In attesa del regolamento sulla valutazione

Torniamo sul tema della valutazione perché rispetto al nostro ultimo intervento di tre mesi fa si sono avute parecchie novità e il quadro deve essere aggiornato.
Il decreto Gelmini è divenuto legge 169/08 ed ha perduto nel corso della conversione in legge quella formula che lasciava aperta la strada all’implicita abrogazione dell’art.
309 del Testo Unico nella parte che vieta l’uso del voto numerico per l’Irc.
La legge rinvia ora solo ad un regolamento che dovrebbe coordinare le norme vigenti e stabilire eventuali ulteriori modalità applicative della norma.
Una prima bozza di questo regolamento è in circolazione da qualche settimana ed è stata già sottoposta al parere del CNPI che non ha potuto fare a meno di rilevarne diverse incongruenze.
Ampio spazio nel regolamento è dedicato proprio alla valutazione dell’Irc, ribadendo però le disposizioni già in vigore e cadendo in alcuni errori e contraddizioni.
Vedremo quale effetto avranno le osservazioni del CNPI, che nel suo parere ha rivendicato anche «la necessità di garantire la pari dignità di tutti gli insegnanti, […] in modo da evitare inaccettabili differenziazioni tra gli insegnanti di educazione fisica e religione e gli altri insegnanti».
Va infatti notato che inopinatamente il regolamento esclude anche il voto di educazione fisica dalla media finale.
In attesa di conoscere la veste definitiva che assumerà il regolamento, per ora ci limitiamo a segnalarne alcuni aspetti, rinviando i lettori al testo provvisorio completo (vedi pdf allegato) per una maggiore informazione.
L’errore più grossolano è quello di far discendere il divieto di voto in decimi dalla scheda separata di valutazione (art.
7, c.
1).
Come è  noto, quest’ultima venne introdotta nel 1986 da un ordine del giorno della Camera, mentre il divieto di voto risale alla legge 824 del 1930.
Le contraddizioni riguardano il voto sul comportamento e la determinazione dei crediti scolastici, da cui l’Idr sembra essere una volta escluso (art.
3, c.
6 e art.
6, c.
6) e una volta compreso (art.
7, c.
2), nonché la partecipazione allo scrutinio finale che risulta essere una volta piena (art.
7, c.
2) e una volta limitata in base alla parziale citazione della nota clausola introdotta dalla revisione dell’Intesa nel 1990 (art.
7, c.
3).
Sicuramente il testo definitivo provvederà ad eliminare queste incongruenze, ma vorremmo sperare che si avesse il coraggio di innovare davvero il sistema di valutazione rivedendo le posizioni fin qui consolidatesi sulla base di una acritica assunzione di norme vecchie e superate.
Al divieto di voto è poi abbinato il divieto di esame, che non è ora in discussione perché la legge 169/08 ha solo riproposto il problema del voto numerico, ma – forse anche più dell’uso del voto – il divieto di esame va ad incidere sull’effettiva rilevanza scolastica dell’Irc, nonostante gli sforzi messi in atto negli ultimi venticinque anni per collocare con sempre maggiore credibilità l’Irc nel quadro delle finalità della scuola mediante l’adozione di programmi didattici aggiornati e coerenti con l’impostazione delle innovazioni di volta in volta introdotte nel sistema scolastico.
Mentre l’Idr partecipa alla valutazione degli alunni che si avvalgono dell’Irc e quindi determina la delibera collegiale sull’esito finale dell’anno scolastico, la valutazione da lui espressa sulla propria disciplina rimane per certi aspetti sottratta a quella collegialità che dovrebbe essere garanzia di equità e giustizia per tutti gli alunni: in mancanza di un esame, inteso come occasione di verifica pubblica della congruità della valutazione, il giudizio espresso dall’Idr diventa quasi un affare privato tra lui e l’alunno, tale da poter essere sottratto alla procedura di controllo collegiale, dato che manca la possibilità ad altri insegnanti di sindacare il giudizio del collega, quando invece possono farlo con i colleghi di altre materie di cui pure non sono competenti.
Per l’Irc, infine, l’esame sarebbe l’occasione per rendere conto – a sé, alla scuola e all’utenza – dello svolgimento effettivo dei contenuti didattici prescritti e dell’apprendimento prodotto negli alunni.

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Polemiche su precari e Irc   Sergio Cicatelli     Il 18 novembre scorso il Senato ha definitivamente approvato e convertito in legge il decreto legge 25-9-2009, n.
134, principalmente dedicato alle garanzie da offrire ai precari che – per via dei tagli operati sull’organico dei docenti – non hanno visto confermata quest’anno la supplenza annuale ricevuta l’anno precedente.
La disposizione ha mobilitato il mondo politico e sindacale, ma non intendiamo qui entrare nel merito del provvedimento, preferendo piuttosto segnalare come gli Idr siano stati coinvolti indirettamente nel dibattito che ha accompagnato l’iter legislativo.
Uno dei punti più controversi del decreto legge è stato il primo comma dell’articolo 1, in cui si diceva inizialmente che i contratti dei supplenti «non possono in alcun caso trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e consentire la maturazione di anzianità utile ai fini retributivi prima della immissione in ruolo».
In sede di conversione in legge, il comma è stato modificato consentendo che i contratti di supplenza possano trasformarsi in contratti a tempo indeterminato «solo nel caso di immissione in ruolo».
A prescindere dall’opportunità della modifica e delle polemiche che la prima formulazione ha innescato, si vuole richiamare l’attenzione sul fatto che nel corso del dibattito alla Camera si è più volte tornati sul caso degli Idr non di ruolo, unico esempio di precari cui oggi è consentito accedere a una progressione economica ai sensi dell’art.
53 della legge 312/80 o ad avanzamenti biennali.
Va peraltro notato che la condizione degli Idr era contenuta nella documentazione tecnica fornita ai parlamentari dall’ufficio legislativo della Camera, e l’on.
Maurizio Turco (componente radicale del PD) ha colto l’occasione per presentare alcuni emendamenti volti a ridurre i benefici per gli Idr.
L’oggetto del contendere è stato soprattutto l’art.
53 della legge 312/80, ora dato per abrogato e ora considerato ancora vigente: poiché da esso discende il trattamento economico degli Idr, la disputa è stata sulle garanzie da estendere a tutti i precari o da riservare ai soli Idr.
Di fatto la modifica infine introdotta non ha affrontato il problema, confermando implicitamente il trattamento economico degli Idr ma lasciando traccia negli atti parlamentari della loro equivoca condizione.
Nel passaggio al Senato si è avuta anche la presentazione di un ordine del giorno da parte dei senatori Donatella Poretti e Marco Perduca (componente radicale del PD), volto a parificare il trattamento giuridico ed economico degli Idr a quello degli altri docenti, svincolandone anche l’assunzione dal riconoscimento di idoneità da parte dell’autorità ecclesiastica.
È evidente l’intento provocatorio della proposta (che infatti non è stata neanche messa ai voti in quanto improponibile), ma pare il caso di sottolineare come la condizione degli Idr sia stata ancora una volta presentata come causa di difficoltà e motivo di discriminazioni, richiamando anche un precedente ricorso presentato sul tema alla Commissione Europea.
Il ricorso, promosso dallo stesso sen.
Turco, lamentava la presunta violazione della Direttiva europea n.
2000/78 del 27-11-2000, che mira a «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (art.
1).
Dato che per accedere all’Irc occorre l’idoneità ecclesiastica, non ci sarebbe parità di trattamento in quanto l’accesso sarebbe condizionato all’appartenenza religiosa.
Ma la stessa Direttiva, all’art.
4, chiarisce che «gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».
È dunque evidente che per insegnare religione “cattolica” sia necessaria l’approvazione dell’autorità ecclesiastica corrispondente.
Ciò rivela tutta la pretestuosità del ricorso, che la Commissione Europea ha infatti riconosciuto infondato.
Ne troviamo tuttavia traccia in un’interrogazione proposta qualche tempo fa dalla sen.
Luciana Sbarbati (PD), che raccoglieva tutta una serie di presunte irregolarità collegate alla gestione dell’Irc e degli Idr, tra cui la storia del loro trattamento economico privilegiato.
Visto il periodico ripresentarsi di certe tesi, ci sembra di poter immaginare che un “pacchetto Irc” circoli nei corridoi parlamentari in attesa di cogliere l’occasione, opportuna e inopportuna, per ripresentare il suo bagaglio di disinformazione e di vis polemica.
Questa volta è toccato al decreto sui precari, ma probabilmente non è l’ultima puntata.