Barack Obama parla agli studenti

So che per molti di voi questo è il primo giorno di scuola.
E per chi è all’asilo o all’inizio delle medie o delle superiori è l’inizio di una nuova scuola, così un minimo di nervosismo è comprensibile.
Immagino che tra voi ci siano dei veterani a cui manca solo un anno per concludere gli studi e quindi contenti.
E, non importa a quale classe siate iscritti, qualcuno tra voi probabilmente sta pensando con nostalgia all’estate e rimpiange di non aver potuto dormire un po’ di più stamattina.
So cosa vuol dire.
Quando ero giovane la mia famiglia visse in Indonesia per qualche anno e mia madre non aveva abbastanza denaro per mandarmi alla scuola che frequentavano tutti i ragazzini americani.
Così decise di darmi lei stessa delle lezioni extra, dal lunedì al venerdì alle 4,30 di mattina.
Ora, io non ero proprio felice di alzarmi così presto.
Il più delle volte mi addormentavo al tavolo della cucina.
Ma ogni volta quando mi lamentavo mia madre mi dava un’occhiata delle sue e diceva: «Anche per me non è un picnic, ragazzo».
Ora, io ho fatto un sacco di discorsi sull’istruzione.
E ho molto parlato di responsabilità.
Della responsabilità degli insegnanti che devono motivarvi all’apprendimento e ispirarvi.
Della responsabilità dei genitori che devono tenervi sulla giusta via e farvi fare i compiti e non lasciarvi passare la giornata davanti alla tv.
Ho parlato della responsabilità del governo che deve fissare standard adeguati, dare sostegno agli insegnanti e togliere di mezzo le scuole che non funzionano, dove i ragazzi non hanno le opportunità che meritano.
Ma alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità.
Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire.
Questo è quello che voglio sottolineare oggi: la responsabilità di ciascuno di voi nella vostra educazione.
Parto da quella che avete nei confronti di voi stessi.
Ognuno di voi sa far bene qualcosa, ha qualcosa da offrire.
Avete la responsabilità di scoprirlo.
Questa è l’opportunità offerta dall’istruzione.
Magari sapete scrivere bene, abbastanza bene per diventare autori di un libro o giornalisti, ma per saperlo dovete scrivere qualcosa per la vostra classe d’inglese.
Oppure avete la vocazione dell’innovatore o dell’inventore, magari tanto da saper mettere a punto il prossimo i Phone o una nuova medicina o un vaccino, ma non potete saperlo fino a quando non farete un progetto per la vostra classe di scienze.
Oppure potreste diventare un sindaco o un senatore o un giudice della Corte suprema ma lo scoprirete solo se parteciperete a un dibattito studentesco.
Non è solo importante per voi e per il vostro futuro.
Che cosa farete della vostra possibilità di ricevere un’istruzione deciderà il futuro di questo Paese, nulla di meno.
Ciò che oggi imparate a scuola domani sarà decisivo per decidere se noi come nazione sapremo raccogliere le sfide che ci riserva il futuro.
Avrete bisogno della conoscenza e della capacità di risolvere i problemi che imparate con le scienze e la matematica per curare malattie come il cancro e l’Aids e per sviluppare nuove tecnologie ed energie e proteggere l’ambiente.
Avrete bisogno delle capacità di analisi e di critica che si ottengono con lo studio della storia e delle scienze sociali per combattere la povertà e il disagio, il crimine e la discriminazione e rendere la nostra nazione più corretta e più libera.
Vi occorreranno la creatività e l’ingegno che vengono coltivati in tutti i corsi di studio per fondare nuove imprese che creeranno posti di lavoro e faranno fiorire l’economia.
So che non è sempre facile far bene a scuola.
So che molti di voi devono affrontare sfide tali da rendere difficile concentrarsi sui compiti e sull’apprendimento.
Mi è successo, so com’è.
Mio padre lasciò la famiglia quando avevo due anni e sono stato allevato da una madre single che lottava ogni girono per pagare i conti e non sempre riusciva a darci quello che avevano gli altri ragazzi.
Spesso sentivo la mancanza di mio padre.
A volte mi sentivo solo e pensavo che non ce l’avrei fatta.
Non ero sempre così concentrato come avrei dovuto.
Ho fatto cose di cui non vado fiero e sono finito nei guai.
E la mia vita avrebbe potuto facilmente prendere una brutta piega.
Ma sono stato fortunato.
Ho avuto un sacco di seconde possibilità e l’opportunità di andare al college e alla scuola di legge e seguire i miei sogni.
Qualcuno di voi potrebbe non godere di questi vantaggi.
Può essere che nella vostra vita non ci siano adulti che vi appoggiano quanto avete bisogno.
Magari nelle vostre famiglie qualcuno ha perso il lavoro e il denaro manca.
O vivete in un quartiere poco sicuro, o avete amici che cercano di convincervi a fare cose sbagliate.
Ma, alla fine dei conti, le circostanze della vostra vita – il vostro aspetto, le vostre origini, la vostra condizione economica e familiare – non sono una scusa per trascurare i compiti o avere un atteggiamento negativo.
Non ci sono scuse per rispondere male al proprio insegnante, o saltare le lezioni, o smettere di andare a scuola.
Non c’è scusa per chi non ci prova.
Il vostro obiettivo può essere molto semplice: fare tutti i compiti, fare attenzione a lezione o leggere ogni giorno qualche pagina di un libro.
Potreste decidere di intraprendere qualche attività extracurricolare o fare del volontariato.
Potreste decidere di difendere i ragazzi che vengono presi in giro o che sono vittime di atti di bullismo per via del loro aspetto o delle loro origini perché, come me, credete che tutti i bambini abbiano diritto a un ambiente sicuro per studiare e imparare.
Potreste decidere di avere più cura di voi stessi per rendere di più e imparare meglio.
E in tutto questo, spero vi laviate molto le mani e ve ne stiate a casa se non state bene in modo da evitare il più possibile il contagio dell’influenza quest’inverno.
Qualunque cosa facciate voglio che vi ci dedichiate.
So che a volte la tv vi dà l’impressione di poter diventare ricchi e famosi senza dover davvero lavorare, diventando una star del basket o un rapper, o protagonista di un reality.
Ma è poco probabile, la verità è che il successo è duro da conquistare.
Non vi piacerà tutto quello che studiate.
Non farete amicizia con tutti i professori.
Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali.
E non avrete necessariamente successo al primo tentativo.
È giusto così.
Alcune tra le persone di maggior successo nel mondo hanno collezionato i più enormi fallimenti.
Il primo Harry Potter di JK Rowling è stato rifiutato dodici volte prima di essere finalmente pubblicato.
Michael Jordan fu espulso dalla squadra di basket alle superiori e perse centinaia di incontri e mancò migliaia di canestri durante la sua carriera.
Ma una volta disse: «Ho fallito più e più volte nella mia vita.
Ecco perché ce l’ho fatta».
Nessuno è nato capace di fare le cose, si impara sgobbando.
Non sei mai un grande atleta la prima volta che tenti un nuovo sport.
Non azzecchi mai ogni nota la prima volta che canti una canzone.
Occorre fare esercizio.
Con la scuola è lo stesso.
Può capitare di dover fare e rifare un esercizio di matematica prima di risolverlo o di dover leggere e rileggere qualcosa prima di capirlo, o dover scrivere e riscrivere qualcosa prima che vada bene.
La storia dell’America non è stata fatta da gente che ha lasciato perdere quando il gioco si faceva duro ma da chi è andato avanti, ci ha provato di nuovo e con più impegno e ha amato troppo il proprio Paese per fare qualcosa di meno che il proprio meglio.
È la storia degli studenti che sedevano ai vostri posti 250 anni fa e fecero una rivoluzione per fondare questa nazione.
Di quelli che sedevano al vostro posto 75 anni fa e superarono la Depressione e vinsero una guerra mondiale.
Che combatterono per i diritti civili e mandarono un uomo sulla Luna.
Di quelli che sedevano al vostro posto 20 anni fa e hanno creato Google, Twitter e Facebook cambiando il modo di comunicare.
Così, vi chiedo, quale sarà il vostro contributo? Quali problemi risolverete? Quali scoperte farete? Il presidente che verrà di qui a 20, 50 o 100 anni cosa dirà che avrete fatto per questo Paese? Le vostre famiglie, i vostri insegnanti e io stiamo facendo di tutto per fare sì che voi abbiate l’istruzione necessaria per saper rispondere a queste domande.
Mi sto dando da fare per garantirvi classi e libri e accessori e computer, tutto il necessario al vostro apprendimento.
Ma anche voi dovete fare la vostra parte.
Quindi da voi quest’anno mi aspetto serietà.
Mi aspetto il massimo dell’impegno in qualsiasi cosa facciate.
Mi aspetto grandi cose, da ognuno di voi.
Quindi non deludeteci, non deludete le vostre famiglie, il vostro Paese e voi stessi.
Rendeteci orgogliosi di voi.
So che potete farlo.

Ora di religione, in arrivo il voto

Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
da Repubblica 14 settembre 2009

La religione ha un ruolo centrale e unico nella società e per il suo sviluppo

L’INTERVISTA  Partiamo dal suo recente ingresso nella Chiesa cattolica.
Due anni fa, dopo la visita al Papa in giugno, il mondo cominciò a parlare apertamente della sua conversione al cattolicesimo.
Ci può raccontare come nacque questa decisione? Il mio viaggio spirituale è cominciato quando ho iniziato ad andare a messa con mia moglie.
Poi, quando abbiamo deciso di battezzare i nostri figli nella fede cattolica.
È un cammino che è proseguito per 25 anni, e forse anche di più.
Nel tempo, emotivamente, intellettualmente e razionalmente mi è sembrato che quella cattolica fosse la casa giusta per me.
Ma è successo durante un lungo intervallo di tempo.
Quando ho lasciato l’incarico politico, e attorno non avevo più tutto il contesto legato all’essere primo ministro, è stato qualcosa che ho voluto davvero fare.
La sua era una famiglia religiosa? In realtà non molto.
Mia madre, una protestante proveniente dall’Irlanda, andava occasionalmente in chiesa.
Mio padre, invece, era un ateo militante.
Ma, a Durham, sono andato a scuola alla Chorister School, adiacente alla cattedrale, quindi la religione è stata parte integrante della mia educazione scolastica.
La vera svolta, però, l’ho vissuta all’università, quando ho iniziato a pensare seriamente alla mia fede cristiana, a pensarvi in modo più profondo.
È stato allora che ho realizzato che era un aspetto non solo importante, ma assolutamente centrale della mia vita.
Come è noto, da sempre Cherie Booth è una cattolica praticante.
Che significato ha avuto la religione nel vostro matrimonio? La religione è stata qualcosa che ci ha fatto avvicinare.
Non ci siamo conosciuti a motivo della religione, ma è stato molto interessante scoprire che la mia futura moglie era estremamente attiva nella organizzazione studentesca cattolica e in altre organizzazioni giovanili.
Per dei giovani di 23 o 24 anni – come noi eravamo quando ci siamo conosciuti – era piuttosto inusuale scoprire di condividere questo interesse per la religione.
Durante la sua ultima visita da primo ministro, lei ha donato a Benedetto XVI tre foto di John Henry Newman.
La scelta è stata motivata dal fatto che la figura del cardinale Newman aveva avuto un ruolo nel suo cammino di conversione? Oppure vi sono state altre figure che vi hanno contribuito? In realtà no, non è stata questa la ragione.
Anche se ovviamente conoscevo la storia del cardinale Newman, e avevo letto i suoi scritti.
Le foto erano semplicemente un regalo appropriato.
Riguardo ad altre figure, ho avuto la fortuna di partecipare nel 2003 con la mia famiglia, a una messa che Giovanni Paolo II celebrò nella sua cappella privata:  è un ricordo ancora molto vivido, un episodio che mi ha estremamente colpito.
Certo, molto probabilmente sarei giunto comunque alla conversione, ma indubbiamente si è trattato di una tappa importante che ha ulteriormente rafforzato la mia decisione.
Una delle cose che mi ha più attratto della Chiesa cattolica è la sua natura universale.
Se sei un cattolico, puoi andare ovunque nel mondo e partecipare alla messa in ogni Paese.
Sono stato a messa a Kigali, a Pechino, a Singapore.
Ricordo la volta in cui seguii una funzione a Tokyo:  ero entrato in incognito, senza farmi notare, ma al termine della celebrazione una signora invitò i numerosi visitatori a presentarsi, alzandosi in piedi.
Lo feci:  sono Tony da Londra.
È stata una bella sorpresa! (ride).
Ecco, il fatto che, ovunque tu sia nel mondo, sei in comunione con gli altri, è veramente formidabile.
È qualcosa che mi affascina.
La Chiesa universale è essa stessa un importante modello di istituzione globale.  La società e la politica inglesi sono molto diverse da quelle statunitensi:  in Gran Bretagna è raro parlare ad alta voce della propria fede e gli inglesi si sorprendono dinnanzi a quanti raccontano apertamente il loro credo.
Pensa che vi siano motivi culturali per questa differenza? Personalmente credo che questo sia un problema dei media, piuttosto che della gente comune.
Non ho mai fatto una gran questione attorno alla mia fede, nonostante fosse assolutamente evidente il fatto che l’avessi:  per anni sono andato a messa ogni settimana, quindi non stavo certo nascondendo nulla.
E debbo dire che non ho mai avuto problemi con la gente.
Anzi, forse, è vero il contrario.
Penso però che, a causa della nostra cultura mediatica, se inizi a parlare pubblicamente di fede come leader politico, la prima reazione della gente è di sospetto, piuttosto che di interesse.
Invece, negli Stati Uniti parlarne è semplicemente dato per scontato.
È un peccato che sia così, ma questa è la realtà.
Posso però dire che per la gente comune, a differenza di quanti parlano in televisione o scrivono sui giornali, non c’è mai stato problema.
Sono sempre stato consapevole del fatto che se avessi cominciato a parlare troppo di fede, mi sarebbero state richieste tante spiegazioni.
Questo sicuramente non sarebbe successo negli Stati Uniti.
Non saprei dire se vi siano differenze culturali dietro questi diversi atteggiamenti.
Forse in America andare in chiesa fa parte della vita quotidiana molto più di quanto non avvenga oggi in Europa.
Inclusa la Gran Bretagna.
Resta comunque il fatto che io ho affrontato temi politici con le comunità religiose più di quanto mi risulta abbia mai fatto nessun altro.
Per un europeo, è impossibile non notare quanto la politica americana parli di Dio, quanto lo citi.
È vero.
A essere onesti, però, penso che ciò che preoccupa gli inglesi è il fatto che il politico possa voler prendere in prestito Dio per la campagna elettorale.
Gli americani, al contrario, non la pensano affatto così, e lo ritengono del tutto naturale.
Personalmente credo che sia importante aprirsi alla fede e che le persone si sentano libere di farlo.
Non possiamo ignorare che nei Paesi anglosassoni – ma non solo! – esiste un forte pregiudizio verso i cattolici che fanno politica.
L’idea è che il politico cattolico non sia libero e che le sue decisioni vengano prese in Vaticano.
È verissimo.
In realtà non ero esattamente cosciente di questo pregiudizio prima della conversione, e debbo dire che sono rimasto scioccato nel prenderne atto.
È interessante che una delle cene a cui partecipai subito dopo aver lasciato l’incarico di primo ministro fu l’Alfred E.
Smith Memorial Foundation Dinner a New York, una cena annuale organizzata dalla comunità cattolica (precisamente dall’omonima fondazione insieme all’arcidiocesi di New York).
Al Smith, che per quattro volte venne eletto governatore di New York battendosi per la giustizia sociale – sconfiggere la povertà e aiutare la causa  del  progresso – era cattolico.
È stato il  primo  cattolico a candidarsi alla Casa Bianca nel 1928.
Per scrivere il mio discorso,  mi  sono  documentato sul personaggio, ed è stato sorprendente scoprire  che il  suo  essere cattolico fu il vero tema della campagna elettorale.
La preoccupazione  che  emergeva dalla stampa era che, se Al Smith avesse vinto le elezioni, il Papa si sarebbe trasferito dal Vaticano alla Casa Bianca! (ride).
L’incubo era che il Paese sarebbe stato governato dalla Chiesa cattolica.
Questo spiega la celebre dottrina Kennedy secondo cui il credo religioso del presidente non dovrebbe giocare alcun ruolo nelle scelte degli elettori.
Già.
Kennedy finalmente infranse il mito.
Certo, sapevo del pregiudizio, anche perché la famiglia di mia madre era protestante e fortemente anticattolica.
Ma, pur sapendolo, non ne avevo del tutto compreso la reale portata finché non sono stato “educato” meglio.
Bede Griffiths, che si convertì nel 1931, era consapevole che la sua decisione di aderire alla Chiesa cattolica avrebbe causato sofferenza ai suoi cari, e specialmente a sua madre.
La preoccupazione di chi lo circondava era che egli avrebbe finito per perdere le sue radici.
In uno dei rari momenti di lucidità durante la malattia, la mia bisnonna, una donna per molti versi fantastica, mi disse:  fai quel che vuoi, ma non sposare una cattolica.
Esattamente ciò che poi ho fatto, temo (ride).
Più in generale, crede che nelle moderne democrazie, un politico abbia il diritto di parlare in nome della sua fede – dichiarandosi, ad esempio, contro l’aborto perché viola il quinto comandamento – o abbia invece il dovere di tacere sul suo credo personale?  Ho sempre sostenuto che le persone hanno il diritto di parlare.
Ho insistito molto su questo in Gran Bretagna.
Anche perché si tratta di temi che le persone sentono molto, che sono importanti per loro.
La gente la pensa diversamente su questi argomenti, e se una persona crede qualcosa che è assolutamente centrale per lui, ha il diritto di parlarne.
Tornando a lei, è mutato qualcosa dopo la conversione nella sua vita personale (ad esempio, come padre), nella sua attività politica in Gran Bretagna e, infine, nel suo nuovo ruolo sullo scenario internazionale? Come padre, c’è stata solo una continuazione.
I miei tre figli maggiori, ormai cresciuti, sono cattolici praticanti (e lo sono ancora, fortunatamente!).
Li abbiamo battezzati, hanno studiato in scuole cattoliche – anche Leo oggi studia in una scuola cattolica – e continuano a essere cattolici.
La fede è sempre stata una parte importante nella nostra vita come famiglia.
In questo senso, dunque, la mia conversione non ha cambiato le cose.
Quanto alla politica inglese, personalmente ho cercato di chiamarmene fuori da quando ho lasciato Downing Street.
Infine, circa il mio impegno internazionale, ovviamente la fede mi rende particolarmente sensibile e attento rispetto ad alcune tematiche specifiche.
Pensiamo al Medio Oriente.
Il fatto di essere lì, per un credente è emozionante e oltremodo stimolante.
Visitare i luoghi santi è stato meraviglioso:  andare in posti come Gerico, la riva del Giordano dove avvenne il battesimo di Gesù, e ovviamente a Gerusalemme, dov’è il mio ufficio.
Il fatto di essere una persona di fede dà a questo impegno un significato speciale.
In Africa la mia fondazione per il dialogo fra le religioni è molto attiva:  ad esempio, abbiamo un programma che vede le diverse religioni unite per sconfiggere la malaria, che ogni anno uccide nel continente un milione di persone, prevalentemente bambini.
Ci occupiamo anche del cambiamento climatico:  sono convinto che il rispetto dell’ambiente per le generazioni future rientri nella nostra responsabilità di cristiani.
Insomma, sono tutti temi dominati dalla mia fede.
La Tony Blair Faith Foundation intende promuovere il rispetto e la conoscenza delle maggiori religioni – cristiana, musulmana, hindu, buddista, sikh ed ebraica – e dimostrare come la fede sia per il mondo moderno una forza potente che spinge verso il bene.
Ricordo che la presentai alla cattedrale di Westminster, dinnanzi a un uditorio cattolico.
Crede che il suo essere cattolico sia un vantaggio o uno svantaggio per la sua attività in Medio Oriente? Onestamente non l’ho mai trovato un problema.
Mai.
Anzi, penso spesso che, nel mondo moderno, il fatto di essere una persona di fede incrementi la capacità di mettersi in relazione con persone di un altro credo.
Certo, a volte è vero anche il contrario, per cui ci si trova in forte opposizione.
Ma giacché oggi fattori di secolarizzazione sottopongono la fede a un duro e aggressivo attacco, finisce che persone di fedi diverse a volte si alleino.
Nella “Caritas in veritate” il Papa scrive che “la religione Cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica” (n.
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Lei crede che il mondo di oggi abbia desiderio di ascoltare la religione, oppure voglia ignorarla? Trovo che vi sia un conflitto.
Personalmente, condivido totalmente quello che scrive il Papa nell’enciclica, un testo brillante che deve essere letto e riletto.
Ritengo che la religione abbia un ruolo centrale, unico all’interno della società e per il suo sviluppo.
Pensiamo, ad esempio, al modo in cui utilizziamo la tecnologia.
Ma è anche vero che c’è un conflitto, perché molte persone vogliono tenere la religione fuori dalla sfera pubblica.
Sostenere, come sostengo, che la religione abbia un ruolo importante, non significa ritenere che finiranno i dibattiti e le contrapposizioni.
Questi, al contrario, proseguiranno su molti temi rispetto ai quali, probabilmente, la Chiesa starà da una parte e i leader politici dall’altra.
Ma non credo sia questo il punto:  il punto è che la fede ha pieno diritto di entrare in questo spazio e di parlare.
Non deve tacere.
Non è quindi solo importante che le cose si risolvano nel modo giusto, ma anche che la voce della fede non sia assente dal dibattito pubblico (pensiamo a temi come la giustizia e la solidarietà tra i popoli e le nazioni).
Sono appena tornato dalla Cina, dove ora passo molto tempo, ed è affascinante vedere il modo in cui questo Paese si sta impegnando per trovare la sua strada verso il futuro.
Non è solo un impegno sul versante del progresso economico e sociale, ma qualcosa che riguarda anche la riscoperta delle loro fedi e tradizioni.
Ho ascoltato molte relazioni in Cina:  si parla moltissimo di confucianesimo, taoismo e buddismo.
E perfino la comunità cristiana oggi in Cina si sta aprendo di più.
Per molti aspetti, la Cina si trova a un grado diverso di sviluppo rispetto alle nostre società, quindi si potrebbe pensare che nel Paese prevalga la tendenza a dire:  se vogliamo essere veramente avanzati, moderni e sviluppati dobbiamo mettere la religione da parte.
Invece è interessante scoprire che, sebbene vi siano persone che si augurano esattamente questo, oggi si odono anche voci del tutto opposte.
Voci che ricordano come la Cina sia una civiltà antica con forti tradizioni religiose e filosofiche le quali non si occupano solo dello Stato e dell’individuo, ma anche della sfera religiosa.
Credo che questa sia per noi una lezione davvero importante.  Personalmente ritengo che la recente entrata in scena dell’islam abbia stravolto il ruolo, lo spazio che oggi diamo alla religione in politica, il modo in cui pensiamo alla loro interrelazione.
Sono assolutamente d’accordo.
Per certi versi, è il punto nodale della mia fondazione.
Anche se una persona non è credente, può comunque capire l’importanza della fede, può comprendere che la fede conta.
Abbiamo visto ciò che è accaduto nel mondo islamico:  ci sono persone che sostengono che è qualcosa che non ha nulla a che fare con la religione.
È una completa assurdità.
Certo che ha a che fare con la religione.
Sempre nell’enciclica, Benedetto XVI scrive che “volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità” (n.
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Lei cosa ne pensa come cattolico, come ex primo ministro inglese, come protagonista attuale della politica internazionale e come probabile futuro Presidente europeo? Concordo (sorride).
Credo che un leader politico sia soggetto ad alcuni vincoli, e debba lavorare per raccogliere voti.
Perché questa è la democrazia.
Ma è proprio qui che trovo che la fede abbia un ruolo unico.
La Chiesa cattolica segue la verità di Dio, e credo che ciò su cui il Papa si impegna tanto è cercare di far comprendere che questo è un obbligo cristiano.
Certo, a volte ciò può entrare in conflitto con il mondo politico, e io l’ho sperimentato come leader politico.
Eppure è estremamente importante che vi sia l’aspetto religioso:  non a caso il Papa scrive che un umanesimo senza Dio è disumano.
E credo che egli intenda con questo che le azioni umane e la ragione umana sono sempre limitate se non sono pervase dalla fede.
A volte, possono essere addirittura pericolose.
Certo, difficilmente si potrà realizzare la politica  che  il  Papa  tratteggia  nell’enciclica.
La gente spesso fraintende la politica.
La politica è l’interazione tra idealismo e realismo:  solitamente, non è il trionfo dell’uno sull’altro.
Quando, nel 2005, abbiamo deciso di mettere la povertà in Africa al centro del G8 a Gleneagles, questo era fortemente sostenuto dalla Chiesa cattolica e da Giovanni Paolo II.
E fu cruciale.
Si creano difficili nodi politici quando si arriva a dover decidere quanti soldi si daranno, se si deve fare di più, se si può fare di più.
Nodi che possono portare anche a forti contrapposizioni.
Ma il fatto che se ne parli, e che la posizione venga fortemente sostenuta dalla Chiesa, può effettivamente aiutare il politico a fare la scelta giusta.
Certo, non elimina il problema, ma aiuta.
Quando ho detto agli inglesi che dovevamo incrementare sostanzialmente il nostro aiuto all’Africa, mi aiutò moltissimo il fatto che la Chiesa dicesse pubblicamente che era la scelta giusta da fare, che era una cosa moralmente buona.
Certo, ciò non toglie che vi sia sempre chi critica il fatto di usare i nostri soldi per aiutare gente diversa da noi.
In effetti in Gran Bretagna avete seri nodi sociali:  non deve essere stato facile.
È vero, li abbiamo.
Ma li hanno tutti.
Sì, ma è più facile vedere quelli degli altri, piuttosto che i propri! Già! (ride).
Come padre di quattro figli, cosa pensa del ruolo paterno? Come vede il futuro della paternità nel mondo di oggi? In primo luogo, penso che la paternità sia un ruolo da affrontare con responsabilità e senza arroganza.
Per quanto bravo o intelligente pensassi di essere, ho sempre trovato che essere padre fosse qualcosa di estremamente difficile.
E lo penso tuttora.
Secondo, ovviamente ritengo che anche il padre sia una figura cruciale nella famiglia, che anch’egli sia fondamentale per la crescita e la formazione del bambino.
In terzo luogo, credo che, per certi versi, si stia recuperando l’idea di famiglia.
Anche in questo campo ritengo che le comunità religiose e la Chiesa abbiano un ruolo da giocare.
Certo, le famiglie hanno i loro problemi, le famiglie si sfasciano, cosa che temo continuerà ad accadere.
Ma ho sempre pensato che le indicazioni della Chiesa in materia di famiglia fossero utili.
Sia chiaro, far funzionare un matrimonio richiede impegno.
E credo che lo richieda anche la paternità.
Ma penso davvero che, tra i grandi cambiamenti che stanno avvenendo anche sul versante sociale, sia necessario riscoprire che la paternità è una responsabilità e una necessità.
Che impressione Le fa sapere che i suoi pronipoti studieranno il suo lavoro nei loro libri di scuola? Qualcuno me lo ha fatto notare l’altro giorno, ed è stata la prima volta che ci ho pensato.
So che suona strano, ma è davvero così! Non penso mai a me stesso in questi termini.
E poi, certo, dipende molto da quello che leggeranno! (ride).
Beh, lei di cose ne ha fatte parecchie…
Sì.
Però la mia personale inclinazione è quella di concentrarmi sempre sul futuro.
Non perché io non rifletta sul passato – vi sono ovviamente molte questioni sulle quali rifletto e ritorno – ma sento di avere ancora qualcosa da dare.
Sento che ho ancora una vita davanti a me, oltre che dietro di me.
Chissà poi quali saranno i giudizi storici sulle diverse imprese in cui sono stato coinvolto, in particolare i tanti conflitti bellici come l’Iraq, l’Afghanistan, il Kosovo, Sarajevo.
Semplicemente, non avendo idea di quali giudizi verranno dati, trovo che non abbia assolutamente senso l’ossessione di pensarci.
Mi colpisce questa sua enfasi sul futuro.
Certo, Lei, che è arrivato alla guida del governo a 44 anni, oggi è ancora giovane:  ha finito il suo lavoro come primo ministro avendo ancora tantissimo tempo davanti a sé.
Invece, per esempio, l’Italia ha una classe politica tradizionalmente molto più avanti con gli anni:  è perciò inusuale un politico che, al termine di un decennio di governo, sia così proiettato sul suo futuro professionale.
Sì, ma ritengo che, in realtà, sia una cosa buona.
Devo dire che credo di aver imparato tantissime cose negli anni.
Il fatto di avere politici che terminano il loro incarico quando sono ancora giovani, può tornare veramente utile.
Penso a politici come Bill Clinton o Aznar:  hanno davvero molta esperienza da far fruttare.
E sua moglie non scenderà in politica, come è capitato in altri Paesi? No, non credo proprio che le interessi! (ride).
Eppure abbiamo davvero bisogno delle donne in politica.  È vero:  abbiamo bisogno delle donne in politica.
Bisogna insistere! Del resto il suo Paese è stato a lungo guidato da una donna che, tra l’altro, è stata un esempio interessante di donna politica.
Certamente.
Credo, però, che i pregiudizi contro le donne siano in realtà molto meno diffusi di quanto generalmente si creda.
Ricordo che mio padre mi diceva sempre – era un uomo della vecchia guardia – che gli inglesi non avrebbero mai eletto una donna primo ministro.
E invece l’hanno fatto per ben tre volte! Quale era il sogno di Tony Blair quando era bambino? Le mie ambizioni? Temo proprio che fossero estremamente ordinarie e banali:  volevo diventare un calciatore o una rock-star! (ride).
Non ha mai pensato che le sarebbe piaciuto diventare primo ministro? No! Sarei assolutamente inorridito se qualcuno mi avesse detto che sarei diventato  un politico.
E questo fino all’età di 20 o 21 anni.
I miei primi due anni  all’università  sono  stati  più  a base di feste e rock and roll che di politica.
Eppure si ricorderà della prima volta in cui ha votato? Ricordo che io quel giorno mi sono sentita importante:  sentivo che il mio Paese aveva bisogno di me.
Sì che mi ricordo! Erano le elezioni del 1974, e io ero all’università.
Direi, però, che il voto che ha segnato una netta differenza nella mia vita, è stato quello al referendum sull’Europa del 1975.
Ricordo perfettamente di aver votato sì:  e fu un voto estremamente consapevole.
Ero convinto che fosse una  scelta importante per il futuro della Gran Bretagna.
Lo ricordo bene:  è stato un momento davvero interessante.
E così, terminiamo con l’Europa.
Un involontario ponte verso il futuro.
Ancora strette di mano, e sorrisi.
Quando lo saluto, non so più se sto salutando il politico che ha abitato per un decennio al 10 di Downing Street riformulando la politica inglese, il credente che ha camminato a lungo verso la Chiesa cattolica, o lo statista di cui ancora si parlerà.
In effetti, forse non è nemmeno un gran problema:  beneath all, questo è Mister Tony Blair, come lo definisce il suo assistente Matthew Doyle.
All’ultimo momento salendo le scale verso la sua stanza, ero stata presa da un brivido di terrore su come avrei dovuto chiamarlo.
Ma il problema non s’è posto.
(©L’Osservatore Romano – 14-15 settembre 2009)

Confini

CAMILLO RUINI, ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Confini.
Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo, Mondadori.
Mialano  2009, pp.  204, ISBN: 978880458310, €  18.00.  Una delle domande di fondo poste dall’attuale dibattito sull’identità culturale dell’Europa è se il cristianesimo, storicamente radicato in un Occidente sempre più secolarizzato e sollecitato dal problematico incontro con altre fedi e civiltà, riuscirà a conservare la sua dimensione profetica, e se l’Occidente laico potrà ancora riconoscere nella parola di Gesù un punto di riferimento etico e spirituale privilegiato.
Sul futuro della democrazia e sul ruolo del cristianesimo – e, in Italia, della Chiesa cattolica – due acuti osservatori del nostro tempo, lo storico Ernesto Galli della Loggia, di formazione laica, e il teologo Camillo Ruini, si confrontano in un serrato contraddittorio ricco di spunti di riflessione e acute intuizioni.
Un sintetico excursus dall’illuminismo ai giorni nostri, necessario per individuare i momenti più significativi nell’evoluzione dei rapporti tra società civile e istituzione ecclesiastica, introduce all’analisi della situazione del nostro paese, dove il cattolicesimo ha trovato la sua massima espressione politica nei quarant’anni di governo della Democrazia cristiana e dove il Concordato rappresenta tuttora un motivo di scontro ideologico.
Nella discussione entrano inevitabilmente questioni decisive per la nostra epoca, e spesso oggetto di roventi polemiche, come i limiti da porre alla scienza e alla tecnologia nella manipolazione della natura, o le istanze etiche che discendono da concezioni della vita e della morte agli antipodi.
Ma l’attenzione dei due interlocutori si rivolge anche alle grandi civiltà di matrice non cristiana (in primo luogo quella islamica), rispetto alle quali la Chiesa, come sostiene Ruini, «deve riaffermare la specificità dell’identità cristiana, la sua singolarità, che forse nel tumulto dei tempi minaccia talvolta di appannarsi agli occhi degli stessi fedeli».
Se, dunque, la strada da percorrere per raggiungere reali punti d’incontro tra la cultura laica e quella cristiana appare ancora lunga e tortuosa, non mancano segnali positivi in questa direzione, a cominciare dal messaggio del Concilio Vaticano II e dalla sua interpretazione a opera di pontefici come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, entrambi strenui difensori del concetto di dignità della persona e delle sue attese di giustizia, libertà e pace.
Senza la presunzione di fornire risposte definitive, questo dialogo apre nuovi orizzonti per chiunque desideri approfondire la conoscenza della realtà in cui vive e sia davvero tentato di attraversare i propri «confini», un passo che, prima o poi, ciascuno sarà chiamato a compiere.

Una laicità positiva per il futuro

Una laicità positiva per il futuro di Camillo Ruini Quello della laicità è un grande tema, del quale si discute da anni con un interesse che sembra inesauribile.
È difficile, pertanto, proporre in merito “idee innovative”, come è auspicato per questo incontro.
In rapporto all’emergere di qualcosa di nuovo vorrei segnalare anzitutto il rischio insito nella parola “laicità”, non per se stessa ma perché, nel dibattito culturale e politico italiano, essa risente facilmente della parentela con il termine francese “laicité”, portatore, storicamente, di un significato assai preciso e, a mio avviso, abbastanza angusto, rispetto alle problematiche attuali oltre che alla rilevanza dell’altro filone, che per intenderci chiameremo “nord-americano”.
Affinché una “nuova” laicità sia elaborata concettualmente, e soprattutto possa prendere piede nella realtà, la matrice americana mi sembra assai più utile di quella francese, ma soprattutto occorre misurarsi seriamente con il rilievo assunto dalla presenza delle diverse religioni sulla scena pubblica, oltre che con le questioni poste sia dalla trasformazione dei costumi e modi di vivere sia dagli sviluppi scientifici e tecnologici, in particolare nell’ambito delle biotecnologie.
Mi preme inoltre inserire una considerazione della quale di solito non si parla, ma che mi sembra indispensabile per impostare correttamente, o se vogliamo con onestà intellettuale, tutto il discorso sulla laicità e sul ruolo pubblico delle religioni.
Questa considerazione è contenuta nel sottotitolo del convegno internazionale su Dio, promosso per il prossimo dicembre [a Roma] dal comitato per il progetto culturale [della conferenza episcopale italiana]: “Con Lui o senza di Lui cambia tutto”.
Robert Spaemann, nel 2001, ha illustrato in maniera molto sintetica ma altrettanto magistrale il significato di questa affermazione, precisando che la risposta all’interrogativo: fa differenza che Dio esista o non esista? cambia profondamente a seconda che si tratti dei credenti o dei non credenti, sia atei sia agnostici.
I credenti autentici rispondono che la differenza non solo esiste ma è grande e radicale – anzi, è la prima e la più grande –, riguardo sia al modo di concepire la realtà sia all’orientamento da dare alla nostra vita: per loro infatti Dio è l’origine, il senso e il fine dell’uomo e dell’universo.
I non credenti invece possono differenziarsi nelle loro risposte, a seconda che ritengano la fede in Dio negativa, positiva o irrilevante per la vita dell’uomo e della società, ma propriamente parlando si riferiscono soltanto alla nostra fede in Dio, non alla realtà stessa di Dio, dato che secondo loro Dio non esiste, o comunque non possiamo sapere niente di lui, nemmeno se egli esista.
Il riconoscimento di questa profonda diversità di approccio tra credenti e non credenti sgombra il terreno dagli equivoci delle false uniformità, ma non implica affatto una impossibilità di convergere su obiettivi concreti e importanti: anzi, nelle attuali circostanze storiche, importantissimi.
Evidenzierò in seguito alcuni di questi.
*** Ritornando alla questione della laicità, distinguerei tra gli aspetti sui quali oggi esiste un consenso sostanziale, anche se spesso mascherato da polemiche piuttosto strumentali, e i punti sui quali invece il contrasto è profondo, anzi, tende forse ad acuirsi.
Seguendo da una parte la voce “Laicismo”, redatta da Giovanni Fornero nella terza edizione del “Dizionario di filosofia” dell’Abbagnano, e dall’altra i documenti “Gaudium et spes” e “Dignitatis humanae” del Concilio Vaticano II, possiamo individuare gli aspetti su cui c’è consenso anzitutto nel principio dell’autonomia delle attività umane, cioè nell’esigenza che esse si svolgano secondo regole proprie, non imposte loro dall’esterno.
Dietro questo consenso rimane anche qui la diversità tra credenti e non credenti: i primi ritengono infatti che questa autonomia abbia in Dio creatore la propria origine e la propria ultima condizione di legittimità (“Gaudium et spes” 36).
Un secondo elemento di consenso è costituito, contrariamente a molte apparenze, dall’affermazione della libertà religiosa, come diritto inalienabile di ogni persona e, almeno secondo la Chiesa cattolica, di ogni comunità.
Decisiva è stata, al riguardo, la svolta operata dal Vaticano II con la dichiarazione “Dignitatis humanae”, rispetto alle posizioni precedenti della Chiesa in materia.
Una differenza nei confronti di opinioni diffuse nel mondo laico riguarda il fondamento ultimo di tale libertà, che il Concilio intende in modo da escludere un approccio relativistico incompatibile con la rivendicazione di verità del cristianesimo.
Aggiungo che la “Dignitatis humanae” (n.
7) afferma nettamente che la libertà dell’uomo nella società va riconosciuta nella maniera più ampia possibile, limitandola soltanto se e in quanto ciò sia necessario.
Sulla base dei due principi condivisi dell’autonomia delle attività umane e della libertà, in particolare della libertà religiosa, un ampio consenso sussiste inoltre – di nuovo, contrariamente alle apparenze – sulle norme o i criteri di fondo che devono regolare i rapporti tra lo Stato e le comunità religiose, compresi quelli tra lo Stato e la Chiesa in Italia.
Si tratta in concreto della loro distinzione e autonomia reciproca, oltre che dell’apertura pluralistica degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse – comprese quelle di matrice religiosa e anche confessionale –, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità.
Le motivazioni e le dimensioni di questa apertura sono però assai diverse, a seconda dei punti di vista degli interlocutori, come vedremo tra breve.
L’ostacolo che si frapponeva in Italia, e che ancora in qualche modo sopravvive in vari altri paesi, anche europei, cioè la “religione di Stato” o il carattere confessionale dello Stato, è stato superato istituzionalmente con l’accordo del 1984 di revisione del Concordato, che, nel protocollo addizionale, in relazione all’art.
1, recita: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
Alla base della revisione del Concordato stanno, come è noto, da una parte la Costituzione della Repubblica e dall’altra il Concilio Vaticano II con il riconoscimento della libertà religiosa.
L’obiezione che la sussistenza stessa del Concordato rappresenti un privilegio, contrario al principio dell’apertura pluralista e paritaria dello Stato alle diverse confessioni religiose e posizioni culturali, dopo l’accordo di revisione non sembra insuperabile: le relazioni concrete tra uno Stato e le diverse confessioni religiose presenti nel corpo sociale non possono infatti non tener conto della situazione storica e dei modi nei quali, all’interno di essa, lo Stato può riconoscere un carattere pubblico, e non soltanto privato, alle varie confessioni, con gli effetti concreti che conseguono da un tale riconoscimento.
*** Venendo ora agli aspetti della laicità su cui esistono divergenze profonde, ossia ai problemi oggi realmente aperti, essi si concentrano principalmente, nei paesi di democrazia liberale ai quali limito il mio discorso, sul ruolo pubblico che le religioni possono o non possono esercitare e sulle condizioni alle quali possono eventualmente esercitarlo.
La gamma delle opinioni e posizioni al riguardo è ampia e variegata, ma sembra possibile individuare due orientamenti, e direi due sensibilità, di fondo.
Uno di essi tende a ridurre il ruolo pubblico delle religioni, talvolta fin quasi a sopprimerlo, e viene motivato sottolineando, da una parte, il carattere personale, spirituale e intimo, piuttosto che sociale e istituzionale, della religiosità autentica; privilegiando, d’altra parte, nella vita di una nazione, la sfera propriamente politica rispetto a quella del sociale.
L’altro orientamento tende invece a favorire, o comunque ad accogliere senza riserve mentali, il ruolo pubblico delle religioni, ritenendo anche le dimensioni sociali e istituzionali essenziali per le religioni e insistendo sull’autonomia e la rilevanza irriducibile della sfera del sociale.
Va detto qui chiaramente che queste diversità di orientamenti si pongono oggi in maniera trasversale rispetto alla distinzione, consueta in Italia, tra cattolici e laici, come anche tra credenti e non credenti.
Tra i cattolici si trovano infatti non pochi sostenitori di una religiosità concentrata sul suo aspetto spirituale, che sono facilmente critici del ruolo pubblico delle religioni e in particolare del cattolicesimo, mentre tra i laici, specialmente dopo l’emergere delle nuove e grandi questioni etiche e antropologiche, e dopo la rinnovata presenza delle religioni non cristiane sulla scena mondiale, sono numerosi quelli che riconoscono volentieri un tale ruolo, e non di rado lo auspicano.
*** Su questa problematica tenterò ora di esporre sinteticamente il mio punto di vista.
I fenomeni religiosi, in concreto tutte le religioni, compreso evidentemente il cristianesimo, hanno di per sé non minori titoli che ogni altra realtà o fenomeno sociale ad influire sulla scena pubblica, ivi compresa la dimensione propriamente politica.
Ciò naturalmente nel rispetto delle regole della democrazia e dello Stato di diritto o, per usare una terminologia oggi in voga, delle procedure attraverso le quali si formano e si esprimono le decisioni politiche.
Non vi è quindi ragione per porre alle religioni speciali condizioni per esercitare un ruolo pubblico: ad esempio condizioni riguardanti la razionalità del loro argomentare.
La decisione se un modo di argomentare sia razionale, o forse più precisamente plausibile e convincente, in un sistema democratico è affidata infatti, in ultima analisi, soltanto alla valutazione che ne dà la generalità dei cittadini nelle sedi appropriate, anzitutto quelle elettorali.
Vorrei indicare infine i motivi per i quali il ruolo pubblico delle religioni – in particolare del cristianesimo – è importante e può rendere un servizio positivo alla vita della società.
In altri termini, vorrei indicare le ragioni pratiche di quella laicità “sana” o “positiva” di cui ha parlato a più riprese Benedetto XVI, aperta cioè alle fondamentali istanze etiche e al senso religioso che portiamo dentro di noi.
Una motivazione assai rilevante è stata indicata da E.-W.
Böckenförde già molti anni fa, nel suo classico saggio su “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”: lo Stato liberale secolarizzato vive infatti di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su “Fede e democrazia” pubblicato sulla rivista “Aspenia” nel 2008, ha proposto un aggiornamento interessante, e a mio parere nella sostanza condivisibile, della tesi di Böckenförde.
In primo luogo ha esteso questa tesi dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella tendenza a ridurre l’uomo stesso a un fenomeno della natura e di quel totale relativismo che sono alla base delle attuali interpretazioni della laicità contrarie all’apertura sollecitata da Benedetto XVI.
È l’uomo, dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi – ma, a mio avviso, sostanzialmente sempre – di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici.
Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita.
Proprio questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
Il libro “Confini” è, come precisa il suo sottotitolo, un esercizio di “dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo”, che cerca di approfondire nelle sue motivazioni e di rivestire di concretezza quella laicità non ostile al cristianesimo, anzi alimentata in buona misura da esso, nella quale il professor Galli della Loggia ed io, pur con tutti i nostri diversi punti di vista, individuiamo concordemente un presidio essenziale dell’ispirazione umanistica della nostra civiltà.
__________ Il rapporto tra religione e politica è una classica questione di “confini”, come dice anche il titolo di un dialogo, divenuto un libro, tra il pensatore laico Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Camillo Ruini.
Presentando il libro a Milano, a Palazzo Marino, lo scorso 9 settembre, Ruini ha trovato occasione per dire in sintesi come lui vede il ruolo pubblico della religione nelle moderne democrazie e i punti d’accordo e di disaccordo tra la Chiesa e la visione laica.
Il suo intervento, riprodotto integralmente più sotto, è tanto più interessante in quanto va ai “fondamentali” della controversia sulla laicità.
È una controversia che implica inevitabilmente la domanda suprema su Dio.
Perché “con Dio o senza Dio cambia tutto”, ha detto il cardinale, che proprio alla questione di Dio ha dedicato un grande convegno che si terrà a Roma dal 10 al 12 dicembre, promosso dalla conferenza episcopale italiana e in particolare dal suo comitato per il “progetto culturale”, di cui lo stesso Ruini è presidente.
Il convegno non sarà strettamente “di Chiesa”.
Spazierà dalla filosofia alla teologia, dall’arte alla musica, dalla letteratura alla scienza.
E gli oratori saranno di assoluto rilievo internazionale nei rispettivi campi: siano essi cattolici o no, credenti od agnostici, da Robert Spaemann ad Aharon Appelfeld, da Roger Scruton a Rémi Brague, da Martin Nowak a Peter van Inwagen.
Non sarà neppure una sfilata di opinioni giustapposte, tanto meno una sorta di “cattedra dei non credenti” del tipo di quelle promosse anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini.
Il disegno è mirato.
Punta deciso a mettere a fuoco quella “priorità” che per Benedetto XVI “sta al di sopra di tutte”, in un tempo “in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento”.
La priorità cioè – come ha scritto papa Joseph Ratzinger nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo 2009 – “di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio.
Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
Per la conferenza episcopale italiana un convegno di tale portata è una prima assoluta.
Il “progetto culturale” di cui Ruini è stato ideatore trova in esso una delle sue esplicazioni maggiori.
Perché tale progetto non è altro che “uno sforzo per trasformare il messaggio della Chiesa in cultura popolare”, come ha detto il rettore dell’Università Cattolica di Milano, Lorenzo Ornaghi, nel commentare il libro di Ruini e Galli della Loggia.
Uno sforzo che ha avuto e ha nel quotidiano “Avvenire” una delle sue tribune più importanti.
Ma lasciamo la parola al cardinale.
Sandro Magister

Baarìa

DOMANDE & RISPOSTE   Giuseppe Tornatore non ama particolarmente il termine kolossal per la sua nuova pellicola(ma lo è), Baarìa che ha aperto la 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il  film è imponente e si percepisce dietro ogni scena l’immenso lavoro, lo sforzo duro che c’è stato nel realizzarlo.
Si ride molto, ci si commuove, dramma e comicità si alternano.
Perché come dice il regista: “Questo è un film dove ho messo tutto quello che ho imparato crescendo a Bagheria.
E uno degli insegnamenti principali è stato proprio quello che si può ridere di tutto nella vita”.
  Qui a Venezia abbiamo avuto la fortuna di vederlo in stretto dialetto baarìota, sottotitolato in italiano, quando il film uscirà nelle sale il 25 settembre distribuito da Medusa, avrà una doppia versione: quella dialettale e quella doppiata in un italiano con inflessioni sicule.
Baarìa che ha un prologo ambientato negli anni ’10 per terminare con un epilogo ai giorni nostri è incentrato negli anni dai ’30 agli ’80.
Impossibile raccontare la trama se non che la storia gira intorno a Peppino (Francesco Scianna, un attore bravissimo) e Mannina (Margareth Madè, splendida modella al suo esordio nel cinema), del loro grande amore che dura tutta la vita e di tutto un paese che gli ruota intorno.
“Se vuoi raccontare il mondo, racconta il tuo paese”, affermava Stendhal e questo ha fatto Tornatore.
Cosa c’è nel film, Tornatore? C’è la passione per la politica intesa come strumento per migliorare la propria esistenza, gli ideali, la lotta alla mafia, alla miseria, il duro lavoro, l’amore per il cinema, per il teatro, la magia, la fede, il comunismo, le illusioni, le delusioni.Tre anni ci sono voluti per realizzare Baarìa –quindi tutte le mie intenzioni le avete viste nel film, ci ho messo l’anima.
E’ stato il mio lavoro più duro e difficile ma ne sono fiero”.( 25 milioni di euro di budget, e 500 copie in arrivo.
La Medusa di Berliusconi si è “sprecata” alla grande).
Tornatore nel film Peppino alla fine dice “Vogliamo abbracciare il mondo ma abbiamo le braccia troppo corte per farlo”.
Si riferisce a qualcosa in particolare o è un suo modo di vedere la vita? E’ una frase che amo moltissimo perché solo una persona onesta la può dire.
Perché è ammettere i propri limiti, è quello che vorremmo fare ma che forse non siamo riusciti a fare.
E’ la consapevolezza anche della nostra superbia.
Ha una marea di significati, però positivi, non è una frase su una sconfitta.
Cosa ha significato per lei raccontare il microcosmo di Bagheria che diventa metafora del mondo? Tutti quelli che vivono in provincia vedono il loro paese come il centro del mondo.
E io penso che in parte sia giusto e vero perché un mondo ridotto ai minimi termini ti aiuta meglio a capire le cose, le rende più chiare.
I sogni e il vederli svanire, il bene e il male, le sorprese che ti riserva continuamente la vita… tutto si può raccontare attraverso le esistenze delle persone cresciute in piccolo paesello della Sicilia.
Nel film ci sono molte scene drammatiche, dovute soprattutto alla povertà, allo sfruttamento, alla violenza e alla durezza della vita ma si ride anche tanto… Fin dall’inizio, dalla stesura della sceneggiatura ho sempre pensato che l’ironia che a volte sfocia proprio nella comicità dovesse essere mischiata al dramma.
Un tempo i produttori dicevano:-Se vuoi che un film riesca bene devi sapere fare ridere e piangere-.
Ora, io non ho voluto applicare alla lettera questa massima ma l’ho trovata da sempre adatta alla storia che volevo raccontare.
Lo stile è quello, la filosofia è quella: per riuscire a superare, a sopravvivere alle ingiustizie e alla durezza dell’esistenza occorre essere capaci di riderci sopra.
Altrimenti è finita.
Peppino è un personaggio umile, di estrazione povera ma ha una eleganza nel vestire e nel portamento che lo identifica e lo distingue dagli altri.
E’ il simbolo della sua dignità come uomo? Assolutamente sì.
Per una persona con pochi mezzi, povera, la dignità arriva anche attraverso la sua eleganza, il suo amor proprio.
Peppino è una figura bellissima.
Un comunista che crede nella politica e nei suoi ideali, che viene deluso da questi, strapazzato dalla vita ma che continuerà come suo padre e il padre di suo padre a comportarsi da persona onesta.
Onestà nell’amore e in quello in cui si crede.
Ecco sotto questo aspetto il film è molto nostalgico perché oggigiorno è difficile trovare persone così limpide e la politica non rappresenta più un ideale, un modo per cambiare la propria vita.
E’ vista in tutt’altro modo e non c’è bisogno che ve lo spieghi io.
Alcune ore fa il  Presidente Silvio Berlusconi  ha definito il suo film un capolavoro.
Sottolineando il fatto che gli è piaciuto molto il momento in cui questo comunista va nell’allora Unione Sovietica e ne torna disgustato… Come commenta tutto ciò? Non sapevo che Berlusconi fosse anche un critico cinematografico… scherzi a parte, non ho letto queste dichiarazioni anche se mi sono state riportate.
Non nego che ogni volta che vengono fatti degli apprezzamenti al mio lavoro ne sono lusingato, quindi anche in questo caso.
Il film non è la storia di un comunista che va in URSS e torna deluso è molto di più, e tutto è molto più complicato di una lettura del genere.
Detto questo ho anche da ridire sul fatto che alcuni giornali abbiano insinuato che Berlusconi ha parlato bene del film perché è il mio produttore.
Non l’ho mai visto, mai incontrato in vita mia, quindi se è il produttore del film è un produttore davvero anomalo.
A cominciare dal fatto che raramente, davvero raramente i produttori parlano bene del film che hanno prodotto.(Ahi, ahi, Peppuccio, guidato da un ufficio stampa che è cresciuto sugli scandali cinematografici , non è che possiamo crederti molto!!!).
 Chi è  Regista famoso nel mondo, si è caratterizzato per il suo impegno civile e per alcune pellicole assai poetiche che hanno anche avuto notevole successo di pubblico.
Nato nel 1956 a Bagheria, un paesello nei pressi di Palermo, Tornatore si è sempre dimostrato attratto dalla recitazione e dalla regia.
All’età di soli sedici anni, cura la messa in scena, a teatro, di opere di giganti come Pirandello e De Filippo.
Si accosta invece al cinema, diversi anni dopo, attraverso alcune esperienze nell’ambito della produzione documentaristica e televisiva.
In questi campo ha esordito con opere assai significative.
Il suo documentario “Le minoranze etniche in Sicilia”, fra l’altro, ha vinto un premio al Festival di Salerno, mentre per la Rai ha realizzato una produzione importante come “Diario di Guttuso”.
A lui si devono inoltre, sempre per la Rai, programmi come “Ritratto di un rapinatore – Incontro con Francesco Rosi” o esplorazioni impegnate delle diverse realtà narrative italiane come “Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia”.
Nel 1984 collabora con Giuseppe Ferrara nella realizzazione di “Cento giorni a Palermo”, assumendosi anche i costi e responsabilità della produzione.
Infatti è presidente della cooperativa che produce il film nonché co- sceneggiatore e regista della seconda unità.
Due anni dopo debutta con  “Il camorrista”, in cui viene tratteggiata la losca figura di un della malavita napoletana (liberamente ispirata alla vita di Cutolo).
Il successo, sia di pubblico che di critica, è incoraggiante.
Il film si aggiudica oltretutto il Nastro d’Argento per la categoria regista esordiente.
Sulla sua strada capita Franco Cristaldi, il famoso produttore, che decide di affidargli la regia di un film a sua scelta.
Nasce in questo modo “Nuovo cinema Paradiso”, un clamoroso successo che proietterà Tornatore nello star system internazionale, tanto che gli verrà attribuito un premio a Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero.
Inoltre, diventa il film estero più visto sul mercato americano degli ultimi anni.
Nel 1990 è quindi la volta di un’altro commovente lungometraggio quel “Stanno tutti bene” (viaggio di un padre siciliano alla volta dei suoi figli sparsi per la penisola), interpretato da un Mastroianni in una delle sue ultime interpretazioni.
L’anno successivo, invece, prende parte al film collettivo “La domenica specialmente”, per il quale gira l’episodio “Il cane blu”.
Del 1995 è “L’uomo delle stelle”, forse il film che maggiormente è stato apprezzato tra i suoi lavori.
Sergio Castellitto interpreta un singolare “ladro di sogni” mentre il film vince il David di Donatello per la regia ed il Nastro d’Argento per la stessa categoria.
Dopo questi successi, è la volta di una altro titolo da botteghino.
“La leggenda del pianista sull’oceano”.
Il protagonista è l’attore americano Tim Roth mentre come sempre Ennio Morricone compone delle bellissime musiche per la colonna sonora.
Una produzione che sfiora la dimensione del kolossal….
Anche questo titolo fa incetta di premi vincendo il Ciak d’Oro per la regia, il David di Donatello per la regia e due Nastri d’Argento uno per la regia ed uno per la sceneggiatura.
Esattamente dell’anno 2000 è invece la sua opera più recente “Maléna”, una coproduzione italo-americana con Monica Bellucci protagonista.
Nel 2000 ha anche prodotto un film del regista Roberto Andò dal titolo “Il manoscritto del principe”.
Filmografia essenziale: Camorrista, Il (1986) Nuovo cinema Paradiso (1987) Stanno tutti bene (1990) Domenica specialmente, La (1991) Pura formalità, Una (1994) Uomo delle stelle, L’ (1995) Leggenda del pianista sull’oceano, La (1998) Malèna (2000) La sconosciuta (2006)   Aforismi di Giuseppe Tornatore «I film che facciamo risentono del nostro percorso di formazione.» «Oggi deleghiamo tutto agli altri, anche la gestione degli affetti.» «Tra regista e attore protagonista, quando si cerca di dare il massimo, sono normali i momenti di confronto.
Questo nel gran cortile della comunicazione, della stampa, viene talvolta ingigantito.
Così nasce la leggenda dei rapporti difficili.» Una storia, divertente e malinconica, di grandi passioni e travolgenti utopie.
Una leggenda affollata di eroi…
Una famiglia siciliana raccontata attraverso tre generazioni: da Cicco al figlio Peppino al nipote Pietro…
Sfiorando le vicende private di questi personaggi e dei loro familiari, il film evoca gli amori, i sogni, le delusioni di un’intera comunità vissuta tra gli anni trenta e gli anni ottanta del secolo scorso nella provincia di Palermo.
Negli anni del fascismo Cicco è un modesto pecoraio che trova, però, il tempo di dedicarsi al proprio mito: i libri, i poemi cavallereschi, i grandi romanzi popolari.
Nelle stagioni della fame e della seconda guerra mondiale, suo figlio Peppino s’imbatte nell’ingiustizia e scopre la passione per la politica.
E poi… Il film “Baarìa” del  regista Giuseppe Tornatore è il nome siciliano di Bagheria, cittadina della provincia di Palermo, ha subito diviso la critica così come il pubblico per il tipo di struttura narrativa in cui la linea del tempo sembra improvvisamente piegarsi per cui il presente e il futuro si confondono fra loro attraverso la dimensione onirica e fantastica.
Ecco che ciò che era presente diviene futuro e il futuro diventa passato, un passato ricco di emozioni, sentimenti, sensazioni e, soprattutto, cambiamenti sociali.
Grazie ad un budget piuttosto elevato e alla possibilità di disporre a piacimento di circa 150 minuti il cineasta riesce a dar vita, anima e respiro ad un’epopea italiana in cui mescola immagini di fantasia con quelle di repertorio e autobiografiche che rendono la pellicola suggestiva e realistica.
“Baarìa” è come l’enciclopedia della storia della Sicilia e dell’Italia e, quindi, dello stesso autore che riversa nel film tutto l’amore per la sua terra natia, assolata, calda, spazzata dal vento i cui abitanti sono ancora oggi molto legati alla tradizione.
E’ un piccolo mondo fatto di speranze, sogni, disillusioni, ideali, è la vita stessa con la sua bellezza e la sua bruttura rappresentata dal regista con ridondanza ed arte.
Quello che colpisce fin da subito è la tecnica del cineasta che mostra la sua abilità e capacità di colpire lo spettatore/trice e di accompagnarlo/a attraverso la storia d’Italia utilizzando come punto di riferimento una famiglia di Bagheria.
La ricostruzione storica è perfetta nonostante le difficoltà legate al dover rappresentare un periodo così complesso costellato di grandi eventi e cambiamenti.
La cittadina di “Baarìa” lentamente si trasforma e cambia così come i suoi abitanti che vivono i grandi eventi della storia italiana.
Sono narrate le vicende di tre generazioni di una famiglia di Bagheria: l’occhio indiscreto della telecamera segue la vita di Peppino, interpretato da Francesco Scianna al suo esordio come attore, dalla sua infanzia fino al matrimonio con Mannina (l’esordiente Margareth Madé), e il suo impegno politico oltre che il rapporto con i figli.
Attraverso la vita del protagonista il regista cerca di raccontare quasi un secolo di storia italiana dalle due Guerre Mondiali, allo sbarco degli alleati, quindi il Fascismo che lascia il posto al Comunismo, alla Democrazia Cristiana e al Socialismo”Tutto scorre”(Eraclito, filosofo greco presocratico), è l’idea motrice del film che racconta e descrive, che cerca di guidare lo spettatore a rivivere quel periodo, le emozioni e la vita di quegli uomini e quelle donne.
 E’ un film corale che tocca diversi temi ed elementi: dal rapporto con i genitori, la morte, il lavoro, l’amore, la passione politica, la mafia, la corruzione ed altri sentimenti.
Titolo originale: Baarìa Nazione: Italia, Francia   Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 1.50 Regia: Giuseppe Tornatore Cast:  Monica Bellucci( che fa la solita bellona di passaggio), Raoul Bova, Ángela Molina, Enrico Lo Verso, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Nicole Grimaudo, Nino Frassica, Aldo, Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Vincenzo Salemme, Lina Sastri, Giorgio Faletti, Nino Frassica, Salvatore Ficarra, Valentino Picone Produzione: Medusa Film, Quinta Communications, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Distribuzione: Medusa Data di uscita: Venezia 2009 25 Settembre 2009 (cinema)

Al presbiterio, una famiglia “in missione

Tutte le mattine, Émilie de Lepinau si alza al suono delle campane a pochi metri dalle sue finestre.
Aprendo le imposte, la giovane ventinovenne si concede qualche momento di ammirazione per la vista panoramica, dall’alto del presbiterio, sulla chiesa Saint-Maxime d’Antony (Hauts-de-Seine), a sud di Parigi.
Mentre lei fa far colazione ai suoi quattro figli, suo marito Marco, 31 anni, attraversa il cortile per andare ad aprire il portone della chiesa prima di recarsi al lavoro.
Da cinque anni, la coppia abita sopra le sale del catechismo, nel presbiterio.
“Siamo una ‘famiglia   d’accoglienza’, spiega Émilie.
Il nostro ruolo è innanzitutto quello di rendere vivo il luogo,   abitandovi.” Nella diocesi di Nanterre, come loro, una quindicina di famiglie hanno ricevuto una   missione dal vescovo: essere “una presenza cristiana nel quartiere”, aggiunge.
Le modalità sono   state definite con il parroco della parrocchia quando sono arrivati, padre Didier Berthet, secondo i bisogni del luogo e i desideri dei Lepinau.
Si tratta di partecipare alla manutenzione quotidiana, di impegnarsi nei gruppi di catechesi e nell’animazione della preparazione al battesimo…, quindi non di sostituire il prete o di incaricarsi del lavoro dell’équipe dei laici.
Émilie non dimentica che a lei spetta portare “solo una piccola pietra alla costruzione.
Mio marito vuota le pattumiere delle   chiesa, io assicuro la presenza per l’accoglienza il sabato mattina, e partecipiamo ad alcune attività.
Ma se sento che è meglio occupare la serata stando con i miei bambini, non esito a trascurare una riunione che si svolge al piano di sotto.” La vita della loro famiglia risente comunque del ritmo della parrocchia.
Come per il Natale, che passano nel presbiterio, invitando spesso il parroco e dei preti che insegnano all’università e che non conoscono nessuno.
E avere una chiesa in fondo al giardino influenza continuamente il loro vissuto quotidiano, dandogli una forte dimensione spirituale.
“Quando Marc chiude il portone alla sera,   porta con sé i figli più grandi per pregare con loro.” Durante la giornata, quando Émilie gioca con   suoi bambini nel cortile del presbiterio, i parrocchiani vengono spesso a sedersi accanto a lei.
“Si   deve accogliere, essere in ascolto, constata Émilie.
Ma nel limite del rispetto della nostra intimità.”   Alle tre del mattino, quando un senzatetto o un ubriaco viene a suonare, Marc dà informazioni su dove rivolgersi, ma “il nostro ruolo non è quello di ospitarli”, aggiunge Émilie.
  “Non è un lavoro, è una missione”, insiste.
Le sue giornate sono sempre molto piene, e lei   approfitta in ogni istante di questa “situazione di lusso” spirituale.
“Potersi raccogliere davanti   all’altare, da sola, conclude la giornata in bellezza e permette di relativizzare, continua.
Da   giovani, eravamo dei cristiani nomadi.
Qui, siamo immersi nella realtà di una parrocchia.
Quando prendo un caffè sul mio balcone, vedo le persone che vengono a pregare durante la giornata e, ogni volta, sono sorpresa nello scoprire persone così diverse.
Mi chiedo sempre come certi trovino il tempo di venire così spesso.” Odile e Aranud Sesboüé, impegnati in un’avventura simile, possono ormai giudicare con maggiore distacco: per quattro anni hanno abitato in una parrocchia di Indre-et-Loire.
Oggi stabilito a Le Mans (Sarthe), Arnaud, farmacista cinquantenne, ammette del resto di aver “fatto fatica a partire”.
  Eppure, quando sono arrivati nella grande casa “di vecchie pietre” accanto alla chiesa Notre-Dame   de Richelieu (Indre-et-Loire), con quattro figli tra cui un neonato, non sono stati accolto a braccia aperte.
“La parrocchia era divisa e a certi dispiaceva molto che non fosse un prete ad occupare il   presbiterio, vuoto da cinque anni”, ricorda Arnaud.
Dopo un periodo di adattamento, i rapporti sono   stati più facili, “quando la gente ha capito che eravamo una famiglia come le altre, solo desiderosa   di mettersi a servizio della Chiesa”, aggiunge Odile, 45 anni.
  “Ben presto, i nostri figli hanno animato il giardino, attirando una banda di ragazzini a giocare con loro, racconta.
Eravamo al centro della città, e di fronte c’era la scuola.
Allora, quando una   mamma tardava a recuperare il figlio all’uscita da scuola, la maestra mi chiedeva se potevo occuparmene nell’attesa.” La cittadina, dove San Vincenzo de Paoli abitò per un po’ nel XVII   secolo, attira molti gruppi di pellegrini che passano dalla chiesa, ma anche dalla casa dei Sesboüé.
    “Abbiamo fatto degli incontri molto belli, racconta Arnaud.
Un pomeriggio d’inverno, due religiose,   una canadese ed un’australiana, hanno bussato alla porta del presbiterio.
Volevano solo visitare la sacrestia, ma ci siamo ritrovati a bere un caffè e a discutere in cucina fino alla sera” Nella vita   quotidiana, Arnaud e Odile erano diventati una vera “presenza di e nella Chiesa”, qualcuno a cui   rivolgersi in occasioni speciali.
“Dopo un decesso, le famiglie venivano da noi, cercando il   parroco.
Siccome non era di nostra competenza, servivamo da tramite verso i servizi appropriati.
Ma eravamo i primi a cui rivolgersi anche in caso di problemi .” Come in quella domenica, in cui   dei parrocchiani hanno fatto irruzione nella loro cucina per avvertirli che il tabernacolo era stato profanato.
La maggior difficoltà di queste coppie, sottoposte ad una sorta di vita pubblica è quella di sapersi proteggere.
“È anche successo che ci chiedessero di fare di più, sempre piccole cose, ma che   avrebbero potuto invadere e destabilizzare il nostro equilibrio familiare”, ricorda Arnaud.
Il prete   referente ha sempre chiaramente definito la loro missione, opponendosi al fatto che si accollassero troppe responsabilità.
“Se padre Xavier Malle non avesse insistito sui limiti del nostro ruolo, non   avremmo resistito”, aggiunge Odile.
  Era solo “una missione sul nostro cammino di fede”.
Eppure, lasciare il presbiterio è stato difficile   per la famiglia Sesboüé.
“C’è un grande vuoto, dopo, ammette Odile.
Era anche un grosso   impegno, allora nell’anno successivo al nostro trasloco abbiamo assunto degli impegni meno gravosi.” Prima di lanciarsi nel loro prossimo progetto: una formazione per degli adolescenti che   stanno seguendo attualmente.
Ad Antony, anche Émilie e Marc sono coscienti del fatto che è solo     “per un periodo”.
“Resteremo sempre legati a questo presbiterio, perché due dei nostri figli sono nati qui e per ora è il posto dove abbiamo abitato più a lungo, confida Émilie.
Sapere che non sarà   per tutta la vita ci spinge a viverlo al massimo.
Anche se siamo riconoscenti di aver la fiducia dei preti per essere ‘immagine di Chiesa’, a volte mi piacerebbe andare a messa in incognito!” in “La Croix” del 12 settembre 2009 (traduzione.
www.finesettimana.org)

Dialogo tra chiesa e governo Italiano

L’INTERVISTA Cosa vede, professor de Rita, dal suo osservatorio? Cosa sta accadendo nei rapporti tra politica e Chiesa in Italia? «Penso semplicemente, per dirla col mio amico Antonio Polito, che non sono i giornali a dettare l’agenda politica.
E per fortuna.
Soprattutto quando si tratta di giornalismo spesso militante».
Quindi, pensando al caso Boffo e alle sue dimissioni? «Quindi non è Vittorio Feltri a dettare l’agenda a Silvio Berlusconi così come non è Dino Boffo, né il suo caso, a dettarla al cardinal Bertone.
La politica ecclesiale proseguirà, così come sempre: si riparlerà di scuole cattoliche, di questioni etiche.
Si tratta di rapporti tra due poteri forti.
Andranno inevitabilmente avanti.
Magari Gianni Letta getterà molta acqua sul fuoco.
E lo stesso farà il cardinal Bertone.
Ma parliamo di contingenza.
Di immediatezza.
Il vero problema riguarderà un futuro non lontano…» Di quale problema si tratta, professor De Rita? «Lo chiamerei del ‘policentrismo parallelo’».
Urge una spiegazione per una formula che già appare molto complessa…
«La spiegazione arriva e non è complessa.
Da una parte c’è la dimensione dello Stato italiano unitario che non c’è più, così come l’abbiamo conosciuto, e non ci sarà per molto tempo: il centralismo, l’amministrazione, l’élite.
Stiamo assistendo a un progressivo policentrismo che non è solo localismo politico ma anche riscoperta di culture articolate, del dialetto, di un diverso modo di interpretare, nelle singole città, avvenimenti come l’Expò a Milano o le Olimpiadi a Torino».
E lo stesso, lei dice, starebbe avvenendo nella Chiesa? «Il mio vecchio e buon amico Francesco Cossiga si infuria quando assiste alle tante dichiarazioni di vescovi italiani.
Ma deve darsi pace.
Perché anche la Chiesa, fatalmente come lo Stato italiano, si sta avviando al policentrismo.
L’allora cardinale Ratzinger richiamò la Chiesa, prima di essere eletto Pontefice, alla sua ‘verticalità’, ricordando che le conferenze episcopali nazionali non hanno una base teologica.
In effetti non potrà mai perdere questa sua ‘verticalità’…
Ma bisognerà insieme fare i conti con la realtà che vive ora la Chiesa nel quotidiano: i parroci, i vescovi attivi nelle diocesi, le associazioni.
E i vescovi parlano, hanno opinioni diversificate, lo abbiamo visto e sentito in questi giorni.
Anche qui, con buona pace di padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, la ‘vera’ Chiesa italiana sono quei cento vescovi che intervengono e dicono la loro, ben più di un comunicato ufficiale.
Comunque basta leggere certi testi del professor Paolo Prodi per capire quanto la Chiesa, storicamente, abbia rispettato il localismo.» Quindi in prospettiva questa Chiesa policentrica dovrà dialogare con un potere italiano sempre più «locale»….
«La Chiesa non rinuncerà mai alla Curia né alle conferenze episcopali locali, altrimenti sarà impossibile governare un miliardo di cattolici.
Però si assisterà sempre di più a due concezioni della Chiesa: il centralismo e le realtà locali, spesso effervescenti e vitalissime.
È un problema che riguarda il destino stesso del cattolicesimo » In questa prospettiva come si colloca per esempio una realtà politica come la Lega di Umberto Bossi? «Tra vent’anni e in quest’ottica, una realtà come la Lega avrà più facilità a dialogare con la Chiesa, da localismo a localismo.
Nessuno negherà l’autorità teologica del Papa.
Ma se si vorrà ragionare in termini di territorio, un movimento come la Lega non avrà più bisogno di un Letta che media tra Berlusconi e la Chiesa o di un Pecchioli ‘ambasciatore’ del Pci presso la Santa Sede».
Allora le mosse di Umberto Bossi di questi giorni…
«No, no.
Insisto.
Non parlo dell’oggi.
Ma penso in prospettiva».
.in “Corriere della Sera” dell’8 settembre 2009 «Tra i vescovi idee diverse Per la Lega dialogo più facile» La frattura tra governo italiano e vertici della Santa Sede si ricomporrà presto.
Così come presto riprenderà il confronto su questioni etiche e scuole confessionali.
Parola di Giuseppe de Rita, sociologo cattolico, attento osservatore di ciò che accade nella Chiesa italiana, soprattutto nella sua base.

«Guerra alla guerra»

Il mondo è lacerato.
Le ferite sembrano insanabili.
La speranza è crollata sotto i bombardamenti, che non hanno risparmiato nazioni, persone e cose.
La ricostruzione latita.
Un tale orrore non deve ripetersi.
Ora è necessario iniziare una nuova guerra che faccia guerra a se stessa, perché troppo fragile è l’animo umano, troppo volubile il suo cuore.
Nel clima di propaganda, all’indomani della fine dei combattimenti, il cinema si inserisce come uno degli strumenti meno vulnerabili e capaci di penetrare maggiormente una società in bilico, spaesata, avvilita.
Riconoscono questa grande opportunità anche i cattolici, soprattutto la riconosce Pio XII.
Nasce in questo contesto, nel 1948, uno dei documenti cinematografici più interessanti nella storia del Novecento e certamente meno visti dal pubblico di ieri e di oggi:  Guerra alla guerra.
Prodotto dalla Orbis con il sostegno del Centro Cattolico Cinematografico, diretto da due registi italiani piuttosto sconosciuti, Romolo Marcellini – già autore del precedente e più famoso Pastor Angelicus girato nel 1942 – e Giorgio Simonelli, il film è stato proiettato a Venezia per la sezione “Questi Fantasmi” curata da Sergio Toffetti.
“Di Guerra alla guerra si è parlato tanto – precisa il curatore – ma quasi nessuno ebbe la possibilità di vederlo perché la sua distribuzione fu quasi inesistente.
Si è deciso il restauro, in collaborazione con la Filmoteca Vaticana, lavorando sul positivo e sul controtipo conservati nell’archivio della Cineteca Nazionale, cercando di recuperare quei materiali in grado di farci ottenere la copia migliore possibile”.
La sceneggiatura si deve a Diego Fabbri, Turi Vasile e Cesare Zavattini.
“Fabbri e Vasile furono le teste pensanti alla base della fondazione della casa di produzione Orbis.
Era un tentativo di competere nell’ambito del cinema d’autore, del cinema di regia, con gli altri nascenti poli cinematografici italiani, facendo sì che il cattolicesimo potesse avere in questo settore della comunicazione e dell’arte una sua voce di riferimento, un suo strumento.
In questo clima e con queste finalità nasce Guerra alla guerra, che indirettamente ebbe l’approvazione di Papa Pacelli”.
Il film è costruito incastrando abilmente documenti visivi dell’epoca entro una narrazione molto chiara, appositamente girata e dal sapore neorealista.
Una famiglia felice soffre la perdita di un figlio a causa di un bombardamento, che distrugge completamente anche la loro casa.
Le scene di guerra, quelle di morte, violenza, orrore sono, invece, tutte reali e più che mai esplicite e impressionanti per l’epoca, quando la guerra forse la si voleva dimenticare più che rivedere sullo schermo. La fase bellica è preparata contrapponendo alla natura pacifica e idilliaca nella quale l’uomo lavora quotidianamente per la sua necessaria sussistenza, la realtà delle fabbriche nelle quali, come fucine di morte, si costruiscono armi.
In questo modo si degrada, si snatura il lavoro umano che cambia la sua finalità, che crea morte anziché vita.
“In qualche modo direi che il film è animato da un pensiero fichtiano – precisa Toffetti.
Come all'”io” si contrappone un “non-io”, così nel film l’uomo crea manufatti e oggetti che servono alla sua vita quotidiana e per il bene, ma anche strumenti per la sua morte e per il male.
Inoltre, siamo in quella particolare stagione della storia italiana in cui il Paese, uscito dalla guerra, sta per passare da un’economia prevalentemente agricola a una industriale e proprio l’industria deve convertirsi definitivamente al bene dell’umanità, contrapponendosi alla stagione precedente in cui era dedita alla distruzione”.
Nel film, chiunque tiene in mano un’arma o manovri una macchina da guerra o sganci una bomba sulla popolazione innocente e inerme – vediamo anche l’esplosione dell’atomica – è additato come nemico dell’umanità.
Per questo non ci sono divise ed eserciti identificabili, non si fa distinzione tra Paesi, né tra vincitori e vinti.
Nel moltiplicarsi delle distruzioni e degli orrori, mentre nel film ci si domanda:  “mansueti e pacifici, dove sono?”, si leva una voce che assomiglia a quella di colui che “grida nel deserto”.
È la voce di Pio XII, che vediamo ripreso in momenti famosi – l’arrivo al quartiere di San Lorenzo a Roma dopo il bombardamento, quando il Papa è descritto come “la bianca colomba che vola per portare a termine la sua opera di carità” – e in atteggiamenti pastorali meno noti.
L’invocazione alla pace, a mano a mano che le atrocità crescono, si fa più insistente:  “Venga la pace”, “Servire la pace” e Pio XII diventa il protagonista.
Lo scorgiamo in profonda preghiera, mentre conforta e benedice.
Quando la logica delle armi prevale sulla ragione, quando il “veleno” circola ovunque e la stessa Roma è in pericolo, la voce fuori campo esclama:  “Vogliono far tacere Cristo”.
Ma il Padre – così è chiamato il Papa – non tace:  riceve in udienza i potenti del mondo, quelli che ne detengono le sorti prima e dopo la guerra; organizza l’allestimento dei campi di raccolta e di soccorso, ordina di aprire la residenza di Castel Gandolfo e i conventi di Roma per dare rifugio ai dispersi; accoglie, benedice, esorta alla pace e al perdono.
“Non sappiamo se Pio XII sia stato direttamente coinvolto nella produzione e fino a che punto l’abbia sostenuta personalmente – spiega Toffetti – ma l’aver concesso l’uso copioso della sua immagine è un implicito avallo del film”.
“Per questo motivo era importante acquisire la pellicola – aggiunge Claudia Di Giovanni, direttore della Filmoteca Vaticana – e la collaborazione con la Cineteca Nazionale l’ha reso possibile.
Ora è nostro desiderio organizzare una speciale proiezione da offrire alla Curia romana, per l’importanza che nel film occupa la figura di Papa Pacelli, per come sono descritti i suoi sforzi per la pace”.
La proiezione veneziana è stata introdotta dal breve I figli delle macerie commissionato ad Amedeo Castellazzi, sempre nel 1948, dall’Associazione nazionale combattenti e reduci, squarcio intenso di vita nel quale la voce di una mamma morta invoca la protezione del suo bambino rimasto orfano e abbandonato.
Molti dei suoi piccoli compagni abbrutiti e soli si aggirano nei paesi distrutti mentre le bambine sono fortunatamente accolte nei madrinati provinciali gestiti da alcune Congregazioni di religiose.
La speranza rinasce da qui e il cinema se ne fa interprete.
(©L’Osservatore Romano – 7-8 settembre 2009)

La sfida educativa

E’ on line la nuova sezione del sito www.progettoculturale.it dedicata al tema centrale degli orientamenti pastorali della CEI per il prossimo decennio, quello dell’emergenza educativa www.progettoculturale.it/lasfidaeducativa: questa la chiave d’accesso verso una nuova preziosa risorsa che dal 1° settembre è a disposizione, in rete, di quanti vorranno iniziare ad approfondire il tema che la Conferenza Episcopale Italiana ha deciso di porre al centro degli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020: quello della sfida educativa.
Punto di partenza di questa fase del lavoro sarà certamente il primo rapporto-proposta dedicato a questo tema dal Comitato per il progetto culturale della Chiesa Italiana, presieduto dal Card.
Camillo Ruini.
Un testo che verrà presentato a Roma il prossimo 22 settembre (maggiori dettagli sul sito) e di lì inizierà un piccolo giro d’Italia le cui prime tappe già in calendario (cui molte altre ne seguiranno) sono Perugia, Bologna, Venezia e Firenze.
 Primo Rapporto-Proposta sull’Educazione COMUNICATO STAMPA Avrà la forma del Rapporto-Proposta e verterà sull’emergenza educativa la prima indagine pluridisciplinare promossa dal nuovo Comitato per il Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana affidato di recente alle cure del cardinale Camillo Ruini.
E’ questo il senso delle prime scelte maturate nel corso delle iniziali sedute del Comitato stesso, il quale ha deciso anche che l’indagine con al centro la «questione educativa» verrà presentata già nel corso del 2009.
«L’emergenza educativa costituisce la motivazione principale del Rapporto/Proposta alla luce della nuova “questione antropologica” e dell’idea che abbiamo dell’uomo, della sua libertà e del futuro stesso della nostra comunità nazionale – spiega il cardinale Camillo Ruini −.
Occorre avere chiaro il traguardo dell’educazione, che è la persona umana.
Quando si è consapevoli che l’uomo non è semplicemente una parte della natura, ma è immagine di Dio con una sua propria responsabilità morale, allora si può concepire l’educazione come un processo che mira a formare la persona ai grandi valori che le sono costitutivi.
Se fino a ieri era quasi scontato che una generazione dovesse farsi carico dell’educazione dei più giovani, oggi non sembra più così.
Siamo davanti alla dissoluzione di questo automatismo con i gravi rischi le sono connessi, ma anche con le opportunità che si possono aprire all’orizzonte.
Il Rapporto/Proposta che si sta elaborando è una di queste opportunità, in quanto si propone di leggere e interpretare i processi in atto nella nostra società secondo il punto di vista cattolico, anche alla luce delle ricerche teoriche ed empiriche che, negli ultimi quindici anni, il Progetto culturale orientato in senso cristiano ha prodotto nell’ambito proprio dell’educazione”.
La famiglia, la scuola, la comunità cristiana, la vita sociale e i mass media saranno i capitoli portanti dell’indagine: «Cercheremo di offrire una rappresentazione realistica della situazione dell’educazione in Italia, che tenga conto certo dei problemi, ma anche delle risorse – sottolinea il sociologo Sergio Belardinelli, coordinatore dello staff di lavoro -.
Si tratta di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo nel nostro Paese ad una sorta di alleanza per l’educazione.
Credo sia questa la finalità più forte del Rapporto/Proposta da articolare in varie forme concrete, con il coinvolgimento e la collaborazione del maggior numero possibile di interlocutori, nei diversi luoghi in cui sappiamo che l’istanza educativa si fa cruciale».
Roma, 2 dicembre 2008 COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE