XII Congresso europeo per la catechesi

Al via, da oggi fino a giovedì 10 maggio, presso la Domus Mariae–Palazzo Carpegna, il XII Congresso europeo per la catechesi, promosso dal Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), sul tema dell’Iniziazione cristiana nella prospettiva della nuova evangelizzazione.

La preparazione dell’incontro è stata coordinata dalla Commissione CCEE “Catechesi, scuola e università”, presieduta da mons. Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e presidente della conferenza episcopale d’Inghilterra e Galles.

Il vescovo britannico ha introdotto i lavori di oggi insieme al segretario generale della Conferenza episcopale italiana (CEI), mons. Mariano Crociata.

Mercoledì 9 maggio 2012, i partecipanti prenderanno parte alla Messa per l’Europa che si svolgerà alle 19.30 presso la Basilica di Santa Maria Maggiore, presieduta dal Presidente del CCEE, cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, alla quale è prevista la presenza attesi degli ambasciatori presso la Santa Sede dei paesi europei.

I dati sono stati raccolti e analizzati da p. Luc Mellet, responsabile del Servizio Nazionale per la Catechesi e il Catecumenato (Francia) che ha presentato i risultati della ricerca in apertura del congresso oggi pomeriggio.

Si legge nel documento: L’esperienza di fede è un incontro con Gesù Cristo risorto, presente e vivo che può essere sentito e toccato nella Chiesa, Suo Corpo mistico. Questa esperienza è aperta a tutte le persone e quindi anche ai fanciulli e agli adolescenti. Tuttavia, l’incontro con Cristo vivo passa sempre attraverso l’incontro personale e comunitario di una persona con quanti hanno già accolto il dono della fede. La chiesa, cosciente di essere custode di un tesoro, ha da sempre riconosciuto l’importanza di comunicare la fede ai più giovani. Quest’opera di trasmissione viene chiamata catechesi. L’inchiesta, appena conclusa e realizzata in vista di questo congresso, ha permesso di rilevare aspetti positivi e altri che devono essere rivisti per rispondere al meglio alla missione di annunciare il Vangelo e per formare cristiani che vivono la loro fede in ogni dimensione della loro esistenza. Insomma, l’inchiesta ha quindi individuato un cammino ancora da compiere. Gli elementi ricavati dall’inchiesta e i commenti fatti hanno permesso di individuare alcuni temi principali: innanzitutto, i luoghi di vita e la loro influenza sull’iniziazione cristiana del bambino; successivamente, la comunità cristiana, i suoi membri e la sua vita liturgica; infine, l’importanza del cammino personale del bambino nella sua iniziazione cristiana.

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Dossier 04.05.2012

Di seguito alcuni punti che emergono dal sondaggio:

sui luoghi di vita…

La famiglia – in primo luogo i genitori, ma anche i fratelli e sorelle, e i nonni  -, è la cornice prima ed essenziale dell’iniziazione nel bambino. Anche altri membri della famiglia, tra  cui gli zii e le zie, i cugini e le cugine, o ancora, i padrini e le madrine sono citati ma con minore ricorrenza.La famiglia è il primo luogo dove uno costruisce il proprio rapporto con la realtà e quindi anche con Dio e con la Chiesa. La pratica religiosa in famiglia è l’elemento più citato come fattore positivo nell’iniziazione cristiana. Il vivere in famiglia la domenica, e le feste liturgiche, in particolare Natale e Pasqua, è un elemento importante che resta decisivo anche nell’adolescenza, quando si verifica  da parte di alcuni adolescenti un allontanamento dalla pratica religiosa. Thierry Bonaventura, CCEE Media OfficerTel: +41/ 71/227 6044 – Fax: +41/71/227 6041 Mobile: +41/ 79 1280189- media@ccee.chLa famiglia è una comunità di vita, dove si fa esperienza attraverso la parola e l’esempio (testimonianza), della presenza di Dio. In senso contrario, quando la fede non è una realtà nel quotidiano della famiglia anche questo influisce nell’esperienza religiosa dei bambini. La famiglia è presentata talvolta come un luogo, dove ciascuno interagisce con gli altri e in cui l’iniziazione cristiana non si riduce a un’iniziazione del bambino per opera dei genitori. Per esempio, l’iniziazione dei bambini può favorire un interrogarsi da parte dei genitori, dei fratelli e delle sorelle e puòportare questi a un riavvicinamento della pratica religiosa.La partecipazione della famiglia agli incontri di catechismo è citata a più riprese come un fattore positivo, anche se viene sottolineato che questa partecipazione è ancora poco frequente.Gli amici: anche i legami di amicizia rivestono un ruolo fondamentale. Gli amici costituiscono spesso il secondo gruppo di persone citato come testimoni di fede o come responsabili dell’allontanamento. La messa domenicale, per esempio, quando è anche un luogo d’incontro con gli amici è un luogo dove si ha voglia di partecipare. Al contrario se gli amici non vanno a messa, questa diventa un peso o poco attrattiva per i bambini. Infatti, appare importante per i bambini, gli adolescenti e i giovani in generale, il poter vivere la loro fede con i loro coetanei. L’influenza della scuola dipende molto dai contesti (se si tratta di scuole cattoliche private o di scuole pubbliche). Viene riconosciuto il ruolo di promozione del dialogo, del confronto e a volte anche dell’iniziazione cristiana vera e propria.Si segnala, in generale, che le scuole private cattoliche svolgono un ruolo positivo nell’iniziazione cristiana, nell’offrire ai bambini un ambiente dove la presenza dei segni e delle parole cristiane è normale, un incontro con la cultura cristiana non soltanto nei corsi di religione o durante le lezioni di catechesi, ma anche attraverso un’identità chiara nell’insegnamento delle diverse materie e nei momenti celebrativi lungo l’anno. In questo contesto, l’indagine mette in risalto l’importanza dei professori e della loro personalità per l’introduzione dei bambini alla vita della Chiesa e al rapporto personale con Dio.Nel questionario è stato possibile verificare come l’allontanamento dalla fede, che spesso si manifesta nell’adolescenza, ha tra le sue cause, non solo il fatto che la maggioranza dei colleghi di  scuola non la vive  – e l’isolamento è sempre un fattore di dissuasione – ma è anche legata alla pressione e ai doveri dello studio.Le attività di gruppi e i movimenti sono anche importanti: rappresentano uno dei principali strumenti di partecipazione alla fede cristiana per il bambino e per l’adolescente. A più riprese, gli adolescenti e i giovani sottolineano il bisogno e l’utilità di realizzare delle azioni concrete, pratiche nei gruppi di cui fanno parte, e di non accontentarsi dei momenti di discussione e di riflessione.Si ritrova anche spesso l’idea che è importante per la maturazione personale della fede l’incontro con punti di vista differenti (con persone di altre religioni, così come il confronto con gli adulti, con altre culture). Gli altri, la società nel suo insieme e i punti di vista differenti, possono tuttavia rimettere in questione la fede cristiana: la società secolarizzata e talvolta antireligiosa, vedere che altre religioni, o la scienza, possono offrire delle risposte differenti alle domande che ci poniamo, ma sono anche spesso l’occasione per approfondire le ragioni della fede.…

sulla comunità…

La  comunità cristiana è decisiva nella vita e nel percorso di fede dei bambini e degli adolescenti. La nozione di comunità ritorna abbastanza spesso nelle risposte. Viene sottolineata l’importanza di far parte di una comunità e di avere una vera vita di comunità dove i bambini trovano coetanei e adulti nella fede. L’identità cristiana è una questione frequente; il riconoscersi come cristiani e come parte di una comunità sono elementi importanti. A più riprese si fa menzione dell’importanza per i bambini e gli adolescenti di incontrare dei cristiani, sacerdoti, professori, persone attive nella vita della carità, ecc. che s’impegnano nella loro fede e che ne sono testimoni. Il catechismo, la cappellania, i corsi di religione (e simili), sono citati sempre fra i fattori positivi dell’iniziazione cristiana.

L’importanza della catechesi (e delle attività equivalenti vissute nella parrocchia o in un luogo della Chiesa), tuttavia, varia secondo i paesi. I corsi di religione alle volte sono giudicati noiosi più spesso dei gruppi di catechesi. Alcuni supporti, come la lettura di storie e i supporti audiovisivi, sono citati come più interessanti per il bambino, più stimolanti. Il contenuto della catechesi in sé è citato poco e ciò genera alcuni interrogativi sul modo con cui si deve comunicare la conoscenza di Gesù e della dottrina della Chiesa in modo attraente e significativo.Nell’iniziazione cristiana e nella vita della comunità, la  vita liturgica è fondamentale perché è il luogo privilegiato d’incontro con il Dio vivo e aiuta a riconoscere i legami spirituali esistenti tra i membri della Chiesa e di essi con Dio. Il sondaggio aiuta a comprendere come il modo di celebrare la fede può essere un incitamento o un fattore di allontanamento dalla religione. Si capisce che è importante una cura delle celebrazioni, in modo speciale delle messe perché esse siano un luogo d’incontro con il Dio vivo e non siano giudicate noiose e limitanti. L’importanza di comprendere la propria fede, di comprendere ciò che viene detto alla messa, di poterla seguire avendo la coscienza di ciò che significa, ecco un punto centrale nel percorso d’iniziazione cristiana.Occorre segnalare l’importanza dei vari  sacramenti e della relativa preparazione (in gruppo e personalmente) nell’iniziazione cristiana dei bambini e degli adolescenti: particolarmente la prima comunione e la cresima. La celebrazione dei sacramenti dei bambini è un momento decisivo della vita della comunità e delle famiglie cristiane, ma deve essere vissuta al tempo stesso come un cammino personale. Anche il sacramento della riconciliazione viene menzionato molto frequentemente come un momento importantissimo per i bambini ed i giovani che sperimentano il perdono di Dio sentendosi accompagnati personalmente nel cammino della fede.

sul cammino personale…

Il rischio della libertà. Tanto i bambini quanto gli adolescenti sottolineano l’importanza di compiere un cammino personale anche se non individualista. Gli adolescenti e i giovani sottolineano che il passaggio all’adolescenza è al tempo stesso un periodo di rimessa in questione, della loro fede e di altre cose, e quindi può essere anche l’occasione di una presa di coscienza della loro fede. È il momento della libertà in cui uno deve accogliere coscientemente quello che gli è stato comunicato e deve trovare le ragioni personali per dire il suo sì a Dio. Spesso in questo tempo, ciò può manifestarsi in un allontanamento dalla pratica cristiana, ma è al tempo stesso, il momento della ricerca di una maggiore partecipazione, di una fede più “attiva”.L’adolescenza è anche un momento di appropriazione, particolarmente nei confronti della famiglia. I giovani sentono la necessità di comprendere la loro fede non come qualcosa che appartiene ai loro antenati, quanto piuttosto come una scelta personale che riempie la loro vita e non toglie loro niente. I giovani talvolta scelgono di andare in una chiesa differente da quella della loro famiglia per poter stare con gli amici.

Un tempo di domande. I giovani sottolineano l’importanza che assumono le domande che si pongono sui problemi essenziali: l’esistenza di Dio, la sofferenza, la vita dopo la morte, il bene e il male, ecc. Se la fede e la catechesi non aiutano a trovare delle risposte o ad accompagnare questi interrogativi, ciò può provocare nei giovani, delusioni e un allontanamento rispetto alla religione. Questa diventa la grande sfida per la catechesi: essere capace di mostrare ai giovani la bellezza della vita di fede, l’attualità delle ragioni della fede e l’esperienza dell’amore di Dio rivelato nella persona viva di Gesù. Allora i ragazzi si sentiranno più decisi ad impegnarsi nella propria vita e disponibili per gli altri. La fede diventa anche carità quando è ben radicata. I giovani che si allontano, sottolineano spesso di non aver trovato delle risposte ad alcune delle domande che si pongono e di non avere trovato nel cammino chi li avesse aiutato. Il sondaggio inoltre riferisce come gli avvenimenti personali negativi o gioiosi (es. un decesso o una buona notizia), o un grande incontro con altri giovani, possono giocare un ruolo importante nel cammino cristiano dei giovani.

 

Gesù nelle mani dei giovani

 

L’educazione delle nuove generazioni alla pace

 

 

Il 2011 si è concluso così come era iniziato, segnato da una serie di manifestazioni dei giovani in quasi tutte le capitali europee e in buona parte di quelle del resto del mondo. Nelle nuove generazioni è cresciuto il senso di frustrazione per la crisi che sta assillando la società, il mondo del lavoro e l’economia. E su questo, come su altri versanti, il 2012 si annuncia altrettanto tenebroso all’orizzonte. “Le radici di questo malessere – dice il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace in questa intervista rilasciata al nostro giornale – sono anzitutto culturali e antropologiche”. Quello che manca, ritiene in sostanza il porporato, è un’educazione alla solidarietà intergenerazionale. E questo genera il disorientamento dei giovani di fronte a modelli che sentono come propri. Non a caso il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace di quest’anno ha scritto: “Sembra quasi che una coltre di oscurità sia scesa sul nostro tempo e non permetta di vedere con chiarezza la luce del giorno”. Sono questi i motivi “per i quali Benedetto XVI – sottolinea il cardinale – reclama la responsabilità di tutti alla formazione dei giovani, i veri protagonisti del futuro”.

Effettivamente il concetto chiave della Giornata mondiale della pace 2012 sembra ruotare su due cardini indicati dal Papa: il protagonismo dei giovani e la contestualizzazione delle questioni da affrontare come sfide. Il fatto che la Chiesa punti molto sui giovani non è una novità. Cosa c’è in più in questo ulteriore richiamo di Benedetto XVI?

L’attenzione mostrata dal Papa per i giovani è profondamente coerente con quella di tutta la Chiesa nei loro confronti. Essi, infatti, sono da sempre in cima ai pensieri della Chiesa, poiché offrono un formidabile sguardo di speranza verso il futuro e, in questo senso, rappresentano la continuità della famiglia umana. Il Pontefice ha accolto il grido spesso silenzioso di tantissimi giovani e si impegna in prima persona perché essi siano resi protagonisti di un mondo nuovo e, nello stesso tempo, di una nuova evangelizzazione del sociale, di un impegno di trasfigurazione del mondo a partire dalla fede in Gesù Cristo. Quindi, come sostiene Benedetto XVI nella Caritas in veritate, fiduciosi piuttosto che rassegnati, i giovani protagonisti e costruttori di un futuro migliore, sono chiamati a riprogettare il loro cammino e a darsi nuove regole. Il messaggio del Papa, così come la sua omelia del 1° gennaio, sono fortemente calati nella realtà del mondo attuale. Un mondo gravemente segnato non solo dalla crisi economica e finanziaria, con tutte le sue molteplici drammatiche conseguenze, in primo luogo nel mondo del lavoro, ma anche dalla diffusa mentalità nichilista che nega ogni fondamento trascendentale e confina la persona in un orizzonte di solitudine, di materialismo, di egoismo, di disperazione. Il Papa ha voluto esprimere la sua profonda, concreta e accorata vicinanza alle inquietudini che oggi affliggono i giovani e le loro famiglie; ha voluto accogliere e rilanciare le loro giuste richieste di giustizia, da qualunque parte del mondo esse provengano, e certo non per farsi portavoce degli indignados, come hanno suggerito o scritto alcuni giornali.

Tra le cose che influenzano negativamente i giovani, il Papa, già nella Caritas in veritate, denunciava una “carenza di pensiero” nella società odierna. Poi ha continuato a porre l’accento su quella che egli non ha esitato a definire “emergenza educativa”. Oggi torna a indicare l’educazione dei giovani come una sfida da affrontare per conquistare la pace e la giustizia nel mondo. Cosa c’è che non va nel sistema educativo a livello mondiale?

Il sistema educativo non è, per così dire, un organismo isolato, un organismo a sé stante. È piuttosto espressione di una solidarietà intergenerazionale tra passato e presente, tra presente e futuro. È intimamente intrecciato ad altri sistemi che riguardano l’esistenza umana. Soprattutto è intrecciato con la pratica quotidiana, cioè con quel mutevole stile della vita che sembra ormai incapace di sostenere il sistema educativo. Penso per esempio a tutto ciò che discende, in termini culturali e di mentalità, dal consumismo, dall’edonismo e, specialmente, da un’idea di libertà fraintesa. Nel senso che essa viene percepita solo come licenza di seguire all’infinito i propri impulsi e interessi particolari, e non come capacità di legarsi al vero bene, accettando quelle regole che lo tutelano e lo favoriscono. Tale concezione uccide, di fatto, la stessa libertà, generando quell’emergenza educativa, più volte denunciata dal Papa, che è un’emergenza di carattere antropologico ed etico. Questa può essere contrastata efficacemente mediante il serio rilancio di un nuovo pensiero critico, di una cultura aperta alla trascendenza e di un’educazione aperta al compimento umano in Dio. Lei mi domanda cosa non va nel sistema educativo. Io credo che la questione principale riguardi soprattutto la mancanza di una visione allargata, di un ampio orizzonte. Oggi, a mio parere, c’è bisogno di una educazione alla mondialità, che sia interdisciplinare, interculturale, interreligiosa, interetnica.

È stato per richiamare questa necessità di un nuova educazione che il Papa, all’omelia della messa per la Giornata mondiale della pace, ha posto quell’inquietante interrogativo: “Ha ancora un senso educare?”.

Credo che il senso della domanda del Papa sia duplice. Innanzitutto credo abbia voluto focalizzare, con una provocazione, l’attenzione su una questione che ritiene fondamentale. Poi però ha voluto lanciare una sorta di “richiamo educativo” alla solidarietà intergenerazionale che consideri l’educazione come l’espressione e la trasmissione di un “manuale per la vita”, nell’ottica di una rinnovata etica pubblica e di una forte coesione sociale. Il Papa, chiedendo se abbia senso educare, ha sollevato un problema oggi radicale. Riguarda l’intero contesto culturale ed è posto primariamente dalla crisi del pensiero e dell’etica. Se manca ogni fondamento, se l’idea di verità viene messa da parte, si mette da parte anche un orizzonte, un fine al quale educare. L’educazione, infatti, per sua natura proietta e propone, nel costante dialogo, una molteplicità di principi e di cognizioni. Ma se tali principi e cognizioni vengono privati del loro senso, del loro fondamento di verità, ecco che l’intero processo educativo, per così dire, crolla. In questo senso, Benedetto XVI, consapevole della profonda correlazione del sistema educativo con altri sistemi e con altre realtà private e pubbliche, ha voluto appellarsi a tutti i responsabili del processo perché insieme compiano una revisione, una decostruzione dell’assetto attuale e una conseguente ricostruzione in termini, prima di tutto, di responsabilità. I giovani, infatti, spesso si trovano a vivere in contesti e ambienti di vita diseducativi, a fare esperienze che li fanno perdere o frustrare. Tutti i responsabili chiamati in causa sono invitati ad agire. Se, per esempio, il mondo politico non si fa esemplare, non solo nell’elaborazione di politiche eque, ma anche nella condotta del personale politico, o se la politica soggiace interamente alla sola forza degli interessi economici e finanziari stabilendo, così, una sua subalternità rispetto a essi, anche la società degenera. Lo stesso si può dire di tutti gli educatori, compresi i pastori e i formatori ecclesiastici. Credo sia fondamentale richiamare il problema dell’urgente rinnovamento della democrazia partecipativa, sempre più minata da derive populiste o da istanze nazionaliste o regionaliste.

I giovani in effetti non sono entità isolate. Essi vivono in un contesto che sembra spingerli su tutt’altra via rispetto a quella indicata dal Papa. Ancora oggi, violenza, prepotenza, intolleranza si pongono come antagonisti di sentimenti peraltro naturali per le nuove generazioni aperte al dialogo, alla convivenza pacifica, alla fraternità universale. Come metterli al riparo dai non valori che li minacciano?

Attraverso un’azione responsabile e congiunta di tutti i soggetti coinvolti. In primo luogo attraverso l’opera di educatori che siano a un tempo testimoni credibili per una seria educazione e una concreta formazione. E badi bene che i giovani non sono, per così dire, entità passive. Essi sono i primi responsabili. In questo senso, il Papa ha voluto porre l’enfasi sull’ascolto delle istanze giovanili. Ma allo stesso tempo mi sembra abbia voluto incoraggiare i giovani al protagonismo, a rendersi artefici della propria vita, nella valorizzazione dei propri talenti, in libertà e solidarietà con gli altri, a scoprire il progetto che Dio ha su ciascuno di loro.

Il Papa confida molto nell’opera della Chiesa nel campo formativo. Ma i giovani sono antropologicamente molto diversi dai loro maestri. Secondo lei si parla nel modo giusto, o meglio comprensibile, per le nuove generazioni?

Non direi “antropologicamente diversi”. Piuttosto, direi che i giovani sono diversi come mentalità, valori e formazione, così come avviene per ogni generazione rispetto alle precedenti. Se i giovani non vengono ascoltati, se vengono esclusi e non si permette loro di affermare i propri talenti e le proprie vocazioni, o se vengono confinati in un orizzonte di precarietà assoluta che li schiaccia sul presente eliminando qualsiasi progettualità del futuro, allora la risposta è che oggi non si parla ai giovani nel modo giusto. E non solo non si parla, ma non si agisce nel modo giusto, pensando, cioè, al futuro della società. Proclamando all’umanità la via della pace il Papa si è rivolto a tutti i giovani. È vero, essi sono culturalmente diversi. Ma come il Vangelo, così Benedetto XVI va diretto al cuore dei giovani, riesce anche a trascendere i confini nazionali, continentali, culturali, religiosi, superando i cosiddetti “spazi delle civiltà”. Come pastore ghanese, posso testimoniare per esempio l’accoglienza che il messaggio per la Giornata mondiale della pace ha ricevuto dai giovani del mio Paese e di tutta l’Africa, anch’essi molto diversi fra loro. Così è avvenuto in India, in Cina, in Brasile, negli Stati Uniti, in Europa e nelle altre Nazioni del mondo.

Esistono ostacoli di comunicazione per la penetrazione del Vangelo negli ambienti culturali che connotano l’universo giovanile?

Il Vangelo è un messaggio di speranza: una speranza per tutti gli uomini. È una realtà che cambia il cuore. È la buona novella valida per tutti i contesti culturali in ogni tempo. Essa va dritta al cuore delle persone. Se, però, i giovani sono costretti in ambienti, mentalità e stili di vita contrari al bene comune, contrari al loro stesso bene, e dunque contrari al Vangelo, che è un messaggio di vita, libertà, solidarietà, fraternità, accoglienza, amicizia, allora lo sguardo viene distolto dalle cose grandi e belle che l’esistenza loro riserva. Quanto alla questione della comunicazione faccio solo un esempio: per tutto il primo gennaio sono apparsi numerosissimi “cinguettii” su twitter a proposito del messaggio per la pace. È stata una gioia vedere giovani di ogni continente “cinguettare” le parole del Papa con il linguaggio tipico della rete. Sono molto contento di questa condivisione diretta con tanti giovani nel loro linguaggio e su uno dei social network tra i più frequentati dai ragazzi di ogni parte del mondo.

Il Papa ha concluso l’omelia del 1° gennaio con un’indicazione precisa: “Gesù è una via praticabile, aperta a tutti. È la via della pace”. Come il dicastero della Giustizia e della Pace cercherà di rendere visibile a tutti questa via nell’anno appena iniziato?

Innanzitutto ci dedicheremo a una diffusione capillare del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2012. Abbiamo poi in programma la celebrazione del cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II. Inviteremo proprio le nuove generazioni a riflettere sui suoi contenuti. C’è poi da preparare con cura la celebrazione del cinquantesimo anniversario della Pacem in terris, nel 2013. Tra gli altri impegni di quest’anno segnalerei la preparazione della conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile che, come è noto, si svolgerà a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno prossimo. Abbiamo anche in programma l’organizzazione, in collaborazione con altri organismi, di una conferenza sulla vita rurale e una serie di tavole rotonde su diversi argomenti: il traffico di esseri umani; la difesa della persona umana dal concepimento alla sua fine naturale; le strategie d’impresa per il bene comune; il rinnovamento della missione e dell’identità della formazione cattolica nel mondo degli affari; e infine le nuove sfide per i cattolici nella costruzione del bene comune. Naturalmente collaboreremo con gli altri dicasteri della Santa Sede per far comprendere che il culto di Dio è fondamentalmente un atto di giustizia, senza il quale non sono possibili gli altri atti di giustizia fra gli uomini. Cercheremo anche di rafforzare l’idea che la fede in Cristo è fondamentale per rinnovare la cultura e la società per il bene di tutti. In questo senso, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace è pronto ad accogliere l’invito del Papa a intensificare gli sforzi per riaffermare la grande valenza intellettuale, spirituale e morale della fede. Il dicastero si adopererà per far comprendere a tutti che Cristo è la via per la pace, contribuendo così a esplicitare la dimensione sociale della nuova evangelizzazione, in sintonia con le prospettive del Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre.

(©L’Osservatore Romano 6 gennaio 2012)

Paolo Dall’Oglio: La sete di Ismaele

 

Siria, ecco il monastero dove le fedi si incontrano

 


Un diario dal deserto. Gli articoli che padre Paolo Dall’Oglio ha scritto dal 2007 per il mensile internazionale «Popoli» sono ora raccolti nel volume La sete di Ismaele, in libreria da domani (Gabrielli, pagine 144, euro 12,00, introduzione  di Stefano Femminis). Il libro è arricchito dalla prefazione – di cui anticipiamo una parte – del giornalista e scrittore  Paolo Rumiz, che ha visitato l’antico monastero in cui ha sede la comunità monastica di  (www.deirmarmusa.org),  fondata da padre Dall’Oglio nel 1991 e dedita all’accoglienza e al dialogo interreligioso, in particolare con l’Islam. È dei  giorni scorsi la notizia che il religioso ha ricevuto dal governo siriano un decreto di espulsione, a causa del suo  impegno a favore della riconciliazione: sono in corso trattative con la Chiesa locale affinché l’effettività del decreto sia sospesa e il gesuita possa restare.

Deir Mar Musa. Il nome mi chiamava come una fata morgana, come la nostalgia di qualcosa di antico, qualcosa che  avevo dimenticato ma continuava ad agitarsi nel fondo dell’anima.
Quella fortezza della fede, arroccata sugli ultimi precipizi del Monte Libano davanti al deserto siriano, era una tappa  ineludibile del mio viaggio verso la Terra Santa. Cercavo i cristiani d’Oriente, eppure a parlarmi per primo del  monastero retto dal gesuita Paolo Dall’Oglio non era stato un prete ma un musulmano d’Italia. «Vai a vedere – aveva  detto – un luogo dove la tua fede ha imparato a convivere con l’islam». E aggiunse parole lusinghiere sulla capacità di  quel suo priore molto sui generis di capire il mondo musulmano pur tenendo dritta la barra del cristianesimo in quel  difficile avamposto.
Così andai, e già la lunga strada di avvicinamento lungo l’Anatolia fino alle terre alte del Tigri (dove comunità cristiane  di lingua aramaica vecchie di quasi due millenni resistevano miracolosamente alla pressione del nazionalismo islamico  urco) aveva ribaltato molte delle mie false certezze. Credevo, prima di prendere quella lunga strada, di  allontanarmi dal baricentro, dai punti di riferimento più forti della mia fede, e invece constatavo che proprio  allontanandomi da Roma avvertivo la presenza di un messaggio cristiano più limpido, cristallino, sempre più vicino alla sua fonte originaria, e sempre meno disturbato da tentazioni di egemonia e di potere. Era come se mi fosse  possibile prendere atto della mia identità e della mia cultura religiosa d’origine solo in terre dove il cristianesimo era  decisamente minoritario, se non addirittura perseguitato.
Erano passati, non dimentichiamolo, appena quattro anni dall’attentato alle Torri gemelle, e il discorso del conflitto di  civiltà era stato semplificato ad arte dai seminatori di zizzania come scontro religioso. Era anche per reagire a questa  semplificazione che avevo intrapreso quel viaggio tra i miei cugini d’Oriente, un viaggio che mi portava fatalmente a  sconfinare, un giorno sì e uno no, nei territori dell’ebraismo e della fede musulmana. Così, quando in una sera di  temporale imminente arrivai al monastero fortificato di Mar Musa, mi ero già reso conto che religiosi da prima linea  come Paolo Dall’Oglio si trovavano, con la loro semplice presenza, non soltanto a combattere con le infinite  suscettibilità del mondo musulmano, ma anche a scontare sulla loro pelle (con molte eccezioni s’intende) le  incomprensioni e i pregiudizi dei loro referenti d’Occidente. Di queste il priore di Mar Musa non volle mai parlarmi, ma  era mia ferma convinzione che esse ci fossero.
Ebbi la conferma, lì a Mar Musa, che per farsi riconoscere, il cristianesimo aveva anche bisogno di capire come Cristo e   discepoli erano visti dagli altri popoli del Libro. Nel suo ineguagliabile L’Usage du monde, Nicolas Bouvier racconta  del viaggio compiuto negli anni Cinquanta fino al subcontinente indiano. Nella tappa afghana egli narra di aver trovato  nel bazar di Kabul una raffigurazione di Gesù che ascendeva al cielo circondato da apostoli armati. Per un musulmano era magari concepibile che un profeta della bontà di Isa accettasse di essere catturato senza difendersi, ma era  assolutamente inammissibile che i suoi uomini rinunciassero a difenderlo. Vili, codardi, non avevano reagito. E  soprattutto, rinunciando a uccidere dei malvagi, essi avevano favorito la catena del male. La raffigurazione di discepoli  armati altro non era che il desiderio dei musulmani di rendere più presentabile il martirio di quel sant’uomo.  Ancora più interessante la visione degli ebrei ortodossi, così come mi era stata vivacemente spiegata da un rabbino  gerosolimitano di nascita italiana. Il difetto maggiore di Cristo? Non si era sposato, non aveva figli. Chi non fa figli non è  un uomo e non ascolta i comandamenti di Elohim: crescete e moltiplicatevi. E allora, mi disse, come fa a essere dio  uno che non è nemmeno uomo? E che dire dei discepoli, questi scioperati perdigiorno che avevano rinunciato alla  fatica della terra e del lavoro? Che garanzie di serietà potevano dare questi scapoloni a zonzo capaci di vivere solo alle spalle altrui? Sì, era fondamentale ascoltare storie così, sentire il parere degli “altri” per raccontare la “nostra” identità  con maggiore forza e consapevolezza.
Una sera pregammo insieme, in quel monastero che altro non era che la “reception” di un arcipelago di grotte  eremitiche sparse nelle rocce circostanti. Risuonarono antiche litanie, sentii la bellezza della preghiera cristiana  formulata in lingua araba, e la parole-chiave attorno cui tutto ruotava era “nur”, luce. Cantava Paolo Dall’Oglio dentro  una chiesa buia, dove la luce, appunto, era solo un raggio che entrava da una feritoia verso Oriente. Fu da quel viaggio  che cominciai a cercare la mia fede proprio nelle periferie, negli avamposti, nelle trincee di mondi considerati a rischio   nel profondo di stati marchiati come “canaglia” dalla geopolitica banalizzata dell’Occidente.
Ad Antiochia – incontrando la mia compagna di viaggio Monika Bulaj – una donna che si era convertita al  Cristianesimo e subiva per questo non poche ritorsioni, aveva spostato una tendina in casa sua e mostrato, dietro, un  foglio di giornale illustrato con la raffigurazione di Cristo. Sospirò e spiegò perché aveva deciso di seguirlo. «Come fai a  non fidarti di uno con un viso simile?», riassunse così il concetto, prima di riempirci il sacco da viaggio di frutta secca e caffè che a lei dovevano essere costati una fortuna.

Paolo Rumiz
in “Avvenire” del 4 dicembre 2011

Il Centro Salesiano di Pastorale Giovanile (CSPG)

Storia

Raccogliendo le esperienze e le riflessioni di una lunga tradizione nel campo dell’impegno pastorale ed educativo salesiano e con la consapevolezza della crescente complessità della situazione giovanile e culturale, il Centro Salesiano Pastorale Giovanile (CSPG) nasce nel 1966 e si costituisce come comunità a Torino (1973) con il compito di conoscere meglio la condizione giovanile in rapida evoluzione, raccogliere e coordinare le migliori riflessioni ed esperienze salesiane, suscitare e orientare l’azione educativa degli ambienti salesiani.

Il suo campo di competenza e di intervento sono prevalentemente i “settori formativi” in ogni ambiente dove vivono i giovani: catechesi e liturgia, formazione spirituale-morale e formazione sociale, associazioni e movimenti giovanili, orientamento vocazionale, cultura e tempo libero.

Gli strumenti operativi sono essenzialmente la rivista Note di pastorale giovanile (1967), notiziari di collegamento e di sussidiazione interni alla Congregazione Salesiana, la rivista per giovani Dimensioni (nata nel 1962) e per preadolescenti Ragazzi Duemila (Mondo Erre dal 1975).

Per potenziare l’azione del Centro e favorire i contatti con il Dicastero centrale di pastorale giovanile dei Salesiani, l’Università Salesiana UPS e altri organismi di animazione salesiani ed ecclesiali, nel 1983 il CSPG si trasferisce a Roma, e con esso la rivista Note di pastorale giovanile.

Nel 1987 entra a far parte di una comunità che accoglie altri servizi di animazione della Congregazione Salesiana, comunità che nel 1993 diventa sede del Centro Nazionale Opere Salesiane (CNOS), con il compito statutario di animazione pastorale e coordinamento di tutte le opere salesiane operanti sul territorio con intendimento educativo. 
All’interno di essa il CSPG conferma la sua principale attività di studio e di proposta educativa e pastorale per la Congregazione e la Chiesa in Italia, mentre si apre a nuove attenzioni e collaborazioni: il “Sud” d’Italia, l’Ufficio di pastorale giovanile della CEI e gli incaricati diocesani di PG, numerose diocesi e congregazioni nella loro rinnovata attenzione ai giovani.

Il CSPG si è reso presente nel mercato editoriale (quasi esclusivamente attraverso l’Editrice Elledici) con numerose collane per gli operatori pastorali e per i giovani stessi. Ricordiamo in particolare la serie “Animazione dei gruppi giovanili” e “Preghiere per i ragazzi e i giovani”. Particolarmente significativa, per il grande successo editoriale ottenuto, la pubblicazione dei “Quaderni dell’animatore”, che ha segnato nel campo ecclesiale e laico la ripresa di interesse per la formazione degli animatori. 
Il CSPG si è fatto inoltre promotore di ricerche sociologiche che hanno riportato alla cura degli educatori “un’età negata” (i preadolescenti), ed ha collaborato a una ricerca dell’Università Salesiana sull’esperienza religiosa dei giovani.

Lungo gli anni ’90 editorialmente si è impegnato nella riedizione (totalmente rinnovata) dei “Quaderni dell’animatore”, nell’arricchimento delle collane “Meditazioni per educatori” e “Meditazioni per adolescenti e giovani”, nel completamento della collana “Teologia per giovani animatori” con la collana “Parlare di Dio” e nella pubblicazione di materiali pratici per i vari itinerari di educazione alla fede.
Nei primi anni del nuovo Millennio la famosa collana “quadrotta” sulla formazione degli animatori è stata sostituita da una nuova collana (sempre pubblicata dall Elledici) “Pastorale giovanile e animazione”: un progetto in 10 volumi che costituisce un vero e proprio corso (di base e di approfondimento) per la formazione di questa figura ecclesiale dell’animatore che sempre più acquista nella chiesa e nelle istituzioni educative rilevanza e legittimità.

http://www.cnos.org/

Essere cristiani oggi

Se tramonta la trascendenza

Titolo essenziale quello scelto da Giovanni Ferretti per una sua organica raccolta di saggi: Essere cristiani oggi (LDC,  pp. 184, € 11,50) affronta infatti con profondità e immediatezza «il “nostro” cristianesimo nel moderno mondo  secolare», come recita il sottotitolo. Sono considerazioni che l’autore già docente di filosofia teoretica all’Università di  Macerata, di cui è stato anche rettore – ha avuto modo di elaborare in questi ultimi anni facendo tesoro di un dialogo  fecondo tra filosofia e fede cristiana, in cui il suo essere presbitero della diocesi di Torino non ha costituito un ostacolo  ma anzi un prezioso arricchimento. Cogliendo «la crisi ormai irreversibile della cristianità» come uno dei più  significativi «segni dei tempi» che i cristiani dovrebbero sapientemente discernere e affrontare anziché negare,  Ferretti ne analizza le radici e le manifestazioni, trasformandolo da rassegnata constatazione a stimolo virtuoso per un  modo nuovo eppur antico di porsi dei cristiani nella società. Già l’interrogativo che pone in apertura – «tramonto o  trasfigurazione del cristianesimo?» – è eloquente sull’approccio offerto dal volume. Se infatti il «tramonto della trascendenza» è una tendenza culturale e sociologica ben più vasta della minor rilevanza di alcune tradizioni cristiane  nella società contemporanea, questo può aprire nuove prospettive alla comprensione e all’annuncio di Gesù Cristo e  del suo Vangelo: l’uomo Gesù che ha saputo narrare il volto del Padre non costituisce «alcuna opposizione alla piena  fioritura dell’uomo, bensì la massima vicinanza e il massimo impegno alla sua più compiuta umanizzazione», come  paradossalmente ricorda il teologo protestante Paolo Ricca: «Dio si è fatto uomo perché noi non eravamo ancora uomini».

Proprio per questo il discorso offerto da Ferretti non riguarda solo i cristiani ma anche – e direi forse soprattutto – chi  cristiano non è o tale non si ritiene più: «ripensare la risurrezione» in modo anche critico rispetto a un certo  immaginario cristiano non è mero esercizio teorico, ma la possibilità di coglierla come «permanenza in Dio, anche  dopo la morte, della nostra “identità personale”», come meta finale di ogni essere umano e riscatto di ogni faticosa  ricerca di comunione e di gioia condivisa.
Ma la convincente riflessione di Ferretti non si ferma agli aspetti più «rivelativi» della fede cristiana e del suo  coniugarsi con l’oggi della storia: passando attraverso un «ripensamento della carità nella società secolarizzata»,  affronta con lucidità il difficile dialogo con il mondo «laico» sui valori, sulla loro relatività o assolutezza, sulla loro  genesi e condivisione, sulle minacce che li sovrastano e le potenzialità anche e soprattutto civili che essi contengono.  Decisiva in questo ambito delicato è la dialettica tra «l’assoluto della verità» e «il carattere inviolabile della libertà  umana». Per l’autore è quindi evidente che «valori non negoziabili o irrinunciabili non significa e non deve significare “non argomentabili” e tanto meno imponibili all’altro con la forza e la violenza». Un’evidenza che purtroppo non  sempre è riconosciuta da tutti, ma che appare indispensabile per una sana crescita di una società civile libera e  democratica.

Enzo Bianchi

in “La Stampa” del 26 novembre 2011

 

L’Africa, grande speranza della Chiesa

18-20 novembre: viaggio del Papa in Benin. Per la seconda volta nel suo pontificato, Benedetto XVI si reca in Africa.

 

Segno dell’importanza che il papa, che viaggia poco, accorda a “quell’immenso polmone spirituale” rappresentato, ai suoi occhi, dall’Africa. Il continente, in cui la metà della popolazione ha meno di 25 anni, costituisce per Benedetto XVI  la grande speranza della Chiesa”.

Qual è l’obiettivo di questo viaggio?

È un viaggio lampo che chiude una sequenza aperta nel marzo 2009 in Camerun. La prima visita di Benedetto XVI sul  continente era stata contraddistinta dalle dichiarazioni sul preservativo, la cui distribuzione, aveva detto, “aumenta il  problema” dell’aids. Ma Benedetto XVI aveva anche consegnato ai vescovi un documento di lavoro preparatorio al  sinodo dedicato a “La Chiesa cattolica in Africa” nell’ottobre dello stesso anno.
Quel documento, che analizzava senza compiacimenti la situazione della Chiesa nel continente africano e si soffermava  a lungo sui mali di cui soffre l’Africa – povertà, corruzione, instabilità politica, tensioni religiose ed etniche, tribalismo  – è servito in questi due anni da ruolino di marcia per i vescovi.
Durante una messa a Cotonou in Benin, il 20 novembre, Benedetto XVI consegnerà loro l’“esortazione apostolica”  post-sinodale, che costituisce la conclusione di quei lavori e dei percorsi individuati per migliorare il ruolo della  Chiesa cattolica nelle società africane e per promuovervi, come desidera il Vaticano, “la riconciliazione, la giustizia e la  pace”.

Quali sono i paesi in cui vengono vissute vere tensioni interreligiose?

Somalia, Rwanda, Liberia, Congo… Sono paesi    devastati da guerre micidiali, quattro tragedie. Ma sono anche esempi che mostrano che “se in Africa ci sono violenze e  guerre, queste non si confondono nella maggior parte dei casi con guerre di religione”, afferma Christian Coulon,   professore emerito alla facoltà di Scienze Politiche dell’università di Bordeaux e specialista per l’Africa. I motivi di  questo sono molti. A parte poche eccezioni (Sudan, Mauritania, Comore e Jibuti), gli Stati africani si dichiarano in grande maggioranza laici. Del resto, “a differenza di quanto è avvenuto nel resto del mondo, il cristianesimo e l’islam in  Africa sono stati reinterpretati secondo gli idiomi e i precetti della cultura africana – che – li hanno pervasi di uno  spirito di tolleranza”, spiega Akintude Akinade, professore di teologia all’università di Georgetown (USA).
Perché allora tante violenze religiose in Nigeria e in Sudan, con milioni di morti nell’ultimo mezzo secolo? L’analisi dei  conflitti riguarda una realtà molto più complessa e non si riassume in scontri tra cristiani e musulmani. Per il caso della  igeria, Christian Coulon preferisce mettere in primo piano “la cultura della violenza che si è instaurata con  l’esplosione urbana, con la guerra del Biafra, con la corruzione della classe dirigente, in particolare con la mancanza di  regole politiche.
Cultura nutrita da una segmentazione territoriale che ha portato alla creazione di 36 stati federati, che cercano ognuno  i stabilire le proprie frontiere e di affermare la propria identità, in un contesto in cui prevale la pluralità  religiosa ed etnica, anche se certi gruppi esercitano una certa egemonia”.
“Le cause sono etniche e politiche, non hanno nulla a che vedere con la religione”, è l’analisi di Sulaiman Nyang,  specialiste dell’Africa e dell’islam all’università Howard, a Washington. Quanto al Sudan, non è un caso se la seconda  guerra civile (1983-2005) tra il Nord musulmano e il Sud cristiano ed animista sia esplosa poco tempo dopo la  scoperta di petrolio in quella parte meridionale del paese. Anche qui “le poste in gioco sembrano essere non tanto  religiose quanto politiche e territoriali”, osserva Christian Coulon.
Da quest’analisi non si può però giungere alla conclusione della neutralità del fattore religioso nei conflitti africani,  tanto più che tale fattore si inserisce in un contesto di sconvolgimenti sociali, economici e politici del continente.  Christian Coulon ricorda ad esempio che “il rinnovamento religioso in Africa e la comparsa di nuovi movimenti  religiosi (musulmani, cristiani profetici, o altri) portano delle mobilitazioni che, in certe situazioni, sono anche  suscettibili di creare rivalità e conflitti tra comunità.

Qual è lo sguardo della Chiesa sull’Africa?

I vescovi africani e il Vaticano non esitano a denunciare l’insieme dei mali di cui soffre il continente. Vi vedono in parte  elle cause interne legate alla cattiva governance e alla corruzione dei poteri costituiti, ma chiamano in causa  anche chiaramente “l’Occidente” per un certo numero di derive.
Nel loro documento del 2009, i vescovi africani denunciavano “le forze internazionali che fomentano guerre per  smerciare le loro armi” e accusavano l’Occidente di “sostenere poteri che non rispettano i diritti umani” o di “rapinare  le risorse naturali” del continente. Il papa stesso aveva denunciato il mondo occidentale che, nonostante la fine del  “colonialismo politico”, “continua ad esportare rifiuti tossici spirituali” sul continente. Agli occhi del papa, l’Africa è globalmente minacciata da due rischi importanti, “il materialismo e il fondamentalismo religioso”, allusione alle Chiese  vangelical e all’islam. La gerarchia cattolica si preoccupa anche di una “perdita dell’identità culturale africana  che porta al lassismo morale, alla corruzione e al materialismo”.

Qual è la situazione della Chiesa cattolica in Africa?

La Chiesa cattolica gode di una certa autorità nei paesi in cui opera stabilmente da lunga data. Presente nella gestione  degli ospedali e delle scuole, costituisce talvolta una delle rare istituzioni stabili e perenni in paesi attraversati da crisi  ricorrenti.
Anche se non frequenti, le prese di posizione di certi vescovi che criticano apertamente i poteri costituiti migliorano  l’immagine della Chiesa. In altri casi, il fatto che membri del clero si compromettano con i potentati locali mina in parte  a credibilità della Chiesa.
Per quanto riguarda l’aspetto religioso, la chiesa cattolica deve confrontarsi con le pratiche legate a credenze  ancestrali ancora molto vive: pratiche occulte, libagioni, culto degli avi, sacrifici offerti agli idoli e agli dei, stregoneria. L’istituzione denuncia quelle tradizioni, talvolta praticate perfino da membri del clero, come “incompatibili con il messaggio evangelico”.
Il clero africano gode di una giovinezza e di una vitalità che a volte i paesi europei gli invidiano. Ma il comportamento  dei suoi rappresentanti suscita delle critiche. Alcuni di loro gestiscono attività commerciali parallelamente al loro  ministero o non sfuggono alla corruzione diffusa. Rese fragili da una cattiva gestione, certe diocesi sono in fallimento.  Roma rimprovera loro anche di non rispettare sempre il celibato.
Preso dalla sua dottrina, il Vaticano sviluppa a volte analisi lontane dalla realtà dei paesi africani, in particolare in  materia di controllo delle nascite, di morale sessuale o di lotta contro l’aids. Inoltre, la denuncia ricorrente di  “edonismo” e di “materialismo”, che, secondo il Vaticano, riguarda anche l’Africa, può apparire lontana per  popolazioni che vivono al limite della povertà.

Quali sono le sfide con cui la Chiesa deve confrontarsi?

Come in altre regioni del mondo, la Chiesa cattolica in Africa si deve confrontare con la concorrenza di ciò che i  vescovi chiamano “la proliferazione cancerosa delle sette di tutti i tipi”, in altre parole le Chiese protestanti  evangelical, in pieno sviluppo. La lettura letterale della Bibbia o le promesse di guarigione e di ricchezza vantate dagli  evangelical riguardano gruppi di popolazione che la Chiesa cattolica non riesce necessariamente più a convincere.  Aggiunto alla sopravvivenza delle credenze tradizionali, questo fenomeno è una fonte potenziale di indebolimento  della Chiesa, per la quale il continente rimane comunque una potenziale terra di evangelizzazione.
Spesso presente in paesi a maggioranza musulmana, la Chiesa cattolica denuncia anche regolarmente il proselitismo  musulmano, la difficoltà per i credenti di esercitare la loro libertà di coscienza e di convertirsi al cristianesimo, oltre al  fondamentalismo, portatore “di intolleranza e di violenza”.
I religiosi africani si sforzano di lottare contro “il pensiero unico occidentale, che ha influenze nocive” sulla famiglia e  sulla morale sessuale. Infine, di fronte all’emigrazione, i vescovi auspicano di “suscitare negli africani subsahariani un  sussulto per una rinascita dell’uomo nero” e invitano i loro governanti a prendere in mano i destini dei loro popoli.

in “Le Monde – Géo & Politique” del 13 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Con il nuovo Evangeliario la liturgia diventa arte

 

Nel congedarsi dalla diocesi di Milano, il cardinale Martini – vescovo della Parola in una stagione di immagini distorte –   ha voluto che l’ultima iniziativa del suo ministero pastorale fosse la «Casa della carità»: un luogo che rendesse  manifesto il chinarsi dei cristiani sulle sofferenze dei poveri. Il suo successore, il cardinale Tettamanzi – vescovo della  carità in una stagione di indifferenza verso il prossimo – ha voluto che l’ultimo dono alla diocesi fosse il libro del  Vangelo, la Parola posta al cuore della celebrazione liturgica, un libro che rendesse manifesto il piegarsi dell’orecchio  dei cristiani alla Parola proclamata. Così, nella scia di san Paolo, il cardinale Tettamanzi ha inteso «affidare alla Parola»  i cristiani della sua diocesi e lo ha fatto attraverso un «Evangeliario», concepito e realizzato come compendio della sua  sollecitudine di pastore e del suo amore di padre.
Ma cos’è un evangeliario? «Questo è il Libro della vita, / questa la fonte e l’origine dei libri.

Qui scintillano i quattro fiumi dall’unica sorgente». Nei versi anonimi vergati sulle prime pagine di un manoscritto del  IX secolo cogliamo il significato e il valore che le chiese cristiane, sin dall’antichità, hanno attribuito all’evangeliario,  cioè a quel libro, destinato al culto liturgico, che contiene il testo dei quattro Vangeli, suddiviso secondo l’ordine delle  pericopi che vengono proclamate nel susseguirsi dei giorni, delle domeniche e delle feste dell’anno liturgico. Sì, i  cristiani hanno sempre riconosciuto uno statuto particolare a questo libro che custodisce l’«attestazione» delle parole del Signore Gesù, raccolte dagli apostoli e dalle prime comunità cristiane e trasmesse sino a noi.
Non si tratta semplicemente di un libro, ma del Libro per eccellenza, non riducibile a una mera suppellettile per il  culto: nella fede della Chiesa che si esprime nella liturgia, questo oggetto è riconosciuto come simbolo vivo, come  «sacramento» e «icona» del Cristo risorto, che si fa presente in mezzo alla sua comunità, che parla al suo cuore e  spezza il pane delle Scritture. Per questo, attraverso i secoli, il libro del Vangelo quadriforme è stato circondato da  eculiari segni di onore e venerazione nelle diverse tradizioni liturgiche: affidato alla ministerialità del diacono, portato solennemente in processione fra lumi, incensi e canti di acclamazione, intronizzato sul leggio più alto degli amboni,  salutato con il bacio da parte dei ministri e talora dei fedeli. Il libro, inserito nel dinamismo celebrativo all’interno del  «sito» liturgico della proclamazione, rende per così dire visibile ai nostri occhi e udibile alle nostre orecchie la  presenza del Figlio e Verbo di Dio, che ha assunto la visibilità della nostra carne e l’udibilità delle nostre parole umane  per narrare agli uomini la misericordia e la condiscendenza del Padre.
È proprio all’interno di questa secolare tradizione che si inscrive anche la progettazione e realizzazione del nuovo  Evangeliario Ambrosiano, promossa dal cardinale Dionigi Tettamanzi. Un evangeliario «nuovo» sotto diversi punti di  vista: contiene infatti la nuova traduzione liturgica della Scrittura approvata dalla Conferenza episcopale italiana;  inoltre segue la scelta delle letture evangeliche selezionate secondo la recente riforma del Lezionario ambrosiano  pubblicato nel 2008; ed è nuovo, infine, per la scelta audace della Chiesa di tornare a farsi interlocutrice e  committente nei confronti della tecnica e dell’arte contemporanee. Frutto di un lavoro di équipe, che con la consulenza di esperti, biblisti e liturgisti ha chiamato un architetto (Pierluigi Cerri) e sei artisti (Giovanni Chiaramonte,  Nicola De Maria, Mimmo Paladino, Nicola Samorì, Ettore Spalletti e Nicola Villa) a dare forma e volume, colore, figura  e visibilità segnica alle «parole di vita eterna» dei santi Vangeli, senza trascurare una certa omogeneità del progetto  decorativo. I testi evangelici – che si susseguono organizzandosi intorno ai grandi poli dei Misteri dell’Incarnazione,  della Pasqua e della Pentecoste – sono suddivisi in tre tomi, segno questo di un’attenzione pastorale concreta all’uso  liturgico dell’Evangeliario, che deve coniugare la «nobile bellezza» della forma con le esigenze di praticità e di  maneggevolezza richieste da un libro rituale.
Questo ambizioso progetto – illustrato ora dalla mostra «La bellezza nella Parola: il nuovo Evangeliario Ambrosiano e  capolavori antichi» (Milano, 5 novembre – 11 dicembre) manifesta dunque lo sforzo sinergico della Chiesa e del genio  contemporaneo, per dare vita a un’autentica ars liturgica , frutto di una sapiente «cospirazione» fra la ricerca di nuove  espressività, la preservazione della coerenza simbolica, l’alleanza culturale tra la fede cristiana, la creatività e l’abilità  tecnica dell’operare umano, e la fedeltà alla tradizione della Chiesa. Sì, la liturgia ha bisogno di questa diaconia della  bellezza: bellezza della materia, bellezza dell’arte umana, bellezza ordinata alla carità, bellezza che sa narrare la bellezza  ella presenza e dell’azione del Signore vivente. Si tratta indubbiamente di una bellezza che esige un cammino  di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni  bellezza, la quale sempre  rimanda a Dio, lui che è l’«autore della bellezza». Solo così la bellezza dei simboli e dell’arte nella liturgia potrà essere rivelativa di Dio, della sua azione, del suo amore fedele per questa creazione e per l’umanità  intera.
Davvero negli ultimi trent’anni di ministero pastorale a Milano sono state «scritte» pagine esemplari di primato della  parola di Dio e di carità operosa verso gli ultimi: ora sono simbolicamente raccolte e offerte a tutti attraverso un’opera  d’arte che non esiteremmo a definire l’«Evangeliario della carità».

in “La Stampa” del 3 novembre 2011

 

 

Altri contributi

 

“Il cardinale Tettamanzi ha voluto offrire alla sua Chiesa un singolare dono di bellezza: un evangeliario artistico… Tutt’altro che accidentale è il rapporto fra fede e bellezza… Non a caso né per incidente di percorso il “logos” della fede si apre all'”hymnos”, la riflessione alla preghiera, l’esperienza di Dio nell’invocazione e nella carità alle forme dell’arte, in cui risplende l’umile bellezza dell’Altissimo”
“«L’arte presenta [rende presente] la bellezza, lo splendore, la gloria, la maestà, il plus che è nelle cose e che si ritira quando dite che la luna è solo terra e le nuvole sono solo acqua». Queste parole di padre Bernard Lonergan identificano con chiarezza l’esperienza dell’incontro con l’opera d’arte.” Promosso dal predecessore Tettamanzi, il libro sposa il Vangelo alle immagini di Mimmo Paladino, Nicola De Maria, Ettore Spalletti, Giovanni Chiaramonte, Nicola
Villa e Nicola Samorì.
“Il dono di un nuovo Evangeliario alla Diocesi di Milano è il gesto con il quale intendo lasciare un segno preciso e forte: la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa e dei cristiani… Desiderandolo come segno importante per la cultura e la spiritualità del nostro tempo, ho voluto che si esprimesse nella lingua delle donne e degli uomini di oggi… l’Evangeliario è stato per me un percorrere i sentieri della bellezza, attraverso la ricerca degli autori tradotta in forme e colori”
Tra “fede e arte, è necessario ora andare oltre i sospetti e ritornare a incontrarsi. La chiesa milanese presenta in questi giorni un nuovo Evangeliario Ambrosiano: “arte e fede “apparentemente non servono a nulla, tranne che a insegnare il senso della vita””

Halloween, la notte dei relativisti «Un rito che non ci appartiene»

 

L’anatema di due cardinali: snatura le feste della Chiesa.

 

Halloween nemica delle feste cattoliche di Ognissanti e della Commemorazione dei Defunti? Il dilemma si ripresenta da anni ad ogni fine ottobre.
Ma nel 2011 una differenza c’è. Riguarda la durezza con cui l’Arcidiocesi di Bologna del cardinale Carlo Caffarra ha  parlato di «brutta resa al relativismo dilagante», con tanto di nota sull’edizione bolognese di Avvenire, per la  manifestazione organizzata in piazza Re Enzo a base di zucche da intarsiare per Halloween dalla Coldiretti, associazione  di area cattolica. La curia invita a usare le zucche «per la vellutata o il ripieno dei tortelli». A Torino l’arcivescovo  Cesare Nosiglia rincara la dose: «La prossima festa dei Santi e la commemorazione dei fedeli defunti, tanto care alla tradizione anche familiare del popolo cristiano, da anni sono contaminate da Halloween. Tale festa non ha nulla a che  vedere con la visione cristiana della vita e della morte e il fatto che si tenga in prossimità delle feste dei santi e del  suffragio ai defunti rischia sul piano educativo di snaturarne il messaggio spirituale, religioso, umano e sociale che  questi momenti forti della fede cristiana portano con sé. Halloween fa dello spiritismo e del senso del macabro il suo  centro ispiratore».
Vincenzo Pace, docente di Sociologia della religione all’università di Padova, replica con una riflessione ottimista ma  che consegna un dubbio alla Chiesa: «Halloween non ha affatto soppiantato quella di Tutti i Santi. Il culto che la base  cattolica riserva proprio ai Santi è tuttora solidissimo. Io vivo a Padova e vedo cosa avviene ogni giorno alla Basilica di  ant’Antonio. La tradizione del pellegrinaggio perdura così come, ripeto, non conosce crisi il culto dei Santi. Direi  che resiste più della figura dello stesso Papa…». Affermazione interessante, visto che viene da un sociologo della religione. Pace respinge anche il nodo del relativismo: «Ricordo che le stesse figure dei santi sono relative, ciascuno ha il proprio “ambito” in cui esercita, secondo i credenti, una influenza».
Pippo Corigliano, scrittore (il suo «Preferisco il Paradiso» edito da Mondadori ha superato le 20 mila copie), per  uarant’anni responsabile delle relazioni esterne dell’Opus Dei, si schiera con i vescovi: «Hanno ragione, Halloween è  una moda importata dall’America che, come tutte le mode, inducono alla superficialità. La bonomia buongustaia  bolognese fa capolino anche in questo caso perché la nota della Curia invita a usare le zucche per i tortellini o per la  “vellutata”…». Detto questo, aggiunge Corigliano, «le feste di Tutti i Santi e della Commemorazione dei defunti sono comunque momenti sanamente inquietanti perché inducono a riflettere sull’aldilà. È bene ricordare che Gesù è stato  chiaro: esiste la vita eterna e l’immagine che usa più di frequente per illustrarla è quella del banchetto, cioè una  riunione di famiglia e di amici in cui si mangia e si sta bene assieme». Dunque una festa… «Un modo per far capire che  in Dio staremo bene e non ci mancherà nulla. Sarà come mangiare dei tortellini di zucca e anche meglio. In tutta Italia  si confezionano i dolci dei morti sotto forme molto svariate. L’importante è imitare Gesù nel suo amare tutti, altrimenti  ci sarebbe anche l’inferno col suo “pianto e stridore di denti”. Ma speriamo che l’argomento non ci riguardi».
Più problematico Brunetto Salvarani, teologo e critico letterario, impegnato nel dialogo interreligioso, direttore della  collana Emi «Parole delle fedi»: «Ritengo che il problema sia più ampio della questione legata ad Halloween e a una  possibile accusa di relativismo. C’è una questione di omologazione del tempo. Fino agli anni immediatamente  successivi alla Seconda guerra mondiale, in Italia gran parte dei credenti erano anche praticanti e, attorno alle  parrocchie, scandivano il tempo della propria vita con le festività». E ora, professor Salvarani? «Tutto diverso.
La pratica nelle chiese è quella che vediamo. Assistiamo a una sorta di nomadismo culturale, religioso e spirituale che  denota una trasformazione complessiva. Occorre porsi il problema se talune festività cattoliche abbiano perso la forza  di “parlare” ai fedeli».
Cosa dovrebbe fare il mondo cattolico? «Ci viene offerta un’occasione per stare dentro questa trasformazione, per  intercettarne i dati eventualmente positivi. La mutazione non dovrebbe vedere la Chiesa cattolica come semplice  spettatrice, se non addirittura come parte ostile. In una contingenza simile, non si può stare l’un contro l’altro armati».

in “Corriere della Sera” del 31 ottobre 2011

Vangelo fede e politica: don Enzo Mazzi

La storia gira le sue pagine inesorabile e lenta. Ieri la storia di Firenze e della Chiesa italiana ne ha girata un’altra: s’è chiusa la vita terrena di don Enzo Mazzi. Uno spirito indomito e contestatario che  lo portò a più riprese ad entrare in  antagonismo con i suoi arcivescovi. Un nome che fa tutt’uno con «l’Isolotto», in una vicenda che il semplicismo  ideologico – subito o prodotto – chiamerà «dissenso».
Quello che accade attorno a un parroco (nominato nel 1954, a 27 anni) e alla sua parrocchia prima del 1968 è qualcosa  di ben più complesso ed emblematico. L’Isolotto diventa il mito di un cattolicesimo ribelle perché lì è cresciuta prima  una esperienza di comunione, un segno di fraternità popolare che testimonia della fecondità del Vangelo nel tempo.  Era questo che La Pira, inascoltato mediatore nel momento topico del conflitto voleva forse salvare, senza riuscire, in  mesi — quelli fra il ’68 e il ’69 — nei quali la prepotente vitalità della primissima ricezione del Valicano II in Italia vira. Perché anche in Italia, come in tutto il mondo, il post-Concilio rafforza l’idea che si possa e si debba anticipare il tempo  che verrà: e che dunque sia necessario trascinare nell’oggi, con la distruzione dei sistemi di potere, un domani quasi  escatologico. Ma, a differenza di altri Paesi, in Italia il post- Concilio naufraga sulla politicizzazione della fede  (politicizzata da sinistra, anziché dal collateralismo), come se solo l’organizzazione di un contropotere potesse  «inverare» la fraternità attesa.
Di questo percorso don Enzo Mazzi è un protagonista che trova nella rigidità del cardinale Florit più d’una occasione di  scontro. Dapprima insieme ad altri preti nella solidarietà con i ragazzi della Cattolica sgombrati dalla polizia dalla  cattedrale di Parma, che avevano occupato per protesta contro i doni della banca locale per le nuove chiese. Poi nel  momento in cui Florit – lo aveva già fatto per le elezioni del 1966 – lancia quell’ultimatum all’Isolotto che fa assurgere il  caso alla ribalta nazionale.
Infine, subita la condanna della rimozione comminata nel dicembre 1968 e perfino un processo penale, nel  superamento della forma parrocchiale e nella nascita della comunità di base.
Una comunità che alla fin fine — al netto di un linguaggio autocelebrativo e di un lessico politico patinato dal tempo –  ha fatto della polemica con l’autorità la propria cifra. Con don Mazzi se ne va un pezzo di quella Firenze di cui egli  interpretava un’anima più protestataria e che era stata per quindici anni il chiostro, per usare una espressione russa,  dei «folli Dio»: una Firenze che aveva saputo dare al Paese il senso che ad alcuni, governati col solo sguardo  dall’austero prestigio di Dalla Costa, premeva solo la fede. Cosette: di cui forse ci sarebbe bisogno anche oggi, se  Firenze volesse averle.

 

di Alberto Melloni
in “Corriere Fiorentino” del 23 ottobre 2011

 

ALTRI ARTICOLI

 

Continuiamo a presentare materiali su don Enzo Mazzi, con l’intervento di Giovanni Gennari, che fa una lettura forse più ecclesiastica che evangelica: “A differenza del suo grande confratello, don Milani, e di altri pionieri della fede nella chiesa fiorentina, forse don Mazzi si è lasciato strumentalizzare anche da chi con la Chiesa fiorentina non aveva e non voleva avere alcuna prossimità, e fu autore di dichiarazioni e azioni di rottura vera e propria anche in materie importanti come i sacramenti e la dottrina morale di fondo…”
“fino all’ultimo è stato punto di riferimento non solo per le prese di posizioni pubbliche che facevano rumore sui giornali (come quella a favore di papà Englaro) ma soprattutto per un’azione concreta, silenziosa e quotidiana di aiuto a chi aveva bisogno.” “Quello che appassionava molti cattolici (e li appassiona) di don Mazzi era che non faceva politica per sé, per fare carriera o per arricchirsi. O per difendere il posto di lavoro, come molti politici italiani attuali. Ma semplicemente per stare dalla parte degli ultimi. Questo dice il Vangelo. Altro che nuovo partito dei cattolici.”
“Guardando all’indietro, l’esperienza della Comunità di Base dell’Isolotto… potrà sembrare datata, legata come fu, al suo nascere, a una ben precisa temperie storica e di vita della Chiesa. Ma di sicuro le “rotture” che l’hanno contraddistinta… restano… prove sincere di un progetto di «chiesa di popolo» di cui il mondo cattolico sembra oggi avvertire di nuovo l’urgenza”
“è un saluto corale, fatto di abbracci e lacrime, di ricordi e testimonianze personali del sacerdote rimosso dalla parrocchia dell’Isolotto nel 1968 dal cardinale Florit. E diventato poi pioniere del dissenso cattolico”
“Mazzi questo rischio (quello di restare fermo alla nostalgia del ’68) l’ha corso, però credo che abbia sempre cercato di limitarne le conseguenze. Si è sempre misurato con l’attualità, la globalizzazione, con la dimensione di sacro e laicità nei nostri tempi. Sempre coerente alla sua radicalità, alla limpidezza di intenti. Una qualità che mai come in questi giorni è apprezzabile”
“«Vuoi andare in Africa? Ti mando in un posto forse più pericoloso, l’Isolotto». Così l’Arcivescovo Elia Dalla Costa rispose al giovane sacerdote Enzo Mazzi che voleva partire come missionario. Dalla Costa scelse un altro futuro per quel 27enne. Comincia così la storia del «prete eretico». Un simbolo di una generazione, quella dei preti «contro» di Firenze. Mazzi è scomparso venerdì no
“Nonostante la sua età, 84 anni passati, Enzo Mazzi conservava nel cuore tutte le caratteristiche della gioventù… Sulle nostre pagine ha tracciato un sentiero unico, spesso in assoluta solitudine. Per un cammino che veniva da lontano, dagli stessi giorni del ’68 che portarono alla nascita della Comunità dell’Isolotto a Firenze e all’esperienza in tutta Italia delle Comunità cristiane di base.”
“Come ogni domenica, anche oggi l’appuntamento della Comunità dell’Isolotto è alle 10.30… «socializzeremo l’assenza di Enzo, e la continuità della sua presenza». Nel solco di quella esperienza comunitaria che Enzo Mazzi considerava essenziale… Di cui ha fatto dono, non solo metaforico, alle donne e agli uomini della comunità… Grazie a loro, e ai tantissimi che… anno dopo anno hanno socializzato negli appuntamenti comunitari della domenica, Enzo Mazzi continuerà ad esserci”