Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa

Tra pochi giorni, venerdì 19, festa del Sacro Cuore di Gesù, avrà inizio lo speciale Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.
Le finalità sono state indicate da papa Joseph Ratzinger ai cardinali e vescovi che compongono la congregazione per il clero, riuniti lo scorso 16 marzo in assemblea plenaria.
La congregazione per il clero si chiamava fino al 1967 congregazione “del Concilio”.
Era stata costituita infatti dopo il Concilio di Trento per curare l’applicazione delle indicazioni conciliari da parte del clero in cura d’anime.
Il profilo di prete delineato dal Concilio di Trento ha caratterizzato la vita della Chiesa cattolica fino alla metà del Novecento.
Ne è stato un modello il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, di cui ricorre il 150.mo anniversario della morte.
Negli ultimi decenni, però, l’identità del prete cattolico si è in varia misura mutata, offuscata, sbriciolata, sotto i colpi della secolarizzazione, fuori e dentro la Chiesa.
L’intento dell’Anno Sacerdotale è appunto quello di ricostruire nel prete una forte identità spirituale, fedele alla sua missione originaria.
Ciò comporta anche un’energica opera di eliminazione della “sporcizia” che ha inquinato una parte del clero, quantitativamente limitata ma disastrosa sul piano della sua immagine globale.
A questo proposito va notata una coincidenza.
Con l’inizio dell’Anno Sacerdotale avrà inizio anche la visita apostolica ordinata dalle autorità vaticane dentro la congregazione dei Legionari di Cristo.
Questa congregazione si distingue per l’abbondanza delle vocazioni e il gran numero di nuovi preti.
Nello stesso tempo, però, rischia di crollare così come è già crollata la figura del suo carismatico fondatore, il sacerdote Marcial Maciel, la cui doppia vita gravemente immorale – venuta definitivamente allo scoperto – è diventata oggi un terribile scandalo prima di tutto per quelli che furono i suoi più ferventi discepoli.
Ricostruire l’identità spirituale del clero implica quindi anche una speciale cura della sua formazione.
Come i seminari sono stati una pietra miliare della riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento, così oggi è nei seminari che si forgia l’identità dei nuovi preti.
La congregazione del clero non si occupa dei seminari.
Prende cura di essi la congregazione per l’educazione cattolica.
Anche quest’ultima, quindi, dovrà operare perché l’Anno Sacerdotale porti frutto.
Qualcosa, anzi, ha già fatto, a giudicare dal discorso tenuto dal suo segretario, Jean-Louis Bruguès, ai rettori dei seminari pontifici convenuti a Roma nei giorni scorsi.
Monsignor Bruguès, 66 anni, domenicano, era fino al 2007 vescovo di Angers.
Oltre che segretario della congregazione per l’educazione cattolica è vicepresidente della pontificia opera delle vocazioni sacerdotali e membro della commissione per la formazione dei candidati al sacerdozio.
È inoltre accademico della pontificia accademia San Tommaso d’Aquino.
Il discorso che ha rivolto ai rettori di seminario non ha nulla del linguaggio curiale.
È di una franchezza non comune.
Descrive e denuncia senza mezzi termini i guasti del dopoconcilio, in particolare in Europa, compresa l’impressionante ignoranza sui punti elementari della dottrina che oggi si riscontra nei giovani che entrano in seminario.
Questa ignoranza è a tal punto che, tra i rimedi, monsignor Bruguès auspica che si dedichi un anno intero di seminario a far apprendere il Catechismo della Chiesa cattolica.
Il Catechismo “ad parochos” fu un’altra delle pietre miliari della riforma tridentina.
Quattro secoli dopo, si è di nuovo lì.
È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione.
Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre.
Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.
La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all’insieme delle società moderne.
Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all’altro.
In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell’appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata.
Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna.
Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l’espressione pubblica delle convinzioni religiose: l’abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.
Da una decina d’anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante.
Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all’europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l’eccezione.
Ora invece sono numerosi coloro i quali – Jürgen Habermas per esempio – pensano che è vero l’opposto e che anche nell’Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.
RICOMINCIARE DAL CATECHISMO Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana.
I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi.
Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora.
Ne menzionerò due.
Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo – un anno o più – di formazione iniziale, di “ricupero”, di tipo catechetico e culturale al tempo stesso.
I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese.
Personalmente, penso a un intero anno dedicato all’assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.
In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione.
I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere.
Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa.
Si può lavorare con loro veramente bene.
La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori.
È una fortuna.
Ci troviamo quindi a costruire su una “tabula rasa”.
Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all’essenziale.
Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico – come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico – e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.
Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento.
Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d’alto livello.
Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti.
Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato.
Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi.
Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un’accumulazione dei corsi e un’impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione? Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l’estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l’architettura piuttosto che la decorazione.
Altrettante ragioni mi portano a credere che l’apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia.
Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica – il che è una fortuna – ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.
DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future.
È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione.
Certo, il passaggio da una generazione all’altra ha sempre posto dei problemi d’adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.
Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio.
Essa ha conosciuto un’accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta.
Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza.
Sono dunque arrivati a interpretare l'”apertura al mondo” invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.
Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un’autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.
Gli esempi abbondano.
I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall’opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d’ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest’ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una “Chiesa di puri”, una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera? L’impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese.
Potremmo avanzare l’ipotesi che siamo passati da una Chiesa di “appartenenza”, nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di “convinzione”, in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine.
Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti.
Le presenze sono diminuite a vista d’occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari.
Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.
I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch’essi a questa Chiesa di “convinzione”.
Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie.
Sono cresciuti spesso in famiglie divise o “scoppiate”, il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d’immaturità affettiva.
L’ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno).
Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi.
A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.
La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale.
La mia generazione, insisto, ha identificato l’apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino.
I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l’hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.
ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE? Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di “composizione” e una corrente di “contestazione”.
La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.
La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze.
Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate.
Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.
La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.
Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto – ma non esclusivamente – sotto l’influenza di Giovanni Paolo II.
La corrente della “composizione” è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa.
La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante.
Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.
Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.
Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione.
Alcune giocano la carta dell’adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell’aspetto della dottrina o della morale cattolica.
Altre, d’ispirazione più recente, mettono l’accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all’evangelizzazione.
Lo stesso vale per le scuole cattoliche.
E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.
I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane.
I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.
Essi sono portatori d’una preoccupazione d’identità  (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come “identitari”): identità cristiana – in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? – e identità del sacerdote, mentre l’identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.
Come favorire un’armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d’ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d’anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un “ritorno al passato”; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l’impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.
Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani – oppure intere comunità parrocchiali – provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.
Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari.
Più che il passaggio da una generazione ad un’altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un’interpretazione del Concilio Vaticano II ad un’altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro.
La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.
 Il discorso del 15 marzo 2009 nel quale Benedetto XVI ha annunciato l’Anno Sacerdotale con inizio il 19 giugno: > Alla plenaria della congregazione per il clero __________ Altra documentazione sull’Anno Sacerdotale: > Congregazione per il clero __________ Sul caso dei Legionari di Cristo: > La Legione è allo sbando.
Tradita dal suo fondatore
(16.2.2009)

I santi e la pratica eroica delle virtù

Se è alta la qualità teologica della canonizzazione, altrettanto esigente è l’invito all’adesione di fede del credente, il quale è tenuto a prestare il suo assenso fermo e saldo, fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa e sulla dottrina cattolica dell’infallibilità del magistero in questo campo.
La canonizzazione, quindi, non è un semplice atto di devozione o di pietà popolare, ma l’attestazione formale e solenne della santità di alcuni fedeli, proposti come modelli a tutta Chiesa per l’esaltazione della fede cattolica e l’incremento della vita cristiana (…) Rispondendo ora al titolo della nostra relazione – sul significato cioè della santità nella vita della Chiesa oggi – si può affermare con il concilio Vaticano ii che tutti i fedeli sono chiamati alla santità.
La santità è la vocazione di ogni battezzato.
Di conseguenza ancora oggi la santità fa parte dell’identità della Chiesa, Una Sancta, e del battezzato.
Di qui la sua perenne attualità (…) La fonte originaria della santità della Chiesa e nella Chiesa è Dio Trinità:  “Siate dunque perfetti – dice Gesù – come è perfetto il vostro Padre celeste” (Matteo, 5, 48) (…) La pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità sono il traguardo di tutti i cristiani, la cui santità non è solo un ornamento spirituale della Chiesa ma anche un dono alla promozione e all’affermazione di una società umana pacificata e giusta.
Affermando che “tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano”, il concilio riconosce le implicanze sociali della santità cristiana.
Per questo spesso i santi sono anche chiamati benefattori dell’umanità, perché, come Gesù, anch’essi sono passati su questa terra “beneficando” (Atti degli apostoli, 10, 38), operando il bene.
Come nei primi secoli il sangue dei martiri fu la linfa della santità della Chiesa, così oggi non solo i santi martiri ma anche i santi confessori della fede, continuano a essere i testimoni straordinari del Vangelo di Cristo, illustrando la Chiesa, madre dei santi (…) È interessante notare che nell’apologetica post-tridentina alcuni teologi evidenziavano un significato non comune della santità della Chiesa.
La qualifica sancta deriverebbe – a loro dire – da “sancire”-“stabilire” ed etimologicamente indicherebbe stabilità, indefettibilità, inviolabilità.
La Chiesa è santa perché è la roccia sulla quale si infrangono le onde dei suoi nemici.
La sua santità indicherebbe la sua indefettibilità, la sua stabilità.
In tutto ciò in primo piano non è tanto la santità dei membri quanto la santità fontale della Chiesa, dal momento che essa è santa perché mediante i suoi sacramenti santifica continuamente i suoi figli, perdonandoli e fortificandoli con la grazia.
Insomma, la Chiesa è santa perché santificatrice.
E la santità dei suoi figli, in subordine a quella di Cristo, la difende dal nemico e la fa splendere di grazia.
Ma questa santità soggettiva è il riflesso della santità oggettiva, costitutiva della Chiesa; ne è espansione e visibilizzazione.
La Chiesa ieri come oggi è stata sempre edificata dalla presenza dei martiri e dei santi.
Nei processi di canonizzazione la domanda di fondo è la seguente:  il servo o la serva di Dio ha praticato in modo eroico le virtù teologali e cardinali? Il santo, infatti, non è un prodotto della cieca evoluzione cosmica, ma un dono della grazia divina (…) Ma cosa significa, in concreto, la pratica eroica della virtù? Sembra che sia stato Aristotele a parlare di virtù eroica, nella sua Etica Nicomachea.
Lo Stagirita cita un brano dell’Iliade in cui Priamo piange la morte di Ettore, suo figlio prediletto, che era stato “tanto virtuoso che non crederesti che egli sia stato generato da padre mortale, ma che sia stato piuttosto della stessa natura degli dei” (…) Nel suo Commentario all’Etica Nicomachea, san Tommaso d’Aquino considera la virtù eroica come la straordinaria perfezione della parte ragionevole dell’anima.
Lo stesso Tommaso, nella stesura della sua Summa, illustra il rapporto tra doni dello Spirito Santo e virtù.
I doni sono indispensabili perché il battezzato raggiunga il suo traguardo soprannaturale.
In questo contesto egli parla di abito eroico o divino, che indica una disposizione verso il bene più alta del comune.
La virtù eroica è l’esercizio in grado eminente della virtù.
Nella virtù eroica il livello morale in essa presente si eleva al di sopra del livello morale di quasi tutti gli uomini.
E ciò suscita ammirazione, che costituisce anche un elemento della definizione della virtù eroica.
Per il benedettino José Saenz de Aguirre (+ 1699) i segni distintivi della virtù eroica sono l’osservanza fedele dei comandamenti e l’adempimento dei consigli evangelici anche in circostanze avverse; l’ammirazione da parte degli altri uomini; qualche miracolo perpetrato da Dio per confermare l’eroismo delle virtù di una persona ritenuta santa.
Per il francescano Lorenzo Brancati la persona che possiede l’abito della virtù eroica deve agire e fare il bene expedite, prompte et delectabiliter, sotto l’influenza e la guida dei doni dello Spirito Santo.
La virtù eroica supera l’esercizio ordinario della virtù dal momento che suscita una più sublime maniera di fare il bene con frequenza, facilità e disinvoltura.
In ogni caso, essa è sempre un grado particolarmente elevato di ogni singola virtù sia teologica sia morale.
Alla domanda su come siano riconoscibili le virtù eroiche, si risponde che il grado eroico è riconoscibile, in primo luogo dalla frequenza, dalla grande prontezza e dal carattere gioioso dell’attività virtuosa; in secondo luogo dal fatto che anche ostacoli difficili, costituiti da circostanze esterne o da intralci interni, vengono superati in modo tale che l’eroe virtuoso può essere considerato capace di grandi sacrifici per il Vangelo nella totale abnegazione di se stesso.
Anche per Prospero Lambertini, poi Benedetto xiv, la virtù eroica implica speditezza, prontezza e letizia in un modo superiore al comune, nell’abnegazione e nel controllo delle passioni.
La virtù eroica è l’elevazione delle virtù fino all’apice della loro perfezione per l’influsso efficace dei doni dello Spirito Santo (…) Tuttavia, come non ogni terreno produce tutto, ma viene raccomandato soprattutto per un prodotto particolare, così i santi per lo più sono nobilitati dallo splendore singolare di una sola virtù. Nonostante la connessione di tutte le virtù, una sola è la virtù che in essi è eminente e prevalente.
Ed è proprio l’eroismo virtuoso che suscita stupore e meraviglia, ma anche sequela e imitazione.
Il Vaticano ii – Lumen gentium, n.
50 – insegna al riguardo:  “Il contemplare la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr.
Lettera agli Ebrei, 13, 14 e 11, 10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità.
Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr.
Seconda Lettera ai Corinzi, 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto.
In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr.
Lettera agli Ebrei, 12, 1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati”.
Nella nota 155, il testo conciliare richiama un decreto di Benedetto xv il quale sottolinea che la virtù eroica può consistere anche nelle piccole cose e, più precisamente, nel fedele, continuo e costante adempimento dei compiti e degli uffici del proprio stato.
Dal canto suo, Pio XII, a chi affermava che i santi sono piuttosto da ammirare che da imitare, rispondeva che la perfezione della santità e la sua eroicità si potevano raggiungere anche nella quotidiana e costante osservanza della legge divina e nella intensissima carità verso Dio e il prossimo.
E ogni santo ha espresso la sua virtù in modo del tutto originale:  alcuni con l’ardore dell’apostolato, altri con la fortezza del martirio, altri con lo splendore della loro verginità o con la soavità della loro umiltà.
Nella virtù eroica Cristo si fa di nuovo visibile in mezzo a noi e il santo diventa lo specchio di Cristo (…) I santi, inoltre, sono i veri operatori dell’inculturazione del Vangelo, non mediante teorie elaborate a tavolino, ma vivendo e manifestando la sequela Christi nella propria cultura.
I santi mostrano la verità evangelica con la loro esistenza.
In essi si realizza la metamorfosi cristiana di una cultura, dal momento che rivelano come le beatitudini evangeliche tocchino e convertano al bene i cuori e le menti delle persone di ogni cultura.
Nei santi l’inculturazione non avviene principalmente ab externo, nello stile delle chiese, negli atteggiamenti del corpo, nel rivestimento linguistico, ma soprattutto, ab interno, nella loro persona.
Sono loro in persona il Vangelo vivente per quella cultura.
Come agli inizi della Chiesa furono i santi pastori, i santi teologi e i santi martiri a evangelizzare le culture della terra, così oggi la Chiesa ha bisogno dei santi per la riuscita di ogni inculturazione.
Il Vangelo infatti non è riservato a una cultura determinata, ma a tutte le culture:  “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura” (Marco, 16, 15).
Ieri come oggi, questo compito è affidato soprattutto ai santi (…) In ciò consiste anche la dimensione missionaria dei santi, che costituiscono un’incarnazione personale del Vangelo.
La loro esistenza è la più efficace opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l’esistenza gioiosa dell’umanità.
Solo così si spiegano le conversioni al Vangelo operate dai santi missionari a cominciare dagli apostoli, che si sparsero in tutto il mondo annunciando la buona notizia della salvezza in Cristo, convertendo e battezzando (…) In conclusione, i santi sono segni concreti di speranza per un futuro di fraternità, di gioia e di pace.
Talvolta ci si lamenta per il grande numero di santi che vengono canonizzati.
Ma la Chiesa santa non può non generare figli santi.
Sarebbe come se ci lamentassimo della grande quantità, varietà e bellezza dei fiori in primavera.
(©L’Osservatore Romano – 30 aprile 2009 Prima di rispondere alla domanda sull’attualità della santità nella Chiesa e nel mondo, conviene premettere alcune considerazioni sul significato e sul valore della santità riconosciuta come tale dalla Chiesa e proposta ai fedeli come esempio d’imitazione di Cristo.
Diciamo subito che la solenne proclamazione della santità dei fedeli mediante la canonizzazione è un atto del Magistero pontificio di altissima qualità teologica.
Infatti, se al primo grado della Professio Fidei appartengono quelle dottrine di fede divina e cattolica che la Chiesa propone come divinamente e formalmente rivelate e, come tali, irreformabili, al secondo grado appartengono tutte quelle dottrine che riguardano la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Si tratta di verità che sono infallibilmente insegnate dal magistero ordinario e universale della Chiesa con sententia definitive tenenda.
La canonizzazione appartiene a questo secondo grado di verità proposte in modo definitivo, in quanto fa parte di quelle dottrine necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede.
I santi, sono quindi, pagine viventi della santità della Chiesa nei secoli.  )

Giobbe interroga il Creatore

Questo secondo contributo orienta la riflessione sulla figura di Giobbe.
– Il male, il dolore incombono sulla vita dell’uomo, magari innocente: – La fede nel Dio creatore può darvi un senso? Quale?                      Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
            – Quale l’atteggiamento del laico credente nel momento della prova?     Dalla potenza ordinatrice del cosmo alla signoria sull’esistenza: Giobbe   La fede di Israele sa che JHVH ha creato i cieli.
Man mano assume anche chiara coscienza che ha creato pure lo stesso Israele.
E di conseguenza,sia pure piuttosto tardi, la creazione si pone a garanzia della signoria di JHVH sulla storia.
I libri sapienziali ne danno luminosa conferma.
Il libro di Giobbe è importante perché misura la signoria di Dio nei confronti dell’aspetto più conturbante della creazione: il dolore e il male ch possono incombere sull’esistenza, magari innocente.
Di fatto nel caso di Giobbe la riflessione si fa sofferta e drammatica: non sono più i limiti e le resistenze del cosmo che fanno problema ma il dolore, il male che attanaglia l’esistenza e non sembra avere spiegazione.
La figura di Giobbe porta all’esasperazione l’interrogativo; rende conturbante la domanda su Dio stesso: quale signoria sulla creazione, quale garanzia di giustizia nel pesare la vita e l’agire dell’uomo davvero gli compete? La ribellione veemente e la vibrante requisitoria  dell’uomo Giobbe sembrano scalzare questa serena visione di uno sviluppo sicuro  che accompagna la vita nel suo imporsi sull’avversione tenace del caos.
Perciò l’intervento stesso di Dio parte proprio dall’appassionata difesa del suo mondo, in cui la vita incede trionfante a dispetto di tutte le resistenze e i limiti che ancora le si oppongono.
‘Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se ha i tanta intelligenza… chi ha posto la sua pietra angolare, mentre giocavano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?’ (Giobbe, 38, 4,6b,7) In fondo, Dio non risponde a Giobbe; lo inchioda sulla contemplazione di un universo magnifico e misterioso, di cui Lui solo conosce il segreto, perché l’ha fondato e lo governa.
Il riferimento alla creazione, la celebrazione della sua insondata grandezza, del suo irruente dinamismo; della sovrana autorità con cui Dio la muove inducono Giobbe a riconoscere una sapienza che aveva osato contestare.
Giobbe al pari dei suoi amici guardano il mondo in una fissità e organizzazione definite.
Dio spalanca loro la visione di una vitalità dinamica comandata da un principio irresistibile che va man mano integrando e organizzando gli aspetti difficilmente conciliabili e apparentemente caotici che lo fermentano.
L’appassionata difesa di Dio esprime una presenza straordinariamente avvertita e disponibile ad aprire il gioco imprevedibile della vita, a lasciarlo affermarsi fino allo scontro e all’apparente inconciliabilità, per guidarlo in realtà con superiore sapienza al fine che gli è assegnato.
Di fronte all’uomo Dio solleva il velo per far capire come dietro un enigma che l’uomo scorge se ne celano altri innumerevoli;  che il problema situato e parziale, di cui l’uomo si rende conto, suppone ulteriori interrogativi, che neppure avverte.
L’uomo e la sua tracotanza è dunque messa a tacere; ma soprattutto è ammaestrata a dare fiducia ad una sapienza ordinatrice che intesse in forma suggestiva e sovrano le fila dell’ universo progressivamente riportato all’ordine  e condotto a buon fine.
Giobbe si ricrede; la resa e il riconoscimento pieno al disegno sapiente di Dio sulla sua vita; un disegno profondo e arcano ma non perciò meno garantito e rasserenante.
“Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te.
… Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere.” ( Giobbe, 42, 2, 8, 9 )   E’ una confessione umile, ma anche grande: piena di fiducia e di abbandono.
Celebra l’insondabile sapienza di Dio, ma anche la consapevole dignità dell’uomo.
Il dolore può non compromettere, ma rinsaldare l’intimità dell’uomo con Dio.
  ————————————————-                                                                                                                     Per la riflessione personale o di gruppo si può opportunamente riferirsi a: Giobbe, dal capitolo 38°: Le sfide del Signore   Per l’approfondimento personale e di gruppo:             Quale provocazione religiosa sottende il problema del male?             Quale risposta può dare il credente?             Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.
 TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Ellenici, 2009

Credere in… Giuda e Pietro

Il credente non ha gli occhi bendati.
I suoi sono solo occhi più penetranti, profondi.
Il cumulo delle cose che vede, dei gesti, delle vicende sono un groviglio che va dipanato.
Alcune tracce si intravedono e si possono perseguire.
E lui le persegue con tenacia.
Portano ad una conclusione: il mondo che fermenta dentro di me, che si muove attorno a me, la ridda concitata degli avvenimenti che segnano la storia è indecifrabile.
Ma c’è; e offre straordinari richiami di umana dignità, di superba razionalità, di cui il caos o il caso non sono spiegazione.
La tradizione occidentale vi ha presagito e argomentato il riferimento a Dio, vi ha percepito un’eco persuasiva; vi ha scorto tracce profonde e visibili della sua presenza, che pure resta avvolta di mistero.
Ha legittimato la fede in lui e la vive nella trepidazione.
Sa che Dio non intende uscire allo scoperto perché gli si battano le mani, e tuttavia non cessa di bussare con tocco leggero al cuore di ciascuno; non scende a patti con nessuno, e tuttavia parla con voce persuasiva a chi sta in ascolto, veglia in attesa, attende con amore.
La fiducia ha una gamma vasta di gradualità.
La fiducia religiosa può pervenire al vertice; si porta dal fidarsi di, dal credere a …
al credere in…
rilevato già nell’analisi di Agostino.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
La Pasqua è occasione propizia per rivisitare anche l’atteggiamento di alcuni protagonisti.
Offrono l’occasione di riflettere su una fondamentale esperienza di fede che ha accompagnato la vicenda unica di Gesù.
Credere è fidarsi…
Alla cieca? Da un certo punto di vista, sì, alla cieca! Questo significa fidarsi.
È il dono incomparabile dell’amicizia.
So che mi posso fidare, ed è naturale che mi fidi.
Ma la fiducia non è infondata; ha percorso una lunga strada, spesso accidentata; è approdata ad una considerazione conclusiva: mi posso fidare, mi fido! Dunque alla cieca relativamente, sulla base di una lunga e assodata esperienza…

il digiuno quaresimale

Il digiuno – come il nutrimento – ha una grande importanza nella Bibbia e nelle tradizioni ebraica, cristiana e musulmana, in quanto esprime in modo straordinario la relazione fra corporeità e spiritualità, il rapporto di fede tra la creatura e la bontà e la misericordia di Dio.
Il Creatore onnipotente, che dà il cibo a ogni vivente, chiede all’uomo e alla donna una risposta consapevole, in quanto creati a sua immagine; perciò anche l’assunzione del cibo – come l’astinenza da esso – non sono privi di un profondo senso simbolico e spirituale.
Una veglia in attesa della risurrezione di Nicola Gori Una veglia prolungata nell’attesa della risurrezione: è l’immagine che le comunità cristiane d’Oriente usano per spiegare il significato del digiuno.
Come nella tradizione orientale i monaci vegliavano per tre giorni la salma di un loro confratello defunto, allo stesso modo i fedeli devono praticare il digiuno come attesa della risurrezione della carne.
Ne abbiamo parlato in questa intervista con il gesuita Robert Taft, professore emerito di liturgia orientale al Pontificio Istituto Orientale.
Vi sono caratteristiche comuni tra la tradizione del digiuno nelle diverse Chiese orientali cattoliche e ortodosse? La tradizione del digiuno è la stessa sia nelle Chiese orientali cattoliche sia in quelle ortodosse.
La tradizione ortodossa prescrive che in modo progressivo, cominciando due settimane prima dell’inizio della quaresima, ci si prepari al digiuno.
La prima settimana è chiamata la settimana del digiuno dalla carne: alla fine di essa non si mangia più carne per tutta la quaresima.
La seconda settimana che precede la quaresima è detta dei latticini, perché alla fine della settimana ci si deve astenere dai latticini.
Durante i primi sette giorni della quaresima – detti del grande digiuno – si dovrebbe osservare un’astinenza molto severa.
Bisogna però distinguere un po’ l’usanza monastica da quella dei laici.
Nei monasteri si mangia solo un pasto al giorno, nel pomeriggio, osservando l’astinenza da tutti i cibi proibiti.
Per i laici il digiuno è più vicino a quella che in Occidente si chiama astinenza.
Ci sono indicazioni particolari riguardo alla quantità di cibo consentita? Non c’è una prescrizione specifica per la quantità di quello che si mangia.
Non si possono bere alcolici o mangiare carne o latticini, ma si possono mangiare i cibi permessi in quantità necessaria per nutrirsi.
Questa antica pratica adesso è osservata soprattutto nei monasteri.
È importante ricordare che la liturgia celebrata nei mercoledì e nei venerdì di quaresima è una liturgia pomeridiana, perché nell’antichità anche ricevere la Comunione significava rompere il digiuno.
Digiunare voleva dire non mangiare nulla.
Era un’astinenza totale fino a sera, quando era permesso un pasto.
Come praticavano il digiuno i Padri del deserto? Nelle diverse tradizioni locali dell’ortodossia e delle Chiese cattoliche orientali ci sono usanze differenti.
Lo stesso vale per i Padri del deserto.
In genere, mangiavano soltanto una quantità minima di pane e di acqua.
Era un digiuno quasi permanente.
Siamo peccatori, per questo occorre digiunare per fare penitenza.
Il Vangelo dice metanoèite, che normalmente viene tradotto in “fate penitenza”: non nel senso di fare qualcosa che ci costa sacrificio, perché metanoia vuole dire cambiare mentalità, convertirsi.
Allora questa conversione è sempre in senso escatologico.
Il digiuno, soprattutto in questo periodo, è un tipo di veglia prolungata nell’attesa della venuta del Signore, proprio come nell’antichità si vegliava la salma di un monaco o di una monaca, perché questa era un’espressione liturgica della fede nella risurrezione dei morti.
Questo vuol dire veglia: una vigilia in attesa, nella speranza della risurrezione dei morti.
Tra i fedeli delle comunità orientali la pratica del digiuno è sufficientemente seguita? Normalmente, durante la prima settimana della quaresima e anche la grande settimana – quella che in occidente si chiama la settimana santa – il digiuno più severo è seguito da quasi tutti i fedeli, almeno nell’ortodossia.
Nel cattolicesimo c’è stata una moderazione nella pratica del digiuno nel periodo del dopo Vaticano II.
Nel rito latino la gente non ha sempre compreso a fondo che, nell’intenzione delle riforma post-conciliare, l’idea della moderazione era legata all’invito a fare altre cose importanti nella vita cristiana, cioè dare l’elemosina ai poveri, fare del bene al prossimo, chiedere perdono per le offese.
(©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home] ”Ciò è particolarmente evidente in alcuni momenti fondanti dell’esperienza d’Israele, come è per il digiuno dei quaranta giorni che Mosè compie sul Sinai, prima di ricevere la santa Torah, e con essa l’alleanza di salvezza per il popolo ebraico” ci spiega monsignor Pier Francesco Fumagalli, dottore della Biblioteca Ambrosiana e profondo conoscitore dell’ebraismo (dal 1986 al 1993 è stato segretario della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo, di cui oggi è consultore).
“Anche la regina Ester, nel momento del massimo pericolo per il popolo minacciato di sterminio – aggiunge – digiuna e prega prima di presentarsi a intercedere presso il re Assuero suo sposo.
Nel libro di Giona gli abitanti di Ninive e persino gli animali indicono un digiuno e si coprono di sacco e cenere, per implorare il perdono e allontanare i castighi divini minacciati dal profeta”.
Questo costante collegamento tra misericordia, peccato e salvezza, si è mantenuto e approfondito lungo i millenni nella tradizione ebraica, il cui calendario tuttora comprende il digiuno di Ester (13 di Adar), quello dei primogeniti prima di Pasqua (14 di Nisan) e il solenne digiuno dell’Espiazione o Kippùr (10 di Tishri).
Nella tradizione cristiana il digiuno recepisce sostanzialmente questi medesimi valori dell’ebraismo, anche se lungo i due millenni del cristianesimo – ammette Fumagalli – “dolorose polemiche hanno spesso offuscato la coscienza di questo debito spirituale”.
“Gesù stesso – ricorda in proposito – prima dell’inizio della sua vita pubblica segue un digiuno di quaranta giorni nel deserto, e i cristiani ne seguono l’esempio, secondo la dottrina della imitatio Christi, orientandosi a ricevere il dono della salvezza nella Pasqua di risurrezione, dopo un periodo di quaranta giorni o quaresima”.
La principale differenza – al di là delle varianti normative specifiche – consiste “nel riferimento cristocentrico tipico della fede cristiana, che però paradossalmente diventa anche la radice di ciò che i cristiani possono imparare dalla tradizione religiosa del popolo ebraico di ieri e di oggi”.
In questo rapporto unico che in Cristo lega l’innesto cristiano sulla “santa radice” di Israele “sta tutta la forza e la necessità di riferirsi costantemente all’eredità dei padri e delle madri della fede, da Abramo e Sara fino all’epoca contemporanea”.
Ci sarebbe da chiedersi cosa possono i cristiani imparare dagli ebrei nella pratica del digiuno.
“Innanzitutto – secondo Fumagalli – la fortissima tensione di speranza escatologica e di purificazione dal peccato in vista del dono divino di piena redenzione sostengono la comunità ebraica unita nel digiuno e nella preghiera, come si vede in modo particolarmente solenne e pubblico nel Kippùr”.
Per il cristiano, perciò, “che rischia talora di limitare il proprio orizzonte escatologico a una speranza già totalmente realizzata nella Pasqua di Cristo, con il conseguente impoverimento dell’attesa messianica e dell’impegno verso il futuro salvifico divino, forse il dono maggiore che l’ebreo può offrire in questo campo è l’esempio di un’ardente, inestinguibile sete di perdono e di comunione fraterna”.
(mario ponzi) (©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home]

Spiritualità Secolare/ 1: La quotidianità e il suo spessore

Il ritorno su di sé è ritorno all’interiorità, popolata di presenze e sollecitazioni.
Coglie l’attimo che si vive, ma raccoglie anche lo spessore dell’esperienza passata e gli stimoli della progettualità futura, cui l’orizzonte terreno risulta insufficiente.
Il raccoglimento consente di rendersene conto; di avvertire la ricchezza di relazionalità e di stimoli di cui si vive.
E dunque di misurare lo spessore dell’esistenza che vi fluisce incessantemente.
La novità sta nel prendere coscienza di sé attraverso e oltre le sollecitazioni di cui la vita è intessuta: mirare al cuore dell’esistenza oltre le indicazioni che vengono dalla periferia, dalle situazioni… E anche prendere atto che l’esperienza concreta è intessuta di tutte quelle relazionalità, vive di queste, a queste si appassiona; con ciò imprime intensità e qualità al vivere quotidiano.
E proprio al cuore dell’esperienza, avvertita in tutto il suo spessore, s’innesta la domanda religiosa, come progressiva consapevolezza di fondamentale aspirazione alla trascendenza, al dialogo con Dio.
Il dialogo che si instaura nella fede offre una traccia diversa, straordinariamente illuminante al vivere quotidiano: legge la realtà sotto lo stimolo e alla luce chiarificatrice della Parola di Dio.
Recentemente l’attenzione alla situazione consueta di vita ha suscitato nella Chiesa una vocazione singolare – la consacrazione negli Istituti secolari -: una dedizione piena al saeculum appunto per leggerlo alla luce di Dio.
O meglio per esplorare i segni della sua presenza nella consuetudine quotidiana.
Interpreta il presagio per rivelare il volto che si cela dietro il presagio.
Parte dunque dal mondo per leggere la propria esperienza interiore: constatarvi e far emergere le tracce della sua arcana presenza nella trama sottile della quotidianità.
Sul far della sera, sulla panchina al margine della strada che circonda la Casa, di fronte alla distesa della campagna, al rumore vasto e sordo del Raccordo Anulare, al trepidare indefinito della natura, la brezza sottile di aria tiepida mi risveglia al richiamo dell’ora che trascorre e vorrei fermare, per fissare l’attimo che vivo nella suggestione della sera, del giorno e della… vita.
Il ritorno calmo sulla propria vita, sull’attimo e la sua pienezza, sulla brezza che mi sfiora sono un dono; sottendono un indefinito senso di benessere che avvolge, quasi rechi il sorriso di una presenza amica e arcana.
Piccola cosa la brezza ma la sua percezione sottile e vibrante diventa sensazione che attraversa la persona, la risveglia a consapevolezza dell’esistenza che fluisce, pur scandita da piccole situazioni, per lo più inavvertite.
La brezza mi sfiora, mi consente di percepirmi vivo, situato in un mondo in cui sono immerso, che è il mio mondo, di cui posso godere e di cui di fatto godo: mi appartiene.
Le cose di cui è popolato, le persone che lo animano entrano come componenti preziose e sempre nuove in un orizzonte che mi identifica: posso portare l’attenzione su qualcuna di loro, dare accesso privilegiato a chi voglio, godere della sua presenza o sottrarmi al suo richiamo.
Il momento che vivo ha uno spessore singolare, di cui per lo più non mi accorgo.
Cosa significa viverlo in pienezza? Raccogliere le fila complesse che si intersecano, privilegiando una certa configurazione che liberamente elaboro…?

Vita consacrata Parola di Dio vissuta

La testimonianza profetica della vocazione dei consacrati e delle consacrate si fonda sull’amore di Gesù, che ha trasformato le loro esistenze, e richiama la stessa passione evangelica di san Paolo, come ha affermato Benedetto XVI il 28 giugno 2008 nei primi vespri dei santi apostoli Pietro e Paolo: l’apostolo Paolo “ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore e rivela quale sia la molla più intima della sua vita.
“(…) Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Lettera ai Galati 2, 20).
Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro.
La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; (…) è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma.
La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo.
La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore”.
È questo anche il movente che spinge ogni persona consacrata a donarsi a Dio e ai fratelli e che compendia tutta un’ampia riflessione sul valore fondante dell’amore per l’identità del cristiano e connota ancor più coloro che si donano al Signore alla radice stessa della loro vocazione e semplicemente li fa essere servi per amore del Vangelo.
Un fatto che certamente segnò la svolta decisiva nella vita di san Paolo fu l’evento di Damasco, l’incontro sconvolgente del giovane Saulo, feroce persecutore della Chiesa, con Gesù di Nazareth, che gli si manifestò con le parole: “(…) Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?…
Io sono Gesù che tu perseguiti!” (Atti degli Apostoli, 9, 4-5), rivelazione divina che lo trasformò in apostolo e missionario delle genti.
Tale cristofania sulla via di Damasco operò la conversione di san Paolo e fu l’investitura divina della sua missione, quale annunciatore del vangelo ai pagani.
Egli dirà nella Lettera ai Filippesi: “(…) Sono stato conquistato da Gesù Cristo” (3, 12), e da colui che “si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Lettera ai Galati 1, 15-16).
È sempre il Signore che fa breccia nel cuore di ogni consacrato, chiamandolo alla comunione personale con lui e guidandolo in un’esistenza trasformata dal suo amore.
La persona consacrata nel suo rapporto dialogico con Dio diventa così “epifania dell’amore di Dio nel mondo” (Vita consecrata, cap.
III) e può ripetere con san Paolo: “Per me (…) il vivere è Cristo” (Lettera ai Filippesi 1, 21), perché “l’amore del Cristo ci spinge” (Seconda lettera ai Corinzi 5, 14).
La vita fatta donazione di amore, che le persone di vita consacrata vivono tramite i consigli evangelici, trova la sua sorgente e la sua forza nell’ascolto della Parola di Dio.
Sul terreno dell’esperienza, infatti, tra i consacrati si avverte un notevole impulso verso la Bibbia come desiderio di ascoltare la Parola di Dio, per cui l’incontro con il Vangelo è la categoria privilegiata attraverso cui presentare la fede cristiana all’uomo d’oggi.
L’incontro con la Parola diviene così un fatto esistenziale interpersonale e un’esperienza religiosa da vivere.
Il recente Sinodo dei Vescovi afferma: “La vita consacrata nasce dall’ascolto della Parola di Dio e accoglie il Vangelo come sua norma di vita.
Alla scuola della Parola, riscopre di continuo la sua identità e si converte in evangelica testificatio per la Chiesa e per il mondo.
Chiamata ad essere “esegesi” vivente della Parola di Dio, essa stessa è una parola con cui Dio continua a parlare alla Chiesa e al mondo” (Proposizione 24).
In questo cammino con la Parola di Dio le persone di vita consacrata, come esorta il concilio Vaticano ii, “abbiano quotidianamente tra le mani la Sacra Scrittura, affinché dalla lettura e dalla meditazione dei Libri sacri imparino “la sovreminente scienza di Gesù Cristo” (Filippesi 3, 8)” (Perfectae caritatis, n.
6) e trovino rinnovato slancio nel loro compito di educazione e di evangelizzazione specie dei poveri, dei piccoli e degli ultimi con il Vangelo “promuovendo nei modi consoni al proprio carisma scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della Scrittura” (Vita consecrata, n.
94).
Il Testo biblico deve diventare oggetto di quotidiana ruminatio e di confronto per un discernimento personale e comunitario in modo tale che Dio possa tornare, secondo le parole di sant’Ambrogio, a passeggiare con l’uomo come nel paradiso terrestre.
Specie la lettura orante della Parola di Dio (lectio divina), fatta insieme dalle persone consacrate, diventa il luogo per una rinnovata crescita vocazionale e un valido ritorno al Vangelo e allo spirito dei fondatori auspicato dal Vaticano ii e sempre riproposto dal magistero della Chiesa come afferma Giovanni Paolo II: “La Parola di Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana.
Essa alimenta un rapporto personale con il Dio vivente e con la sua volontà salvifica e santificante.
È per questo che la lectio divina, fin dalla nascita degli Istituti di vita consacrata, in particolar modo nel monachesimo, ha ricevuto la più alta considerazione.
Grazie ad essa, la Parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale proietta la luce della sapienza che è dono dello Spirito” (Vita consecrata, n.
94).
In particolare, le persone consacrate valorizzino il confronto comunitario con la Parola di Dio, che recherà comunione fraterna, gioiosa condivisione delle esperienze di Dio nella loro vita e faciliterà loro una crescita nella vita spirituale.
Molti sono stati i riferimenti alla vita cristiana e alla vita consacrata che il Sinodo dei Vescovi ha fatto in riferimento alla Parola di Dio.
Una delle sottolineature più importanti emerse nell’Assemblea sinodale è stata quella relativa alla necessità di comprendere il senso e la dimensione dell’espressione “Parola di Dio” con il suo concetto analogico.
La Parola di Dio non va semplicemente identificata con le Sacre Scritture, testimonianza privilegiata della Parola, perché la Parola precede ed eccede la Bibbia stessa.
La Parola, infatti, è essenzialmente una Persona, è Gesù Cristo, di cui il versetto di Giovanni 1, 14 sull’incarnazione, è la sintesi della fede cristiana.
Il cristianesimo non è la religione del libro, ma la religione della Persona, di Gesù Cristo evento centrale della storia umana, che offre a tutti i credenti la chiave ermeneutica per comprendere le Scritture.
Naturalmente il contesto adeguato e privilegiato per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia ecclesiale, in particolare l’Eucaristia, dove la Chiesa vive l’unità dei due Testamenti e celebra la presenza del Cristo vivo, che svela il senso delle Scritture Sante.
È in questo contesto che la comunità di fede, aperta a tutta la Tradizione viva della Chiesa, continua a nutrire il popolo di Dio nell’unica mensa della Parola e del Pane eucaristico.
Un contributo tra i più incisivi del Sinodo è stato quello di approfondire una riflessione teologica per situare con chiarezza la Scrittura nell’ambito teologico che le spetta, quello della sacramentalità, per cui il Libro sacro è totalmente relativo al mistero della Parola e ne è mediazione efficace.
Da questo ruolo sacramentale della Bibbia sono seguite alcune attuazioni pastorali: il rapporto tra Bibbia e liturgia, dove la Scrittura trova nel contesto liturgico il proprio luogo di annuncio, di ascolto e di attuazione; il rapporto tra Bibbia e comprensione teologica, per cui l’esegesi scientifica si deve aprire al progetto di salvezza, che trova il suo centro in Cristo sapendo valorizzare il dialogo tra esegeti, teologi e pastori; infine, il rapporto tra Bibbia e Chiesa, in quanto la Tradizione vivente precede il Libro, gli offre l’ambiente vitale, grazie anche al magistero.
Benedetto XVI, infatti, ha affermato: “La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica”.
Un altro tema che ha suscitato vasto interesse tra i padri sinodali è stato quello della predicazione e specie dell’omelia, che dovrebbe essere mistagogica, cioè portare i fedeli presenti alla celebrazione ad un incontro di esperienza e di conversione con la persona del Signore e ad avvicinare ogni credente al mistero pasquale di Cristo.
In questa luce la Proposizione 15 sull’omelia recita: “Essa conduce al mistero che si celebra, invita alla missione e condivide le gioie e i dolori, le speranze e le paure dei fedeli (…).
L’omelia deve essere nutrita di dottrina e trasmettere l’insegnamento della Chiesa per fortificare la fede, chiamare alla conversione nel quadro della celebrazione e preparare all’attuazione del mistero pasquale eucaristico”.
Per questo il Sinodo ha rivolto a tutti un caldo invito all’incontro vitale e diretto con la Scrittura perché da questa nasca “una nuova stagione di più grande amore per la Sacra Scrittura da parte di tutti i fedeli del popolo di Dio, cosicché dalla loro “lettura orante” e fedele nel tempo si approfondisca il rapporto con la persona stessa di Gesù”.
Il Sinodo, dunque, è stato un’esperienza che ha fortemente richiamato tutta la Chiesa, e in particolare le persone religiose impegnate nel campo della vita apostolica, al primato della Parola di Dio nell’annuncio e nella vita di fede, sottolineando sia la ricerca esegetico-teologica della Bibbia, che fa cogliere “il senso spirituale” del Testo sacro e permette di giungere al contenuto delle Scritture secondo il principio dell’ispirazione che anima l’intera Bibbia, sia una pastorale intimamente ancorata alla Parola di Dio e a un accesso comprensibile dei credenti al Libro sacro, accompagnato dall’azione dello Spirito Santo, che è il vero esegeta delle Scritture.
Il messaggio della Conferenza episcopale italiana per la Giornata mondiale della vita consacrata del 2 febbraio 2009 esorta le persone consacrate a un rinnovato e generoso slancio apostolico, affermando: “Questa Giornata sia per tutti i consacrati e le consacrate l’occasione per rinnovare l’offerta totale di sé al Signore nel generoso servizio ai poveri, secondo il carisma dell’Istituto di appartenenza.
Le comunità monastiche e religiose siano oasi nelle quali si vive il primato assoluto di Dio, della sua gloria e del suo amore, nella gioia della comunione fraterna e nella dedizione appassionata ai poveri, agli ultimi, ai sofferenti nel corpo e nello spirito”.
Si tratta, in conclusione, di abbandonarsi alla lode silenziosa del cuore in un clima di semplicità e di preghiera adorante come ha fatto Maria, la Vergine dell’ascolto e della Parola: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Luca 1, 38), perché tutte le Parole di Dio si riassumono e vanno vissute nell’amore (cfr.
Deuteronomio 6, 5; Giovanni 13, 34-35).
(©L’Osservatore Romano – 1 febbraio 2009) Particolare significato acquista quest’anno la 13 Giornata mondiale della vita consacrata, il 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore.
Essa si celebra infatti nell’Anno di san Paolo, apostolo e missionario del Vangelo, e pochi mesi dopo il Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”.
Già Giovanni Paolo II nel Messaggio per la prima Giornata della vita consacrata aveva sottolineato il valore biblico della collocazione di tale celebrazione nella ricorrenza liturgica della Presentazione di Gesù al Tempio, in quanto il racconto biblico “costituisce un’eloquente icona della totale dedizione della propria vita per quanti sono chiamati a riprodurre nella Chiesa e nel mondo, mediante i consigli evangelici, “i tratti caratteristici di Gesù vergine, povero ed obbediente”” (Vita consecrata, n.
1).
La vita consacrata, per il fatto di ripresentare la forma di vita di Cristo, è Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo.
Se è vero inoltre che la Chiesa si riconosce sommamente realizzata nella donazione di sé a Cristo, la vita consacrata rappresenta questo vertice ecclesiale e quindi Parola vissuta, cioè pronunciata e accolta con la vita, segno della presenza di Cristo e del mistero della Chiesa.
Tale ricorrenza, inoltre, è motivo per ringraziare il Signore per il dono delle persone consacrate che con la loro vita di conformazione a Cristo, di testimonianza al Vangelo e con la loro generosa disponibilità ad annunciarlo nei vasti campi della missione attraverso i diversi servizi carismatici, sono portatori, come lo fu l’apostolo Paolo, della bellezza di Dio e dei doni che lo Spirito del Signore diffonde nel loro genere di vita.