Benedetto XVI missionario in Africa

 

Tra quaranta giorni Benedetto XVI farà una puntata in Africa, nel Benin.

L’Africa subsahariana è il continente che nell’ultimo secolo ha registrato il più impressionante aumento dei cristiani. Erano 7 milioni nel 1900, sono 470 milioni oggi. Di essi, più di 170 milioni appartengono alla Chiesa cattolica.

Il 20 novembre, a Cotonou, papa Joseph Ratzinger firmerà l’esortazione apostolica scaturita dal sinodo speciale del 2009 dedicato all’Africa, e la consegnerà ai rappresentanti dei vescovi del continente.

In un pontificato che vuole dare slancio a una “nuova evangelizzazione” soprattutto nelle regioni di antica presenza della Chiesa oggi scristianizzate, continua infatti a essere viva anche la volontà di annunciare la fede cristiana là dove essa non è mai arrivata.

Non è la prima volta che la Chiesa cattolica risponde così – con un rinnovato slancio missionario “fino ai confini della terra” – all’offensiva di una cultura che erode la fede nei paesi di antica cristianità.

Nel saggio riportato più sotto, lo storico Gianpaolo Romanato mostra come l’ultima grande espansione missionaria della Chiesa cattolica in Africa, in Asia e in Oceania sia avvenuta proprio dopo la Rivoluzione francese e in reazione all’incalzare in Europa di una cultura e di poteri ostili al cristianesimo.

Oggi, tuttavia, dentro la stessa Chiesa c’è chi avanza delle obiezioni contro il riandare in missione “secondo il vecchio stile”. Benedetto XVI, nel discorso prenatalizio alla curia romana del 21 dicembre 2007, riassunse così tali obiezioni:

“È lecito ancora oggi ‘evangelizzare’? Non dovrebbero piuttosto tutte le religioni e concezioni del mondo convivere pacificamente e cercare di fare insieme il meglio per l’umanità, ciascuna nel proprio modo?”.

Il papa rispose che sì, è giusta un’azione comune tra le diverse religioni “in difesa dell’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana per l’edificazione di una società più giusta e solidale”. E a questo dedicherà l’incontro di preghiera ad Assisi del prossimo 27 ottobre.

Ma aggiunse subito che ciò non vieta – anzi! – che Gesù sia annunciato a tutti i popoli:

“Chi ha riconosciuto una grande verità, chi ha trovato una grande gioia, deve trasmetterla, non può affatto tenerla per sé. […] In Gesù Cristo è sorta per noi una grande luce, ‘la’ grande Luce: non possiamo metterla sotto il moggio, ma dobbiamo elevarla sul lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”.

Ma ritorniamo all’epopea missionaria dell’Ottocento. Il profilo che ne traccia Romanato può essere una lezione anche per i cattolici d’oggi. Da un evento – l’offensiva laicista – che la Chiesa di quel tempo giudicò catastrofico scaturì un’espansione straordinaria della fede cristiana nel mondo.

Romanato insegna storia contemporanea all’Università di Padova e si definisce “uno studioso laico che è abituato a ragionare laicamente”.

Ha letto questa sua relazione a un convegno a Subiaco, il 6 ottobre 2011. E lo stesso giorno “L’Osservatore Romano” l’ha pubblicata.

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PRIMAVERA MISSIONARIA

di Gianpaolo Romanato

Le missioni furono la grande scoperta e la grande speranza della Chiesa dell’Ottocento.

Scoperta perché la missione in età postrivoluzionaria, rivolta ai popoli nuovi di Africa, Oceania, Asia e delle due Americhe, non garantita dalle strutture del patronato statale in vigore nell’ancien régime, fu sostanzialmente diversa da quella del periodo prerivoluzionario.

Speranza perché di fronte al nuovo nemico rappresentato dalla modernità e dall’organizzazione dello Stato liberale, la conquista di popolazioni sconosciute e mai toccate dal cristianesimo apparve come una nuova frontiera, un’imprevista possibilità di rifondazione del messaggio cristiano, una rivincita dopo le ripetute sconfitte patite in Europa.

Questa proiezione missionaria avvenne sotto l’egida della più rigida cultura controrivoluzionaria, a partire dal papa che per primo se ne fece interprete e banditore, Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Cappellari, monaco camaldolese originario di Belluno, che prima dell’elezione era stato per cinque anni prefetto di Propaganda Fide.

Egli, mentre impostò con le encicliche “Mirari vos” (1832) e “Singulari nos” (1834) le linee portanti di quella che per un cinquantennio sarebbe rimasta l’intransigenza cattolica antimoderna, avviò anche la rinascita delle missioni con una serie di iniziative che vanno dalla fondazione di quarantaquattro vicariati apostolici nelle terre nuove alla promulgazione dell’enciclica “Probe nostis” (1840), il manifesto della nuova missionarietà.

La cosiddetta “primavera missionaria” ottocentesca nasce così da radici culturali opposte a quelle della modernità.

Che lo slancio della Chiesa verso i popoli nuovi derivasse da un desiderio di rivalsa nei confronti dell’ondata laicizzatrice liberale dilagante in Europa, emerge dalle parole stesse di papa Gregorio XVI. L’enciclica iniziava, infatti, ricordando le “sventure” che opprimevano la Chiesa “da ogni parte”, gli “errori” che ne minacciavano la sopravvivenza. Ma, “mentre per un verso dobbiamo piangere – scriveva il papa – dall’altra parte dobbiamo rallegrarci dei frequenti trionfi delle missioni apostoliche”, trionfi che dovrebbero suscitare “maggiore vergogna” in “coloro che la perseguitano”. Questa contrapposizione diventerà uno dei fili conduttori della storia missionaria, conficcata fin dall’inizio nel più tipico filone intransigente, controrivoluzionario.

Ma non solo la cultura missionaria, bensì anche il personale che la realizzò provenne da una cultura fondamentalmente “ultramontana”, di scontro, estranea al mito ottocentesco della nazione che fu invece uno dei grandi alvei in cui si sviluppò la rivoluzione della modernità, di cui il colonialismo ottocentesco fu una delle espressioni.

È importante tenere presente questo sfondo intellettuale e teologico, che conferma, se ce n’è bisogno, la complessità e l’imprevedibilità della storia. Nel caso di cui ci stiamo occupando la novità non è figlia della rivoluzione ma della reazione, cioè di una cultura che normalmente non apre al futuro ma induce a rifugiarsi nel passato. L’elemento vincente della cultura missionaria fu, infatti, proprio la sua estraneità al mito della nazione.

UNIVERSALISMO CRISTIANO

I missionari che sciamarono per il mondo possedevano molto più il senso della Chiesa che il senso della patria. Si sentivano figli e difensori di una Chiesa perseguitata e costretta sulla difensiva dal liberalismo, dalle rivoluzioni nazionali. Ciò accentuò la loro estraneità rispetto alle idee politiche ottocentesche e rafforzò l’identificazione con l’universalismo cristiano. Le missioni non nascono italiane, francesi o tedesche, nascono cattoliche, figlie di una Chiesa ricompattata attorno a Roma e ormai distaccata dalle vecchie Chiese nazionali prerivoluzionarie, nascono in rotta di collisione con quegli ideali di grandezza e di potenza che mossero le potenze europee a conquistare e ad annettere i continenti nuovi.

Queste considerazioni valgono in particolare per i missionari italiani, quelli più vicini, anche geograficamente, a Roma e al nuovo spirito della cattolicità.

Il missionario italiano si sentì prevalentemente uomo di Chiesa, portatore di un disegno di evangelizzazione, come diremmo oggi, potenzialmente universale, non condizionato da interessi politici o nazionali. Negli istituti italiani sorti nel XIX secolo e dediti esclusivamente ad attività missionaria – dalle missioni africane di Verona fondate da Daniele Comboni al Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), dai saveriani ai missionari della Consolata – l’ideologia nazionale, o nazionalistica, è quasi inesistente. Predomina invece l’ansia apostolica, che diventa più forte e impellente quanto più le vicende politiche italiane sembrano riservare alla Chiesa in Italia un futuro incerto e difficile.

Sono proprio queste difficoltà che rafforzano il loro senso di appartenenza alla Chiesa, al di sopra del sentimento patriottico, il desiderio di aprirle strade nuove presso popoli lontani, non ancora toccati dal cristianesimo, l’ansia di trovare una “missione vergine” dove il Vangelo non fosse ancora arrivato, e fosse possibile predicarlo senza contaminarlo con interessi politici, ideologici.

Nelle “Regole” del PIME è detto che “l’Istituto fin dal principio mirò ad avere missioni proprie tra le popolazioni più derelitte e più barbare”. La speranza e l’ideale di questi istituti è quello di rifondare il cristianesimo il più lontano possibile dalla vecchia Europa, dalle sue divisioni e dai suoi interessi.

Analoga l’intenzione di Comboni, che imitò l’istituto lombardo pensando esclusivamente all’Africa come alla “più infelice e certo la più abbandonata parte del mondo”. In lui fu sempre chiarissima la consapevolezza che l’opera missionaria sarebbe stata tanto più efficace quanto più libera da fattori politici. La missione “deve essere cattolica, non già spagnola, o francese o tedesca o italiana”, non si stancava di ripetere. Egli conosceva perfettamente le associazioni e gli istituti missionari europei, per averli visitati e frequentati, e lamentava che in Francia “lo spirito di Dio” fosse ancora troppo condizionato dallo “spirito di nazione”.

Ma neppure in Francia il condizionamento della nazionalità impedì di vedere chiaramente che le missioni dovevano tenersi lontane dalla politica degli Stati cui appartenevano i missionari, come scrisse con grande lucidità il superiore francese della missione in Eritrea al governatore Ferdinando Martini, quando si stava preparando l’espulsione di missionari transalpini dalla nostra colonia: “Per noi non esiste che una sola parola: la Missione Cattolica, siano i membri che la compongono francesi, italiani, tedeschi o inglesi”.

TRA MISSIONE E COLONIZZAZIONE

L’intreccio fra missione e colonialismo è complesso. I due fenomeni sono paralleli, contemporanei e interdipendenti, tanto in età moderna quanto in età contemporanea.

In età moderna i missionari giungono nelle Americhe e in Asia sulle navi dei colonizzatori, protetti dalle medesime leggi, imbrigliati nei vincoli del patronato statale. E la situazione non è diversa nelle aree del globo, in particolare il Nord America oggi canadese, all’epoca sotto controllo francese. Ma tanto la Santa Sede quanto gli ordini religiosi impegnati nelle missioni non tardano a entrare in conflitto con il potere politico e a cercare spazi di autonomia.

Roma fonderà la potente congregazione di Propaganda Fide, nel 1622, proprio allo scopo di riportare, dovunque fosse possibile, le missioni sotto il controllo ecclesiastico, anche tramite abili espedienti canonici come l’istituto dei vicari apostolici, vescovi dipendenti direttamente da Roma, vescovi cioè “in partibus”, che rispondevano del loro operato alla sede apostolica e non all’autorità politica.

I vicari apostolici furono utilizzati in particolare nel tentativo di aggirare il patronato portoghese. Nel caso del patronato spagnolo il modo per sfuggire al vincolo statale consistette nell’avvio di esperimenti di evangelizzazione svincolati dalla giurisdizione della corona di Madrid, in territori posti fuori o ai margini dalla sua giurisdizione.

In questo secondo caso va ricordato l’esperimento delle Riduzioni fra i guaraní del Paraguay (ma in realtà allargato anche ad altre aree e popolazioni sudamericane). Le Riduzioni erano missioni totalmente sotto controllo della Compagnia di Gesù, sulle quali la corona di Spagna non aveva quasi nessun potere. Sappiamo però che esse crollarono quando Spagna e Portogallo riordinarono i confini e privarono le missioni degli spazi di autonomia di cui avevano goduto per un secolo e mezzo. Non sempre Propaganda Fide riuscì a realizzare gli intendimenti per cui era sorta, neppure con l’espediente dei vicari apostolici.

Per tutta l’età moderna, insomma, missione e colonizzazione vissero una difficile coabitazione, spesso conflittuale.

In età contemporanea notiamo caratteristiche analoghe. Missioni e colonie vanno insieme, sia pure con sfasature non prive di importanza. In genere la missione precede la colonia e spesso si dirige in territori estranei o ai margini della colonizzazione: l’Oceania dove operò il PIME, la Patagonia dove si insediarono i salesiani.

Ma le coincidenze, nonostante queste sfasature, non devono impedirci di notare le diversità.

Nell’Ottocento e nel Novecento i missionari imparano le lingue locali, operano non sovrapponendosi alle culture autoctone ma penetrandole dall’interno, favoriscono la nascita di clero e gerarchie locali, seguendo le direttive romane emanate fin dalla famosa Iistruzione ai vicari apostolici del Tonchino del lontano 1659 – un documento pontificio lungimirante, più citato che conosciuto –, ribadite in tutte le successive direttive pontificie e riprese dalla enciclica “Maximum illud” di Benedetto XV del 1919. Mentre la colonia è una conquista di territori, spazi e risorse, un’operazione di potere, la missione è un tentativo di innesto del cristianesimo senza alterare le culture locali.

Non sempre l’operazione fu portata avanti con la necessaria chiarezza, ma l’intenzione era questa. Comboni dirà che la presenza missionaria nella “Nigrizia” – come si definiva allora l’Africa – doveva durare fino a quando fosse nata una cattolicità locale, poi sarebbe dovuta cessare. È esattamente ciò che è avvenuto in Sudan, il territorio della sua missione, dove esiste oggi una gerarchia sudanese, alle dipendenze della quale operano i missionari comboniani. “Salvare l’Africa con l’Africa” fu il suo motto, che esprime appunto tale intenzione. Arrivare, cristianizzare, creare una Chiesa locale e poi venire via.

Se osserviamo a posteriori la storia del colonialismo europeo, notiamo più chiaramente la differenza fra colonialismo e missione. Il colonialismo è esploso lasciando macerie che hanno devastato, e continuano a devastare, i continenti extra-europei. La missione non è esplosa, è sopravvissuta all’età coloniale, si è trasformata e ha dato vita alle cosiddette giovani Chiese, con clero e gerarchia indigeni.

Oggi nel sacro collegio sono presenti decine di cardinali provenienti da Paesi africani o asiatici che furono colonie fino al secondo dopoguerra. Le missioni sono servite a dilatare il cattolicesimo su scala planetaria e a inculturarlo nei popoli nuovi.

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Il programma del prossimo viaggio africano di Benedetto XVI:

> Viaggio Apostolico in Benin, 18-20 novembre 2011

Ritorna il Cortile dei gentili

Il Cortile dei Gentili ritorna in un autunno ricco di incontri. Innanzitutto con l’appuntamento di Bucarest l’11 e il 12 ottobre. Il cardinale Gianfranco Ravasi, in visita in Romania come ministro della cultura del Vaticano, oltre i colloqui e dibattiti previsti riceverà un dottorato honoris causa all’università della capitale rumena. Alla sua lectio magistralis seguirà un dialogo con il fisico  e filosofo Horia-Roman Patapievici. E poi, il 12, vi saranno cinque interventi di intellettuali rumeni sull’argomento «Umanesimo e spiritualità». Il sottotitolo di queste relazioni è una domanda stimolante: «È possibile un dialogo sulla trascendenza?».
Ravasi ci confida: «Ho intenzione a Bucarest di intervenire in questi grandi eventi su Cioran e Ionesco, figure ideali di un agnosticismo o ateismo segnato profondamente dalla domanda». Si sofferma su una frase di Cioran: «Mi sono sempre aggirato attorno a Dio come un delatore.
Incapace di invocarlo, l’ho spiato». E precisa: «Vorrei presentare la figura di colui che si aggira attorno al cortile dei credenti e ne cerca quasi il centro. Anche se in un altro suo testo giunge al paradosso secondo cui “il nome di Dio è il Nulla, cioè Tutto”. Lui per tutta la vita quell’opera di spionaggio l’ha condotta». Inoltre, dicevamo, Ionesco. Il cardinale aggiunge: «Lo presenterei cominciando da una dichiarazione che ha fatto in una intervista. Questa: “Ogni volta che il telefono suona mi precipito nella speranza, ogni volta delusa, che possa essere Dio che mi telefona. O almeno uno dei suoi angeli di segreteria”. In lui c’era continuamente la speranza di una epifania del divino. E poco prima della morte, alla fine del suo Diario, nell’ultima riga c’è una frase  folgorante.
È la risposta a quell’attesa: “Pregare Non So Chi. Spero: Gesù Cristo”».
Si ritorna con il Cortile dei Gentili a Firenze, il 17 ottobre. È una tappa obbligatoria di questo progetto. Del resto, sulle rive dell’Arno si realizzò un miracolo culturale, all’epoca di Lorenzo il Magnifico, che è paragonato a quello che avvenne nell’Atene di Pericle. In Palazzo Vecchio, nel Salone dei Cinquecento, Antonio Paolucci, Moni Ovadia, Sergio Givone, Erri De Luca, Antonio Natali e, ovviamente, il cardinal Ravasi, parleranno di «Umanesimo e bellezza ieri e oggi». Sua eminenza ricorda la caratteristica di tale incontro: «L’impegno principale che vorrei realizzare tra arte e  fede è il ritrovare la loro radicale sororità, secondo la convinzione espressa da Paul Klee: “L’arte non rappresenta il visibile, ma l’Invisibile che si cela nel visibile”». E dopo una breve pausa il  porporato precisa: «Questa è anche la meta della fede».
Il 26 ottobre, il giorno precedente l’incontro di Assisi tra il Papa e i rappresentanti delle grandi religioni (al quale sono invitati anche dei non credenti, siano essi atei e agnostici) il Cortile dei Gentili organizza una tavola rotonda all’Università di Roma Tre con Giacomo Marramao. Il tema è legato all’iniziativa del Pontefice. Per tale motivo si risponderà alla domanda: «Perché gli atei  hanno accettato l’invito del Papa?». Interverranno Julia Kristeva, Remo Bodei, il filosofo messicano Guillermo Hurtado, Anthony Graylings (dell’Accademia Reale inglese), Walter Baier (che ha  avuto incarichi nel mondo comunista) oltre al cardinale Ravasi. Il giorno 27 i relatori del Cortile dei Gentili «preparatorio» parteciperanno alla giornata con Benedetto XVI. Quest’anno gli  incontri interreligiosi di Assisi compiono il loro venticinquesimo. Con il tempo sono cresciuti, anzi rappresentano ormai un riferimento non soltanto per il mondo della fede. Il titolo scelto per il  2011 è «Pellegrini della verità, pellegrini della pace».
Il 14 e il 15 novembre sarà la volta di Tirana, ovvero l’inizio di un dialogo con l’Albania. Il Cortile dei Gentili comincerà la sera sul sagrato della cattedrale — un po’ come si era fatto lo scorso  marzo a Notre Dame a Parigi — e affronterà tre temi: «Lavoro», «Spiritualità», «Informazione e comunicazione». Le relazioni, il giorno seguente, si terranno all’Università statale di Tirana e nel pomeriggio in un ateneo privato, l’Università Europea. Tra i nomi non mancheranno lo scrittore Ismail Kadare e l’accademico e scienziato Luan Omari. Ai quali va aggiunto anche uno specialista di storia religiosa, oltre che deputato al parlamento: Mark Marku.
Ravasi riassume il senso dell’incontro: «Ho accettato l’invito che giungeva direttamente dall’Albania per una ragione storica: in epoca moderna questa nazione rappresenta probabilmente l’unico  Stato che poneva l’ateismo come articolo fondante della Costituzione. La richiesta è venuta dal docente di ateismo dell’Università di Tirana. Il quale insegna ancora questa materia, ma egli è  cattolico e teologo». Che dire? Anche nei Paesi dell’ex blocco comunista casi del genere non sono eccezionali.
Ravasi precisa a tale proposito: «Avendo continuamente contatti con persone che ignorano o rifiutano la fede, rimango sempre più convinto della dichiarazione dello scrittore francese Pierre Reverdy, il quale affermava: “Ci sono atei di una asprezza feroce che, tutto sommato, si interessano di Dio molto più di certi credenti frivoli e leggeri”». Ci accommiatiamo da sua eminenza mentre proferisce un’ultima frase, che sarà anch’essa oggetto di riflessione. È di Giorgio Caproni: «Mio Dio perché non esisti? A furia di insistere, cerca di esistere».

 

da: Il dubbio e la fede, la scommessa di Ravasi
in “Corriere della Sera” dell’8 ottobre 2011

Lo spirito di Assisi

 

due libri delle Edizioni Qiqajon:
– Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, e Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi»
cura di Matteo Nicolini Zani

 

 

Sono trascorsi venticinque anni da quando papa Giovanni Paolo II, sorprendendo molti, anche tra i suoi più stretti collaboratori, promosse «un incontro di preghiera per la pace» da tenersi ad Assisi, luogo divenuto grazie a san Francesco «centro di fraternità universale». L’annuncio delle «consultazioni con i responsabili non solo di varie chiese e comunioni cristiane, ma anche di altre religioni del mondo» venne dato a Roma a conclusione dell’ottavario per l’unità dei cristiani. Ora, a distanza di un quarto di secolo, Benedetto XVI rilancia lo «spirito di Assisi» invitando anche  «tutti gli uomini di buona volontà» per una giornata di pellegrinaggio, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo.
Ma cosa si intende davveroper «spirito di Assisi»? Le Edizioni Qiqajon hanno pubblicato due volumi che permettono di sviscerarne il significato profondo: il primo – Il dialogo cambia la fede? di Jean-Marie Ploux, (pp. 290, € 25) – analizza le implicazioni del dialogo interreligioso nella vita e nella testimonianza della chiesa, mentre il più recente Insieme per pregare. Le religioni nello «spirito di Assisi» (a cura di Matteo Nicolini Zani, pp. 168, €16) ripercorre i testi che in questo ampio lasso di tempo, attraversato da eventi storici di grande portata, hanno alimentato la riflessione dei cristiani sui loro rapporti con le altre religioni e sul loro atteggiamento verso la pace e la giustizia. Vi troviamo innanzitutto uno spaccato delle motivazioni all’origine dell’iniziativa e una raccolta degli appelli e dei discorsi che ne precisarono il senso e il contesto.
Una seconda parte analizza le sfide che la preghiera «interreligiosa» pone, attraverso i documenti ecumenici che hanno affrontato teologicamente i vari aspetti del problema. Una rilettura del magistero di Benedetto XVI su questa tematica così decisiva per la testimonianza dei credenti nel mondo di oggi e lo status quaestionis attuale ad opera di uno dei più acuti interpreti cattolici del dialogo interreligioso, il vescovo Michael Fitzgerald chiudono la raccolta.

Dalle pagine emerge il consenso sulla possibilità di trovarsi «insieme perpregare» – cosa diversa dal più coinvolgente e impraticabile «pregare insieme» – e l’arricchimento che nasce da un sincero dialogo tra credenti. La fede non viene scossa dall’aprirsi agli altri, ma riceve anzi risorse per narrarsi in un linguaggio più comprensibile e per tradursi in un operare fecondo. Il dialogo, infatti, «non cambia la fede»: non porta cioè a un tradimento delle proprie radici, ma può mutare l’espressione e la consapevolezza del credere, a beneficio non solo di chi il dialogo lo pratica, ma anche di quanti ne raccolgono i frutti, dentro e fuori l’ambito delle singole religioni.
Perché, come ha avuto modo di scrivere il card. Etchegaray, tra i protagonisti del primo incontro: «Assisi ha fatto fare alla chiesa uno straordinario balzo in avanti verso le religioni non cristiane…

Ha permesso a uomini e donne di testimoniare, nella preghiera, un’esperienza autentica di Dio al cuore delle loro religioni». Ravvivare lo «spirito di Assisi» in un mondo disorientato e alla ricerca di senso è allora un servizio che i cristiani, insieme tra loro e con i credenti di altre religioni, possono offrire ai loro fratelli e alle loro sorelle in umanità.

 

in “La Stampa” del 1° ottobre 2011

Un ateo tra i cristiani

 


intervista a Alfred Grosser, a cura di Jérôme Anciberro

 

Politologo, specialista delle relazioni internazionali e commentatore dell’attualità politica francese e tedesca, Alfred Grosser è stato una delle colonne del riavvicinamento franco-tedesco fin  dagli anni cinquanta. Questo osservatore è anche conosciuto negli ambienti cristiani per il suo sguardo insieme critico e amichevole di ateo sul mondo della fede.

 

Lei non è né tedesco né cattolico, eppure spesso capita che la prendano per l’uno o per l’altro. Come vive questo paradosso?
È un paradosso reale. Ma anche se non faccio parte né della comunità tedesca, né di quella cattolica, mi sento partecipe della vita, delle speranze e delle delusioni degli uni e degli altri. Se parlo con un uomo politico tedesco appartenente ad una generazione un po’ anziana, lui dimentica in capo a cinque minuti che non sono tedesco. Abbiamo gli stessi punti di riferimento. Succede la stessa cosa quando discuto con un prete cattolico. Parlo la lingua della “tribù”, sono al corrente di quello che succede nella Chiesa. Insomma, ho tutti i segni esteriori di un buon parrocchiano. Mi è del resto capitato di dover far rettificare degli articoli che mi definivano tale.

Si può capire che la prendano per un tedesco, perché è nato tedesco e, come formazione, è germanista. Ma come mai succede così per il cattolicesimo?
La mia famiglia è ebrea e io personalmente sono ateo: ateo e non agnostico. Quest’ultima parola mi sembra che abbia a che fare con la civetteria o con il politicamente corretto. Un po’ come si  diceva “israelita” per non dire “ebreo”. Ma io non credo in Dio, credo in moltissime cose… La mia conoscenza del cattolicesimo si è costruita attraverso delle letture, la mia attività di “compagno di strada” dell’Azione cattolica delle gioventù francese (ACJF), la mia collaborazione a La Croix dal 1955, le mie amicizie, ad esempio con il padre gesuita François Varillon. E quando mia moglie, cattolica per nascita, ha veramente iniziato una vita di fede negli anni settanta, anch’io ho seguito gli insegnamenti da lei ricevuti al Centre Sèvres, la facoltà dei gesuiti di Parigi. Si potrebbe dire  che sono stato “ingesuitato”…

Ma che cosa le dà la frequentazione dei cattolici?
Mi permette di parlare con delle persone che hanno una linea di vita, dei principi con i quali tentano di essere coerenti, anche se questo talvolta lascia a desiderare e anche se non sempre sono d’accordo. Ma, soprattutto, i cristiani pensano, riflettono e questo fa sempre bene. Del resto, anche se il cattolicesimo francese vive oggi una crisi istituzionale profonda, in particolare per il crollo del numero di praticanti e di vocazioni, rimane un luogo di grande vitalità intellettuale.

 

Certi critici affermano al contrario che questa vitalità intellettuale del cattolicesimo francese sia in declino da qualche decennio.
Penso sinceramente che questo giudizio sia sbagliato, ma forse ho cattive frequentazioni… Siamo seri: ci sono degli ambiti oggi in cui certi intellettuali cattolici non possono non essere presi in considerazione. Si può forse parlare seriamente di bioetica ignorando gli studi di Olivier de Dinechin? Capire i fondamenti teologici dell’opera di Bach senza gli studi del gesuita Philippe Charnu e di Christophe Theobold? L’intelligenza cattolica è lì! Quello che si potrebbe forse rimproverare al cattolicesimo francese e che contribuisce alla sua relativa scomparsa dal dibattito pubblico, è una tendenza esagerata alla sottomissione. All’esterno, la Chiesa – più dei laici – è spesso discreta, quando fa riferimento alla laicità che le dà il diritto di intervenire sulla scena pubblica. All’interno, si assiste ad episodi sorprendenti. L’atteggiamento di sottomissione di Mons. Ricard nel 2009 quando Roma gli ha imposto, nella sua diocesi, la costituzione dell’Istituto tradizionalista del Buon Pastore ne è una illustrazione evidente. Ma si tratta di un esempio in più della tendenza cattolica ad accettare tutto, quando si tratta di cose che vengono dalla parte identitaria e conservatrice.

 

Qui le rimprovereranno di occuparsi di cose che non la riguardano, dato che lei non fa veramente parte della famiglia.
Non vedo perché questo mi impedirebbe di analizzare i fatti. Ma è vero che se facilmente reagisco sul cattolicesimo, è perché mi sento coinvolto. Forse perché sono anch’io ferito quando vedo come le persone vicine a me, i miei amici cattolici vengono trattati. Indipendentemente dal fatto che la cosa venga dall’esterno o dall’interno. Sono il primo ad essere impressionato dagli attacchi, in particolare mediatici, che subisce la Chiesa, attacchi che sono nella maggior parte dei casi di una stupidità incredibile. Ma prendiamo un altro esempio, interno questa volta, quello dei preti- operai, alcuni dei quali erano miei amici. Quelle persone sono andate da altre persone, a cui hanno detto che il loro impegno nella vita operaia era definitivo, che non erano andati lì solo a fare una visitina.
E tutt’a un tratto, la gerarchia chiede loro di interrompere tutto. Ci si può immaginare facilmente la sensazione di confusione e la perdita di credibilità. È un po’ quello che è successo in Algeria con gli ufficiali francesi che avevano promesso a certe popolazioni che le avrebbero protette qualunque cosa fosse successa e a cui è stato improvvisamente chiesto di lasciar perdere.

 

Il confronto è per lo meno originale…
Forse, ma è proprio osando fare confronti che si capiscono meglio le cose. All’inizio può irritare, ma è estremamente stimolante. Ho scioccato molti intitolando un capitolo di uno dei miei libri “Auschwitz par comparaison” (1). Contrariamente a ciò che pretendono certe persone, il confronto non porta all’assimilazione di ciò che si mette a confronto, al relativismo o all’indifferenza, permette semplicemente di avanzare nella comprensione, di cogliere meglio certi punti di vista, anche, certamente, arrivando a mantenere alla fine il proprio. Prendiamo un altro esempio, quello del terrorismo in Medio Oriente. È sempre interessante ricordare a degli israeliani che anche loro sono ricorsi al terrorismo in una certa epoca. Questo non giustifica nulla, e soprattutto non il terrorismo di certi gruppi armati palestinesi, ma se mi si risponde che questo “non ha niente a che vedere”, allora non chiedo altro che di poter discutere per essere convinto. Ma a discutere  davvero, con argomenti, spiegazioni, discorsi razionali.

 

Che cosa pensa dei dibattiti mediatici sull’identità francese che hanno fatto molto discutere?
Se faccio astrazione dai calcoli politici del momento, faccio molta fatica a capire questi dibattiti.
Abbiamo tutti molteplici appartenenze, nazionali o meno. Io sono un francese ben integrato, il che non impedisce affatto il mantenimento e anzi lo sviluppo della mia cultura tedesca. Non vedo perché non dovrebbe essere così per altra gente proveniente da altri paesi e che possiede altre culture. Certo, io ho avuto un trattamento privilegiato. Quando sono arrivato in Francia all’età di nove anni senza sapere una parola di francese, eravamo solo due stranieri nella mia classe. Le maestre si sono occupate di me in maniera particolare e un anno dopo ho avuto il primo premio in francese. L’essenziale è mantenere una distanza critica rispetto a tutte le nostre appartenenze. È perché sono francese che mi sono opposto agli orrori della guerra d’Algeria, è perché la mia famiglia era ebrea che critico Israele più di ogni altro paese. Trovo del resto che certi cristiani ci guadagnerebbero molto adottando questa distanza critica, non tanto verso la loro fede, quanto verso le credenze che essa sembra implicare.

 

Quali sono i punti di dottrina cristiana o cattolica che le appaiono più estranei, a lei come ateo?
Ce ne sono moltissimi… Il problema della salvezza, ad esempio. Ho l’impressione che il cristiano abbia bisogno di essere salvato almeno quattro volte: c’è stata la prima alleanza con Abramo, la seconda con Gesù, poi il battesimo, e ancora non è finita. Faccio molta fatica anche a comprendere certe forme di devozione mariana. Un esempio: perché, nelle sue “apparizioni” Maria appare come una ragazza giovane e mai come una vecchia ebrea? Più seriamente, se posso dire: ci raccontano anche – sarebbe il famoso terzo segreto di Fatima – che la Vergine avrebbe modificato il percorso della pallottola che doveva colpire Giovanni Paolo II nell’attentato di cui quest’ultimo è stato vittima. Benissimo. Ma perché non ha fatto niente per i sei milioni di ebrei morti durante la Shoah?

 

E in materia di morale, lei che rivendica volentieri il ruolo di moralista?
Qui sono combattuto. Sono contento di vedere che, in generale, le mie convinzioni morali e quelle della Chiesa sono vicine, in particolare per quanto riguarda l’etica sociale. E non sono io ad essere cambiato! Il Dio che punisce, che vedica, che uccide il nemico, anche cristiano, ha lasciato posto al Dio che si è fatto uomo sofferente. Molti valori evangelici, cristiani, sono stati reinventati  contro le Chiese nei secoli XVI, XVIII e XIX.

 

Ci sono comunque dei punti che restano secondo lei problematici nel discorso morale tenuto dalla Chiesa?
Penso ad esempio alla pena di morte. Certo, ci sono dichiarazioni che vanno nel senso della condanna, ma il discorso ufficiale a questo riguardo resta troppo astruso e, stranamente, molto meno vigoroso della condanna dell’aborto… Per quanto riguarda ciò che attiene alla morale sessuale e familiare, non riesco proprio a capire che dei preti che, per definizione, non hanno mai avuto figli e  non hanno mai vissuto in coppia, diano lezioni di vita familiare. Soprattutto se sono cardinali di curia e non hanno mai veramente esercitato come semplici preti di parrocchia.

 

(1) Dans le crime et la mémoire, Flammarion, 1989.

in “Témoignage chrétien” n° 3456 del 1° settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

 

I giovani e la razionalità del sacro

Si fa un gran parlare dei giovani. È, in fondo, la forma retorica più antica e consolidata che si conosca. Tanto è vero che si sprecano sempre affermazioni solenni e proverbiali quando non si
comprende nulla o quasi di un certo fenomeno. Ben più complesso diviene, invece, il discorso non appena si vuole parlare realmente con cognizione di causa delle nuove generazioni, in un contesto, come quello attuale, nel quale non sembra sia più possibile restare nei limiti di una sola cultura o di una specifica civiltà determinata.
Alcuni eventi sono una buona occasione per farlo. Il più espressivo del protagonismo peculiare dei ragazzi è certamente la Giornata Mondiale della Gioventù che si sta svolgendo in questi giorni a Madrid alla presenza di Benedetto XVI. Ho avuto modo di sperimentare personalmente di cosa si tratti in tutte le occasioni in cui ho accompagnato Giovanni Paolo II dai primi energici appuntamenti fino agli ultimi più faticosi. E poi anche a Benedetto XVI in Germania nel 2005. È stupefacente che dopo 28 anni non solo non è finita la spinta partecipativa, ma il coinvolgimento sembra perfino aumentato. Quest’anno, il profilo essenziale dei partecipanti si esprime così: età media intorno ai 22 anni, il 48 per cento studia (di cui il 58 per cento in un’istituzione  universitaria), il 40 per cento lavora, il 6 per cento è disoccupato; uno su dieci è già sposato; il 55 per cento vive in casa coi genitori. Provengono da 187 Paesi diversi. La cifra totale dei  partecipanti supererà il milione di persone.
Il dato è fin troppo chiaro per essere commentato. È un campione rappresentativo, vasto ed eterogeneo di persone normali.
D’altronde, anche in altre occasioni diverse vediamo i giovani raccogliersi insieme per qualche scopo, senza particolari segni distintivi. È il caso, ad esempio, delle proteste inglesi che hanno messo a ferro e fuoco la città di Londra o della Primavera araba nel Magreb. Giovani, sempre giovani, differenti gli uni dagli altri, che agiscono in modo peculiare e per motivi comuni imparagonabili. Ma sempre e solo giovani, senza specifiche qualità.
Ecco così che, leggendo ogni volta le statistiche, si rimane insoddisfatti, sprovvisti di una spiegazione valida sulle ragioni per cui non un bambino o un adulto, ma un ragazzo non più adolescente  decida di dedicare alcuni giorni della propria vita a stare con altri coetanei che non conosce, in una città che non gli è familiare, a vivere un evento di natura religiosa.
Il citato paragone può, in questo senso, aiutare a capire. I movimenti di ribellione britannica, sono espressione di un moral collapse come ha detto in modo sintetico il premier inglese David Cameron. 
Una paradossale assenza di finalità e di principi che si traduce in un nichilismo sconfinato.
Distruggere, lo si capisce bene, è la quintessenza di una rabbia che trova soddisfazione unicamente nella violenza urbana e nel saccheggiare negozi. In quel caso siamo, evidentemente, agli antipodi di Madrid, davanti ad un malessere generazionale che pone interrogativi duri e chiare responsabilità; direi soprattutto a noi adulti.
Ma anche le rivolte politiche in Africa sono animate da una simile spinta generazionale, questa volta evidentemente positiva. Anche lì sono i giovani a farla da protagonista, non volendo più  accettare e tollerare di vivere al di sotto di loro stessi, delle proprie capacità, possibilità, libertà. È lampante che rispetto al primo caso non è il nichilismo a spingere all’azione, ma una giusta volontà di cambiamento, un anelito civile a riempire il vuoto sociale in cui si è costretti a vivere.
Paragonate a queste agitazioni di massa, quanto spinge giovani di tutto il mondo a stare alcuni giorni con il Papa è il desiderio di fare un’esperienza opposta e decisiva rispetto ad ogni altra. Anche se, a ben vedere, vi è una medesima opzione motivazionale forte, alternativa al restarsene a casa o al mare. Mi ricordo che proprio in occasione della giornata dei giovani a Roma nel Giubileo del  2000 Indro Montanelli scrisse che una spiegazione, in casi del genere, non la dà né la sociologia, né la demografia: bisognerebbe entrare nell’ambito della religione. O esiste un fatto che chiamiamo sacro, oppure, in questi casi, non si motiva né si capisce niente di niente.
Logicamente, resta particolarmente importante chiarire cosa s’intenda qui con fatto religioso. Perché alcuni dei ragazzi che partecipano alla Giornata non sono credenti; allo stesso modo che non tutti coloro che rompono le vetrine sono criminali o tutti coloro che gridano libertà sono democratici.
Mi ricordo di aver indagato in passato sulle ragioni di simile affluenza e di aver trovato delle risposte insolite ma coincidenti tra i ragazzi stessi che partecipavano. Alcuni mi rispondevano che nessuno, in società, a scuola o in famiglia, era in grado di dire qualcosa di simile a quello che stavano ascoltando. Alcuni confessavano il dubbio se sarebbero stati in grado di vivere sempre al livello etico che il Papa chiedeva loro, anche se si sentivano per questo, ancora di più, chiamati ad esserci. Tutti, con disarmante semplicità affermavano: «Ma lui (il Papa) ha ragione». Cioè, dice il vero.
Comprendere giornate intense di preghiera e ascolto, non prive di sacrifici per i partecipanti, significa andare al cuore dell’esperienza religiosa. Richiede di superare in modo drastico quel relativismo imperante che spinge a fare solo ciò che le proprie pulsioni (anche la noia) impongono.
Davanti a sé e accanto a sé c’è una ragione che è vera, una spiegazione umana che garantisce di trovare la propria identità, oltre il proprio nulla e oltre i miraggi del convenzionalismo insipido con cui spesso si presenta la politica.
D’altronde, tale spinta forte a afferrare con il pensiero, il cuore e la volontà il senso della vita, è l’essenza della sana ribellione che si chiama “vita interiore”. L’alternativa, non a caso, è il fondamentalismo irrazionale e il relativismo cinico, ma mai, in nessun modo, l’esperienza spirituale.
Perciò, in definitiva, ad attirare tanti giovani a radunarsi è unicamente la razionalità del sacro, un desiderio di ascoltare la verità e di far parlare la coscienza, che solo può soddisfare le fresche aspirazioni di un giovane ad oltrepassare i circoscritti confini determinati dello spazio e del tempo.
E quelli ancora più determinati della banalità.



in “la Repubblica” del 19 agosto 2011

Raimon Panikkar: Vita e parola

 

Raimon Panikkar, Vita e parola. La mia Opera, Jaca Book, Milano 2010 (pp. 158, euro 16,00)

 

Il 26 agosto 2010 si spegne, all’età di 92 anni, Raimon Panikkar, personalità ricca e complessa, profeta del dialogo e maestro dell’esperienza mistica.

Da qualche anno, con grande coraggio, la Jaca Book sta curando la pubblicazione dell’Opera Omnia di Panikkar a cura dell’Autore stesso e di Milena Carrara Pavan, che hanno organizzato i numerosi scritti in dodici volumi tematici (ma che arrivano a 17 poiché alcuni volumi sono in due tomi). È da notare anche che l’iniziativa dell’editore italiano è la prima in assoluto e sebbene Panikkar vivesse in Spagna e parlasse numerose lingue, sarà in italiano che comparirà per la prima volta l’edizione integrale delle sue Opere.

 

Sono quattro i volumi finora pubblicati, probabilmente cinque entro la fine dell’anno. Ma abbiamo la fortuna della pubblicazione – pochi mesi prima della sua morte – del volumetto di cui facciamo la recensione e che contiene le 16 Prefazioni riscritte da Panikkar a tutti i volumi che compongono il piano dell’Opera Omnia. Un testo dunque preziosissimo per accostarsi integralmente, anche se in modo essenziale e sintetico, alla pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita estremamente ricchi e stimolanti. Il volume è arricchito da una ampia nota biografica a cui manca solo la data della sua recente scomparsa.

Nella Prefazione è Panikkar stesso a definire il contenuto del volume: “Mi era stato chiesto in più occasioni di elaborare una sintesi del mio pensiero, di pubblicare, cioè, un testo che potesse intitolarsi La mia Opera. Mi sono reso conto che in effetti il lavoro l’avevo già fatto, avendo preparato in questi ultimi anni le introduzioni ai vari volumi dell’Opera Omnia” (p. 7). Ecco dunque tutto il valore di questo agile volumetto, estremamente denso e ricco. Peraltro, come sottolinea Panikkar, queste introduzioni sono anche un preziosissimo accesso non solo al suo pensiero, ma anche alla sua vita, essendo le due cose strettamente interconnesse: “Colgo l’occasione per sottolineare che tutti i miei scritti rappresentano non solo un problema intellettuale della mia mente, ma una preoccupazione del mio cuore e, ancor più, un interesse reale della mia intera esistenza, che ha cercato per prima cosa di raggiungere chiarezza e profondità studiando seriamente i problemi della vita umana […] Ora che ho fatto lo sforzo di riunire i miei scritti per argomenti, mi accorgo che lo schema di questa Opera Omnia rappresenta il percorso non solo del mio pensiero ma anche della mia vita, senza esaurirne, come dicevo, l’esperienza. I miei scritti coprono un lasso di circa settant’anni, in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e piena” (pp. 7-8). In questa prospettiva, aggiunge Panikkar, “non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può forse chiamare Spirito” (p. 8). In seguito, sintetizza in modo estremamente chiaro tutto il suo itinerario di vita: “Attratto fin da giovane dalla spiritualità, mi sono avvicinato allo studio delle religioni approfondendo prima la religione in cui sono nato e cresciuto, il cristianesimo, scoprendo poi la religione di mio padre, l’induismo, e subendo infine il fascino del buddhismo, pur rimanendo fedele alla mia origine cristiana. Con tale bagaglio di esperienze e conoscenze mi sono aperto in forma spontanea al dialogo con le diverse culture e religioni, avendolo già vissuto interiormente. Non si può scoprire infatti la verità di un’altra religione se non la si vive in profondità dall’interno […] Dalla rielaborazione della Trinità, che considero il fulcro del cristianesimo, sono giunto alla formulazione della mia visione della realtà che ho chiamato cosmoteandrica. Per comunicare agli altri ciò che non può essere descritto direttamente sono ricorso al mito, al simbolo e al culto, che sono alla base di ogni formulazione di fede, sviluppandone l’ermeneutica. Sono sempre stato attratto dalla filosofia come amore per la verità e per il Mistero. Non volendo chiudermi in un mondo di speculazione astratta, mi sono aperto alla vita che mi sta attorno nella sua concretezza e ho scoperto che non era profana ma sacra, da qui il mio interesse per i problemi che riguardano la secolarità” (pp. 8-9).

Vediamo ora, nello specifico, come è articolato il densissimo volume. È questo anche un modo per accostarci all’articolazione dell’Opera Omnia che raccoglie – come detto – per temi e con la supervisione dell’Autore stesso, tutti gli scritti di Panikkar.

Il primo capitolo – Mistica, pienezza di vita – contiene il saggio che fa da introduzione al tomo 1 del primo volume dell’Opera Omnia, intitolato Mistica e spiritualità. A proposito del volume – già pubblicato – Panikkar scrive che “è in parte autobiografico in quanto tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da divenirne una chiave ermeneutica indispensabile” (p. 11). La mistica, per Panikkar, altro non è che esperienza integrale della vita; in questa prospettiva, essa non è “un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza. L’uomo è essenzialmente un mistico” (p. 12). La mistica è qualcosa che “non disumanizza” (p. 13); è “esperienza gioiosa” (p. 14), appunto in quanto esperienza integrale della Vita, di “quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina: Vita, tuttavia, che si ‘sente’ palpitare, o, per meglio dire, semplicemente vivere in noi” (p. 15). In questo senso, l’esperienza mistica è quella che “ci permette di godere pienamente della Vita” (p. 16). Ne consegue allora, che “il grande ostacolo a che scaturisca spontaneamente in noi l’esperienza della Vita è la nostra preoccupazione per il fare a scapito dell’essere, del vivere. La mistica, quindi, richiede una certa maturità, che è più facile raggiungere al crepuscolo della vita” (p. 18).

Il secondo saggio – Spiritualità, il cammino della vita – fa da introduzione al tomo 2 del primo volume. Se la mistica è l’esperienza suprema della realtà, la spiritualità viene intesa da Panikkar come il “cammino per giungere a tale esperienza” (p. 21). È evidente che i cammini sono stati e sono molti. Ma una spiritualità per l’oggi dovrà comunque essere integrale: “vuol dire che deve coinvolgere l’uomo nella sua totalità” (p. 21), e quindi, nel linguaggio di Panikkar, fare sintesi tra quattro dimensioni che sarebbero, invece, nella cultura di oggi divise, con il rischio di frammentare e alienare l’uomo. Le quattro dimensioni, che una genuina spiritualità deve ricomporre, sono sōma, psychē, polis, kosmos. Anzitutto, l’uomo non ha, ma è sōma, corpo. Ne deriva che una spiritualità “che faccia astrazione dal corpo umano, che lo sottovaluti o che lo releghi come cosa secondaria, sarebbe monca” (p. 22). Ma l’uomo è anche psychē, anima, cioè pensiero, immaginazione, fantasia, volontà. L’uomo inoltre è anche polis, non è cioè individuo, ma società, collettività, chiesa, famiglia. “La dicotomia (mortale!) tra individuo e collettività si trova proprio alla base delle tensioni di ogni specie” (p. 22). Infine, l’uomo è kosmos: non è solo società ma universo, mondo. Cioè non è e non può essere separato dagli animali, dalle cose, dalla terra; e allora la terra non può essere arbitrariamente sfruttata perché non è ‘l’altro’ ma è parte costitutiva dell’uomo. In questo quadro antropologico, Dio è insieme immanente e trascendente: “è nella stessa quaternitas degli elementi che definiscono l’uomo che si incontra il divino” (p. 24). Solo in questa prospettiva possiamo comprendere come la spiritualità genuina non sia affatto qualcosa che disincarni, ma anzi qualcosa che – componendo i frammenti, mettendo insieme interno ed esterno, alto e basso – aiuta piuttosto a vivere la Vita integralmente. Nel senso dell’incarnazione, dove “i problemi della terra non possono essere separati da quelli del cielo” (p. 26). E una tale spiritualità non potrà che aprirsi al dialogo interculturale e interreligioso: “Non bisogna perdere di vista il fatto che, considerando la situazione attuale dell’umanità, nessuna religione, nessuna civiltà, nessuna cultura ha la forza sufficiente o è in grado di dare all’uomo una risposta soddisfacente: le une hanno bisogno delle altre. Non si può pretendere che la soluzione per l’insieme dell’umanità, d’ora in poi, possa venire da un’unica fonte […] bisogna sforzarsi perché avvenga una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane” (p. 25).

Il terzo saggio – Religione e religioni – fa da introduzione all’omonimo, secondo volume dell’Opera Omnia, di imminente pubblicazione. Il titolo intende sottolineare “l’ambiguità della parola ‘religione’ che al singolare rappresenta l’apertura costitutiva dell’uomo al mistero della vita mentre al plurale indica le diverse tradizioni religiose” (p. 27). In questa prospettiva, l’esperienza di Dio – ma meglio sarebbe dire, in senso ancora più ampio, l’esperienza integrale della Vita – non è e non può essere monopolio di nessuna religione. Ogni religione ne esprime una parte, ma non la esaurisce. Le religioni “sono vie che conducono gli uomini verso la loro pienezza”, in qualunque modo poi si concepisca questa pienezza. Le vie sono tante: alcune sono costituite dalle religioni tradizionali, altre sono vie nuove, a cui spesso è difficile dire se possano o meno essere chiamate religioni. Ne deriva che nessuna religione (o cultura, o tradizione) può pretendere “di esaurire la gamma universale dell’esperienza umana” (p. 28) e che quindi il pluralismo sia, soprattutto oggi, una stringente necessità: “l’incontro-dialogo tra religioni, ideologie e concezioni del mondo è un imperativo umano dei nostri giorni” (p. 28). E in questo incontro Panikkar comprende anche la possibilità del dialogo con un certo umanesimo ateo in quanto, comunque, impegnato in un medesimo sforzo per il perfezionamento umano. Questo è quanto Panikkar chiama ecumenismo ecumenico. Esso “tenta di arrivare a un fecondo arricchimento reciproco e di accettare una critica delle tradizioni religiose del mondo senza tralasciare per questo di riconoscere il ruolo unico spettante a ognuna di esse. Come le confessioni cristiane riconoscono un Cristo di cui non possiedono il monopolio, un Cristo che le unisce tutte quante, senza dovere per questo esserne amalgamate, così le distinte tradizioni dell’umanità riconoscono un humanum (diversamente interpretato alla stessa maniera in cui vi sono interpretazioni divergenti di Cristo) non manipolabile da chicchessia, cioè trascendente. Fedeli a questo humanum, discutono tra loro tentando di avvicinarsi all’ideale” (p. 29). Ebbene, solo un tale atteggiamento che rinuncia alla pretesa di monopolio su ciò che la religione rappresenta, potrebbe aprire ad un fecondo dialogo dialogale, con l’unico obiettivo di aiutare l’uomo a raggiungere la sua pienezza.

Il terzo volume dell’Opera OmniaCristianesimo – dà anche il titolo al quarto saggio. Qui Panikkar distingue tre diversi livelli contenuti nella parola ‘cristiano’: esso può essere l’aggettivo di cristianità, cioè riferirsi ad una civiltà. Nel Medioevo, ad esempio, era impossibile essere cristiani senza appartenere alla cristianità. Ma cristiano può anche alludere alla religione cristianesimo: fino a non molto tempo fa era difficile dirsi cristiano senza riconoscersi appartenente al cristianesimo. Ma cristiano, sostiene Panikkar, può anche riferirsi a cristianìa, cioè alla possibilità di riconoscersi cristiano “come atteggiamento personale, senza appartenere alla cristianità o aderire al cristianesimo in quanto struttura istituzionale” (p. 31). Si tratta di una coscienza cristiana più matura che, soprattutto per il terzo millennio che si è appena aperto, sembra costituire un forte appello. Essere cristiano come membro della cristianità appartiene infatti al passato o semmai, come dice Panikkar, “ai sogni di alcuni nei confronti del futuro” (p. 32), ma sembra non parlare più alla maggioranza dei cristiani. Il cristianesimo come religione ha preso posto nella coscienza cristiana a cominciare dal declino della cristianità come regime politico-religioso. Ma il cristianesimo come religione deve confrontarsi con le altre religioni esistenti e ciò mette in crisi la sua purezza dottrinale. Da qui l’emergere, oggi, di quella che Panikkar chiama cristianìa (Christlicheit, in tedesco; christianness, in inglese), e cioè la “confessione di una fede personale, che adotta un atteggiamento analogo a quello di Cristo, nella misura in cui Cristo rappresenta il simbolo centrale della propria vita” (p. 35), e che comporta un rendersi indipendenti rispetto alla sovraistituzionalizzazione del cristianesimo ufficiale. “Si tratta di un mutamento ecclesiale nella stessa autocomprensione cristiana” (p. 35). Ciò non significa, precisa Panikkar, disprezzare o ignorare le strutture giuridiche e gli apparati istituzionali, ma solo non identificarsi con essi. Si tratta di superare, non di respingere: è una nuova autocomprensione per la quale “ci si è resi indipendenti da un ordine politico fisso e determinato (cristianità)”, come anche “dall’identificazione tra essere cristiano e l’accettazione di una serie determinata di dottrine (cristianesimo)” (p. 38). In questa prospettiva, cristianìa apparterrebbe piuttosto alla dimensione mistica, che, peraltro, ha bisogno di istituzioni. Ebbene, proprio questa nuova autocomprensione mistica, dice Panikkar, sembra essere l’urgenza dei nostri giorni.

Il quarto volume dell’Opera Omnia, è dedicato all’induismo. Il quinto e il sesto saggio costituiscono rispettivamente le introduzioni al primo e al secondo tomo del volume. Non ci soffermiamo su queste densissime introduzioni che hanno il grande merito di aiutare noi occidentali a comprendere meglio il cuore di una tradizione molto diversa dalla nostra. Il settimo saggio – Buddhismo – costituisce l’introduzione al quinto volume dell’Opera Omnia e raccoglie i testi di Panikkar su ciò che possiamo ritenere il messaggio fondamentale di questa religione. Un’impresa quasi paradossale, dato il carattere fondamentalmente apofatico del buddhismo. Caratteristica del buddhismo è infatti l’affermazione della non-realtà della realtà ultima: essa è niente. Ma, osserva Panikkar, “il buddhismo non afferma che l’Assoluto è un niente, che non esiste in generale un qualche cosa, ma piuttosto che nessun essere corrisponde a quel qualche cosa […] Significherebbe quindi falsare completamente il buddhismo, se si volesse fargli affermare che bisogna pensare l’Assoluto come un Niente; l’Assoluto non deve essere pensato, perché, in tal caso, si sarebbe costretti a pensarlo come Essere o non-Essere, ed esso «non è» nessuna delle due cose” (p. 75).

I saggi successivi – Pluralismo e interculturalità e Dialogo interculturale e interreligioso – sono le introduzioni ai due tomi del volume Culture e religioni in dialogo, il sesto dell’Opera Omnia. Sono saggi molto densi, perché vanno a toccare uno dei temi su cui Panikkar si è espresso di più e per il quale ha combattuto con maggiore convinzione: il tema del dialogo. Un tema oggi molto urgente, a motivo dei cambiamenti a cui il nostro mondo è andato incontro negli ultimi decenni e che hanno visto popoli e culture venire tra loro in contatto e mescolarsi, creando, spesso, scontri di civiltà e problemi di convivenza: “La verità di una tradizione si scontra con quella dell’altra e il dialogo rappresenta l’unica via per la sopravvivenza” (p. 77). Per l’analisi del contenuto del primo saggio, rimandiamo alla recensione che abbiamo fatto dell’intero tomo. I temi del pluralismo e del dialogo sono ripresi anche nel secondo saggio, il nono, che, come detto, costituisce l’introduzione al secondo tomo. Panikkar definisce un “mito nascente” della nostra epoca, un mito unificante, quello secondo cui l’uomo avvertirebbe sempre più l’insufficienza delle proprie culture e delle proprie religioni e tenderebbe verso una sorta di unità della famiglia umana, “nell’ottica globale di una cultura dell’uomo che abbraccia tutte le civiltà e le religioni come tante sfaccettature che si arricchiscono e stimolano a vicenda” (p. 91). Questo mito, curiosamente, prosegue Panikkar, si presenterebbe come l’opposto del vecchio mito del “monogenismo”, che ci presentava “l’unità della razza umana sottolineandone l’origine unica” (p. 92). Oggi, l’unità dell’umanità “ci appare molto meno al suo inizio che non al suo termine” (p. 92). A lungo andare,  “i sistemi di pensiero sembrano convergere su tutti i piani: la mutua fecondazione appare non solo possibile, ma auspicabile […] L’altro comincia a diventare un altro polo di noi stessi. Il confronto porta alla complementarietà” (p. 93). Dagli altri si può imparare e grazie agli altri si può crescere. Ma, conclude Panikkar, sarebbe un errore e un pericolo operare sintesi frettolose: “prima di arrivare a una qualche visione d’insieme dobbiamo studiare le dottrine, conoscere i fatti e scoprire lo spirito di un’altra tradizione” (p. 95). È dunque necessario un lungo e umile lavoro; si tratta di “conoscere quanto meglio possibile la nostra tradizione, sviluppare l’empatia e la comprensione, renderci conto che scoprire le altre religioni è al contempo approfondire e purificare la nostra e che iniziarci a un’altra tradizione non può che arricchirci” (p. 96).

Il decimo saggio – Induismo e cristianesimo – introduce l’omonimo volume focalizzato sul dialogo tra le due culture alle quali “l’autore appartiene fin dalla nascita e alle quali è stato fedele in tutta la sua vita: ha continuato sempre a sentirsi profondamente cristiano e autenticamente hindū” (p. 97). Per un cristiano il dialogo tra le religioni – afferma Panikkar – deve rispettare tre condizioni: “1. Si deve rimanere fedeli alla tradizione cristiana. Questo è il problema teologico; 2. Non si devono violare le altre tradizioni; devono essere interpretate secondo la loro stessa autocomprensione. Questo è il problema ermeneutico; 3. Non si deve mettere da parte l’esame critico della cultura contemporanea. Questo è il problema filosofico” (p. 102). All’esame di queste tre condizioni sono dedicate le pagine del saggio. L’undicesimo saggio introduce invece l’omonimo ottavo volume dell’Opera Omnia con il titolo Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo. Qui Panikkar presenta una sua visione della realtà, una cosmovisione che, a grandi linee, intende riprendere il tema cristiano della Trinità. Essa si situa come una terza, grande, visione, che cerca di superare i limiti delle due visioni precedenti, quella monista e quella dualista. La visione monista, fondandosi sulla ragione, intende ridurre ad unità i dati che le si presentano, giungendo al concetto di Essere: l’Essere è uno, l’Uno, o semplicemente la Realtà. “La ragione, per intendere, esige la reductio ad unum, come dicevano gli scolastici […] Se vogliamo intendere razionalmente la realtà, dovremo arrivare al monismo […] In breve, se non vogliamo rinunciare alla razionalità dovremo affermare che in ultima istanza tutto è Dio, o Essere, o Spirito, o Materia, o Energia, o Nulla” (p. 116). All’opposto, la visione dualista riconosce due irriducibili sfere della realtà: il materiale e lo spirituale. La via di uscita al dilemma tra monismo e dualismo è costituita dalla visione a-dualista o advaita, che è quella che Panikkar fa propria. Si tratta di superare il razionalismo, ma senza cadere nell’irrazionalismo. La realtà “è costituita da tre dimensioni relazionate le une con le altre – la perichōrēsis trinitaria – così che non solo una non esiste senza l’altra, ma tutte sono intrecciate inter-in-dipendentemente. Tanto Dio, quanto il Mondo e l’Uomo presi separatamente, o a sé, senza relazione con le altre dimensioni della realtà, sono semplici astrazioni della nostra mente” (p. 117).

Il volume nono dell’Opera OmniaMistero ed ermeneutica – è costituito da due tomi. L’introduzione al primo tomo – Mito, simbolo, culto – costituisce il dodicesimo saggio, mentre il saggio Fede, ermeneutica, parola introduce il secondo tomo. Il quattordicesimo saggio – Filosofia e teologia – introduce l’omonimo decimo volume dell’Opera Omnia. Nella prospettiva di Panikkar, filosofia e teologia sono inseparabili perché si implicano vicendevolmente. La filosofia è da lui intesa “non solo come amore della saggezza, ma anche come saggezza dell’amore” (p. 127). La filosofia, scrive ancora Panikkar, “è un tipo di amore molto particolare. È saggezza, la saggezza dell’amore, la saggezza che è contenuta nell’amore […] E la saggezza nasce quando l’amore del sapere e il sapere dell’amore si fondono spontaneamente” (p. 128). Ne consegue che una tale filosofia non può non cristallizzarsi in uno stile di vita, anzi è l’espressione della vita stessa. “Una filosofia che tratti solo di strutture, teorie, idee e si isoli dalla vita, eviti la prassi e reprima i sentimenti, non è solamente unilaterale perché non prende in considerazione altri aspetti della realtà, ma è cattiva filosofia […] Perciò tutte le tradizioni sostengono che per fare veramente filosofia si richiede cuore puro, mente ascetica, vita autentica. L’attività filosofica esige un coinvolgimento totale” (p. 128). La riflessione deve cioè divenire carne, e il pericolo della astrazione intellettuale è grande. “Un professore per me è «uno che professa», vale a dire che esprime una «professione», una confessione, con la totalità della sua vita”, esattamente come un religioso autentico “è colui che lotta, che si sforza per arrivare all’unione armoniosa del sacro e del secolare” (p. 129). La teologia descrive anch’essa questa esigenza di coinvolgimento in una immersione totale nella vita, in una comunione piena con la Realtà.

Il saggio successivo, il quindicesimo, introduce il volume undicesimo dell’Opera Omnia, intitolato Secolarità sacra. Secolarità sacra è – secondo Panikkar – “lo stile di vita cui siamo chiamati, superando la dicotomia tra il sacro e il profano” (p. 135). E aggiunge: “non si tratta di fuggire dal mondo, ma di trasfigurarlo. Bisogna ‘trovare’ il sacro e ‘scoprirne’ la via secolare” (p. 135). Non si tratta, in altre parole, di negare la trascendenza del divino, ma bensì di cogliere “l’immanenza del sacro nelle viscere stesse del mondo” (p. 135). Si tratta di re-imparare a cogliere la sacralità del mondo, senza confondere immanenza e trascendenza. “Se si riduce tutto il reale al meramente secolare, si soffoca la realtà privandola del suo carattere di infinitezza e libertà. Ma, allo stesso tempo, negare alla secolarità il suo carattere reale e definitivo, degrada la vita umana a un semplice gioco senza importanza reale, né dignità. Forse una delle ragioni della crisi apparentemente universale dell’umanità attuale è che non si è riusciti a operare una sintesi tra sacro e secolare” (p. 137). L’ultimo saggio, il sedicesimo, introduce l’ultimo volume dell’Opera Omnia, dedicato a Spazio, tempo e scienza. Il volume racchiude articoli e scritti che riguardano la scienza, apparsi nel primo periodo della vita di Panikkar.

Speriamo di essere riusciti a far cogliere, in queste pagine inevitabilmente troppo sintetiche, almeno qualche frammento della ricchezza e pluriformità di un pensiero e di una esperienza di vita che – crediamo – ha segnato profondamente il nostro tempo e non cesserà di parlare al nostro futuro.

Massimo Diana

E’ ancora tempo di primo annuncio

 


A Matera Bibbia, arte e comunicazione

 

 

 

Il “Corso interdisciplinare Bibbia, Arte e Comunicazione”, organizzato dal Settore Apostolato Biblico dell’Ufficio Catechistico Nazionale e dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, sarà inaugurato mercoledì 6 luglio alle 17 dal coordinatore, don Pasquale Giordano e, quindi, dalla relazione “Primo annuncio e Nuova Evangelizzazione” di don Carmelo Sciuto, Aiutante di studio dell’Ufficio Catechistico Nazionale. La giornata di giovedì 7 prevede, dopo la lectio divina sul Vangelo del giorno (che sarà offerta quotidianamente da  don Cesare Mariano, Docente di Sacra Scrittura della Diocesi di Acerenza), la relazione di Rosalba Manes, Biblista e docente di S. Scrittura all’Ecclesia Mater di Roma (“Paolo e il suo vangelo: dall’evento all’annuncio”). Seguirà un laboratorio su pagine scelte dell’epistolario paolino. Alle 16 don Franco Mazza, della Pontificia Università Urbaniana di Roma, interverrà su “Il vangelo e i linguaggi mediatici”, dopo di che sono previsti un laboratorio e un cineforum.

Venerdì 8 luglio il programma prevede la relazione di don Sebastiano Pinto, Biblista della Facoltà Teologica Pugliese, su “Vangelo di Gesù Cristo (Mc1,1): dall’esperienza alla testimonianza scritta”, cui seguirà un laboratorio sui “Vangeli dell’infanzia”. Nel pomeriggio, suor Maria Luisa Mazzarello e Suor Maria Franca Tricarico, docenti di Catechetica e di Arte presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione dell’Auxilium di Roma, interverranno su “Il Vangelo nell’arte”, prima di un altro momento di laboratorio e in serata una lettura teatrale, aperta al pubblico, del Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, a cura dell’attore Michele Casella.

Sabato 9 luglio al mattino sarà la volta di don Pasquale Giordano, del Seminario di Potenza e Coordinatore del corso, che interverrà su “Evangelizzate andando: il dinamismo dell’annuncio evangelico in Atti”, relazione che precederà un laboratorio su alcune pagine scelte degli Atti degli Apostoli. Alle 16 Annalisa Guida, docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, terrà una relazione su “L’arte narrativa dei vangeli apocrifi”, dopo di che è previsto ancora un laboratorio. Il corso si chiuderà domenica 10, con don Ivan Maffeis, Vice Direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, che terrà la relazione “Il rischio dell’annuncio e/o la via della testimonianza”, mentre alle 11 Mons. Salvatore Lagorio, Vescovo di Matera – Irsina, presiederà la Celebrazione Eucaristica insieme alla comunità locale.

Sì all’abbronzatura finta, no a interventi al naso

 

 

Un teologo morale inglese spiega perché si dovrebbe riflettere attentamente prima di chiedere interventi di chirurgia estetica.



Ornare il proprio corpo è una cosa antica quasi quanto l’umanità stessa. Essere come Dio ti ha fatto, storicamente parlando, non è stato mai abbastanza per la maggior parte delle culture del pianeta.
Invece di accontentarsi di star bene così, la gente da tempo immemorabile si è abituata a perforare, tatuare, rimuovere chirurgicamente certe estremità, anche tutte, si presume nella convinzione che queste azioni potessero migliorare il proprio corpo.


Molto prima che si giungesse all’età moderna con la sua capacità di trasformare le fattezze umane mediante la chirurgia plastica ed estetica, le culture primitive stavano già facendo questo. Ötzi, l’Uomo rinvenuto dal ghiaccio in Tirolo, il cui cadavere risale al Neolitico, ha dei tatuaggi, così come molte mummie dell’antico Egitto, risalenti a circa 2.000 anni fa. Anche in questo caso, ci sono prove che le mutilazioni genitali femminili (come si chiamano ora) risalgano ad almeno due millenni fa, e la circoncisione maschile deve essere ancora più antica. E non si sa chi fu il primo a bucare il lobo dell’orecchio per indossare gli orecchini. Queste sono solo alcune comuni modifiche del corpo, diffuse ancora oggi da noi: per fortuna l’idea di indossare anelli al collo per allungarlo non è andata diffondendosi oltre la cosiddetta “donna giraffa” della regione del Paudang in Myanmar.


Ma è nella nostra epoca che l’ornamento del corpo decolla sul serio. Con la chirurgia moderna poi si può fare molto di più. Lifting, miglioramenti al seno, riduzione del seno, interventi al naso, tutti questi sono diventati non solo possibili, ma vengono considerati persino di routine. E sappiamo tutti di chi ha intrapreso queste procedure troppo lontano nel tempo. Basta andare a vedere su Google le immagini di Michael Jackson da giovane per constatare gli interventi chirurgici cui è andato incontro, producendo quell’aspetto che i giornalisti amavano definire “bizzarre”. Lo stesso vale per quella signora chiamata “la sposa di Wildenstein”, una donna che si è letteralmente rovinata il volto con il ripetersi di procedure cosmetiche.


Prima di soccombere di fronte all’orrore di tutto questo – e questi esempi estremi sono davvero agghiaccianti – è importante sottolineare la differenza tra la chirurgia plastica e chirurgia estetica. La chirurgia plastica si occupa del recupero di forma e funzione di alcune parti del corpo. Molto di tutto questo è davvero essenziale – il trattamento delle vittime di ustioni e la ricostruzione, per esempio, di volo e mani dopo un incidente. Gli interventi di chirurgia cosmetica – alle volte chiamati chirurgia estetica – sono invece interventi chirurgici volti a migliorare l’aspetto di una persona. Questo a volte può anche essere lodevole: se qualcuno ha una deformità che deteriora gravemente la qualità della propria vita, è perfettamente accettabile: se il rischio di un intervento chirurgico è proporzionato al beneficio che si otterrà, per correggere la deformità, è positivo.


L’idea di proporzionalità costi/benefici è uno strumento importante dal punto di vista morale nel considerare se tali operazioni debbano andare avanti. Qualcuno la cui vita è stata resa difficile per via di un naso troppo grande potrebbe giudicare l’intervento chirurgico un piccolo prezzo da pagare,
nel caso che la rinoplastica possa migliorare in qualche modo la socializzazione. Qui, un chirurgo e uno psicologo avrebbero bisogno di consultare il paziente circa la strada migliore da intraprendere.
Ma cosa accade quando qualcuno vuole soltanto ottenere un aspetto esteticamente migliore, e pensa che il modo migliore per ottenerlo sia un naso più piccolo o un seno più prosperoso? Si può dire che il problema della chirurgia sia giustificato dalle ragioni avanzate sopra?


Come regola generale, la chirurgia non deve essere mai intrapresa senza un motivo serio. I motivi psicologici possono anche essere anche di grave entità, ma il desiderio di un aspetto migliore è immediatamente da ritenersi sospetto. Le apparenze sono per loro natura molto superficiali.
Cambiamo i nostri vestiti regolarmente, e alteriamo il nostro “look” – questo è un fatto che riguarda la moda in sé – ma possiamo davvero, ritenerci nel giusto se consideriamo il desiderio di cambiare, anche di molto, la nostra stessa carne ? Questa sembrerebbe essere non solo una misura estrema, ma fondamentalmente sbagliata. Il modo con cui si guarda a questioni di natura fisica – sarebbe sciocco negarlo – non dovrebbe importare più di tanto. Guardiamo a quanti mezzi abbiamo per indossare il make-up o sfoggiare un’abbronzatura, anche finta, ma risparmiamo il bisturi su noi stessi.
Indossare il make-up, anche andare dal parrucchiere, è un po’ come arrendersi alla pressione sociale per un aspetto più attraente, ma il ridurre chirurgicamente il proprio naso per apparire migliori davvero alla lunga ha il sapore di una resa. A questo punto potrebbe essere utile ricordare le parole
del grande Ann Widdecombe: “Ho trentadue denti, mi sento losca, brutta, sovrappeso, una zitella: che diavolo?”. Eppure lei era come Dio l’ha fatta, e noi siamo tutti quanti nelle sue stesse condizioni.


Ora il desiderio di modificare il proprio aspetto di per sé non è sbagliato, ma occorre valutarne anche la proporzionalità, vale a dire ci sono alcune altre considerazioni morali da valutare. Prima di tutto, si vuole davvero operare un cambiamento? Questo desiderio è il frutto di una decisione matura e deliberata? O in questo si è solo costretti dalla pressione esterna? A volte questo tipo di pressione è fin troppo facile da riconoscere (come nei casi di ragazze forzatamente sottoposte a mutilazioni genitali femminili), a volte, come in Occidente, è molto più sottile, ma comunque reale.
In secondo luogo, alcune procedure chirurgiche sono semplicemente sbagliate. Le mutilazioni genitali femminili costituiscono un buon esempio di questo: si tratta di un comportamento intrinsecamente negativo, sbagliato in sé, a prescindere dalle circostanze. Il motivo è che tale procedura non può mai essere per il bene della persona che viene “tagliata” in questo modo. Dal punto di vista medico può portare a complicazioni future, in modalità diverse: è impossibile pertanto vedere questo come qualcosa che sia un bene per la ragazza che lo riceve, ma piuttosto è qualcosa che la ragazza si vede imporre dalla società per un suo presunto bene. La circoncisione maschile, che può anche avere benefici per la salute, non è sbagliata di per sé, e può essere anche  giusta, a patto però che si svolga nelle condizioni adatte. Alcune procedure cosmetiche sono banali, nel senso che sono facilmente reversibili – come il taglio dei capelli, o la rasatura. Altre sono gravi, e se non ci sono motivi seri che le giustifichino, sono da ritenersi sbagliate.


Le donne (perché accade quasi sempre alle donne) devono resistere alla pressione a conformarsi a una forma particolare del corpo, di solito una forma del corpo che esse stesse, se fossero lasciate loro a decidere di loro stesse, non si sarebbero mai sognate di scegliere. Pensate alla figura della clessidra, così popolare nel XIX secolo. Alcune donne hanno una figura a clessidra naturale, ma altre hanno fatto interventi innaturali per ottenerne l’aspetto, come l’ingestione di tenie o la rimozione chirurgica di alcune costole. Questo non solo è contrario alla virtù della prudenza, ma rappresenta anche uno sforzo sproporzionato e, a guardare bene, rappresenta una pericolosa forma di ossessione del sé, del proprio aspetto fisico.


Francamente, il nostro modo di presentarci non è poi così determinante. La bellezza è solo una cosa esteriore e, come dice San Paolo: “Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma come si conviene a donne che onorano Dio con opere buone” (1 Tim 2,9-10). Questo dell’Apostolo non è il pensiero di un musone o un guastafeste, ma di uno che parla con buon senso. E’ il come sei dentro, ciò che conta veramente. Così che l’eccessiva enfasi sull’apparenza rappresenta quasi una forma di idolatria.


La maggior parte delle persone che leggono questo articolo probabilmente hanno dedicato anche oggi parte del loro tempo al proprio aspetto: anch’io ho spazzolato i capelli e mi sono lavato i denti, questa mattina, non solo per il mio bene, ma anche per quanti mi stanno intorno. Non sto sostenendo l’idea di vestire in maniera spartana, come messo in mostra dalla defunta moglie di Mao. Sto solo dicendo che abbiamo bisogno di mantenere una proporzione nelle cose, e che questo potrebbe riguardare soprattutto quanti si sentono sotto pressione per cercare di rispondere a diverse “presunte” necessità dettate dal costume sociale.

 


Padre Alexander Lucie-Smith è un teologo morale e autore di Narrative Theology and Moral
Theology (Ashgate, 2007).


in “Catholic Herald” del 4 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)