“Non siamo venuti qui per divertirci.
C’era il deserto, oggi la terra fiorisce”.
Il leader spirituale dell’outpost, Ariel Lipo, dice che il loro compito è costruire “piccoli paradisi”.
Maoz Esther, sette baracche di lamiera e cinque famiglie, non lontano da Ramallah, è il primo avamposto preso di mira da Netanyahu da quando è salito al potere.
È già stato rimosso tre volte.
E per tre volte ricostruito.
L’ultima pochi giorni fa.
Il leader della comunità, Avraham Sandack, è arrivato su questa altura direttamente da una delle colonie smantellate a Gaza da Ariel Sharon.
Studia per diventare rabbino e intanto fa le pulizie in una sinagoga.
“Il nostro spirito è lo stesso dei nostri padri”, ci dice Avraham.
“Due anni fa era la festa di Hanukkah, siamo partiti da un insediamento vicino e abbiamo costruito una casa di pietra.
Una mamma con tre figlie piccole si è trasferita da sola per due mesi sulla collina.
Non avevano elettricità né acqua.
Ma sapevano di appartenere alla terra d’Israele.
Nella Bibbia si parla di questa terra per la profezia del regno di Dio.
Ci dà forza per andare avanti.
Ieri abbiamo iniziato a ricostruire quello che l’esercito ha distrutto.
Qui riusciamo a essere equi con la nostra anima.
Qui c’è qualcosa di metafisico.
Dio non è in cielo o da qualche parte.
Dio è parte di noi, è in tutta la nostra vita”.
Sono i figli e i nipoti dei primi coloni inviati dai governi israeliani a “far fiorire il deserto” nei territori contesi dopo la guerra dei sei giorni del 1967.
Bibbia in mano e fucile in spalla, tanti bambini, vita di sacrifici, un’anima nazionalista e una religiosa.
Nell’insieme, i coloni sono circa trecentomila, e il presidente americano Barack Obama, nel discorso del Cairo, li ha indicati come l’ostacolo principale sulla via di quella pace tra “due popoli e due Stati” che è anche l’obiettivo della politica vaticana.
Per tre quarti di loro l’ostacolo non appare insormontabile.
Vivono non lontano dalla Linea Verde del vecchio armistizio tra Israele e Giordania, a est di Gerusalemme, nei grandi insediamenti di Ariel, Gush Etzion, Ma’aleh Adumim, Givat Zeev, Latrun, che non coprono più del cinque per cento dei territori contesi, trattabili.
Ma poi ci sono gli altri.
I cinquantamila che vivono in piccoli o piccolissimi insediamenti di poche centinaia o decine di abitanti.
Oppure negli outpost, gli avamposti.
Gli avamposti, nei luoghi più impervi e sperduti, sono la nuova realtà degli insediamenti.
Se ne contano ormai un centinaio.
Si sono moltiplicati in questi ultimi anni, assieme alla Hilltop Youth, alla “gioventù delle colline”, la nuova generazione dei coloni.
Gli outpost sono tutti illegali.
I giovani li costruiscono e l’esercito israeliano li sgombera.
Ma sempre ne risorgono di nuovi.
Chi sono questi giovani delle colline? Come vivono? Quale visione biblica li muove? Perché si avventurano lì? Accetteranno di lasciare? Il reportage che segue risponde a queste domande.
Ne è autore Giulio Meotti, già noto ai lettori di www.chiesa per un’inchiesta choc su Rotterdam islamizzata che ha fatto il giro del mondo in più lingue.
L’articolo è apparso l’8 agosto 2009 sul quotidiano “il Foglio”, con un seguito sullo stesso giornale il 13 agosto.
In settembre uscirà un libro-inchiesta di Meotti su Israele.