III DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Sofonia 3,14-18

         Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».     
  • La prima lettura dà il là di intonazione alla liturgia odierna, invitando alla gioia. Letta in connessione con il Vangelo, la ragione sta nella venuta del Messia, quella storica che riviviamo nel Natale, quella teologica che si attua nella vita veramente cristiana di ogni credente.

     Due minuscole unità compongono il presente brano: un invito alla gioia (vv. 14-15) e una parola di consolazione (vv. 16-18). Le due parti hanno un comune fondamento, dato dalla presenza di Dio. Egli non si mostra più giudice, ma amore. Egli è ciò che il suo Nome esprime: JHWH, il Dio verace, il Dio presente, il Dio salvatore. Per contestualizzare il brano e capire la sua esplosione festosa, occorre sapere che su Gerusalemme si era abbattuto minaccioso il giudizio divino. I nemici erano lo strumento nelle mani della divina giustizia per mostrare la scissione avvenuta tra Dio e il suo popolo. Ora, grazie anche alla predicazione profetica, era venuta una salutare reazione da parte del popolo, pronto alla conversione. Il profeta gli annuncia: «Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico» (v. 75). In termini più positivi, il Signore sta in mezzo al suo popolo, segno di una comunione ritrovata. L’alleanza ha ripreso a palpitare, respirando con i due polmoni, quello di Dio e quello del popolo. Qui sta primariamente la fonte della gioia, affidata al giubileo del v. 14, di cui risuona una eco nell’annuncio dell’angelo a Maria (cf. Lc 1,28: da tradurre con «rallegrati» e non con il bolso «ti saluto»).

   L’idea del Dio in mezzo al suo popolo anima pure il brano consolatorio (vv. 16-18). «In quel giorno» rimanda ad una situazione non facilmente definibile nel tempo, ma non per questo ipotetica. Il suo carattere escatologico la colloca tra i grandi interventi di Dio, che prenderanno piena forma nel NT. Dio ha sospeso il giudizio di condanna contro il suo popolo traditore: egli lo vuole salvare, solo in forza dell’incommensurabile amore verso di esso. Lui si presenta re di Israele, e pure domina su tutti i popoli della terra. Non si è ancora totalmente manifestata la sua potenza regale, ma l’imminente manifestazione della salvezza diventa segno, inizio e condizione di una signoria completa.

    Anche se il presente risulta difficile, chi ripone la propria fiducia nella potenza di Dio salvatore non deve temere nulla. Di più, può contare sull’amore di Dio che rinnova e che invita alla festa (cf. v. 18).

Seconda lettura: Filippesi 4,4-7

         Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.     
  • Il brano si trova nella parte conclusiva della lettera, quando è il momento delle ultime raccomandazioni, e contiene cinque frizzanti imperativi. La scelta liturgica si spiega per il binomio gioia-vicinanza del Signore: l’invito alla gioia e l’esortazione a compiere il bene verso tutti sono motivati da Paolo con la frase che il Signore è vicino.

    Il discorso si allarga dai singoli (cf. i precedenti vv. 2-3) alla comunità. Questa riceve l’esortazione alla gioia, tema che attraversa tutta la lettera. Mentre prima erano individuati motivi concreti che causavano la gioia (cf. 1,18; 2,17-18), ora l’appello è generale e insistito. La gioia ha tre aspetti: una radice interiore, un’espressione esterna e una causa ben precisa. La radice è il Signore: sempre si tratta di gioia in Lui («rallegratevi nel Signore»), per distinguerla nettamente da realtà che portano lo stesso nome ma che hanno contenuto diverso: qui Paolo si preoccupa di bloccare le imitazioni. La gioia che invade l’intimo dell’individuo e della comunità, investe pure l’esterno, tutti gli altri, sotto forma di «affabilità». Infine viene indicata la causa, consistente nell’avvicinarsi del Signore. Questa precisazione orienta e determina il contenuto della gioia cristiana; è la presenza di Cristo che garantisce e assicura una condizione di benessere per sé e per gli altri: «L’attesa della parusia è per l’apostolo un motivo parenetico centrale» (J. Ernst).

    La vicinanza del Signore, già reale presenza per molti aspetti, funge da deterrente contro ansie incontrollate: chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio. Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio. Il cri-stiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo. Anche sotto questo punto si comprende il precedente invito alla gioia. Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf. 1,13). Ma è altrettanto convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf. in greco il verbo merimnao, lo stesso di Mt 6,25.31.34) che bloccano e rendono improduttivi; positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v. 7 è la sacramentalizzazione. La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a Lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti». Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla Sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a Lui. Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.

    Potrebbero sembrare belle parole di circostanza, se non venissero dalla vita stessa di Paolo che ha dimostrato di leggere tutto, persecuzione compresa, con gli occhi illuminati dalla luce della Provvidenza (cf. 1,15-20). Paolo si trova in prigione quando scrive la presente lettera. Egli pensa alla sua comunità di Filippi e pensa altresì a Cristo che ha sempre riempito la sua vita. Egli pensa al ritorno di Cristo, mediante la morte che può giungere da un momento all’altro. Paolo ha detto il suo sì anche a questa situazione estrema e rimane un uomo felice pur nella catena e nella incertezza del suo futuro. L’incontro con Cristo trasforma in aurora di vita quello che, umanamente parlando, ha il sapore crepuscolare del fallimento o della repentina conclusione.

Vangelo: Luca 3,10-18

          In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.  

Esegesi

     Nei versetti che precedono il nostro brano avevamo assistito a un vigoroso appello alla conversione, non privo di toni forti, tipici della personalità e del messaggio del Battista. Ora il tono in parte si smorza, senza perdere vigore, e trapassa nella consolante esortazione che tutti possono concorrere a preparare degnamente la venuta del Messia.

    Il brano ha un marcato carattere esortativo. Distinguiamo una prima parte (vv. 10-14), in cui Giovanni sollecita tre gruppi a comportarsi correttamente, da una seconda (vv. 15-17), con la testimonianza che il Precursore dà su Gesù, esortando implicitamente a seguirlo. Il v. 18 mantiene una funzione conclusiva e sembra pure un passaggio del testimone da Giovanni a Gesù, grazie al verbo ‘evangelizzare’ («annunciava la buona novella»).

    Giovanni svolge una duplice attività: predica e battezza. La prima è funzionale alla seconda, in quanto le sue parole devono portare le persone al pentimento. Segno visibile di quella volontà di cambiare vita è l’acqua che i pellegrini ricevono dal Battista. Non si tratta certo di battesimo in senso cristiano, ma comunque di ‘battesimo’, se prendiamo la parola nel suo significato etimologico di ‘immersione’. Il battesimo-sacramento sarà possibile solo dopo la morte e risurrezione di Gesù; per il momento ci si prepara ricevendo il battesimo di Giovanni. Esso è molto più di un semplice gesto esteriore perché implica la buona volontà di migliorare la propria esistenza alla luce della predicazione. Non basta una decisione interiore di cambiar vita: occorre vedere anche all’esterno la novità. Da qui l’esigenza di assumere comportamenti concreti che si indirizzano secondo le indicazioni del Battista che ha il primario compito di «dare al suo popolo la conoscenza della salvezza» (Lc 1,77).

    Nella esemplificazione dei comportamenti da tenere, passiamo a un nuovo registro dove impressiona il calore di una comprensione che apre le porte a tutti. Non è certo ‘indulgenza’ del predicatore, ma coerenza con il messaggio che egli annuncia: un messaggio che vuole raggiungere tutti indistintamente, superando le antiche barriere che creavano steccati e divisioni: non solo tra popolo eletto e altre nazioni, ma pure all’interno degli stessi ebrei. Incontriamo una pacata istruzione che ha tutta l’aria di essere un minicatechismo oppure un vademecum di teologia e di saggezza, di comprensione e di incoraggiamento. Luca lascia trasparire anche qui la sua sensibilità universalistale folle interrogavano Giovanni») Se ha una preferenza, questa va tutta per gli emarginati.

    Infatti mette sul palcoscenico del suo interesse le categorie che noi diremmo ‘a rischio’: odiati esattori di tasse che collaboravano con l’occupante romano e che spesso calcavano la mano sulla povera gente diventando autentici strozzini (cf. 5,30; 19,7), oppure soldati mercenari che facevano il gioco dei potenti. La salvezza non ha ‘colore’ o ‘tessera di appartenenza’ come qualcuno amava, e qualche volta anche oggi ama, far credere. La salvezza è dono di Dio, quindi espressione della gratuità del suo amore che, in quanto tale, non ha ‘corsie privilegiate’. Tutti sono potenziali destinatari di tale dono e lo saranno effettivamente nella misura in cui si apriranno nella disponibilità della loro vita. È a questa apertura che punta Giovanni, invitando e sollecitando tutti. I segni di rinnovamento vertono esclusivamente sull’amore al prossimo: la gente deve imparare a condividere, i pubblicani a praticare la giustizia, i soldati a trattare con umanità.

     Oltre alla universalità, altro dato interessante per entrare nella sfera della salvezza è la normalità. Non sono richiesti miracoli né atteggiamenti di eccezione per fruire del dono della salvezza: solo il corretto esercizio della propria professione. È come dire che le persone si santificano nel tessuto della loro storia quotidiana, facendo bene quello che devono. Viene valorizzata al massimo una ‘sana laicità’ intendendo per laicità l’inserimento nel tessuto della storia. A meno che si tratti di un’attività manifestamente disonesta (per esempio il furto o la prostituzione), tutte le professioni hanno una dignità che va onorata con il proprio impegno. Giovanni non richiede a nessuno di cambiare mestiere, esige piuttosto di vivere bene la propria vocazione. Ottima preparazione per attendere degnamente il Messia.

     Di Lui Giovanni parla con vigore, alzando le note nel rigo della sua testimonianza. Compito di Giovanni è solo preparatorio, preparare «un popolo ben disposto» (Lc 1,17). Egli prepara la strada a chi viene dopo di lui, al Messia. Egli si dimostra ben vaccinato contro il virus da protagonismo e dichiara apertamente di non essere il Messia. Questi gode di una dignità che non ha confronto. Essa viene espressa negativamente con la distinzione tra i due, e positivamente per il contenuto della missione di Gesù. La distanza abissale che separa Giovanni dal Messia viene affidata dapprima all’immagine dello sciogliere i lacci dei sandali. Era questo il compito riservato abitualmente allo schiavo. Giovanni non si ritiene nemmeno degno di essere lo schiavo del Messia. Quindi la sostanza arriva nei versetti successivi che conservano un colorito palestinese e aprono a una prospettiva escatologica. Prendendo lo spunto dalla pratica del contadino che sull’aia utilizzava il ventilabro (attrezzo di legno a forma di pala con il quale si gettava in aria il grano: questo, più pesante, cadeva a terra e la pula era portata via dal vento) per separare il grano dalla pula, Giovanni presenta Gesù come ‘il giudizio di Dio’, colui che distingue e che determina. In termini semplificati: è Gesù l’elemento discriminante e decisivo, colui per il quale occorre impegnarsi se si vuole raggiungere la salvezza; il rifiuto di Gesù equivale al rifiuto della salvezza.

Meditazione

      Le letture bibliche di questa domenica ci raccontano la gioia dell’Avvento. Il tempo della vita dell’uomo può essere abitato dalla gioia, perché proteso verso un incontro, e visitato da una Presenza. È questo l’evangelo che per il tempo dell’uomo è il ‘sacramento’ dell’Avvento.

Ma non basta usare la parola ‘gioia’, occorre dare un volto a questo sentimento che la liturgia di oggi ci invita a scoprire come proprio della esperienza credente. Quale volto ha la gioia dell’Avvento? più in generale, quale volto ha la gioia cristiana?

Il Signore tuo Dio è in mezzo a te!

La prima lettura, tratta dal profeta Sofonia, è come un canto di vittoria. Un invito pressante a Israele affinché sfoderi tutte le ‘note’ della gioia. Si usano ben quattro verbi differenti per invitare Israele a cantare la gioia della liberazione e della salvezza: giubila, rallegrati, gioisci, esalta! E come se per cantare la salvezza di cui Israele è destinatario occorressero tutte le sfumature della gioia.

Ma da cosa è causata tale gioia che il linguaggio umano stenta ad esprimere? Il motivo di fondo è la presenza di YHWH in mezzo al popolo: «Il Signore, re d’Israele, è in mezzo a te, non avrai più da temere la sventura» (Sof 3,15). I re che governavano su Israele, sebbene discendenti della casa di Davide, allontanavano il popolo dal suo Dio attirandogli la sventura. Ma ora il Re di Israele è Dio stesso. Per questo le sorti del popolo cambiano radicalmente.

Ma nel testo c’è qualcosa di più. Si dice che «YHWH danza». Di YHWH il profeta dice: «Egli esulterà di gioia per te, ti rinnoverà per il suo amore, danzerà per te giubilando, come nei giorni di festa!» (vv. 17-18). Quindi la gioia dell’Avvento è anche danza e gioia di Dio… Anche per Dio si usa una pluralità di verbi per esprimere la sua gioia indicibile nell’abitare in mezzo al suo popolo, nel ‘porre la sua tenda’ in mezzo a noi, in mezzo a quel popolo «povero e umile che confida nel nome del Signore» di cui si parla alcuni versetti prima (Sof 3,12). Sof 3,17 inoltre può essere tradotto in modo differente. Ad esempio Diodati traduce: «Egli esulterà di gioia per te, nel suo amore starà in silenzio, si rallegrerà per te con grida di gioia». Se accettiamo questa possibile traduzione, potremmo dire che qui Sofonia descrive l’accoglienza da parte di Dio del popolo che ritorna con «l’immagine incantevole di un silenzio carico di parole» (P. Torresan).

L’Evangelo di Giovanni

Se passiamo alla lettura del brano evangelico, possiamo in un primo tempo pensare che qui il tema della gioia sia assente. In realtà non è così.

Per la lettura del testo, visto che il lezionario ci priva dell’introduzione (Lc 3,7-9), possiamo iniziare dalla conclusione, che in qualche modo tira le fila del discorso e, con un breve sommario, riassume il senso dell’attività di Giovanni Battista. Nel v. 18 leggiamo: «Con queste ed altre esortazioni annunziava [euaggelizeto] al popolo la salvezza». Una espressione che potremmo tradurre anche in questo modo: «Così egli evangelizzava il popolo, esortandolo in molti altri modi». Tutta l’opera di Giovanni Battista, a partire dal ‘razza di vipere’ iniziale (v. 7), è interpretata dall’evangelista come una `evangelizzazione’. Quindi da questa conclusione possiamo intravedere il rapporto di questo brano evangelico con il tema della gioia.

Ma com’è questo Evangelo che Giovanni annuncia? Qual è il suo contenuto? Per rispondere a queste domande, ritorniamo all’inizio del brano. Il testo afferma che diverse categorie di persone si recano da Giovanni.

La folla, di fronte all’invito di Giovanni alla conversione, domanda: «Che cosa allora dobbiamo fare?». A questa prima domanda, che si ripete tre volte nel nostro brano, Giovanni risponde invitando alla condivisione. Noi ci aspetteremmo la richiesta di grandi penitenze, ma Giovanni invita alla condivisione dei vestiti e del cibo… le cose più comuni e semplici della vita.

Dopo questa prima domanda delle folle in generale, prende la parola una categoria specifica, i pubblicani. Una classe molto odiata: i pubblicani erano considerati impuri dai giudei per il loro rapporto con l’occupante romano in quanto esattori delle tasse, e ‘ladri’ perché spesso chiedevano di più per intascare la differenza. Anche alla loro domanda Giovanni risponde con semplicità. Non chiede di lasciare la loro occupazione, non tocca il tema dell’impurità… parla solo di rettitudine e onestà. Un altro passo della conversione è quindi l’onestà, l’integrità, la rettitudine.

Infine anche alcuni soldati pongono la medesima domanda a Giovanni. I soldati erano anch’essi una categoria malvista, perché spesso approfittavano del loro potere per compiere delle ingiustizie. Ebbene, anche a questa categoria di persone Giovanni risponde in modo semplicissimo. Nemmeno a loro chiede di lasciare la loro occupazione, ma solamente di non abusare della loro forza. Quindi Giovanni chiede ai soldati di far buon uso della loro posizione: di viverla al servizio degli altri e non unicamente per il proprio interesse. Il terzo passo della conversione consiste nel vivere per gli altri le proprie occupazioni.

L’Evangelo di Giovanni si concretizza quindi in un triplice invito alla conversione rivolto alle folle che si recavano da lui per farsi battezzare. Questo triplice invito cade sopra un popolo (non più una ‘folla’) che è in attesa e in cuor suo si pone una domanda radicale (v. 15) — nel cuore, che per la Bibbia è il luogo dell’incontro con Dio e delle decisioni. A questa domanda così radicale che segna l’attesa positiva di un popolo —che secondo la Bibbia è il soggetto in relazione con Dio, la sua ‘sposa’ —Giovanni annuncia la venuta di un altro, che è il vero Sposo. Quindi anche qui si parla della gioia per l’annuncio di un Evangelo. La Buona Notizia di una Venuta, la venuta dello Sposo che il popolo attende. Ma il testo evangelico ci parla della gioia con un tratto particolare: è la gioia della conversione. Non c’è vera gioia senza la conversione del cuore che permette di accogliere quella Presenza dalla quale — come abbiamo visto in Sofonia — nasce la gioia. Una conversione fatta di cose semplici… le più semplici e decisive della vita: condivisione, rettitudine, attenzione all’altro.

La pace di Dio custodirà i vostri cuori

Troviamo un ultimo tratto della gioia cristiana nella seconda lettura tratta dalla Lettera ai Filippesi. Qui si afferma che la gioia vera è ‘custodita’ dalla preghiera. Dal testo si capisce che qui non si parla di pace e di gioia quando tutto va bene. Questa sarebbe una falsa idea di gioia!

L’apostolo invita i destinatari della sua lettera a rallegrarsi sempre, nella prosperità ma anche nelle difficoltà, e il motivo è sempre il medesimo: il Signore è vicino! Ma questa gioia è custodita dalla preghiera che ci fa aprire gli occhi su questa presenza. Essa infatti può essere sempre offuscata dalle preoccupazioni per le difficoltà della vita. L’apostolo invita perciò a chiedere ‘con ringraziamenti’: una preghiera quindi che non è solamente richiesta, ma è ringraziamento. Cioè quella forma di preghiera che esprime nel linguaggio umano il nostro totale affidamento a Dio e la nostra fiducia.

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco commenta la predicazione di Giovanni Battista

Alle folle che chiedevano a Giovanni il Battista ciò che dovevano fare, egli rispondeva: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha”.

Nella sua Vita di S. Giovanni Battista don Bosco è rimasto colpito da questo comando dalla cui osservanza fa dipendere la salvezza: “Desiderosi di salvarsi, interrogavano Giovanni quale cosa fosse loro necessaria per conseguire la salute eterna. Esso rispondeva alle turbe inculcando loro la carità: Chi ha due vesti ne dia a chi non ne ha, e il simile faccia dei commestibili” (OE20 405).

L’insegnamento di Giovanni Battista ha ispirato i santi. Nella sua Vita di san Martino don Bosco racconta come questo santo, essendo ancora soldato, ha praticato il precetto della condivisione con il prossimo predicato dal Battista:

Avvenne che l’esercito, in cui era Martino, passando per la città di Amiens, un poverello tremante, quasi nudo e colle carni esposte alla rigidezza dell’aria chiese qualche soccorso da quei soldati. […] Giunto Martino davanti a lui si ferma, lo rimira e dice tra sé: bella occasione di coprire un nudo! Intanto mette la mano in tasca e non trova più danaro, perché già tutto aveva speso a favore dei poveri. Che fare? La carità è industriosa e trova sempre modo di beneficare. Depone il proprio mantello, trae fuori la spada, lo taglia per metà, e dandone una parte al povero, coll’altra alla meglio che può, ricopre sé stesso (OE6 401s).

Più avanti, don Bosco riporta una riflessione edificante e inaspettata del santo fatto vescovo di Tours: “Vedendo un giorno una pecora di recente tosata, disse piacevolmente a quelli che erano seco: Ecco una pecora che ha osservato il Vangelo: essa aveva due vesti e ne ha data una a quello che ne mancava. Imitiamola” (OE6 424).

Dare una veste al bisognoso è fare “elemosina”, parola che vuol dire semplicemente misericordia. È un atto capace di assicurarci il paradiso, spiega don Bosco al ventinovesimo giorno del suo Mese di maggio: “Un mezzo molto efficace, ma assai trascurato dagli uomini per guadagnarsi il paradiso è la limosina. Per limosina io intendo qualunque opera di misericordia esercitata verso il prossimo per amor di Dio”. Poi cita e sviluppa le parole di Giovanni: “Chi ha due vesti ne dia una al bisognoso e chi ha già oltre il necessario, ne faccia parte a chi ha fame” (OE10 458s).

Va notato inoltre che Giovanni non chiede a nessuna categoria dei suoi uditori di cambiare mestiere ma di comportarsi in modo giusto nel proprio mestiere. Ognuno si salvi nelle proprie condizioni di vita, anche se soldato o pubblicano. Leggiamo infatti più avanti nella Vita di S. Giovanni Battista:

Ai pubblicani che erano tenuti dagli Ebrei come gente infame, perché prendevano in appalto le gabelle e le pubbliche entrate, e per questo erano molto odiati dagli Ebrei, non prescriveva di lasciar l’impiego, perché era loro necessario per guadagnarsi il sostentamento, ma solo di non esigere più di quello che loro era stato fissato. Ai soldati diceva di non togliere il suo ad alcuno per forza, né con frode, e di contentarsi della loro paga. Così istruiti li rimandava alle proprie case, senza ritenere alcuno presso di sé nel deserto, eccetto quelli che più particolarmente avessero voluto unirsi con lui, e che si facevano suoi discepoli (OE20 405s).

Ma ciò che suscita di più l’ammirazione nel Battista è la sua umiltà. L’umiltà è la prova più forte della virtù di quest’uomo, come si legge nella Vita di S. Giovanni Battista:

Se egli era il più grande degli uomini, ne era anche il più umile. Non solo egli dichiarò che non era il Messia, ma si pose tanto al disotto di lui fino a dire che non era degno di gettarsi ai suoi piedi e di sciogliere le corregge delle scarpe (OE20 406).

Per don Bosco l’umiltà è fondata sulla verità, e la verità deve renderci umili. L’umiltà va esercitata in particolare nelle azioni più basse a favore del prossimo, come quella indicata dal Battista: sciogliere i lacci delle sue scarpe.

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

VIA DELLA CONCILIAZIONE-SAN PIETRO (ROMA)   –   2021  

«Ci sono due modi di

diffondere la luce: essere la candela oppure lo specchio che la riflette».

(Edith Wharton)

Casella di testo:  Sofonia 3,14-18
Filippesi 4,4-7  
Luca 3,10-18

Ci muoviamo tra due poli: il desiderio di essere felicità; il desiderio della gioia della felicità; ed il cammino, la conquista di questo desiderio. 

Dice Sant'Agostino che ogni uomo tende verso il "luogo suo", cioè verso quel luogo dove sa che troverà la pace, il riposo. La gioia consiste proprio nel tendere verso quel luogo: è la gioia della speranza ...non è la gioia della conquista. 

Le letture bibliche di questa domenica ci raccontano la gioia dell'Avvento. Il tempo della vita dell'uomo può essere abitato dalla gioia, perché proteso verso un incontro, e visitato da una Presenza. È questo l'evangelo che per il tempo dell'uomo è il 'sacramento' dell'Avvento.

Ma non basta usare la parola 'gioia', occorre dare un volto a questo sentimento che la liturgia di oggi ci invita a scoprire come proprio dell’esperienza credente. Quale volto ha la gioia dell'Avvento? Più in generale, quale volto ha la gioia cristiana?
Preghiere e racconti

Domenica gaudete

Questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta “Domenica gaudete”, “siate lieti”, perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”. E subito dopo aggiunge la motivazione: “Il Signore è vicino” (Fil 4,4-5). Ecco la ragione della gioia. Ma che cosa significa che “il Signore è vicino”? In che senso dobbiamo intendere questa “vicinanza” di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro. Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2). Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la “vicinanza” di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.

In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei “Bambinelli”, le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe. Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri “Bambinelli“, che ora benedico. Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera:

Dio, nostro Padre,

tu hai tanto amato gli uomini

da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù,

nato dalla Vergine Maria,

per salvarci e ricondurci a te.

Ti preghiamo, perché con la tua benedizione

queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi,

siano, nelle nostre case,

segno della tua presenza e del tuo amore.

Padre buono,

dona la tua benedizione anche a noi,

ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.

Apri il nostro cuore,

affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia,

fare sempre ciò che egli chiede

e vederlo in tutti quelli

che hanno bisogno del nostro amore.

Te lo chiediamo nel nome di Gesù,

tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.

Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

Amen.

(Le parole del Papa, Benedetto XVI, alla recita dell’Angelus, 14-XII-2008). 

Il Vangelo della gioia

«Il Signore è fedele per sempre

rende giustizia agli oppressi,

da il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti,

il Signore protegge lo straniero».

(Sal 145)

C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.

Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.

«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5). Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.

Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia. Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.

Umiltà

Qualche finezza etimologica non guasta. E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.

II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile. Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra. E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale. Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.

Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole?

E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale?

E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato?

E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).

Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore?

Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?

La legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare

Nelle parole del profeta, Dio danza di gioia per l’uomo. Appare un Dio felice, il cui grido di festa attraversa questo tempo d’avvento, e ogni tempo dell’uomo, per ripetere a me, a te, ad ogni creatura: «tu mi fai felice». Tu, festa di Dio. La sua gioia è stare con i figli dell’uomo. Il suo nome è Io-sono-con-te: «non temere, dovunque tu andrai, in tutti i passi che farai, quando cadrai e ti farai male, non temere, io sono con te; quando ti rialzerai e sorriderai di nuovo, io sarò ancora con te». È con te Colui che mai abbandona, vicino come il cuore e come il respiro, bello come un sogno. Tutti i giorni, fino al consumarsi del mondo. Mai nella Bibbia Dio aveva gridato. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, aveva la voce dei sogni; solo qui, solo per amore Dio grida. Non per minacciare, per amare di più.

Il profeta intuisce la danza dei cieli e intona il canto dell’amore felice, dell’amore che rende nuova la vita: “ti rinnoverà con il suo amore”. Il Battista invece, quasi in contrappunto, risponde alla domanda più feriale, che sa di mani e di fatica: “e noi che cosa dobbiamo fare?”. E il profeta che non possiede nemmeno una veste degna di questo nome, risponde: “chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l’ha”. Colui che si nutre del nulla che offre il deserto, cavallette e miele selvatico, risponde: “chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha”. Nell’ingranaggio del mondo Giovanni getta un verbo forte, “dare”. Il primo verbo di un futuro nuovo. In tutto il Vangelo il verbo amare si traduce con il verbo dare (non c’è amore più grande che dare la vita per quanti si amano; Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, chiunque avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca…). È legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare. Vengono pubblicani e soldati, pilastri del potere: “e noi che cosa faremo?” “Non prendete, non estorcete, non accumulate”. Tre parole per un programma unico: tessere il mondo della fraternità, costruire una terra da cui salga giustizia.

Il profeta sa che Dio si incarna attraverso il rispetto e la venerazione verso tutti gli uomini, come energia che libera dalle ombre della paura che ci invecchiano il cuore. L’amore rinnova (Sofonia), la paura paralizza, ruba il meglio della vita. «E io, che cosa devo fare?». Non di grandi profeti abbiamo bisogno, ma di tanti piccoli profeti, che là dove sono chiamati a vivere, giorno per giorno, siano generosi di giustizia e di misericordia, che portino il respiro del cielo dentro le cose di ogni giorno. Allora, a cominciare da te, si riprende a tessere il tessuto buono del mondo.

(Ermes Ronchi)

La gioia

Il tema della gioia traversa le letture bibliche di questa terza domenica di Avvento: gioia a cui è invitata Gerusalemme per la presenza salvifica di Dio in mezzo a essa (Sofonia); gioia a cui sono esortati i cristiani di Filippi di fronte all’annuncio che “il Signore è vicino” (II lettura); gioia insita nel Vangelo, nella buona notizia che Giovanni annunzia: “(Giovanni) annunciava al popolo la buona novella (euenghelízeto tòn laón)” (Luca).

La gioia cristiana non è un fatto solo interiore e non si identifica con un umorale sentire, ma è connessa alla relazione con il Signore e ha un prezzo: la conversione. Convertirsi significa operare concretamente un cambiamento nella propria vita. La domanda “che cosa dobbiamo fare?” in bocca a folle, pubblicani, soldati (vv. 10.12.14), indica la diversificazione dei concreti movimenti di conversione richiesti a persone che si trovano in differenti stati di vita. Al tempo stesso le richieste che il Battista pone a ciascuna categoria di persone possono essere lette come elementi costitutivi di ogni cammino di conversione: la condivisione (v.11), il non pretendere (v. 13), il non abusare, il non essere violenti (v. 14). In effetti Giovanni non indica delle “cose da fare”, ma chiede a ciascuno di rimanere nel proprio stato facendo spazio all’altro, rispettando l’altro, accogliendo l’altro e impedendosi assolutamente di avere ed esercitare potere sull’altro.

La condivisione implica che non si veda più solo il proprio bisogno, ma anche quello dell’altro e che si decida di provvedere a tale bisogno donando all’altro o spartendo con lui ciò che si ha. In quel donare emerge la libertà della persona non schiava delle cose che possiede, ma tesa al bene grande della relazione. In profondità, la condivisione è un esistere con l’altro proibendosi di pensare e agire senza gli altri. Ciò che va condiviso non è solo ciò che si possiede, ma ciò che si è. E nella vita cristiana non vi è amore più grande di chi dona la vita per gli amici (cf. Gv 15,13).

Non pretendere significa certamente non esigere dagli altri ciò che non spetta loro darci, ma soprattutto significa non porci nei loro confronti con una pretesa e dunque con un potere. Esigiamo amore, obbedienza, affetto, tempo, energie, attenzione, ci comportiamo come se gli altri ci “dovessero” qualcosa, fossero tenuti a essere a nostro servizio. Certo, tra i cristiani vi è il debito, il munus dell’amore reciproco (cf. Rm 13,8), ma questo è il dono che si dà, non che si riceve. Non pretendere significa dunque entrare nell’umiltà, nella realistica accettazione di sé e degli altri. Non maltrattare non significa certo solo non usare violenza fisica, ma soprattutto non abusare della propria posizione di forza o di potere. E soprattutto comporta l’avere intelligenza dell’altro e della sua vulnerabilità, così da non usare violenza nei suoi confronti: una violenza che è quotidiana, domestica, sottile e non necessariamente si nutre di toni aspri o troppo forti, ma è anche indifferenza, mutismo, disinteresse.

Giovanni non chiede gesti radicali come farà Gesù, non chiede di lasciare tutto e di seguire lui, ma mostra un livello imprescindibile e perenne della conversione, un livello molto umano e che non ha nulla di direttamente religioso. Si tratta di assumere l’umanità propria e quella degli altri, di addomesticare i propri appetiti, di assumere i propri limiti e di avere come misura della propria libertà la libertà degli altri. Essere se stessi consentendo agli altri di essere se stessi.

La conversione chiesta da Giovanni, che non si esaurisce in aggiustamenti esteriori, trova la sua radice in rapporto al Signore veniente e che viene per purificare, per operare un giudizio (v. 17). Giovanni in realtà non è un predicatore di morale, ma del Veniente. In questo senso egli è già evangelizzatore (v. 18): perché con la sua persona e con le sue parole egli annuncia il Cristo veniente e, chiedendo conversione, dispone ad accoglierlo e a conoscere così la salvezza di Dio. Del resto, il Vangelo è dono esigente, è grazia a caro prezzo, è amore che impegna.

(Luciano Manicardi)

Fedeltà

La gioia cristiana deriva da due fontane. La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse. Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro. Il nostro, insomma, è un Dio di parola. «Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.

«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».

È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore. La gioia non tarderà ad irrompere.

La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».

Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.

A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.

Utopia

«Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10). È la più osata battuta di Isaia. La più incredibile.

Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.

Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra?

O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze?

O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»?

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72)

Porto una responsabilità

      Anche se come singolo non posso ottenere che tutto vada per il meglio, posso portare il mio contributo perché qualche cosa in questo mondo migliori. Non posso sottrarmi alla responsabilità con la scusa che gli altri dominano il mondo. Ognuno lascia una traccia in questo mondo con la sua vita.  E da queste tracce il mondo viene plasmato. Ho la responsabilità di lasciare là dove vivo una traccia buona e feconda. Posso e devo contribuire perché il mondo intorno a me diventi migliore, perché in me e attraverso di me il bene diventi visibile in questo mondo. Non posso lasciare questo compito ad altri. Devo cominciare da me.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 140).

Preghiera

Mi sorprende anche quest’anno la tua promessa, Signore: mentre sono in cammino con la Chiesa, per prepararmi al natale, sentire che sei tu ad aprirmi una strada per la conversione.

Mi apri una strada raggiungendomi con la tua Parola: mentre io la ascolto spesso stancamente e senza entusiasmo, tu mi ricordi che l’incontro con essa è più forte della potenza degli imperi e dei grandi di questo mondo e che trasforma anche la mia vita in storia di salvezza. Insegnami ad ascoltare, insegnami il silenzio.

Mi apri una strada promettendo di abbattere monti e colmare valli. Se non fosse perché lo dici tu, sarei tentato di pensare che si tratti per me di una battaglia persa in partenza: che io non smetta, Signore, di lottare contro le montagne dell’orgoglio, dell’ira, dei vizi e non mi spaventi per le lacune della mia risposta poco generosa.

Mi apri una strada indicandomi i tanti deserti che trovo intorno a me e gli spazi vuoti che la nostra carità non sa mai colmare: che io possa, Signore, fare la mia parte, senza scoraggiarmi per il tanto che non posso e non so fare.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Daniele 7,13-14

           Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.      
  • La visione del Figlio dell’uomo in Dn 7,13ss chiude la prima visione apocalittica del nostro libro. La si trova al centro del c. 7 e poi alla fine della spiegazione dei simboli (7,26s). Nella prima parte, sotto lo sguardo profetico del veggente, si svolge la paurosa attività delle 4 bestie simboliche, che salgono dalle acque del mare mosse dai 4 venti. Esse rappresentano 4 famosi re, che dalle descrizioni sembrano identificarsi con l’impero babilonese («terribile leone dal cuore d’oro»), con l’impero medo («orso che divora Babilonia»), con il persiano («leopardo» dalle 4 teste di regnanti), con il greco («mostro dai denti di ferro, che tutto

stritola» assieme al tiranno che combatte contro i Santi di Dio, probabilmente l’empio Antioco IV del 168 a.C. persecutore dei pii Giudei).

     Si trattava di eventi del passato collegati alla situazione contemporanea, visti secondo la nota concezione apocalittica: l’agitarsi delle acque primordiali, da cui provengono le forze del male, sotto il vigile controllo della ruah, lo spirito di JHWH, come in Genesi 1,1-2; governanti e imperi si muovono quali strumenti dell’onnipotente Dio d’Israele.

     Lo dimostra l’improvvisa apparizione di un Vegliardo che, circondato da miriadi di esseri celesti, siede sul trono a giudicare le 4 bestie, togliendo loro ogni potere e condannandole alla morte. A questo punto irrompe la scena del nuovo sovrano dei popoli.

     v. 13: «ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo». Il personaggio viene dall’alto, e non più dagli abissi dell’oceano; è un essere dalle sembianze umane, non ben definite, superiori a quelle di un semplice mortale; non più sotto il simbolo di bestie mostruose e feroci… Egli è come l’angelo-principe di una grande nazione (10,13).

     v. 14: «Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano». A lui sono affidati i poteri regali su tutte le nazioni della terra: un regno che non vedrà mai il tramonto. Nella prospettiva del messianismo escatologico reale rappresenta l’intervento definitivo del Dio d’Israele sulle vicende della storia, proiettato in un futuro indeterminato

(l’eschaton), l’‘ahar, il seguito degli anni nella forma di un governo collettivo, consegnato al «resto santo» del popolo prediletto, i Santi dell’Altissimo. Non si esplicita se esso sarà di tipo terreno o spirituale. Si dichiara però che sia il rappresentante ideale (il figlio dell’uomo), sia la sua sovranità vengono dall’alto, proprio come la piccola pietra che si stacca dal monte e annienta le potenze del male (Dn 2,45).

     Vi si intravede la figura personale di un Inviato dal Signore Onnipotente, già delineato negli scritti dell’epoca giudaico-maccabeica (Parabole di Enoc, del 95 circa a.C.): considerato come «Re celeste, assise presso la gloria divina, che dovrà un giorno rendersi manifesto,

quale giudice del cielo e della terra, dei vivi e dei morti». È il Messia del giudizio universale, che in Mt 25,31 ss assegnerà a ogni uomo la sorte eterna in base al comandamento del sincero amore fraterno, e dirà l’ultima parola su tutta la storia dell’umanità: «gli rispose Gesù: Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64).

Seconda lettura: Apocalisse 1,5-8

          Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!         
  • Siamo all’inizio della grande rivelazione profetico-apocalittica di Giovanni. Dopo il breve prologo (1,1-3) in cui si presenta il tema di tutta l’opera: — esposizione dei mirabili eventi prossimi ad accadere, così come l’autore li ha appresi da Cristo, a utilità di chi legge e ascolta —, si entra immediatamente in dialogo con le 7 chiese della cristianità d’Asia, a cui saranno indirizzate le 7 epistole (cc. 2-3), dettate dal Figlio dell’uomo, il Vivente in eterno, apparso a Giovanni in estasi (1,9-17).

     Il veggente si introduce con un saluto ai destinatari e con l’augurio di «grazia e pace» da parte di Colui che è, era e viene (il Padre divino), dei 7 Spiriti che stanno davanti al suo trono (Lo Spirito, cioè, con i suoi 7 doni, che da Lui proviene), e di Cristo Gesù. Di questi in particolare vengono esaltate le eccelse prerogative in 3a persona (vv. 6-7) e più direttamente in 1a persona (v. 8).

     v. 5a: «Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra». Son i titoli della grandezza di Gesù, visto nel suo ruolo di rivelatore supremo delle realtà divine («testimone fedele»), protagonista della storia salvifica (il «primo» a risorgere), dominatore delle vicende umane (signore dei signori).

     vv. 5b-6: «A Colui che ci ama e ci ha liberati… a lui la gloria e la potenza». Al richiamo di quei titoli sgorga dal cuore del profeta una elevata dossologia: — egli è colui che per amore ci ha lavati nel suo sangue, purificandoci dai nostri peccati e facendo di noi (ormai uniti vitalmente a Lui) una comunità sacerdotale di fronte al resto dell’umanità, per la lode di Dio suo Padre; a Lui si renda ogni onore e gloria per sempre…

     v. 7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà». Egli è il maestoso Personaggio, già contemplato da Daniele e annunziato dallo stesso Maestro divino nel processo di Caifa (MC 14,62), a cui è conferito ogni potere in cielo e in terra, dinanzi al quale compariranno un giorno tutte le genti, anche coloro che lo hanno trafitto, perché ne siano giudicati (Zc 12,9).

     v. 8: «Io sono l’Alga e l’Omega… Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». Ora parla lo stesso Gesù: — Egli non è il trasumanato eroe esaltato dalle mitologie orientali, ma Colui che è Principio e Fine di tutte le cose, Alfa e Omega cioè Colui che comprende e supera tutto ciò che esiste o è pensabile, che è (JHWH), che era ab aeterno, che viene in ogni epoca e si presenta sempre a nuovo nelle sue manifestazioni e nelle sue gesta, mai pienamente definibile dalla mente umana; centro e ragione d’essere di tutti gli avvenimenti che seguiranno, meta gloriosa dell’umanità e dell’universo! —.

Vangelo: Giovanni 18,33b-37

         In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».    

Esegesi

     Il tratto di Gv 18,33-38a è la parte centrale del processo di Gesù dinanzi a Pilato (18,28-19,16). I capi dei Giudei che hanno deciso per conto loro di mandare a morte Gesù lo hanno condotto presso il tribunale del procuratore romano, perché sia lui a pronunziare la sentenza definitiva, quale detentore supremo del jus gladii (il diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma). Dopo aver essi dichiarato che il Rabbì di Galilea, secondo il loro giudizio, era un trasgressore della legge e reo di morte. Pilato rientra nel pretorio per interrogare Gesù e rendersi personalmente conto della colpevolezza di Gesù (18,28-33): era nel suo diritto.

     Qui l’evangelista Giovanni riporta il luminoso dialogo tra il Maestro divino e il rappresentante della potenza pagana. Il discepolo vi ha impresso qualche barlume della sua intima comprensione del Cristo: ne ha fatto l’epifania della sua Regalità divina.

     v. 33: «Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» L’interrogatorio comincia con la chiara accusa dei capi giudei: Gesù avrebbe preteso di essere uno dei seducenti Messia, pretendente alla guida del suo popolo (Lc 23,3). «Gesù il nazareno, il re dei Giudei»: sarà il titolo posto sulla croce per ordine dello stesso Pilato (19,19).

     v. 34: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» Gesù, prima di rispondere, vuole chiarificare in che senso il governante di Roma intendeva quel titolo: nel senso del popolo giudaico che aspettava la venuta di un Messia, leader religioso inviato dall’alto, ovvero nel senso di un condottiero politico liberatore dal giogo straniero, come poteva immaginarlo un romano? Pilato parlava secondo la concezione degli ebrei, o secondo la propria mentalità?… Il procuratore respinge quasi con sdegno la prima ipotesi. Non gli interessava proprio nulla delle credenze di quella gente: «Sono forse io Giudeo?». A lui preme sapere se davvero quell’imputato ha commesso le gravi trasgressioni per cui i suoi connazionali lo hanno sottoposto al suo giudizio! E conclude: «che cosa hai fatto»? (v. 35).

     v. 36: «Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo». Il divin Maestro ora può parlare liberamente e illustrare la sua reale posizione di fronte al tribunale di Roma. Egli poteva rassicurare il rappresentante dell’impero, dicendo di non aver fatto nulla, né contro l’ordine  sociale, né contro l’autorità dei Cesari accettata dal suo popolo (Lc 20,20-26), ma ha preferito attirare l’attenzione di quell’uomo a qualcosa di più profondo e convincente: la caratteristica incontrovertibile della sua Persona, quella che Giovanni ha già molte volte sottolineato nel suo racconto: la trascendenza del messaggio di Cristo.

     Egli promuove un regno che non appartiene all’ordinamento di questo mondo visibile (8,23), poggiato sulla forza delle armi e del consenso popolare. Il governatore lo può ben constatare: non c’è alcun suo fautore che lo difenda contro le ingiuste accuse dei suoi avversari (18,8.11).

     v. 37: «Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re». All’insinuazione, sembra un po’ ironica di Pilato: «e allora saresti Re, tu?» «tu così solo e improvviso?» (trad. ad litt. dal greco), il divino accusato prosegue: — Io sono realmente Re, nel senso che ti ho indicato, e sono venuto al mondo per testimoniare quel che ho visto e conosco (3,13; 8,23; 19,35): la realtà di un altro mondo, una realtà soprasensibile, che supera tutte le cose e le concezioni di quaggiù; realtà percepibile da chi è pronto ad accettare la Verità. Chi infatti è aperto alla verità riconosce la mia voce (10,3) e mi segue (3,31-36; 1 Gv 19,18-20). Il mio sarà così un regno nuovo, senza violenza e soprusi di alcun genere, basato solo sulla libera accoglienza del Trascendente, che è presso di ognuno e si rivela attraverso la mia parola (8,26).

     Siamo al centro di tutta la Rivelazione del Verbo divino fattosi uomo, così come si presenta nel quarto Vangelo: il Verbo che risplende tra le tenebre e manifesta a tutti la verità dell’Amore infinito del Creatore, e aggrega, chiunque vi aderisce, alla sua stessa vitalità eterna e consostanziale col Padre; si rimane nel mondo, ma non si è più di questo mondo (17,11.16).

     Pilato, tuttavia, è ancora lontano da quella verità, e se ne esce con una battuta: «ma cos’è la verità?» (18,38a).

Meditazione

Con questa domenica si chiude l’anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa inviterà i credenti ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudi­ziario, amministrativo, e così via). Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. È, infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le sca­denze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade. Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagi­ne del Vangelo a scandire il tempo dell’anno liturgico perché i creden­ti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la sto­ria stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei. Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito Santo sulla Chiesa inviando i discepoli sino agli estremi confini della terra. L’anno liturgi­co, insomma, è Cristo stesso («annus est Christus», diceva l’antica sag­gezza cristiana) che ci viene donato.

In questo singolare «anno» non si commemora un assente, ricordan­do magari con affetto i momenti salienti della sua vita. Si tratta, invece, di una realtà ben più profonda: la memoria liturgica rende presente in mezzo a noi il mistero stesso che celebriamo. Nell’anno liturgico tra­scorso di domenica in domenica siamo stati presi per mano dalla Santa Liturgia e portati appunto accanto a Gesù, dentro la sua vita, seguen­dolo passo dopo passo in tutto il suo itinerario verso il Padre che sta nei cieli. E così accade ogni anno. Ma non è una stanca ripetizione. Se gli «anni liturgici» continuano a ripetersi, è perché non termina mai la nostra condizione di discepoli, ossia di seguaci del Signore. Abbiamo sempre bisogno di riascoltare la Parola di Dio e di riprendere a seguire Gesù perché cresciamo con lui «in sapienza, in età e in grazia», come scrive Luca. Il Vangelo che viene annunciato in questa domenica ci porta vicino al Signore, unico pastore della nostra vita, perché noi ascoltandolo lo seguiamo e seguendolo lo amiamo.

Quest’ultima domenica dell’anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, re dell’universo. È la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. È una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. È la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che men­tre vediamo Cristo, come re dell’universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto. Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? È lo scetticismo di Pilato di fronte all’affermazio­ne di coloro che gliela avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: «Tu sei il re dei giudei?». L’aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l’affer­mazione fatta da Pilato: «Tu lo dici, io sono re!». Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: «Il mio regno non è di questo mondo». E ne porta una prova lampante: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei». È tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarez­za: «il mio regno non è di questo mondo». In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: «Il mio regno non è di quag­giù». La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul con­senso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall’alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l’avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di «uno, simile a figlio d’uomo» che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal «vegliardo» il «potere, la gloria e il regno». E la visione continua con una scena grandiosa: «Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto». La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pie­nezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra.

Al contrario, pur non essendo del mondo, il potere di Cristo si esercita sulla terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: «Dunque, tu sei re?». È come dire che l’accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per «rendere testimonianza alla verità». E aggiunge: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!». La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell’amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perdu­to, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» ( Gv 3,16-17). Gesù è il volto concreto dell’amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone della inimmaginabile «passio­ne» di Dio per gli uomini. È vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell’amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia. L’amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. È una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall’inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandez­za, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla «veri­tà» di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l’amore sconfigge ogni male, compresa la morte. In questa domenica che chiu­de l’anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell’amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: «Ecco, viene son le nubi del cielo e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batte­ranno il petto».

L’immagine della domenica

«Se qualcuno mi dimostrasse

che Cristo è fuori della verità,

mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo… Beh, io preferirei, lo stesso, restare con Cristo piuttosto che con la verità».

(F. Dostoevskij)

Casella di testo: Daniele 7,13-14
Apocalisse 1,5-8
Giovanni 18,33b-37



Siamo giunti alla fine dell’anno liturgico B, nel quale abbiamo ascoltato nella liturgia domenicale il vangelo secondo Marco. Domenica scorsa l’annuncio del Veniente, il Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26), ci ha rallegrati, perché questa è la nostra speranza, la nostra attesa: che il Signore Gesù venga nella gloria e venga presto. 
Oggi, in verità, celebriamo un aspetto di questa venuta nella gloria, attraverso il quarto vangelo, che con audacia profonda sa leggerla già nella storia di Gesù di Nazaret, addirittura nella sua passione. In essa avviene un’epifania: proprio quando Gesù è nel pretorio romano di Gerusalemme, consegnato dai capi dei giudei, si confessa davanti a Pilato “Re dei giudei”, cioè loro Messia, unto e inviato da Dio al suo popolo. Ma attenzione: nel quarto vangelo Gesù è un “Re al contrario”, non ha il potere mondano, la gloria dei re della terra, non si fregia dell’applauso della gente, non appare in una liturgia trionfale. Al contrario, proprio nella nudità di un uomo trattato come schiavo, quindi torturato, flagellato, finanche incoronato di spine, si rivela quale unico e vero Re di tutto l’universo, con una gloria che nessuno può strappargli, la gloria di chi ama gli altri fino alla fine (cf. Gv 13,1), di chi sa dare la vita per loro (cf. Gv 15,13), rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9): gloria dell’amore vissuto e dell’amore mai contraddetto. 

Preghiere e racconti

Occhi spalancati sulla croce

In quel Vangelo che portavo sempre in tasca cercavo dunque, prima di tutto, l’incontro con uno Sguardo capace di illuminare ogni cosa.

Ricordavo le parole della catechesi: io sono la Via, la verità, la Vita. E non era forse questo l’affanno costante dei miei giorni? Tra l’opacità del quotidiano, tra i suoi infiniti e ingannevoli viottoli, trovare la Via, la strada maestra il cui ingresso spesso è celato dai rovi. Lì, ne reo certa, erano nascosti i pilastri della Verità, e solo quei pilastri sarebbero stati in grado di accogliere per sempre la mia vita nella dimensione della libertà assoluta.

Dunque, grazie a Francesco, a un tratto scoprii che Cristo poteva anche avere gli occhi aperti, e che le sue braccia, anziché pendere mestamente dalla croce, potevano essere spalancate in un cosmico abbraccio. Fino ad allora, i pochi crocefissi che avevo visto erano tutti tristemente e dolorosamente morti. Quella desolazione, quei corpi inanimati, quegli occhi chiusi mi avevano fatta sentire esclusa da qualsiasi possibilità di dialogo.

Quanti danni ha fatto – e continua a fare – una visione di Cristo unicamente doloristica! A chi può parlare un uomo tormentato dagli spasmi dell’agonia? In un mondo ormai completamente scristianizzato, in cui l’unico vero peccato riconosciuto è quello della gola – perché attenta alla linea – come si può immaginare che le persone inizino un cammino spirituale se, come sprone, hanno davanti a sé un’immagine che non ha nessun segno della potenza della vita che verrà?

Oh, magnifici crocefissi con gli occhi spalancati, con le braccia aperte, vive, pronte ad abbracciare e a consolare ogni pianto.

Oh, sguardo di pura Luce, sguardo che contiene l’universo e costantemente lo rigenera, tocca i nostri cuori, invalidi!

Solo Tu puoi sciogliere il ghiaccio, solo tu puoi compiere la misteriosa alchimia in grado di trasformare la pietra in carne, l’odio in amore, la non vita della menzogna in vita!

Solo Tu puoi liberarci dalle catene che ci tengono prigionieri, ignoti, sconosciuti e ostili a noi stessi.

Solo Tu puoi donarci la libertà assoluta di chi non soccombe alla morte.

È questa la nostalgia che hai impresso in ogni embrione che si forma nella splendente profondità del ventre materno.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015, 145-147)

     La Verità e le verità

«Credo che la nostra maturità umana dipende dalla capacità di unificare noi stessi e il nostro sguardo sulla realtà. Altrimenti rischiamo di rimanere preda di un molteplice illusorio, di verità, libertà, parole…»

Esercizio non facile in una società multiculturale come quella in cui viviamo, dove si incrociano esperienze, tradizioni e religioni diverse e dove chi parla di una sola verità rischia di essere o di apparire un integralista. «Senza dubbio questo rischio c’è – ammette don Ignazio -, ma la verità di cui parlo io è la verità dell’indicibile. Quando la verità è dicibile c’è molta difficoltà a definirla come l’unica verità. La verità unica è quella che parla a tutti e quando non riesce a farlo bisogna essere prudenti a definirla l’unica vera verità. Quando diciamo che la parola è una noi siamo convinti di appartenere a questa verità, ma questa verità non ci appartiene, perché è molto più grande di noi e non possiamo gestirla né possiamo avere con essa un rapporto ideologico. Noi apparteniamo alla verità e all’infinito, ma l’infinito non ci appartiene».

(Dal libro di Enzo Romeo, I solitari di Dio. Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 10).

Un regno che libera, un re che si fa servitore

 Due re, uno di fronte all’altro. Pilato, la massima autorità civile e militare in Israele, il cui potere supremo è di infliggere la morte; Gesù che invece ha il potere, materno e creatore, di dare la vita in pienezza. Chi dei due è più libero, chi è più uomo? Pilato, circondato dalle sue legioni, prigioniero delle sue paure, oppure Gesù, un re disarmato che la verità ha fatto libero; che non ha paura, non fa paura, libera dalla paura, che insegna a dipendere solo da ciò che ami?

Mi commuove ogni volta il coraggio di Gesù, la sua statura interiore, non lo vedi mai servile o impaurito, neppure davanti a Pilato, è se stesso fino in fondo, libero perché vero. Dunque tu sei re? Pilato cerca di capire chi ha davanti, quel Galileo che parla e agisce in modo da non lasciare indifferente nessuno. La riposta: Sì, ma il mio regno non è di questo mondo. Forse riguarda un domani, un al di là? Ma allora perché pregare “venga il tuo regno”, venga nelle case e nelle strade, venga presto? I regni della terra, si combattono, il potere di quaggiù ha l’anima della guerra, si nutre di violenza. Gesù invece non ha mai assoldato mercenari, non ha mai arruolato eserciti, non è mai entrato nei palazzi dei potenti, se non da prigioniero. «Metti via la spada» ha detto a Pietro, altrimenti la ragione sarà sempre del più forte, del più violento, del più crudele, del più armato. Il suo regno è differente non perché si disinteressa della storia, ma perché entra nella storia perché la storia diventi tutt’altra da quello che è. I servi dei re combattono per loro. Nel suo regno accade l’inverso, il re si fa servitore: non sono venuto per essere servito, ma per servire. Non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il suo sangue; non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso per i suoi servi. «Il suo regno non è di questo mondo, ed è per questo che può essere in questo mondo, e può riprenderne le minime cose senza sciuparle, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» (Fabrice Hadjadj).

Pilato non può capire, prende l’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei. Voleva deriderlo e invece è stato profeta: il re è visibile là, sulla croce, con le braccia aperte, dove dona tutto di sé e non prende niente. Dove muore ostinatamente amando. E Dio lo farà risorgere, perché quel corpo spezzato diventi canale per noi, e niente di quell’amore vada perduto. Pilato poi si affaccia con Gesù al balcone della piazza, al balcone dell’universo, lo presenta all’umanità: ecco l’uomo! E intende dire: ecco il volto alto e puro dell’uomo.

(Ermes Ronchi)

La passione secondo Giovanni (cf. Gv 18,1-19,42), si compone di undici scene, ognuna situata in un luogo diverso. Al centro sta la scena dell’incoronazione di spine, in cui Gesù riceve l’adorazione dei soldati che lo sbeffeggiano e lo salutano con scherno: “Salve, Re dei giudei” (Gv 19,3), dandogli colpi in faccia. È una scena oggettivamente di derisione, di disprezzo, ma nel vangelo secondo Giovanni in verità è epifania, cioè rivela la vera regalità di Gesù, servo e vittima innocente del male del mondo. La scena-epifania di questa domenica è quella immediatamente precedente, la quarta, quando i capi dei giudei hanno ormai consegnato Gesù al procuratore romano, perché lo condanni a morte come malfattore. Pilato, che ha incontrato Gesù e non vorrebbe interessarsi della sua sorte, resiste alle pressioni degli accusatori e, entrato nel pretorio per chiamare Gesù, lo interroga. Innanzitutto gli chiede ciò che più gli interessa: “Sei tu il Re dei giudei?”. Ovvero: “Tu vanti un potere politico su questa terra e su questa gente?”. Questo, infatti, può essere un’insidia per Cesare. Ma Gesù non gli risponde subito, ponendogli invece a sua volta una domanda: “Tu, non ebreo, appartenente alle genti, ai gojim, mi fai questa domanda per una ricerca interiore o semplicemente perché sei istigato dai miei accusatori?”. Insomma, Pilato è manipolato dai capi dei giudei o la sua domanda nasce da una mozione interiore? Pilato, però, non comprende e mostra anzi il profondo disprezzo verso i giudei e anche verso Gesù, un uomo legato, consegnato a lui, inerme e per nulla bellicoso. Ripete solo a Gesù che sono proprio i suoi connazionali e correligionari ad averlo dato in balia del potere imperiale.

Segue dunque la domanda: “Che cosa hai fatto da poter essere incolpato, quale delitto contro la legge hai commesso?”. Ed ecco che Gesù fa la rivelazione: “Il Regno, quello mio, non è di questo mondo”. Quello di Gesù non è un regno che si instaura con la violenza della spada, non ha soldati pronti alla guerra, non è un regno tra i regni di questo mondo, in concorrenza tra loro. Ripeto, non è possibile nessuna concorrenza, tanto meno una conciliazione tra il Regno che Gesù annuncia e i regni che sono sulla terra: il Regno di Gesù è servizio, è dare la vita, è pace, giustizia e non può essere letto a partire dall’esperienza del potere propria degli esseri umani. Ma Pilato non riesce a reggere questa risposta di Gesù, non riesce a sintonizzarsi sulle sue parole. Non può fare altro che dirgli: “Dunque tu sei re?”, cioè pretendi – condannato come sei, in mio potere, ridotto a “cosa”, consegnato a me dai capi dei giudei e da me consegnabile alla morte – di essere re? Gesù allora replica: “Tu lo dici: io sono Re. Per essere Re sono venuto in questo mondo, con una missione che mi chiede semplicemente di essere testimone della verità: testimone della verità sull’uomo che è chiamato a essere figlio di Dio; testimone della verità che deve essere ‘fatta’, realizzata da ogni uomo e da ogni donna; testimone della verità di un Dio che ha tanto amato l’umanità da darle suo Figlio (cf. Gv 3,16)”.

Stiamo attenti: la verità non è una realtà astratta, non è neppure riducibile a una dottrina o a un’etica, ma è innanzitutto una “vita”, la vita di un uomo conforme alla volontà di Dio, la vita di un uomo che è vera e autentica quando è donata, dunque la vita di Dio stesso che Gesù vive in sé e narra umanamente a tutti quelli che lo incontrano, lo vedono, lo ascoltano.

In questa risposta a Pilato, dunque in questa epifania, Gesù è Re più che mai, Re dell’universo, Re di tutta l’umanità, perché è lui l’umanità autentica come Dio l’ha pensata, voluta e creata. Qui Gesù si mostra Re più che mai, perché non ha nessuna paura, perché regna su tutto ciò che lo attornia e su tutto ciò che accade; domina gli eventi, resta libero e parla, agisce solo per amore: regna con la regalità con la quale regna Dio! Se c’è un’ora in cui il Regno di Dio è venuto, è stato in mezzo a noi e si è rivelato, è stato narrato, questa è l’ora della passione e della croce.

Comprendiamo allora perché l’evangelista subito dopo annota che Pilato, rivolgendosi alla folla e ai capi dei giudei, proclama per due volte che Gesù è innocente, che non c’è in lui alcuna colpa secondo il diritto romano (cf. Gv 18,38; 19,4; e ancora in 19,6); poi, dopo averlo fatto flagellare (cf. Gv 19,1), lo presenta con le parole: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Pilato però – ci rivela sempre l’evangelista – durante quell’interrogatorio ha paura, e quando sente che, secondo l’accusa, Gesù si è fatto Figlio di Dio, “ha ancor più paura” (cf. Gv 19,7-8). I poteri di questo mondo possono non avere paura l’uno dell’altro, e per questo si fanno guerra; ma di fronte a Gesù “hanno paura”, perché Gesù inerme, mite, povero, innocente, regna veramente ed è lui il Re e il Giudice di tutto l’universo.

Questa festa di Cristo Re è stata come ri-evangelizzata dalla riforma liturgica del Vaticano II, grazie alla scelta delle letture evangeliche che presentano Gesù quale Re nella passione (il testo odierno è Lc 23,35-43) e quale Giudice veniente nella misericordia (cf. Mt 25,31-46).

(Enzo Bianchi)

Dio-verità

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.

Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.

Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Volete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio?  Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).

Imparare a riconoscere Gesù

Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manifesta in maniera chiara, che non ci dice come fare. Adagio adagio, però, si capisce che il Signore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca. Noi diventiamo veri ricercatori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.

Così cresciamo. Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col programma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema. Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca. Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è crescita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).

Il mio Regno non è di questo mondo

Ascoltate, giudei e gentili; ascoltate circoncisi, ascoltate incirconcisi; ascoltate, regni tutti della terra: «Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo. Il mio Regno non è di questo mondo (Gv 18,36)». Non lasciatevi prendere dal vano timore da cui fu colto Erode il Grande, quando gli fu annunciato che era nato Cristo e, nell’intento di far morire Gesù, uccise così tanti bambini (cfr. Mt 2,3.16). «Il mio Regno non è di questo mondo», dice Gesù. Che volete di più? Venite nel Regno che non è di questo mondo; venite con fede e non vogliate diventare crudeli per la paura! È vero che in una profezia Cristo, parlando di Dio suo Padre, dice: «Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo» (Sal 2,6), ma quella Sion e quel monte non sono di questo mondo. Che cos’è il Regno di Cristo? Sono quelli che credono in lui, a proposito dei quali egli dice: «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16), anche se egli voleva che rimanessero nel mondo, e per questo prega il Padre per essi: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal male» (Gv 17,15). Per questo anche qui non dice: «Il mio Regno non è in questo mondo», ma dice: «II mio Regno non è di questo mondo». E dopo aver dimostrato questo dicendo: «Se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai giudei» (Gv 18,36), non dice: «Ora il mio Regno non si trova in questa terra», ma dice: «Il mio Regno non è di questa terra». Il suo regno, infatti, è in questa terra fino alla fine dei secoli, e porta in sé la zizzania mescolata con il grano fino al momento della mietitura, che avverrà alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo Regno tutti gli scandali (cfr. Mt 13,38-41). E questo non potrebbe avvenire se il regno non fosse qui, sulla terra. Tuttavia, non è di questa terra, poiché è in esilio in questo mondo. A quelli che fanno parte del suo Regno egli dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 115,2,NBA XXIV, pp. 1520-1522).

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).

Preghiera

Troppe volte, Signore Gesù,

abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani,

ai vari dominatori del mondo.

Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro

e dall’angoscia del pericolo,

ci rivolgiamo ad altri «re».

Solo l’amore e la fiducia che ne deriva

liberano l’uomo dalla fobia

e dalla tirannia della sua presunzione.

Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo

e a guardare nel tuo futuro.

Tu, Re di misericordia,

ricordati di noi nel tuo Regno,

facci percepire il palpito del tuo cuore.

Un mondo disgregato dalla diffidenza,

dal dubbio e dallo scetticismo

trova solo in te la salvezza.

Il tuo Regno non è fatto

di splendido isolamento,

ma di profonda solidarietà

con l’umanità redenta.

Il tuo Regno non impone diffidenza,

ma libera, salva, assicura speranza.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

Tomáš Halík, Il sogno di un nuovo mattino. Lettere al papa.

Recensione del volume a cura di don Cesare Bissoli


Tomáš Halík, Il sogno di un nuovo mattino. Lettere al papa, Vita e Pensiero, Milano 2024, pp. 159, Euro 16.

Il libro ha un titolo suggestivo, ed insieme suona strano, eppure esprime un contenuto degno di attenzione, significativo, apprezzato da tanti lettori. Per questo lo presentiamo in questa nostra rubrica, con alcune indicazioni previe sulla persona dell’autore, diventato ormai noto nell’ambito teologico-ecclesiale in Italia ed oltre.

Tomáš Halík è un teologo, filosofo e sacerdote cattolico ceco di Praga, noto per il suo approccio dialogico e per l’integrazione di fede e cultura. Halík ha scritto molto su temi di spiritualità. Va ricordato – in relazione diretta al nostro volume- il suo libro Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di affrontare un’epoca di cambiamento, pubblicato da Vita e Pensiero, Milano 2022. È apprezzato per la sua profonda analisi critica del cristianesimo contemporaneo, ma anche per la speranza e l’incoraggiamento ad una fede matura e impegnata, capace di dialogare con un modo culturale in cambiamento continuo.

In continuità con questa tematica, Halík pubblica una riflessione sulla fede cristiana nella Chiesa di oggi, immaginando, e scrivendone, una raccolta di lettere rivolte ad un futuro Papa, quale capo al servizio della Chiesa. Per rafforzare il suo pensiero, l’A. usa un linguaggio singolare, intitola le sue lettere “sogno di un nuovo mattino”, con chiaro riferimento alternativo a Il pomeriggio del cristianesimo dell’opera precedente. Due altri dati da precisare sono: l’uso del termine sogno, attinto dall’esperienza biblica che secondo l’A. nella prima lettera spiega così: «I sogni come linguaggio dei desideri di Dio», per cui il sogno fissato in ogni lettera indica una realtà di cambio della Chiesa tanto fattibile, quanto impegnativo che sarà opera di Dio nella sua Chiesa, non senza l’impegno della Chiesa stessa. Per questa certezza del futuro – e non per l’abituale senso fantasioso – si chiama sogno. In tale ottica Halik, come abbiamo detto sopra, indirizza le sue lettere al Papa che verrà di nome Raffaele, come l’arcangelo che nella Bibbia è presentato quale guaritore delle ferite di Tobia, esprimendo così simbolicamente l’opera di Dio che vuol sanare i mali nella Chiesa oggi, richiamando per questo la responsabilità e l’intervento del Papa come servitore primario della Chiesa.

Queste ferite della Chiesa da guarire e che fanno sognare l’A. sono 12 (come gli apostoli, richiamati quali testimoni genuini della fede cristiana). Dopo avere dunque indicato i sogni come linguaggio dei desideri di Dio (1), nel nostro tempo Dio fa sognare la ricerca dell’ identità (quasi smarrita) della Chiesa (2), il che richiama quella che Halik prefigura la missione dei profeti (3)come fattore di autentico, radicale rinnovamento. Una esigenza primaria è di sognare la realtà di Dio come futuro (4), libero dai condizionamenti interessati del puro pensiero umano. Ciò richiede di fare posto a La dimenticata forza interiore della religione (5) intesa come intrinseca, necessaria comprensione spirituale della realtà. Un tratto, purtroppo oggi confuso, riguarda La cattolicità come responsabilità universale (6) in modo da avere una chiesa capace di dialogo interreligioso e interculturale. Ciò richiede la necessità, espressa da Papa Francesco con le parole: Madre Chiesa, esci da te stessa (7). È a quanto mira il Sinodo in atto, cioè alla liberazione da tante ristrettezze storiche mentali ed operative (tradizionalismo) che l’appesantiscono gravemente. Segue una serie di esigenze. La prima riguarda la fede. Perché sia genuina l’A. propone si riassume nel binomio amore e libertà: Ama e liberamente credi (8), Non può mancare l’attenzione vigile ed attiva alle risorse della tecnologia digitale a cui l’A. dà un titolo piuttosto enigmatico: L’aleph sulla fronte del Golem (9). È laleggenda ebraica che racconta la creazione dell’uomo artificiale, divenuto forza distruttiva incontrollabile. Con il titolo di Lettera di Natale (10), l’A. denuncia il senso sovente vuoto dell’avvenimento del Natale e ne precisa il vero significato: riguarda l’origine storica, umana di Gesù come salvatore dell’uomo e del mondo. Andando verso la fine del dialogo con Papa Raffaele, l’A. richiama l’attenzione delle conseguenze indicibili del male, invocando la necessità di Svuotare l’inferno (11). Il ragionamento si sviluppa invitando a porre una domanda netta e chiara all’ uomo di oggi, anzitutto a Papa Raffaele: Credi nell’inferno? Secondo la fede vera della Chiesa, Gesù ha «svuotato» l’inferno affermando la misericordia del Signore sempre e ovunque, ma non negando le conseguenze voraci del male che fa del male inesorabile a chi lo compie! L’ultima lettera si oppone alla precedente con l’affermazione, che è una invocazione ed un incoraggiamento nella speranza, di Riempire i cieli (12), di dare al Paradiso il diritto di esserci, affermando il valore dell’Ultima Cena, l’Eucaristia che è il panis viatorum per il viaggio della Chiesa nella storia verso il cielo. L’A. conclude i “sogni” scritti al papa, con una personale, commossa affermazione: «Quando arriverò a quella porta celeste non mi verrà chiesto di quantificare i risultati pastorali o il numero e la qualità delle mie conferenze e dei miei libri, ma se ho resistito all’orgoglio e ho mantenuto un cuore umile . Intercedi per me, papa Raffaele».

Cesare Bissoli

XXXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Daniele 12,1-3

      In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.  
      
  • La struttura dei 14 capitoli del libro di Daniele, a cui appartiene il brano della prima lettura, è molto semplice. Si tratta infatti di un libro nel quale prevale l’elemento narrativo, composto dal racconto delle vicende di Daniele alla corte del re Nabucodonosor (cap. 1-6), dalla descrizione delle sue visioni (capp. 7-12) e da tre episodi molto noti (il caso di Susanna, la confutazione dei sacerdoti del Dio Bel e l’uccisione del Drago-idolo: capp. 13-14). Più complesso è invece il modo con cui questo libro biblico trasmette il suo messaggio. Gli esegeti infatti collocano il libro di Daniele al culmine di quella produzione letteraria che nel Giudaismo è conosciuta come letteratura apocalittica. Questo genere letterario è stato molto utilizzato dagli autori dei testi apocrifici (quelli non accettati nel canone biblico): le loro immagini, le loro speculazioni sui numeri, le descrizioni di grandi bestie e di angeli, i segni premonitori della fine del mondo sono stati utilizzati (ma molto più sobriamente) anche dagli autori di alcuni libri biblici o di parti di essi (Daniele, parti di Is, Ez, Zc, Apocalisse).

     Il contenuto dell’apocalittica è racchiuso nel significato stesso di questo termine, che in greco significa «rivelazione». Al popolo biblico (e nel NT alla comunità cristiana) che si sente sfiduciato e che sta per cedere alla tentazione di sentirsi definitivamente abbandonato dal suo Dio, l’autore sacro assicura la «rivelazione» di Dio attraverso visioni, sogni, immagini e simboli che il destinatario sa comprendere e interpretare (a differenza della difficoltà che incontriamo noi oggi). L’angoscia dei tempi di persecuzione (sia per il popolo biblico che per i cristiani) favoriva l’utilizzazione del genere letterario dell’apocalittica; esso solo permetteva di proiettare l’attuale situazione di sofferenza nella vittoria definitiva che Dio avrebbe saputo riportare sul male e sui persecutori del suo popolo. Il momento dell’angoscia e della persecuzione veniva così considerato come via alla definitiva vittoria di Dio e dei buoni.

     In questo contesto va letto anche il brano della prima lettura. «Il tempo di angoscia» va compreso alla luce della riflessione che l’apocalittica fa sul momento presente della persecuzione: esso è preludio alla vittoria di Dio e del bene, non alla sconfitta e all’annullamento del suo popolo. «Si troverà scritto nel libro» è l’immagine biblica che rasserena l’uomo: egli fa parte del progetto di Dio («il libro»), un progetto buono e destinato a realizzarsi nel bene; perciò l’uomo non deve temere né il fallimento né l’abbandono. «Michele» è uno degli angeli che l’apocalittica colloca a protezione delle nazioni. Secondo l’angelologia giudaica ogni nazione ha un angelo protettore, descritto spesso come «capo» o «principe» o «comandante» di eserciti celesti (cf. Dan 10,13).

     «Vita eterna e l’infamia eterna» esplicitano la condizione dell’uomo davanti a Dio, dopo la risurrezione, a seconda del ruolo che ciascuno ha rivestito nella vita presente. Il momento della persecuzione sembra dar ragione ai più forti e alle potenze del male e sembra porre fine a tutto ciò in cui il popolo biblico ha sempre creduto. La «rivoluzione» che Dio fa al suo popolo è che la vera sorte e il vero destino dell’uomo sono definiti da Lui nell’aldilà e non nell’alternarsi continuo delle vicende di questo mondo.

Seconda lettura: Ebrei 10,11-14.18

         Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.  
  • La lettera agli Ebrei propone il tema del sacerdozio di Cristo, un tema che non viene trattato esplicitamente nei Vangeli. Nell’esporre la sua riflessione, l’autore di questa lunga «omelia» (come viene definita la Lettera agli Ebrei) si sofferma ora sul confronto tra il sacerdozio dell’AT e quello di Gesù, evidenziandone le differenze. Il primo era ereditario nell’ebraismo, infatti, la carica di sommo sacerdote (almeno fino ai tempi di Erode il Grande) era a vita e veniva trasmessa ai discendenti. Inoltre ad esso poteva accedere solo chi apparteneva alla tribù sacerdotale di Levi. Nel NT, invece, il sacerdozio costituisce uno speciale rapporto tra il credente e Gesù, una particolare chiamata, una risposta radicale alla sua sequela, cioè una vocazione.

     I sacerdoti dell’AT ripetevano ogni giorno e ogni anno gli stessi sacrifici e le stesse feste, senza tuttavia ottenere la salvezza e il perdono definitivo («Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati»). Il sacrificio di Gesù, invece, è definitivo ed esaustivo: con l’offerta di se stesso al Padre sulla croce ha ottenuto «una volta per sempre» la salvezza per tutta l’umanità.

     L’espressione «si è assiso per sempre alla destra di Dio» (che ricalca il Salmo 110 messianico-sacerdotale) sottolinea l’unicità («una volta per sempre») e la definitività del sacerdozio di Cristo; l’intronizzazione di Cristo alla destra di Dio dice eloquentemente che la sua opera «sacerdotale» è stata perfetta e non ha bisogno di essere ulteriormente completata con ripetizioni di riti e sacrifici, come invece avveniva nel sacerdozio levitico.

     Fondamentalmente il sacerdozio di Cristo consiste nell’aver egli sempre compiuto la volontà del Padre e nell’essersi offerto a lui nella totale disponibilità del suo essere (come le vittime sacrificate), fino ad accogliere docilmente la croce per la salvezza definitiva dell’umanità.

Vangelo: Marco 13,24-32

         In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.   Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.  In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».    

Esegesi

     Il brano evangelico contiene la conclusione del «discorso escatologico» di Gesù. In questo discorso sugli «ultimi avvenimenti» (come significa in greco il termine éscathon) si intrecciano e si sovrappongono vari elementi: la descrizione della distruzione del tempio di Gerusalemme la descrizione della fine del mondo, l’esortazione alla vigilanza e il ricorso ad alcuni temi cari al genere letterario dell’apocalittica. Gli studiosi hanno cercato di collocare in un certo ordine tutto questo complesso materiale e di interpretarlo per una migliore comprensione del messaggio che l’evangelista vuole comunicare al lettore (cf. J. Dupont, La distruzione del tempio e la fine del mondo. Studi sul discorso di Mc 13, Ed. Paoline, Roma 1979, pp. 44-54).

     Questo messaggio è profondamente radicato nella Bibbia e nella persona di Gesù. La Bibbia annuncia in ogni sua pagina l’avvento del Regno di Dio e Gesù realizza nella sua persona e nella sua vita questa promessa. Il nostro brano utilizza le immagini del genere letterario dell’apocalittica («in quel giorno», «quella tribolazione», «il Figlio dell’uomo venire sulle nubi», «il sole si oscurerà»), ma il contenuto e totalmente aperto alla salvezza portata da Gesù e alla sua presenza nel mondo, da Lui amato e salvato (a differenza delle immagini apocalittiche che lo vedono destinato alla catastrofe).                           

     Questa salvezza è stata possibile grazie all’incarnazione di Gesù e alla sua obbedienza al Padre, accettata fino alle estreme conseguenze, compresa l’esclusione dalla sua rivelazione di quanto in essa non rientrava (la conoscenza e la divulgazione del momento preciso della fine del mondo). Anche il cristiano deve rinunciare a calcoli cronologici, ma deve spendere ogni giorno della sua vita aderendo alle parole e al vangelo di Gesù, che realizzano la promessa biblica del Regno di Dio, «vicino» ad ogni generazione che si succede.

Meditazione

Ci stiamo ormai avviando verso la conclusione dell’anno liturgico. Il brano del Vangelo che viene annunciato in questa domenica fa parte del «discorso escatologico» («delle realtà ultime»), che in Marco com­prende tutto il capitolo 13 (è il discorso più lungo riportato dal secon­do evangelista). Gesù è appena uscito dal tempio, dove ha fatto l’elogio di una povera vedova che ha gettato nel tesoro tutto quanto aveva per vivere, e si sta dirigendo verso il monte degli ulivi da dove si può ammi­rare lo splendore del tempio. I discepoli, guardando questa incredibile costruzione, ne restano colpiti, e uno di loro dice a Gesù: «Maestro, guarda che pietre e che costruzione!». Ed in effetti si trattava di un complesso architettonico che suscitava le meraviglie di chiunque lo avesse veduto. Nello stesso Talmud si legge: «Chi non ha visto ultimato il santuario in tutta la sua magnificenza, non sa cosa sia la sontuosità di un edificio» (Sukka 51b). Gesù, quasi interrompendo le affermazioni di meraviglia del discepolo, dice a tutti che di quella costruzione non sarebbe rimasta pietra su pietra. I discepoli, al sentire queste parole, restano ovviamente stupiti e increduli. I tre più intimi, cui si aggiunge Andrea, subito chiedono quando tale disastro dovrebbe accadere. E Gesù risponde con un lungo discorso nel quale descrive gli avvenimen­ti degli «ultimi giorni». Il brano evangelico che è stato annunciato in questa domenica (Mc 13, 24-32) riporta il punto culminante del discor­so. Gesù, dopo aver parlato della «grande tribolazione» di Gerusalemme, annuncia che seguiranno sconvolgimenti cosmici: «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le poten­ze che sono nei cieli saranno sconvolte». E aggiunge: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».

Il testo evangelico suggerisce che il «Figlio dell’uomo» non viene nella stanchezza delle nostre abitudini, e neppure si inserisce nel natu­rale sviluppo delle cose. Quando egli verrà porterà un cambiamento radicale sia nella vita degli uomini che nella stessa creazione. Per espri­mere questa trasformazione profonda — una sorta di violenta interruzione della storia — Gesù riprende il linguaggio tipico della tradizione apocalittica allora molto diffusa, e parla di crollo cosmico, di scardinamento del sistema planetario. Già il profeta Daniele aveva preannuncia­to: «Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popo­lo, chiunque si troverà scritto nel libro». I testi della Scrittura non aval­lano, però, una sorta di «teoria della catastrofe», secondo la quale deve esserci prima l’inabissarsi del mondo in un completo fallimento per poter quindi attendere finalmente Dio che volgerà al bene ogni cosa. No, Dio non arriva alla fine, quando tutto è perduto; Egli non rinnega la sua creazione, che è stata creata tutta buona (cfr. Gn 1); nel libro dell’Apocalisse, infatti, leggiamo: «Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà esistevano e furono create» (4,11). La Scrittura, in tutte le sue pagine, esorta piuttosto ad operare (e ad invocare) per l’instaura­zione di una creazione nuova secondo l’immagine della città futura descrittaci nelle pagine finali dell’Apocalisse: «Vidi un cielo nuovo e una terra nuova; il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (21,1-2). Lo sconvolgimento del creato, che ci sarà, è finalizzato appunto all’instaurazione di questa «Gerusalemme» ove tutti i popoli della terra saranno radunati come in un’unica grande famiglia. Se del tempio che vedevano gli apostoli non sarebbe rimasta pietra su pietra è perché nella futura Gerusalemme non ci sarà più un tempio, appun­to come sta scritto: «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’On­nipotente e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21, 22).

Gesù parla di «ultimi giorni», ma dice anche che tali rivolgimenti avverranno in «questa generazione», ossia nel tempo che coinvolgeva i suoi ascoltatori. Del resto era la stessa presenza di Gesù a realizzare lo sconvolgimento del corso normale della vita del mondo; basti pensare a quanto accadeva con la sua predicazione e a quanto accadde con la sua resurrezione. L’irruzione del «Figlio dell’uomo» era ormai avvenu­ta e sarebbe continuata per tutte le generazioni che si sarebbero succe­dute lungo la storia. Il «giorno del Signore», prefigurato da Daniele e dagli altri profeti, irrompe in ogni generazione, anzi in ogni giorno della storia (è questo il vero senso della scansione degli anni in prima e dopo Cristo). E suggestiva l’espressione usata da Gesù sulla prossimi­tà degli «ultimi giorni». Egli dice: «sappiate che egli è vicino, è alle porte». Questa immagine è usata anche altre volte dalle Scritture per esortare i credenti ad essere pronti per accogliere il Signore che passa. «Ecco, il giudice è alle porte», scrive Giacomo nella sua lettera (5,9). E l’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3,20). Alle porte di ogni giornata della nostra vita c’è il Signore che bussa, c’è il «giorno ultimo» che attende di essere accolto, c’è il giudizio di Dio che intende trasformare il tempo che già ora viviamo.

La «fine del mondo» deve avvenire ogni giorno; ogni giorno dobbia­mo far finire un piccolo o un grande pezzo del mondo cattivo e malva­gio che, non Dio, ma gli uomini costruiscono. Del resto i giorni che passano finiscono inesorabilmente; di essi non resta più nulla se non il loro bagaglio di bene o, purtroppo, di male che noi realizziamo. La Scrittura ci invita ad avere davanti agli occhi questo futuro verso cui siamo diretti: la fine del mondo non è la catastrofe, ma l’instaurazione della città santa che scende dal cielo. Si tratta di una città, ossia di una realtà concreta non astratta che raccoglie tutti i popoli attorno al loro Signore. Questo è il fine (e, in certo modo, anche la fine) della storia. Ma questa città santa deve essere seminata già da ora nei nostri giorni, perché possa crescere e trasformare la vita degli uomini a sua immagi­ne. Non si tratta di un innesto automatico e facile. Gesù parla anche di opposizioni e persino di tradimenti, insomma di un cammino che richiede vigilanza, attenzione e anche lotta. E tuttavia non manca di assicurare i suoi della sua protezione. Dice loro: «nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime». Del resto ogni generazione cristiana deve percorrere la via trac­ciata dal Maestro. C’è quindi una fatica quotidiana che ogni credente deve compiere per costruire il mondo nuovo che Gesù è venuto ad iniziare. Ma la perseveranza nell’ascolto del Signore e nella sua sequela sono la garanzia della salvezza. Ricordando quanto Gesù ha detto: «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

L’immagine della domenica

GUARDIA PIEMONTESE (COSENZA)   –   2018  

«È di notte che è bello

credere alla luce».
(Edmond Rostand)

Casella di testo: Daniele 12,1-3
Ebrei 10,11-14.18
Marco 13,24-32


Il brano del Vangelo che viene annunciato in questa domenica fa parte del «discorso escatologico» («delle realtà ultime»), che in Marco comprende tutto il capitolo 13 (è il discorso più lungo riportato dal secondo evangelista). Gesù è appena uscito dal tempio, dove ha fatto l'elogio di una povera vedova che ha gettato nel tesoro tutto quanto aveva per vivere, e si sta dirigendo verso il monte degli ulivi da dove si può ammirare lo splendore del tempio. I discepoli, guardando questa incredibile costruzione, ne re-stano colpiti, e uno di loro dice a Gesù: «Maestro, guarda che pietre e che costruzione!». Ed in effetti si trattava di un complesso architettonico che suscitava le meraviglie di chiunque lo avesse veduto. Nello stesso Talmud si legge: «Chi non ha visto ultimato il santuario in tutta la sua magnificenza, non sa cosa sia la sontuosità di un edificio» (Sukka 51b). Gesù, quasi interrompendo le affermazioni di meraviglia del discepolo, dice a tutti che di quella costruzione non sarebbe rimasta pietra su pietra. I discepoli, al sentire queste parole, restano ovviamente stupiti e increduli. I tre più intimi, cui si aggiunge Andrea, subito chiedono quando tale disastro dovrebbe accadere. E Gesù risponde con un lungo discorso nel quale descrive gli avvenimenti degli «ultimi giorni». Il brano evangelico che è stato annunciato in questa domenica (Mc 13, 24-32) riporta il punto culminante del discorso. Gesù, dopo aver parlato della «grande tribolazione» di Gerusalemme, annuncia che seguiranno sconvolgimenti cosmici: «il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte». E aggiunge: «Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».


Preghiere e racconti

Una scheggia di luce

Fin dai primordi della civiltà marinara l’uomo ha imparato a fare dei grandi fuochi sulla costa, per aiutare i naviganti a orizzontarsi nella notte.

Ai fuochi, sono succeduti i fari e, anche se ormai siamo nell’epoca dei satelliti, la maggior parte dei fari continua fedelmente a fare il suo lavoro.

Da bambina rimanevo incantata per ore a guardare il fascio di luce che il grande faro di Barcola proiettava nel golfo antistante.

La sua regolarità era quasi ipnotica.

C’era il buio, e poi subito dopo quella striscia di luce che sferzava la notte con regolare fermezza, come se avesse voluto tagliarla a spicchi. Una volta ho voluto persino andare a visitarlo, ma dato che era giorno è stata una delusione. Senza le lanterne e il buio intorno, non era altro che una torre molta alta.

Che cos’altro sono i sacramenti, se non la luce che irrompe nella notte e ci permette di ritrovare la rotta che ci conduce in porto?

E che cos’è questa luce, se non il respiro dell’Eterno che, per un istante, irrompe nel tempo? Credevamo che tutto fosse qui invece, a un tratto, scopriamo che c’è una realtà che ci trascende, che precede la nostra esistenza e la segue.

E questa realtà ci parla del divino che c’è in noi. In fondo al grigiore dei giorni, una scheggi di luce splendente.

Invece di lasciarla, in cantina, a coprirsi di polvere, decidiamo di prenderci cura di lei, di lustrarla come faceva Aladino con la sua lampada. Non ne uscirà un Genio obbediente, ma qualcosa di più bello e di più grande.

Di più sorprendente.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015, 182-183).

Ogni giorno un mondo nasce e uno muore

Un Vangelo sulla crisi e insieme sulla speranza, che non intende incutere paura (non è mai secondo il vangelo il volto di un Dio che incute paura), che vuole profetizzare non la fine, ma il fine, il significato del mondo.

La prima verità è che l’universo è fragile nella sua grande bellezza: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo… Eppure non è questa l’ultima verità: se ogni giorno c’è un mondo che muore, ogni giorno c’è anche un mondo che nasce. «E si va di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi» (Gregorio di Nissa).

Quante volte si è spento il sole, quante volte le stelle sono cadute a grappoli dal nostro cielo, lasciandoci vuoti, poveri, senza sogni: una disgrazia, una malattia, la morte di una persona cara, una sconfitta nell’amore, un tradimento. Fu necessario ripartire, un’infinita pazienza di ricominciare. Guardare oltre l’inverno, credere nell’estate che inizia con il quasi niente, una gemma su un ramo, la prima fogliolina di fico, «nella speranza che viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa» (Paul Ricoeur).

Gesù educa alla speranza, a intuire dentro la fragilità della storia come le doglie di un parto, come un uscire dalla notte alla luce. Quanto morir perché la vita nasca (Clemente Rebora). Ben vengano allora certe scosse di primavera a smantellare ciò che merita di essere cancellato, anche nella istituzione ecclesiastica. E si ricostruirà, facendo leva su due punti di forza.

Il primo: quando vedrete accadere queste cose sappiate che Egli è vicino, il Signore è alle porte. La nostra forza è un Dio vicino, «la sua strada passa ancora sul mare, anche se non ne vediamo le tracce» (Salmo 77,20). La nostra nave non è in ansia per la rotta, perché sente su di sé il suo Vento di vita.

Il secondo punto di forza è la nostra stessa fragilità. Per la sua fragilità l’uomo, tanto fragile da aver sempre bisogno degli altri, cerca appoggi e legami. Ed è appoggiando una fragilità sull’altra che sosteniamo il mondo. Dio è dentro la nostra fragile ricerca di legami, viene attraverso le persone che amiamo. «Ogni carne è intrisa d’anima e umida di Dio» (Bastaire).

Il Vangelo parla di stelle che cadono. Ma il profeta Daniele alza lo sguardo: i saggi risplenderanno, i giusti saranno come stelle per sempre, il cielo dell’umanità non sarà mai vuoto e nero, uomini giusti e santi si accendono su tutta la terra, salgono nella casa delle luci, illuminano i passi di molti. Sono uomini e donne assetati di giustizia, di pace, di bellezza. E sono molti, sono come stelle nel cielo. E tutti insieme foglioline di primavera, del futuro buono che viene.

(Ermes Ronchi)

Vivere l’attesa del Signore

Prima lettura e vangelo contengono un messaggio escatologico: Daniele annuncia il tempo della resurrezione e il vangelo l’evento della venuta gloriosa del Figlio dell’uomo. In entrambi i testi l’evento annunciato è al contempo di giudizio e di salvezza. L’escatologia, con al suo centro la venuta del Signore nella gloria, è dimensione che presenta difficoltà notevoli per una sua traduzione in termini di vita spirituale e anche di annuncio e di predicazione. Ora, la venuta gloriosa è anzitutto una parola in cui Gesù impegna se stesso (“Le mie parole non passeranno”: Mc 13,31), è una promessa del Signore che chiede fiducia al credente.

La Bibbia cristiana termina con la promessa del Signore “Sì, vengo presto” (Ap 22,20) che, mentre chiude il libro, apre la storia dei cristiani nel mondo alla speranza e al futuro. Inoltre l’annuncio della venuta del Signore è parte integrante del mistero cristologico: Cristo è già venuto nella storia nel passato, ma verrà anche nel futuro alla fine della storia; è il Verbo che ha presieduto la creazione nell’“in principio” e il Veniente che sigillerà la nuova creazione escatologica.

Il Christus totus è anche il Cristo che verrà: la venuta finale è pertanto istanza perenne di giudizio della chiesa. Il Veniente è il Signore della chiesa. Dire che “il Signore verrà nella gloria” significa affermare la signoria di Cristo sulla storia e sul tempo. La venuta del Signore non porta con sé lo scacco del mondo, ma il suo futuro: mentre annuncia una fine instaura un fine. Il Dio rivelato da Gesù Cristo è il futuro, non il fallimento del mondo.

Il vangelo sottolinea che l’annuncio della venuta del Signore non aliena il credente dall’oggi, anzi gli chiede capacità di aderire al presente, anzi alla terra in cui vive, e di amarla. Una delle parole di Gesù più dense di tenerezza e di attenzione al reale è il detto che segue l’annuncio dei fenomeni cosmici che accompagneranno la venuta del Figlio dell’uomo: “Dal fico imparate la parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l’estate è vicina” (v. 28).

Solo chi sa osservare realmente i rami del fico e coglie il momento in cui essi mettono i nuovi germogli può esprimersi così. Solo chi ama la terra, questa terra, può credere la nuova terra della promessa. Mentre annuncia l’evento escatologico, Gesù chiede all’uomo di mettersi alla scuola dell’albero del fico e, con esso, di tutta la natura colta come parabola della storia di Dio con il mondo. La fedeltà alla terra è la condizione per credere e attendere la venuta gloriosa del Signore.

La venuta è annunciata come certa, ma il suo momento è incerto (v. 32): il credente può dunque assumerla spiritualmente nello spazio di un’attesa che si declina come resistenza (cioè forza nelle avversità e nelle tribolazioni della storia: Mc 13,24 e i vv. precedenti), come pazienza (cioè capacità di vivere l’incompiutezza del quotidiano), come perseveranza (cioè rifiuto di apostatare nei tempi bui), come fede che crede le cose invisibili più salde e sicure di quelle visibili (cf. 2Cor 4,17-18). “Beato chi attenderà con pazienza” (Dn 12,12).

Lo sconvolgimento delle realtà celesti (cf. Mc 13,24-25) dice che è in atto un evento divino, ma sole e luna, astri e potenze celesti erano anche, nel pantheon degli antichi romani (e Marco scrive a cristiani di Roma) entità divinizzate. Qui non vi è solo la fine del mondo, ma la fine di un mondo, il crollo del mondo degli dèi pagani detronizzati dal Figlio dell’uomo.

E se si afferma che la fine dell’idolatria si compirà con il Regno di Dio instaurato dalla venuta del Signore, si insinua anche che la prassi dei cristiani nel mondo può costituire un segno del regnare di Dio grazie alla vigilanza per non far regnare su di sé gli idoli. Probabilmente, molti destinatari romani del vangelo prima della conversione erano adoratori di questi idoli. Annunciando la sua venuta gloriosa, Gesù chiede dunque ai cristiani, come gesto profetico, la conversione. Vivere l’attesa del Signore significa vivere in stato di conversione.

(Luciano Manicardi)

Dopo l’11 settembre

Il paradosso del nostro tempo nella storia è che abbiamo edifici sempre più alti, ma moralità più basse,

autostrade sempre più larghe, ma orizzonti più ristretti.

Spendiamo di più, ma abbiamo meno, comperiamo di più, ma godiamo meno.

Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole, più comodità, ma meno tempo.

Più conoscenza, ma meno giudizio, più esperti, e ancor più problemi,

più medicine, ma meno benessere.

Beviamo troppo, fumiamo troppo,

spendiamo senza ritegno, ridiamo troppo poco,

guidiamo troppo veloci, ci arrabbiamo troppo, facciamo le ore piccole, ci alziamo stanchi,

vediamo troppa TV, e preghiamo di rado.

Abbiamo moltiplicato le nostre proprietà, ma ridotto i nostri valori.

Parliamo troppo, amiamo troppo poco e odiamo troppo spesso.

Abbiamo imparato come guadagnarci da vivere, ma non come vivere.

Abbiamo aggiunto anni alla vita, ma non vita agli anni.

Siamo andati e tornati dalla Luna, ma non riusciamo ad attraversare la strada

per incontrare un nuovo vicino di casa.

Abbiamo conquistato lo spazio esterno, ma non lo spazio interno.

Abbiamo creato cose più grandi, ma non migliori.

Abbiamo pulito l’aria, ma inquinato l’anima.

Abbiamo dominato l’atomo, ma non i pregiudizi.

Pianifichiamo di più, ma realizziamo meno.

Abbiamo imparato a sbrigarci, ma non ad aspettare.

Costruiamo computers più grandi per contenere più informazioni, per produrre più copie che mai, ma comunichiamo sempre meno.

Questi sono i tempi del fast food e della digestione lenta, grandi uomini e piccoli caratteri,

ricchi profitti e povere relazioni.

Questi sono i tempi di due redditi e più divorzi, case più belle ma famiglie distrutte.

Questi sono i tempi dei viaggi veloci, dei pannolini usa e getta,

della moralità a perdere, delle relazioni di una notte, dei corpi sovrappeso e delle pillole che possono farti fare di tutto,

dal rallegrarti al calmarti, all’ucciderti.

E’ un tempo in cui ci sono tante cose in vetrina e niente in magazzino.

Un tempo in cui la tecnologia può farti arrivare questa lettera,

e in cui puoi scegliere di condividere queste considerazioni con altri, o di cancellarle.

Ricordati di spendere del tempo con i tuoi cari ora, perché non saranno con te per sempre.

Ricordati di dire una parola gentile a qualcuno che ti guarda dal basso in soggezione,

perché quella piccola persona presto crescerà e lascerà il tuo fianco.

Ricordati di dare un caloroso abbraccio alla persona che ti sta a fianco,

perché è l’unico tesoro che puoi dare con il cuore e non costa nulla.

Ricordati di dire “vi amo” ai tuoi cari, ma soprattutto pensalo.

Un bacio e un abbraccio possono curare ferite che vengono dal profondo dell’anima.

Ricordati di tenerle le mani e godi di questi momenti, perché un giorno quella persona non sarà più lì.

Dedica tempo all’amore, dedica tempo alla conversazione,

e dedica tempo per condividerei pensieri preziosi della tua mente.

E ricorda sempre: la vita non si misura da quanti respiri facciamo,

ma dai momenti che ci tolgono il respiro.

(George Carlin).

Le due venute

Noi annunciamo non solo una, ma due venute di Cristo, la seconda molto più risplendente della prima. La prima si compì sotto il segno della pazienza, la seconda porta la corona del regno regale. Per lo più, infatti, il Signore nostro Gesù Cristo si manifesta in duplice modo: in due nascite, una da Dio prima dei secoli e una dalla Vergine al compimento dei secoli; in due discese, una nel nascondimento come pioggia sul vello (cfr. Sal 71 [72] ,6) e una che alla fine sarà manifesta; in due venute: nella prima, avvolto in fasce dentro la stalla e, nella seconda, avvolto da un manto di luce (cfr. Lc 2,7; Sal 103 [104] ,2); nella prima, sottoposto all’umiliazione della croce che non giudicò vergognosa e, nella seconda, scortato da schiere angeliche nella gloria. Crediamo fermamente, dunque, non solo alla prima venuta, ma attendiamo anche la seconda. Se nella prima abbiamo detto: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21,9), nella seconda ripeteremo di nuovo le stesse parole e così correndo incontro al Signore insieme agli angeli, prostrandoci diremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 23,39). Il Salvatore verrà di nuovo non per essere giudicato, ma per giudicare quelli che l’hanno giudicato. […] Viene il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli, viene nella gloria nell’ultimo giorno; vi sarà infatti la fine di questo mondo e sarà creato un mondo nuovo. Sarà rinnovata la terra sommersa da corru-zioni, furti, adulteri e ogni genere di peccati, il mondo bagnato di sangue misto a sangue (cfr. Os 4,1), perché questa meravigliosa dimora dell’uomo non resti colma di iniquità. Questo mondo possa perché ne appaia uno migliore. […] Passeranno le cose che ora vediamo e verranno quelle migliori che attendiamo, ma nessuno pretenda di sapere quando. Sta scritto: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At 1,7). Non devi temerariamente pretendere di sapere che cosa accadrà dopo, né supinamente adagiarti nel sonno. Sta scritto: «Vegliate perché nell’ora in cui non l’aspettate verrà il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42.44).

(CIRILLO DI GERUSALEMME, Le catechesi 15,1.3-4, PG 33.869A-B; 872C-873; 876A).

La biblioteca di Dio

Credo che in qualche punto dell’universo debba esserci un archivio in cui sono conservate tutte le sofferenze e gli atti di sacrificio dell’uomo. Non esisterebbe giustizia divina se la storia di un misero non ornasse in eterno l’infinita biblioteca di Dio.

(Isaac Bashevis Singer).

Trova il tempo

Trova il tempo di pensare;

trova il tempo di pregare;

trova il tempo di ridere.

È la fonte del potere;

è il più grande potere sulla terra;

è la musica dell’anima.

Trova il tempo per giocare;

trova il tempo per amare ed essere amato;

trova il tempo di dare.

È il segreto dell’eterna giovinezza;

è il privilegio dato da Dio;

la giornata è troppo corta per essere egoisti.

Trova il tempo di leggere;

trova il tempo di essere amico;

trova il tempo di lavorare.

È la fonte della saggezza;

è la strada della felicità;

è il prezzo del successo.

Trova il tempo di fare la carità;

è la chiave del Paradiso.

(poesia scritta sul muro della Casa dei bambini di Calcutta).

Insegnami ad usare bene il tempo

Dio mio,

insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai

e ad impiegarlo bene,

senza sciuparne.

Insegnami a prevedere senza tormentarmi,

insegnami a trarre profitto dagli errori passati,

senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.

Insegnami ad immaginare l’avvenire senza disperarmi

che non possa essere quale io l’immagino.

Insegnami a piangere sulle mie colpe senza cadere nell’inquietudine.

Insegnami ad agire senza fretta,

e ad affrettarmi senza precipitazione.

Insegnami ad unire la fretta alla lentezza,

la serenita’ al fervore, lo zelo alla pace.

Aiutami quando comincio,

perche’ e’ proprio allora che io sono debole.

Veglia sulla mia attenzione quando lavoro,

e soprattutto riempi Tu i vuoti delle mie opere.

Fa’ che io ami il tempo che tanto assomiglia alla Tua grazia

perche’ esso porta tutte le opere alla loro fine e alla loro perfezione

senza che noi abbiamo l’impressione di parteciparvi in qualche modo.

(Jean Guitton)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO:

XXXI DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Deuteronomio 6,2-6

           Mosè parlò al popolo dicendo: “Temi il Signore tuo Dio os­servando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il fi­glio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così sia lunga la tua vita. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il lat­te e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno so­lo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore”.            
  • Come purtroppo diverse volte avviene per i brani liturgici, il testo biblico è stato ritagliato in modo non rispettoso dell’andamento originario. Nel suo tenore completo e primario il testo consterebbe avere due sezioni.

La prima va dal v. 1, escluso dalla versione liturgica, al v. 3. Essa è un invito a dare concretezza al «timore di Dio», cioè alla considerazione di Lui per quello che è nella sua divinità e autorità, attraverso l’osservanza di «tutte le sue leggi e di tutti i suoi comandi». Senza entrare nella analisi dei due diversi termini giuridici noteremo qui semplicemente la completezza tipica del linguaggio deuteronomista. Nessuna prescrizione divina deve essere trascurata, nessun giorno della vita può trascorrere senza la premura di custodirle. Tutto l’arco generazionale che un uomo può conoscere da se stesso fino ai suoi nipoti deve costituire anche la durata dell’osservanza.

Altra caratteristica del Deuteronomio è quella di legare all’obbedienza alla legge dei benefici concreti. Il primo è la longevità. Poco prima in 5,16 la lunga vita era già stata promessa come conseguenza dell’osservanza del quarto comandamento. Il secondo è la posterità numerosa, contenuto tipico delle promesse fatte ai patriarchi (Gentile 12,2; 13,14-16; 15,5 ecc.) e prospettiva decisamente appetibile nella cultura dell’antico vicino oriente. Vita e discendenza sono così punto di convergenza delle aspirazioni umane e delle promesse divine; Dio desidera dare all’uomo ciò a cui egli tende. L’ambiente storico entro il quale queste promesse si realizzeranno è la terra promessa, anche qui indicata come la «terra dove scorre latte e miele» (cf. Es 3,8.17; 13,5; 33,3). L’immagine poetica rende assai bene l’impressione che si ha arrivando dal deserto di Giuda alle zone più fertili della terra d’Israele. Per un popolo di nomadi abituati all’aridità e spoliazione del deserto una terra come quella a cui Dio conduceva non poteva che meritare una descrizione come quella che ormai ci è familiare.

La seconda sezione va dal v. 4 al v. 9, ma nella lettura liturgica abbiamo solo i primi due versetti di questo passaggio tra i più noti della letteratura biblica.

Come si sa gli ebrei recitano tre volte al giorno la preghiera dell’ascolta, costituito appunto da Dt 6,4-9. Più che un’orazione esso è una professione di fede. La dichiarazione più importante, cioè «il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno so­lo» nel testo originale è un accoppiamento di due sentenze nominali, vale a dire di due proposizioni in cui il verbo essere è assente. Oltre alla traduzione ufficiale italiana che lo ripete in entrambe si avrebbe dunque anche la possibilità di lasciare il predicato verbale in una sola delle affermazioni. Si avrebbe così come prima possibilità di traduzione: JHWH è il nostro Dio, JHWH solo. Reso così il testo pone una dichiarazione fortissima di monoteismo, oltre a YHWH non esiste nessun altra divinità. Non si tratta solamente di una affermazione teorica, ma di una dichiarazione che polemizza con l’avversario cananeo del Dio d’Israele Baal, il cui culto esercitava fascino sugli israeliti e trascinava effettivamente al peccato. La seconda possibilità di traduzione sarebbe: YHWH nostro Dio è un solo JHWH. In questo caso la polemica sarebbe con i diversi santuari locali che rischiavano di creare un pluralismo confusionario di tradizioni teologiche, non sempre controllabili nella ortodossia e una conseguente sospetta pluralità di culti. Si ricorderà certamente che il tema portante della tradizione deuteronomista è l’unicità del tempio e del culto a Gerusalemme, tenacemente voluta e realizzata da Giosia. La scelta legittima della versione CEI si pone nella linea della proclamazione del monoteismo più puro.

Se YHWH è l’unico Dio deve essere amato con assoluta totalità. In altre formule in cui si richiede l’impegno dell’israelita il Deuteronomio implica solamente il cuore e l’anima (4,29; 10,12; 11.13; 26,16; 30,1.6.10), nel nostro testo anche le forze, cioè l’attività fisica dell’uomo viene implicata. L’amore a Dio non rimane quindi una questione di semplice interiorità, ma tutte le facoltà umane vengono coinvolte: intelligenza, volontà, sentimenti, fantasia, creatività, ben consapevoli che fermandoci qui l’elenco è molto lontano dall’essere completo.

All’israelita viene chiesto di «amare» il suo Dio. Il verbo ebraico esprime una gamma vasta di relazioni affettive. Con esso si può indicare l’amore coniugale, quello filiale o fraterno, l’affetto che lega due amici. Se ritenessimo Osea uno degli ispiratori del messaggio deuteronomista, e il suo influsso non è certamente da escludere, bisognerebbe dare la precedenza all’affetto filiale (cf. Os 11,1-4 e Dt 8,5; 14,1) e a quello sponsale, largamente impiegato dal grande profeta per indicare l’alleanza tra Dio e il suo popolo tradita da Israele, custodita invece dal suo sposo. A Israele viene dunque chiesto di vivere l’alleanza con il suo Dio come l’esperienza affettiva più intensa, più piena, veramente unica.

Seconda lettura: Ebrei 7,23-28

            Fratelli, [gli Israeliti] sono diventati sacerdoti in gran nume­ro, perché la morte impediva loro di durare a lungo; Cristo in­vece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore. Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato so­pra i cieli; che non ha bisogno ogni giorno, come gli altri som­mi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso. La legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore al­la legge, costituisce tale il Figlio reso perfetto in eterno.       
  • Nella sezione 7,20-25 la lettera agli Ebrei parla della immutabilità del sacerdozio di Cristo. Al centro del brano vi è la citazione di Sal 110,4 che riporta il giuramento divino: «tu sei sacerdote per sempre». Il brano liturgico illustra il contrasto tra il sacerdozio numericamente molteplice e qualitativamente insufficiente dei ministri della alleanza antica e il perfetto, intramontabile sacerdozio di Cristo. La causa principale dell’imperfezione del sacerdozio della vecchia economia era la morte. Impedendo agli addetti al culto di durare, ne imponeva la sostituzione e i limiti spaziali a cui l’essere umano è soggetto se ne esigeva anche un grande numero.

Il compito del sacerdote è quello di esercitare una mediazione. Attraverso l’offerta di sacrifici, libera gli uomini dai peccati e li rimette in comunione con Dio. Dopo la sua risurrezione Gesù rimane a pieno titolo nella sua dimensione di eternità e vi rimane anche con la sua glorificata umanità. Non più soggetto alla morte, il suo sacerdozio è intramontabile sia nell’aspetto dell’intercessione sia in quello dell’offerta. Per quanto riguarda l’intercessione, la lettera agli Ebrei aveva già presentato questo ruolo di Gesù in 4,14-16 e vi ritornerà sopra la prossima domenica in 9,24. Circa l’offerta, invece, la presente lettura è uno dei passaggi più decisi nell’affermare l’unicità dell’offerta di Cristo al v. 28. Gli altri punti in cui la nostra lettera ribadisce questo insegnamento sono: 9,12.25-28; 10,12-14.18.

Così l’ufficio sacerdotale di liberare dal peccato e riavvicinare a Dio è perfettamente compiuto da Gesù.

Nel v. 26 una serie di aggettivi tratteggia il ritratto ideale di sacerdote che Gesù realizza. In primo luogo Egli è definito «santo». In questa qualifica si assommano le relazioni fondamentali della persona che anche Gesù vive: con Dio, con i fratelli, con se stesso. La santità del resto è la condizione imprescindibile per celebrare e per partecipare al culto e di conseguenza è la prima caratteristica che il Sacerdote unico ed efficace deve innanzitutto possedere. L’aggettivo «santo» si riferisce ai rapporti con Dio vissuti nell’espletamento di tutti i doveri verso di Lui; si tratta della «pietà» come coltivazione dei doveri religiosi nella più assoluta delicatezza e fedeltà. Viene poi l’attributo «innocente» con il quale si illustra il rapporto con il prossimo, dal quale rapporto è esclusa ogni malizia, ogni doppiezza, ogni inganno o falsità per prevaricare sull’altro. La relazione con il prossimo che viene qui illustrata non conosce ombra di male. Infine il Sacerdote ideale è definito «senza macchia», qualifica che nel testo originale è espressa con un solo termine, un aggettivo appunto. Qui si parla del rapporto interno che il soggetto ha con se stesso, con la propria coscienza anch’essa estranea al male. Così si capisce perché e in che modo al Sacerdote era necessario essere separato dai peccatori. Non si trattava di una distanza fisica, cosa che per altro Gesù non ha mai vissuto venendo anzi qualificato «amico dei peccatori» (Mt 11.19; Lc 7,34), ma di una differenza interiore che costituisce l’unicità di Gesù anche nella sua umanità.

La nuova condizione nella quale il Figlio si trova è il santuario celeste (4,14; 9,1). Lì espleta nella vera e piena intimità col Padre l’ininterrotta e fruttuosa mediazione per l’umanità.         

Il v. 27 accenna ad una attività quotidiana che il sommo sacerdote ebraico in realtà non espletava. Il culto giornaliero nel tempio infatti era officiato da ministri di grado inferiore. Può darsi che l’autore sacro alluda ad una offerta di farina che si teneva tutti i giorni a spese del sommo sacerdote a ricordo ed espiazione della tolleranza che Aronne ebbe verso gli israeliti quando fabbricarono il vitello d’oro (Es 32). In ogni caso è fuori discussione che quando presiedeva le solenni celebrazioni il sommo sacerdote non si collocava al di sopra del popolo, ma all’interno di esso, solidale con la condizione peccaminosa d’Israele e bisognoso come gli altri di perdono.

Gesù invece costituisce una eccezione spiegata dal testo sacro non tanto in virtù dell’ontologia di Cristo, alla quale specialmente il prologo della lettera era stato dedicato (1,1-4), ma per la perfetta coincidenza tra sacerdote e vittima che esclusivamente in Gesù viene riscontrata. Egli ha offerto se stesso non solo fisicamente, ma ancora di più tale offerta consumata è frutto di un’adesione totale e spontanea alla volontà del Padre, come ben mostrato in 10,3-10, che per altro pure si conclude con la perentoria affermazione dell’unicità del sacrificio di Cristo.

Nel v. 28 viene posta una distinzione tra il sacerdozio della vecchia economia, basata sulla legge, e quello di Gesù che ha come fondamento un giuramento divino, ricordato al v. 21, che non appartiene alla versione liturgica. Distinto è il fondamento della funzione sacerdotale, ma soprattutto differente la qualità. Il sacerdozio di Cristo è perfetto per quanto Egli ha sofferto (2,10) e per l’intercessione perpetua e valida che Egli sempre esercita a nostro favore (6,20).

Vangelo: Marco 12,28b-34

         In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli do­mandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio no­stro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua for­za. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di que­sti”. Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secon­do verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olo­causti e i sacrifici”. Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il co­raggio di interrogarlo.             

Esegesi

Nell’ultima settimana della sua vita, trascorsa a Gerusalemme, Gesù frequenta assiduamente il tempio svolgendovi una intensa attività didattica. Marco raccoglie nel capitolo 12 del suo vangelo l’insegnamento impartito dal Signore prima della sua passione e lo conclude con l’episodio dell’offerta della vedova, che sarà il brano evangelico della prossima domenica.

Il v. 28 viene praticamente tralasciato dalla lettura liturgica. Esso invece spiega perché lo scriba si rivolge a Gesù. Egli aveva assistito al modo in cui Gesù aveva risolto il caso propostogli dai sadducei per mostrargli come fosse arduo e ingenuo sostenere la dottrina della risurrezione e così costringere Gesù ad arrendersi alle loro credenze narrando una situazione alla quale, secondo loro era impossibile dare equa soluzione. Il modo in cui Gesù aveva sostenuto la controversia e l’aveva risolta aveva suscitato fiducia nello scriba accendendo in lui la convinzione che avrebbe potuto ricevere da un simile personaggio la soluzione per un problema ben più importante. Nella selva di precetti in cui il giudaismo di allora si era inceppato non era per nulla facile trovare l’albero dal quale avere la vita, e ai grandi studiosi della legge e caposcuola della sua interpretazione non veniva risparmiata la domanda su quanto fosse essenziale riassumesse in sé la pratica di tutta la religiosità ebraica. A conti fatti risultava che i precetti da vivere erano 613 divisi in prescrizioni e divieti. I primi erano calcolati in 248, cifra che secondo l’anatomia di allora elencava le diverse membra del corpo; i secondi invece corrispondevano al numero di giorni dell’anno: 365.

Un grande maestro di aperte vedute vissuto prima di Gesù aveva sintetizzato la pratica religiosa con parole che anticipano la regola d’oro: «Non fare agli altri ciò che non piace a te» (cf. Mt 7,12; Lc 6,31). Un altro maestro che si lasciò coinvolgere nella seconda rivolta giudaica morendovi martire, Rabbi Aqiba, proponeva l’amore del prossimo.

La risposta di Gesù parte dall’uso già invalso al suo tempo di recitare quotidianamente la preghiera dell’Ascolta, proponendo così, come passo essenziale per arrivare alla vita, la fede nell’unico Dio e le pratiche conseguenze che ne derivano e che risultano evidenti nella prima lettura.

Mentre la domanda dello scriba chiede che si offra un solo comandamento come vertice della prassi religiosa, spontaneamente Gesù ne aggiunge un secondo, preso da Lv 19,18: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Normalmente con il termine «prossimo» si intendeva una persona appartenente al popolo d’Israele, non si debordava dunque dai confini nazionali, religiosi e razziali. Per quanto riguarda l’amore, l’altro veniva identificato come colui con il quale si ha in comune quanto è fondamentale nell’identità. Sebbene poco più avanti rispetto alla regola proposta da Gesù, e precisamente in Lv 19,34, si ingiunga di estendere questo amore anche al forestiero che abita in Israele con la motivazione che gli stessi ebrei sono stati forestieri nel paese d’Egitto, non si è mai superata la barriera religiosa e razziale nella prassi dell’amore al prossimo. Gesù intende dare invece a questa seconda norma un respiro certamente universale. Nel vangelo di Marco non abbiamo passi che affrontino direttamente il problema della identità del prossimo, come avviene invece in Luca con la parabola del buon samaritano (10,29-37); tuttavia credo che l’aver scelto un centurione romano come soggetto della più importante professione di fede nel suo vangelo (15,39) sia una prova di come l’orizzonte universalistico di Gesù sia stato da lui assai ben percepito.

Con la sua risposta Gesù ha creato un legame indissolubile tra l’amore di Dio e quello del prossimo. Rimane certamente una chiara scala di valori per cui l’amore a Dio mantiene la precedenza assoluta, ma saldamente legato all’amore ai fratelli senza preclusioni.

L’entusiasmo dello scriba per la risposta di Gesù si esprime in un commento che istituisce un paragone tra amore e culto. Il primo, vissuto nella prospettiva data da Gesù, mantiene di gran lunga la precedenza sull’apparato rituale, anzi è l’amore stesso a diventare la forma più alta di culto, come è avvenuto per Gesù, e come la seconda lettura ha ricordato.

Il v. 34, che conclude il brano, mostra come Gesù abbia riscontrato in questo scriba vera sapienza, e la dichiarazione fatta a suo riguardo: «Non sei lontano dal regno di Dio» è di grande importanza. Anzitutto essa ci dice che Gesù non ha prevenzioni verso nessuno, nonostante che in 12,38 (vangelo della prossima domenica) Gesù inviterà la folla a non prenderli come modello. In 11,27 gli scribi insieme ai sommi sacerdoti e agli anziani avevano assunto verso Gesù un atteggiamento sfavorevole e inquisitorio, mentre in 16,53 e in 15,1 lo stesso gruppo di persone appare come il regista umano della passione di Gesù. In 15,31 gli scribi saranno presenti sotto la croce a schernire Gesù insieme ai sommi sacerdoti.

Questa barriera di odio però per Gesù non ha per lui alcun valore. Egli sa riconoscere il bene che c’è nel cuore anche di chi appartiene ad una categoria ostile incoraggiando questo avversario a proseguire sulla vita che conduce a fare l’esperienza veramente liberante di Dio. Il regno infatti, primo e fondamentale annuncio di Gesù (1,15) altro non è che la potenza di Dio che rende gli uomini liberi dal male conducendoli fino a quella realtà di cui il regno è sinonimo, cioè la pienezza della vita (cf. 10,43-48).

Meditazione

Il Vangelo di questa domenica ci porta nel tempio di Gerusalemme, ove Gesù ha già affrontato i sacerdoti, i farisei, gli erodiani e i sadducei. Interviene ora uno scriba, il quale si inserisce nel dibattito ma con animo diverso da coloro che lo hanno preceduto. Egli pone a Gesù una domanda vera, decisiva: «Qual è il primo di tutti i comandamen­ti?». Da esso, in effetti, dipende tutta la vita, nella sua globalità e nel suo svolgersi quotidiano Gesù, davanti ad una domanda come questa, non fa attendere la sua risposta. Cita anzitutto un passo del Deuteronomio da tutti conosciuto essendo la professione di fede che i pii israeliti recitano ogni giorno, mattina e sera: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,4- 5). E poi aggiunge: «Il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scri­ba, a differenza della gran parte dei colleghi presenti, concorda con Gesù e nel rispondere cita anche lui, quasi a dimostrare la continuità dell’insegnamento della Scrittura, un brano tratto dal primo libro di Samuele: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligen­za e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,32-33). E saggio e sincero questo scriba, tanto che Gesù gli rivolge un complimento che ognuno di noi gradi­rebbe: «Non sei lontano dal regno di Dio». Gesù non disprezza nessu­no, neppure coloro che altre volte lo avevano contrastato, anzi coglie il desiderio di quell’uomo che vuole capire.

Ma qual è il contenuto del consenso tra Gesù e il suo interlocutore? È il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo; due comandamenti, a tal punto uniti, da essere la stessa cosa. E questa unità che Gesù sottolinea. La prima comunità cristiana lo aveva ben compre­so. L’apostolo Giovanni, quasi a commento del brano evangelico che abbiamo ascoltato, scrive: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,20-21). L’unione tra questi due comandamenti è un originale e chiarissimo insegnamento di Gesù, sebbene, come mostra la risposta dello scriba, già nel Primo Testamento è presente sia l’amore per l’unico Dio che quello per il prossimo. Gli israeliti, oltre che ad amare Dio sopra ogni cosa, sono altresì chiamati ad amare tutti i membri del popolo, particolarmente i più deboli, i piccoli, gli orfani, le vedove e gli stranieri (furono stabilite anche delle apposite leggi perché tutto ciò fosse attuato). Ma in Gesù questo duplice amore trova il suo compimento, la sua esaltazione sino ai limiti più alti. In lui si uniscono, si fondono, si identificano perché discendono dallo stesso Spirito. Gesù è colui che ama; è il compassionevole, il misericordioso, l’unico buono. È l’uomo che sa amare più di tutti e meglio di tutti.

Gesù ama il Padre sopra ogni cosa. Nelle pagine evangeliche emerge il particolarissimo rapporto tra Gesù e il Padre; un rapporto di dipendenza totale. È la ragione della sua stessa vita. Gli apostoli sono ammaestrati dalla singolare confidenza e dal totale abbandono che egli riponeva nel Padre, sino a chiamarlo con il tenero appellativo di «papà» (Abbà). E quante volte lo hanno sentito dire che l’unico scopo della sua vita era fare la volontà di Dio: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34)! Gesù è davvero l’esempio più alto di come si ama Dio sopra ogni cosa. Gesù ha amato con la stessa intensità anche gli uomini. Per questo «si è fatto carne». Nella Scrittura leggiamo che Gesù ha tanto amato gli uomini da lasciare il cielo (ossia la pienezza della vita, della felicità, dell’abbondanza, della pace e della consolazione) per stare in mezzo a noi. E nella sua esistenza c’è stato come un crescendo di amore e di passione per gli uomini, sino al sacrificio della sua stessa vita.

Ma cosa vuol dire amare «come se stessi»? Bisogna, appunto, guardare Gesù per poterlo capire. Lui infatti sa indicarci qual è il vero amore per noi stessi. Non di rado l’ignoranza in tale campo è notevole. Talora si cerca una felicità che non è tale, un benessere che non scende nel profondo; una libertà che è sottomettersi ancor più supinamente alla schiavitù di questo mondo. Gesù sembra dire: se ti rinchiudi nel tuo egoismo, non ti ami; se sei ripiegato sui tuoi interessi, ti vuoi male, rovini la tua vita, ti rattristi; e così via. È, quanto accadde a quell’uomo ricco che non volle lasciare le ricchezze per seguire Gesù. Il senso dell’amare gli altri come se stessi è ben spiegato da altre parole dette da Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35); e ancora: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35). Gesù, che ha vissuto per primo e sino in fondo queste parole, suggerisce che la felicità sta nell’amare gli altri più di se stessi. Tuttavia, è così intenso l’amore che ciascuno ha per sé, che almeno riversiamo l’intensità di questo amore sul nostro prossimo, e rendere­mo migliore la nostra e la vita degli altri.

Si tratta di una parola alta ed ardua. Chi può metterla in pratica? Bisogna rispondere che nulla è impossibile a Dio. Ed in effetti questo tipo di amore non si apprende da soli o sui banchi della scuola degli uomini; al contrario, in questi luoghi si apprende, e fin da piccoli, ad amare soprattutto se stessi e i propri affari, contro gli altri. Il tipo di amore di cui parla Gesù si riceve dall’alto, è un dono di Dio; anzi è Dio stesso che viene ad abitare nel cuore degli uomini. La prima lettura ci ricorda che esso nasce dall’ascolto, come la fede: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze». Ascolto e amore sono strettamente congiunti. Non si può amare Dio se si con­tinua ad ascoltare se stessi, e quindi ad amare se stessi. Ci si dovrebbe onestamente chiedere come mai spesso non cambia la nostra vita, nonostante frequentiamo con fedeltà la casa di Dio. Forse perché non ascoltiamo con il cuore e non ci portiamo nel cuore la parola di Dio, che sola trasforma e converte. Il libro del Deuteronomio insiste su questo comandamento, che è alla base di tutta la legge. Il profeta Geremia interpreterà tutta la storia di Israele e la profezia come una storia di ascolto e non ascolto di Dio: «Il Signore vi ha inviato con assi­dua premura i suoi servi, i profeti, ma voi non avete ascoltato e non avete prestato orecchio per ascoltare quanto vi diceva» (Ger 15,4-5). Anche oggi ogni ebreo osservante si rivolge ogni giorno a Dio con la preghiera dello Shemà, che comincia proprio con Dt 6,4. Solo ascoltan­do e riconoscendo l’unicità di Dio sulla propria vita si potrà imparare ad amare Dio e il prossimo.

La santa Liturgia della domenica è il momento privilegiato per rice­vere il grande dono dell’amore, quando ascoltiamo la parola di Dio e incontriamo il Sommo Sacerdote, che Dio ha stabilito una volta per sempre, il Signore Gesù che si offre per noi sull’altare, lui, come si legge nella Lettera agli Ebrei, il «santo, innocente, senza macchia, sepa­rato dai peccatori ed elevato sopra i cieli». In lui noi troviamo l’amore perfetto, perché egli ci ha amato tanto da dare la sua vita per noi. Per questo, nel giorno del Signore, con gioiosa riconoscenza, avviciniamoci all’altare. Anche noi, come quello scriba saggio, ci sentiremo ripetere: «Non sei lontano dal regno di Dio».

L’immagine della domenica

CAMMINO DI SANTIAGO    –    2007  

Quando piove, durante il cammino, puoi fare due cose: camminare maledicendo la pioggia o cominciare a cantare. Nel primo caso ti bagni, nel secondo pure. Nel primo caso te ne accorgi, nel secondo no».

(Daniela Collu)

Casella di testo: Deuteronomio 6,2-6
Ebrei 7,23-28
Marco 12,28b-34

Nel Vangelo ad uno scriba che gli si era avvicinato e gli aveva chiesto: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?», Gesù risponde sottolineando l’importanza fondamentale dell’amore verso Dio e verso il prossimo, sintesi di tutta la Legge d’Israele: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». L’apostolo Giovanni afferma: «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 20-21). Alla luce di queste parole quanti bugiardi ci sono da-vanti a Dio e, talvolta, anche noi quanto siamo bugiardi con il Signore.

L’amore verso il prossimo è difficile, però è il vero amore. Amare davvero il prossimo è una sfida all’odio e all’egoismo. Per mettere in pratica il comandamento dell’amore abbiamo bisogno di essere sostenuti dal Signore Gesù che intercede per noi presso il Padre: «Cristo […] Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore» (II Lettura). Concludo con le parole di sant’Agostino il quale diceva: «Nell’amare Dio, amo anche l’uomo, e nell’amare l’uomo, amo anche Dio».
(Don Lucio D’Abbraccio)

Preghiere e racconti

Parlami della felicità e dell’amore

Durante quel terzo giorno, il giovane principe non aprì quasi bocca. Mi ascoltava e tornava a sprofondare nelle sue riflessioni, come se, sentendo avvicinarsi la fine del viaggio, volesse assorbire tutte le mie esperienze.

“Parlami della felicità e dell’amore”, mi chiese all’improvviso.

“Bell’argomento” esclamai con un sospiro. […] “L’esperienza mi ha insegnato che non esiste la felicità senza l’amore, intenso come una costante passione per la vita e un continuo stupore di fronte a tutto ciò che percepiamo attraverso i nostri sensi: colori, movimenti, suoni, odori o forme che siamo. […] La strada più diretta e più semplice per la felicità è rendere felici le persone attorno a noi”, conclusi.

Dopo una pausa di silenzio, notando che il mio giovane amico mi ascoltava attento proseguii: “Quanto all’amore, la più grande verità mai detta è che si apprende ad amare solo amando. Tutti possiedono una grande capacità di offrire amore, anche solo con un sorriso, che arricchisce chi lo dà e chi lo riceve”. […] “L’amore vero”, proseguii, “si concentra su quello, che fa bene agli altri e dimentica se stesso. Per questo tipo di amore, capace di accettare tutto e perdonare tutto, non c’è niente di impossibile. Se trattiamo gli altri per quello che sono, continueranno a essere sempre gli stessi, ma se li trattiamo per quello che potrebbe diventare, raggiungeranno tutta la loro pienezza. Questo è un amore altruista, che perfeziona tutto ciò che incontra e non lascia nessuno indifferente.”

[…] “E come faccio a sapere chi si merita il mio aiuto e il mio amore?” chiese il giovane principe.

“Spesso risparmiamo il nostro aiuto per offrirlo solo a chi se lo merita davvero. È un grave errore, perché non spetta a noi giudicare i meriti altrui, cosa oltremodo difficile, ma semplicemente amare. Come accade con il perdono, chi più ama più si arricchisce. In fin dei conti, se Dio ama tutti gli essere umani allo stesso modo, che diritto abbiamo noi di escludere alcuni e preferire altri? Chi si approfitta della tua bontà va semplicemente compatito. E in più, se dedicherai la tua vita a scoprire il meglio della gente, finirai per trovare il miglio di te stesso.”

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 101; 104-105)

Una leggenda irlandese

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l’Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affliggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono. Le caratteristiche richieste erano le seguenti: 1) amare Dio e 2) amare gli altri esseri umani.

Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessario per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente poté mettersi in viaggio alla volta del castello. Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano: «Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?»

Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. All’arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente poté accedere nella sala del trono.

Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore.

«Voi… voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada».

«Sì», rispose il re. «Quel mendicante ero proprio io».

«Ma non siete un vero mendicante. Siete il re».

«Sì, sono il re».

«Perché avete fatto questo?», chiese, allora, il giovane.

«Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d’oro e dai miei abiti regali.

Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com’è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell’amore del tuo cuore.

Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani. Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!»

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 109-110).

Il mistero dell’Amore

«Auguro a tutti di sentire in voi un po’ di quell’amore che non dipende dal fatto che in questo momento siate amati da una persona o che siate innamorati di qualcuno. L’amore è una qualità divina. Rende magica la nostra vita. Quest’amore è in ognuno di noi e ci circonda nella creazione che ci abbraccia, nella presenza d’amore di Dio che ci avvolge e nelle persone che ci amano.

Auguro a tutti voi che vi sappiate amati e che troviate gusto nell’amore con cui amate gli altri. E ho fiducia nel fatto che, nelle vostre esperienze d’amore, nelle delusioni d’amore e nella gioia che l’amore ha suscitato in voi, riconosciate e percepiate il mistero di un amore che non è più fragile, su cui possiate sempre fare affidamento, che non si esaurisce mai perché si alimenta dalla sorgente dell’amore divino che fluisce in voi. Se avvertite in voi quest’amore, potete stare certi di essere in Dio, che  siete iniziati al più grande mistero di Dio, il mistero del suo amore».          

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 61-62)

Amare Dio

Esiste un terzo oggetto del mio amore: Dio. Oltre a me stesso e agli altri, devo amare il Signore mio Dio con tutta la mia mente, il mio cuore e la mia forza. Amare Dio aggiunge una dimensione nuova e diversa all’amore. Nonostante quanto ci piacerebbe credere, di fatto non possiamo dare a Dio nulla che Egli già non possegga. Dio non ha bisogno di noi come noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Soltanto coloro che sono indigenti provano dei bisogni, e Dio non è indigente. In ogni caso, Dio ci domanda di amarci gli uni gli altri e ci promette che qualunque cosa facciamo per il più piccolo dei suoi figli, lo considererà come fatto a Lui.

 (J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 71).

Amare il prossimo

Dice Kiekegaard “è proprio dell’amore cristiano scoprire che il nostro prossimo esiste… e che ognuno di noi è il prossimo di qualcuno. Se amare non fosse un dovere, il concetto stesso di ‘prossimo’ non avrebbe alcun significato. Ma solo quando noi amiamo il nostro prossimo, solo allora l’egoismo insito nell’amore preferenziale viene estirpato, e conservato invece il sereno equilibrio dell’eterno.”

(Cit. Leo BUSCAGLIA, Amore, Mondatori, Milano, 1972, 168).

Pioggia dentro

Una sera di pioggia.

Su un marciapiede della città

un vecchio steso per terra.

Inginocchio accanto a lui

mi lascio interrogare dai suoi occhi

annebbiati dal viso.

Il suo sguardo penetra il mio

per raccontarmi,

nel silenzio,

la sua vita infelice,

la solitudine,

il desiderio di amare,

l’attesa d’una famiglia….

Una voce alle mie spalle mi rassicura

che la colpa è della società,

ma arriva un’ambulanza,

raccoglie da terra quel problema

e se lo porta via.

(E. OLIVERO, L’amore ha già vinto.  Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 44).

Amare me stesso

«Non possiamo parlare dell’amore per gli altri se non riconosciamo che l’amore incomincia in casa propria. Dobbiamo innanzitutto amare noi stessi. L’esperto di relazioni interpersonali Harry Stack Sullivan, afferma che “si ama una persona, quando la sua felicità, la sua sicurezza ed il suo sentirsi bene ci stanno a cuore come o più delle nostre». La tesi evidente che sta dietro a questa affermazione, è che io abbia a cuore la mia felicità, la mia sicurezza ed il mio star bene. Infatti, nella stessa misura in cui non riesco ad amare me stesso sarò incapace di amare gli altri”».

(J. POWELL, Esercizi di felicità, Cantalupa, Effatà, 1995, 69).

Saggezza

Una coppia di novelli sposi chiese:

«Cosa dobbiamo fare

perché il nostro amore duri?».

Rispose il maestro:

«Amate insieme altre cose».

Preghiera

O Dio unica fonte di tutto ciò che esiste, tu sei il Padre nostro: donaci l’amore perché, fedeli al tuo comandamento, possiamo amarti con cuore indiviso, cercando te in ogni cosa. Insegnaci ad amarti «con tutta la mente»: illumina la nostra intelligenza, perché libera dal dubbio e dalla vana presunzione sappia scoprire il tuo disegno di salvezza nella storia e nelle circostanze quotidiane.                                       

Fa’ che ti amiamo «con tutte le forze», consacrando a te e al tuo servizio le nostre capacità e i nostri limiti, le nostre azioni e le nostre impotenze, i nostri risultati e i nostri fallimenti. Aiutaci, Signore, ad amarti in ogni fratello che tu ci hai posto accanto e che tu hai amato per primo, fino al sacrificio del tuo Figlio. La sua oblazione eterna ci dia la forza e la gioia di perdere noi stessi nella carità per ritrovarci pienamente in te che sei l’Amore.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO

“Abbiamo fatto una religione interculturale”: Riflessioni educative dopo un percorso sperimentale di IRC verso un nuovo progetto di ricerca

di Carlo Macale

Il presente contributo riporta i risultati di uno studio esplorativo di alcuni progetti di didattica interreligiosa portati avanti durante le ore di insegnamento di religione cattolica. La ricerca mette in luce come siano stati affrontati sia temi riguardanti un sapere critico sulle religioni contrastando l’analfabetismo religioso, sia questioni specifiche della pedagogia interculturale come l’accoglienza dell’altro e il contrasto a stereotipi e pregiudizi. Allo stesso tempo il contributo riflette su alcune criticità dell’insegnamento religioso in Italia dovute
forse alla sua funzione nella scuola e all’epistemologia disciplinare. Si ritiene infatti che alla luce di diversi
studi europei e dei dati emersi in questa ricerca, sia necessario un cambiamento nello status della disciplina. Per provare quanto segue, l’articolo prospetta una nuova indagine didattica e pedagogico-sociale, così da fornire ai decisori politici ed ecclesiastici nuovi spunti di riflessione per un rinnovamento dell’insegnamento religioso nella scuola.

XXX DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Geremia 31,7-9

          Così dice il Signore: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla. Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito».             
  • Il piccolo brano di questa lettura è inserito nella raccolta degli oracoli di restaurazione composti in varie epoche dal profeta Geremia (30,2s), profeta di «distruzione», ma anche di «edificazione» (1,10). Dopo aver annunziato in generale l’estrema rovina del suo popolo e il cambiamento di sorte del «resto» di Giacobbe (30,1-22), in 31,1-6 viene espressa la somma gioia del Padre d’Israele e del suo portavoce nel contemplare il viaggio del ritorno in patria degli Israeliti: è l’aver trovato grazia agli occhi del Signore, aver esperimentato l’immensa pietà («amore eterno… e compassione», 31,3) del Dio dei padri. Segue la descrizione festosa del rientro in Palestina sulle labbra dello stesso Signore:

     v. 7: dice il Signore: «innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate». È un invito a tutta l’assemblea dei credenti a godere per le meraviglie operate dall’Altissimo (Sal 96.97), e precisamente per la salvezza del «resto» d’Israele, il prediletto tra i popoli («la prima delle nazioni»): l’intera ricostituzione di quella stirpe, a cui è stata fatta una promessa eterna; di questa Dio si è ricordato nel tempo della loro sventura, quando erano ormai ridotti a un piccolo numero (Is 41,13-20).

     v. 8: «Ecco, li riconduco… dalle estremità della terra». L’onnipotenza divina non conosce limiti di spazio, né difficoltà di itinerari: li raggiungerà dovunque si trovino e guiderà verso il loro paese, compresi zoppi e infermi, esattamente come ha già fatto con i loro antenati attraverso il deserto del Sinai (Is 40,10), «portando gli agnellini sul petto e conducendo pian piano le pecore madri» (Is 40,11).

     v. 9: «li riporterò tra le consolazioni… io sono un padre per Israele». Dopo il pianto, li attende ora una grande consolazione, dopo l’oppressione della schiavitù, l’abbondanza dei beni nella loro terra preparata da secoli da JHWH, «scorrente latte e miele (Es 3,8) e fiumi d’acqua». La motivazione: Dio è un vero Padre, pieno di tenerezza, che non potrà mai dimenticare il suo primogenito: «ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (31,3; Os 11,8).

     Viene così esaltata sia l’assoluta potenza del Dio d’Israele dinanzi a cui non c’è alcuna barriera, sia la sua fedeltà ai disegni d’amore manifestati ai patriarchi del popolo eletto. È un sovrano pietoso di cui tutte le creature si possono fidare, sempre pronto a intervenire a favore di chi riconosce la sua infinita benevolenza paterna. Lo confermerà splendidamente il Maestro divino Gesù (Mt 6,25-34).

Seconda lettura: Ebrei 5,1-6

           Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo. Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».        
  • L’autore della lettera sta presentando Gesù nella sua missione di Salvatore dell’umanità, in quanto si è fatto partecipe e solidale della nostra natura (2,14-17). Da qui la designazione di nostro mediatore di pace, espiatore di tutte le nostre colpe e nostro sommo Sacerdote presso il trono dell’Altissimo (2,14-17). Si continua poi a elencare le sue prerogative di fedeltà, di misericordia, di efficacia (fino a tutto il c. 10).

     In 5,1-10 abbiamo la precisa definizione del sacerdozio di Cristo.

     v. 1: «Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini». Anzitutto una definizione basilare, applicabile a ogni tipo di mediatore sacro fra gli uomini e la Divinità: essere presi dal gruppo dei propri simili e designati nell’ambito delle realtà religiose, col compito di offrire doni graditi al Signore supremo e sacrifici di animali in riparazione delle offese fatte alla maestà divina. Proprio ciò che si era realizzato nell’ordinamento levitico del popolo ebreo: consacrazione dei figli di Levi al servizio del culto e per la presentazione delle offerte sull’altare di JHWH (Es 28.29; Lv 2.4).

     v. 2: «Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli…». In secondo luogo saranno dotati di compassione, cioè di comprensione e misericordia verso la debolezza dei propri fratelli, in quanto anch’essi partecipi dei loro limiti e delle loro manchevolezze, sia pure per mancanza di piena cognizione del male compiuto («ignoranza») e per cui saranno tenuti a offrire espiazione anche per se stessi (Lv 9,7).

     v. 4: «Nessuno attribuisce a se stesso questo onore». In terzo luogo occorre che la designazione a quell’ufficio provenga dall’alto. Nessuno può presumere di avere il singolare compito di accostarsi al trono del Dio tre volte santo per attirare sugli altri le divine compiacenze. Solo Lui può conferire questo onore a chi vuole: così è stato per Aronne (Es 28,1), così sarà per i primi rappresentanti di Cristo (Gv 3,27:15,16); chi se ne è arrogato il diritto è stato radiato dal suo cospetto (Nm 16;1 Re 13,1-5).

     v. 5: «Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote». Cristo è sommo sacerdote perché così l’ha solennemente dichiarato JHWH, conferendogli la sua somma compiacenza: «Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato» (Sal 2,7), «in te mi sono compiaciuto» (Lc 3,22). Nato da donna (Gal 4,4) e insieme consostanziale al Padre, partecipe della natura umana e della divina, è già costituito supremo mediatore fra l’umanità e la Divinità per la sua perfetta solidarietà con l’uomo e la sua unione ipostatica col Verbo. Così è stato confermato con un altro oracolo divino: «tu sei sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek» (Sal 110,4). Al cap. 7 della nostra Lettera verrà spiegata la superiorità nel tempo e nel valore del sacerdozio di Melchisedek (che si presenta nella Genesi senza genealogia e ereditarietà umana) nei confronti del sacerdozio levitico (iniziato nel tempo e ereditario), e di conseguenza viene esaltata la sublimità e perennità del Sacerdozio di Cristo, evidentemente designato dall’Altissimo, indefettibile e efficacissimo.

     In conclusione in Cristo Gesù abbiamo un Mediatore sommo e universale: santissimo, che non ha avuto bisogno di offrire espiazione per sé, dotato di immensa pietà e solidarietà per i suoi fratelli, che ha lavato i peccati di tutti col suo sangue divino, che penetra i cieli fino al trono dell’Eterno e può ottenerci ogni benedizione e salvarci da ogni male.

Vangelo: Marco 10,46-52

           In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.      

Esegesi

L’episodio della guarigione del cieco di Gerico, nel II Vangelo, fa da cerniera tra la sezione dell’ultimo tratto di viaggio di Gesù verso Gerusalemme (10,34-45), e la sezione dell’ingresso trionfale del re davidico nella città santa. La prima si chiude con l’incomprensione dei discepoli dopo l’annunzio della passione; e la seconda inizia con l’aperta acclamazione messianica del figlio di David (11,1-11.27-33). Il racconto sembra orientato verso la piena adesione al Salvatore divino nella sua più alta manifestazione.

      v. 46: «mentre Gesù partiva da Gèrico». Gesù scendendo dalla Transgiordania è di passaggio a Gerico, diretto verso Gerusalemme (a circa 30 Km), per celebrarvi la sua ultima Pasqua e il suo supremo sacrificio. Con lui ci sono i suoi discepoli e una folla di persone, probabilmente suoi seguaci e pellegrini. All’uscita della città, sul ciglio della strada si trova un cieco mendicante. Parte del suo mantello pare gli stia disteso accanto per ricevervi le elemosine dei pii giudei, più abbondanti in quei giorni sacri; tale posizione del mendicante, ci sembra, risulti dalla duplice «lezione» del v. 50: apobalòn «gettando» (il mantello) e epibalòn «rimettendolo» (sulle spalle). Il nome di Bartimeo viene riportato in questo racconto solo da Mc (cf. Lc 18,35; Mt 20,30): quando si scriveva il II Vangelo, l’uomo doveva essere ben noto nella primitiva comunità di Gerusalemme.

 v. 47: «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare». Dal brusio di tanta gente avrà percepito che lì in mezzo c’era proprio il famoso Gesù di Nazaret, di cui certamente aveva sentito meraviglie. Gli si desta una grande speranza, e con tutta la forza della sua voce comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Il titolo rivolto al Rabbì di Galilea, quanto al Vangelo di Mc, lo si trova soltanto qui: evocava le attese nazionalistico-messianiche del popolo ebreo; in Mc 12,35 viene riportato come affermazione degli scribi. Ma Bartimeo l’avrà inteso in un senso più ampio, come di colui che aveva grandi poteri e portava ogni liberazione e guarigione.

      v. 48: «Molti lo rimproveravano perché tacesse». La folla cerca di zittire l’importuno, come i discepoli avrebbero voluto fare con la donna cananea (Mt 15,23) e per i bambini che andavano incontro a Gesù (Mc 10,13). Quell’uomo però non desiste: ha nel cuore una ferma fiducia nella bontà del mite Rabbì nazareno e grida più forte che può… È l’insistenza nel pregare, che tanto raccomandava il Maestro divino (Lc 11,5-9; 18,1-8). Lui infatti, mentre in simili circostanze ha cercato di imporre il silenzio alle acclamazioni degli astanti (Mc 7,36), adesso interviene per dare ascolto a quella accorata implorazione.

      v. 49: «Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Vi ha incontrato qualcosa di speciale. La stessa folla cambia atteggiamento: tutti presentono che si è dinanzi a qualcosa di nuovo, se lui si è fermato per parlare al mendicante: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».

      v. 50: «gettato via il suo mantello, balzò in piedi». L’ha compreso anche lui e si alza, abbandonando mantello e eventuali offerte dei pellegrini, per correre ormai verso la sua salvezza: la sente già nell’intimo del suo cuore! Non ha bisogno di altro.

      v. 51: «Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Ai piedi del Maestro, non grida più. Lui gli da l’opportunità di esprimere chiaramente l’oggetto della sua richiesta. Non si tratta di ottenere un aiuto qualsiasi, ma di raggiungere quel che da nessun essere puramente umano era possibile avere: la luce dei suoi occhi spenti. «Rabbunì, che io veda di nuovo!» Rabbunì («mio buon Signore») ha qualcosa di più affettuoso e vivo del semplice Rabbì, come quello pronunziato dalla Maddalena, quando riconobbe all’improvviso il suo amato Maestro (Gv 20,16): un riferimento all’insondabile pietà del Figlio di David!

      v. 52: «Va’, la tua fede ti ha salvato… e lo seguiva lungo la strada». La fede di quel povero cieco ha raggiunto il più alto grado, richiesto e sollecitato spesso dal divin Maestro: un abbandono sincero nella trascendente bontà e potenza dell’Unto di JHWH. Il quale, commosso come in casi analoghi, semplicemente risponde con una sola parola: «la tua fede ti ha salvato», conferendogli il dono più grande, che egli stesso desiderava elargire a tutti (Lc 19,9s; Gv 3,17): non la semplice guarigione di un organo corporale, ma la completa restaurazione della persona: «venite a me, e io vi ristorerò» (Mt 11,28); un nuovo rapporto di shalom, pace e armonia, con Dio e con tutto ciò che ci circonda (Mc 5,34; Lc 7,50; 17,19). «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada» (v. 52b). Così Bartimeo non rimase più a Gerico, la lussuosa città degli Erodiadi, ad attendere l’elemosina, ma da quel giorno si mise a seguire la comunità del Maestro divino, conquistato dal suo immenso amore, verso Gerusalemme, la città della sua morte redentrice e della sua gloriosa risurrezione.

      Il cammino del cieco di Gerico verso la vera luce si presenta come un esemplare itinerario per chi dalla tristezza di un’esistenza opaca e senza avvenire vuole pervenire al traguardo della vera vita. Saper percepire la salutare presenza di chi ci passa accanto, il calore del Sole divino che ci illumina; lasciare salire verso di Lui l’anelito della propria anima, implorare incessantemente finché ci avvenga di essere toccati dall’esperienza viva del suo splendore e della sua infinita benevolenza.

Meditazione

Marco, che ci ha accompagnato nelle domeniche di questo anno, ci fa incontrare oggi il Signore nella sua ultima tappa prima di entrare in Gerusalemme. Abbiamo visto lungo il cammino il clima nuovo, quasi di festa, che Gesù creava tra la gente delle città e dei villaggi ove pas­sava. In tanti accorrevano a lui, soprattutto i deboli, i poveri, i lebbro­si, i malati. Tutti desideravano avvicinarlo, toccarlo, parlargli; volevano da lui pace e felicità per la loro vita. E Gesù li accoglieva tutti. Ad un mondo fatto di adulti che amano nascondere la propria debolezza a se stessi e agli altri, Gesù insegna il contrario. Per gli uomini è norma­le giudicare, pretendere, rivendicare piuttosto che chiedere e doman­dare aiuto; come pure è molto più normale condannare piuttosto che perdonare. Il Signore instaura un altro clima tra gli uomini, un clima di fiducia; anche i più lontani e i più disprezzati possono avvicinarsi a lui e invocare guarigione e salvezza. Anzi, con il suo comportamento di fatto li esortava a rivolgersi a lui con fede. La richiesta fatta con fede era l’unica cosa che pretendeva. E il motivo era profondo: la preghie­ra fatta con fede apre sempre il cuore ad un modo diverso di vivere. La si apprende però solo quando si è poveri o ci si accorge di essere tali. Lo aveva capito Bartimeo che mendicava alla porta di Gerico. Come tutti i ciechi, anche lui è rivestito di debolezza. Ai ciechi non restava altro che mendicare, aggiungendo così alla cecità la dipenden­za totale dagli altri. Nei Vangeli sono come l’immagine della povertà e della debolezza.

Bartimeo, come Lazzaro, come tanti altri vicini e lontani da noi, giacciono alle porte della vita in attesa di qualche conforto. Eppure Bartimeo è esempio per ognuno di noi, esempio del credente che chie­de e che prega. Attorno a lui tutto è buio; non vede chi passa, non riconosce chi gli sta vicino, non distingue né i volti né gli atteggiamen­ti. Ma quel giorno fu diverso. Sentì il rumore della folla che si avvicina­va. E nel buio della sua vita e delle sue percezioni, intuì una presenza: ha «sentito che era Gesù Nazareno…», nota l’evangelista. Ebbe la sensazione che quel giovane profeta non era come tanti altri che gli erano passati vicino sino a quel momento. E quanti ne aveva sentiti passare in anni e anni di mendicità! A quanti aveva teso la mano, a quanti aveva chiesto aiuto, quanti aveva sentito passare vicini e poi progressivamen­te allontanarsi! E l’esperienza del non vedere, ma è anche l’esperienza dell’elemosina, dell’incontro di un attimo e poi di tutta la distanza che viene posta tra chi è ricco e chi mendica, tra chi vede e chi è cieco. Bartimeo è un uomo costretto a chiedere per l’assenza di ogni altra risorsa. È un mendicante; e non può fare altro che chiedere. Alla noti­zia di quel passaggio comincia a gridare: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È una invocazione molto povera. Non è un parlare abile, come ad esempio fece l’uomo ricco che osservava i comandamenti sin dalla giovinezza e che si rivolse a Gesù chiamandolo «buono». Qui l’invocazione è semplice e assieme drammatica. Quel cieco non ha null’altro che il grido; è l’unico modo per superare il buio e le distan­ze che non riusciva a misurare. Nel Primo Testamento il grido è quello del povero che si rivolge a Dio per ottenere giustizia e salvezza, come Israele in Egitto (cfr. Es 2,23). Quel grido però non piaceva alla folla, tanto che tutti, «lo rimproveravano», sottolinea l’evangelista, cercando di farlo tacere. Era un urlo sconveniente, un grido scomposto e comunque esagerato, come spesso accade ai poveri; rischiava inoltre di disturbare anche quel felice incontro tra Gesù e la folla della città. In tutta la sua presunta ragionevolezza era una logica spietata; non solo lo sgridavano; volevano farlo tacere. Quel cieco non aveva nulla a che fare con la vita di quella città. Gli era permesso mendicare, ma senza scon­volgere i ritmi ordinari e abituali della città. E per quella folla compo­sta di uomini che si credevano sani e di non dover nulla a nessuno era facile incutere timore e terrore a un povero mendicante che dipende­va in tutto da loro. Ma la presenza di Gesù fece superare ogni timore. Bartimeo sentì che la sua vita poteva cambiare totalmente da quell’in­contro. E con voce ancora più forte gridò ancora: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». È la preghiera dei piccoli, dei poveri che giorno e notte, senza sosta, perché continuo è il loro bisogno, si rivolgono al Signore; è l’invocazione dei deboli che hanno ricevuto la notizia del suo passaggio e ripongono in lui la loro speranza. Gesù non è sordo al grido dei deboli. Gesù, udito quell’urlo di aiuto, si fermò. È come il buon samaritano che non passa oltre, come fecero il sacerdote e il levita, e come la folla vorrebbe che Gesù facesse. Al contrario, Gesù si fermò e rispose al grido di Bartimeo.

La risposta inizia con una chiamata: «Gesù si fermò e disse: chiama­telo! Chiamarono il cieco dicendogli: coraggio! Alzati, ti chiama!». È sempre il Signore che chiama, ma si serve di altri uomini, della loro parola. Essi si avvicinano a noi e ci incoraggiano ad incontrare Gesù, anzi ci portano a lui. Ma poi l’incontro con il Signore è sempre perso­nale, richiede un colloquio diretto, familiare, come quello di un figlio che si rivolge fiducioso al padre. Bartimeo appena sentì che Gesù vole­va vederlo, gettò via il mantello e corse verso di lui. Gettò via quel mantello che da anni lo copriva, era forse l’unico riparo contro il freddo agghiacciante degli inverni e soprattutto dei cuori induriti della folla. Non serviva più coprire la sua povertà, non aveva più biso­gno di quel riparo, perché aveva sentito che il Signore lo chiamava. Balzò in piedi e andò di corsa da Gesù. Correva anche se non vedeva; in verità «vedeva» molto più profondamente di tutta quella folla. Sentì la voce di Gesù e andò verso quella voce. Era solo una voce, ma era l’unica che finalmente lo chiamava per accoglierlo. Era diversa dal mormorio e dalle parole grosse della folla che voleva farlo tacere. Quella voce, quella parola, era per lui un nuovo punto di riferimento, a tal punto saldo, da permettergli di correre, mentre era ancora cieco, senza alcun sostegno. Bartimeo seguì quella voce e incontrò il Signore. Così accade per chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. L’ascolto della Parola di Dio non conduce verso il vuoto, non porta verso un immaginario psicologico; l’ascolto conduce all’incontro per­sonale con il Signore. Così è avvenuto per Bartimeo. È Gesù che inizia a parlare, quasi a prolungare la chiamata che gli aveva fatto. È davvero diverso da tutti coloro che sino ad allora aveva incontrato. Gesù non getta nelle sue mani qualche spicciolo, pur necessario, per poi andare via. No, si ferma, gli parla, mostra interesse per lui e la sua condizione e gli chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Bartimeo, senza frapporre tempo e parole inutili, così come prima aveva pregato con semplicità, gli dice: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». Sa che è il momento dell’incontro, il momento del passaggio, quello che può trasformare radicalmente tutta la sua vita. Non divaga e tanto meno mente; gli chiede la cosa che più conta per lui, la vista. Potrebbe sem­brare una richiesta non nobile. Ma ciò che conta per il Signore è che il cieco si rivolga a lui con fede. Bartimeo ha riconosciuto la luce pur senza vederla. Per questo ha riavuto subito la vista. «Va’, la tua fede ti ha salvato!», gli dice Gesù. Da quel momento Bartimeo non mendica più lungo la via di Gerico, ma prende a seguire Gesù lungo le vie del mondo. Era diventato discepolo, subito, senza indugio, perché aveva cominciato a vedere.

Si conclude così il capitolo 10, questa sezione iniziata con la molti­plicazione dei pani al capitolo 6, in cui Gesù aveva rimproverato i disce­poli incapaci di riconoscerlo come il pane di vita: «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? (8,18). Ci vollero due ciechi (8,22-26 e Bartimeo) e un sordomuto (7,31-37) perché i discepoli potessero almeno cominciare a porsi la domanda sull’ascoltare e sul vedere, per capire. Si dovrà forse ricostituire quel popolo, di cui fanno parte «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente», che il profeta Geremia ha annunciato, per poter anche noi vedere e riconoscere la salvezza che viene dal Signore. Lui, sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, è venuto a salvarci perché tutti siamo mendicanti del suo amore, come Bartimeo.

L’immagine della domenica

ALTO DEL PERDÓN (CAMMINO DI SANTIAGO) «Dove si incrocia il cammino del vento con quello delle stelle» 2005   

«Dio fornisce il vento, ma è l’uomo che deve issare le vele».

(Sant’Agostino)

Casella di testo: Geremia 31,7-9
Ebrei 5,1-6
Marco 10,46-52

Un cieco, seduto, a terra, immobile, sta lì a mendicare la sua sopravvivenza da chi passa. Ma ecco che «sentendo che era Gesù il Nazareno» Bartimeo è come investito da un brivido, da una scossa: alza la testa, si rianima, comincia a gridare il suo dolore. Non si vergogna di essere il più povero di tutti, anzi è la sua forza. Siamo tutti come lui, mendicanti di affetto o di amore o di luce. La mendicanza è la sorgente della preghiera: Kyrie eleison, grida. 

Come un bambino che grida alla madre lontana, chiedono a Dio: mostrati padre, sentiti madre di questo figlio naufrago, fammi nascere di nuovo, ridammi alla luce! Bartimeo cerca un Dio che si intrecci con la sua vita a pezzi, con i suoi stracci. Ma la folla attorno fa muro al suo grido: taci! disturbi! Terribile pensare che la sofferenza possa disturbare. Disturbare Dio! Bartimeo allora fa l’unica cosa che si può fare in questi casi: grida più forte. È il suo combattimento, con le tenebre e con la folla.

Il Nazareno ascolta il grido e risponde in un modo tutto nuovo: coinvolge la folla che prima voleva zittire il mendicante, si fida della folla, anche se è così facile a cambiare di umore: chiamatelo! E la folla va, portavoce di Cristo, e si rivolge al cieco con parole bellissime, da brivido, dove è custodito il cuore dell’annuncio evangelico. Parole facili e che vanno diritte al cuore, da imparare, da ripetere, sempre, a tutti: «Coraggio, alzati, ti chiama». Coraggio, la virtù degli inizi. Alzati, dipende da te, lo puoi fare, riprendi in mano la tua vita. 
(Ermes Ronchi)
Preghiere e racconti

Aprire gli occhi

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

Bellezza oltre ogni descrizione

Uno dei romanzi più noti di André Gide (1869-1951) s’intitola La sinfonia pastorale. Il libro è ambientato nella Svizzera di lingua francese negli anni Novanta (1890) e narra la storia di una complessa relazione fra un pastore protestante e Gertrude, una ragazza cieca dalla nascita.

Di particolare interesse è il modo in cui il pastore prova a comunicare a Gertrude cose come la bellezza dei prati alpini, trapuntati di fiori dai colori sgargianti, e la maestà delle montagne dalle cime innevate. Egli prova a descrivere i fiori azzurri che crescono sulla riva del fiume paragonandoli al colore del cielo, ma deve rendersi subito conto che lei non può vedere il cielo per apprezzare il paragone. In questo suo lavoro egli si sente continuamente frustrato dalla limitatezza del linguaggio che usa per far conoscere la bellezza e lo stupore della natura alla giovane cieca. Ma le parole sono il solo strumento di cui dispone. Non può che perseverare sapendo di poter comunicare solo a parole una realtà che non può mai essere completamente espressa con parole.

Allora ecco un nuovo e insperato sviluppo. Un oculista della vicina città di Losanna ritiene che la ragazza possa essere operata agli occhi in modo da ottenere la vista. Dopo tre settimane trascorse nella casa di cura, ella torna a casa, dal pastore. Adesso può vedere e sperimentare da sola le immagini che il pastore aveva cercato di comunicarle solo attraverso le parole.

“Appena ho acquistato la vista – ella disse – i miei occhi si sono aperti su un mondo più stupendo di come avrei mai potuto sognare che fosse. Sì, davvero, non mi sarei mai immaginata che la luce del giorno fosse così brillante, l’aria così limpida e il cielo così vasto”.

La realtà sorpassa di gran lunga la descrizione verbale. La pazienza del pastore e le sue goffe parole non avrebbero mai potuto descrivere adeguatamente il mondo che la ragazza non poteva vedere da sola, il mondo che chiedeva di essere sperimentato piuttosto che meramente descritto.

Per il cristiano, il mondo presente contiene indizi e segnali di un altro mondo, un mondo che possiamo cominciare a sperimentare ora, ma che conosceremo nella sua pienezza solo alla fine.

(Alister Mc Grath, Il Dio sconosciuto, Cinisello Balsamo, 2002, 35-37).

Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore

«Il comandamento del Signore è limpido, da luce agli occhi» (Sal 18 [19] ,9). Accogli Cristo, accogli la facoltà di vedere, accogli la tua luce perché tu conosca bene Dio e l’uomo. Il Verbo che ci ha illuminati è «più prezioso dell’oro e delle pietre preziose; desiderabile più del miele e del favo» (Sal 18 [19],11). Come può, infatti, non essere desiderabile colui che ha dato luce alla mente ottenebrata e ha aperto gli occhi dell’anima portatori di luce? […] Accogliamo la luce e diventiamo discepoli del Signore. Questo è ciò che egli ha promesso al Padre: «Racconterò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (Sal 21 [22] ,23). Loda e proclama tuo padre, Dio; le tue parole mi salveranno, il tuo canto mi istruirà. Fino a ora ho errato nella speranza di trovare Dio, ma poiché tu mi illumini, Signore, trovo Dio per mezzo di te, e ricevo il Padre da te, divengo tuo coerede, poiché non ti sei vergognato di avermi come fratello (cfr. Eb 2,11). Cancelliamo, dunque, cancelliamo l’oblio della verità, l’ignoranza e, rimuovendo le tenebre che ci impediscono la vista come nebbia per gli occhi, contempliamo il vero Dio, acclamandolo innanzitutto con queste parole: «Rallegrati, luce»; poiché una luce dal cielo brillò su di noi sepolti nelle tenebre e prigionieri nell’ombra di morte (cfr. Is 9,1; Mt 4,16; Lc 1,79), più pura del sole, più dolce della vita terrena. Questa luce è la vita eterna e tutto quanto partecipa di essa vive, ma la notte teme la luce e, nascondendosi per la paura, lascia il posto al giorno del Signore; l’universo è diventato luce insonne e l’occidente si è trasformato in oriente. Ecco che cosa significa la nuova creazione (cfr. Gal 6,15). Poiché il sole di giustizia (cfr. Ml 3,20), che cavalca l’universo, percorre tutto il genere umano imitando il Padre che fa sorgere il suo sole su tutti gli uomini (cfr. Mt 5,45) e su di essi sparge la rugiada della verità. Egli ha trasformato l’oriente in occidente crocifiggendo la morte e trasformandola in vita. Ha strappato l’uomo dalla rovina e l’ha stabilito nel cielo, tramutando la corruzione in incorruttibilità e trasformando la terra in cielo.

(CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Esortazione ai greci 11,114-115, in Id., Protreptico ai greci, Torino 1940, pp. 231.233.235).

La fede ha un senso?

Spesso nella quotidianità sperimentiamo di non poter fare affidamento sugli altri. Uno ci ha giurato eterna fiducia, e tuttavia ci lascia. Un altro sembra essere solido e avere una posizione certa, ma poi si lascia coinvolgere in scandali. I politici si orientano secondo il vento che tira. Proprio in questa situazione è importante non reagire in modo cinico, ironico o addirittura con rassegnazione. Continuano a esserci persone sulle quali si può fare davvero affidamento, che non promettono troppo, che sono sincere e contem­poraneamente fedeli. E c’è un fondamento ultimo della mia vita, sul quale posso fare affidamento: persino quando ab­bandono me stesso, perché non riesco più a sopportarmi, Dio non mi abbandona.

Per i bambini è particolarmente importante l’affidabili­tà. Per loro è importante potersi fidare e credere che il loro angelo non li abbandona, anche se i genitori li abbandona­no; che il loro angelo è con loro e li sostiene, anche là dove non riescono più a farlo loro stessi. Una fiducia così pro­fonda fa in modo che loro tengano fede a se stessi e che possano sviluppare la propria personalità. Solo una fiducia del genere dà loro solidità in mezzo a un mondo insicuro.

[…] L’esperienza mostra che nessuno può vivere senza fiducia. Persino chi è stato continuamente deluso dagli altri, desidera intensamente avere persone di cui ci si può fidare. Ha dentro di sé la sensazione di aver bisogno di questa fiducia per avere un punto fermo in questo mondo. E se gli altri lo deludono continuamente, allora cerca un altro soste­gno. Anche la fiducia in Dio normalmente ha bisogno del­l’esperienza della fiducia umana. Ma si fa anche esperien­za che la mancanza di fiducia umana ci porta a porre la nostra fiducia in Dio. Ciascuno ha in sé il desiderio inten­so di potersi fidare. E nel desiderio intenso di fiducia si pre­senta già l’inizio della fiducia in noi.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 80-81).

Quale sicurezza offre la fede?

Un aspetto ulteriore della fede non punta al sapere e all’interpretazione, ma all’atteggiamento. Credo a qualcuno. Fede è fiducia in una persona. Anche se questa fiducia, in ultima analisi, ritiene che Dio sia il sostegno vero e proprio della nostra vita, per molti non è possibile confidare in Dio, che appare così lontano. E tuttavia, si sentono in qualche modo sostenuti. Dietrich Bonhoeffer, nella famosa poesia composta prima di venire ucciso in campo di concentramento, ha parlato delle forze amiche che ci sostengono: “Da forze amiche meravigliosamente avvolti, attendiamo consolati quello che verrà. Dio è con noi di sera e di mattina, sarà con noi in ogni nuovo giorno”. A queste parole possono ricorrere anche coloro che hanno difficoltà a riconoscere Dio come il fondamento della loro fiducia.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 84).

La nascita del sole

Per molto tempo solo le stelle abitavano nell’alto dei cieli.

Il mondo portava l’abito di lutto. 

La terra camminava in solitudine in queste tenebre,

solo i vicini conversavano gli uni con gli altri,

e spesso intorpidivano o si addormentavano cadendo in sonno profondo.

Gli animali non si conoscevano, le nuvole giravano senza senso,

i fiori non vedevano l’abito e i colori degli altri fiori.

Le piogge non sapevano dove cadevano.

Un giorno molte delle stelle decisero di unirsi

per creare con i loro bagliori una grande, splendida luce.

Si misero in cammino tante stelle le une verso le altre.

Da mille direzioni, per mille strade,

mille stelle si avviarono dall’orlo delle tenebre

per dare origine a uno splendore comune

al centro del firmamento vuoto come l’abisso.

Dovettero fare un lungo viaggio

sul nero firmamento,

ma finalmente con grande felicità

tutte le mille stelle si fusero

in una grande, splendida, unica luce.

Nacque così il sole,

il focolare comune di mille stelle

e così cominciò la prima grande festa della luce.

Fu una vera festa!

La festa del primo giorno vero.

Arrivavano gli ospiti al banchetto

attorno alla grandiosa tavola rotonda della luce, mai vista prima.

Prima di tutti arrivò l’aria insieme con il firmamento vecchio

portando un manto lungo leggero.

Il terzo ospite illustre fu il mare,

le sue onde suonarono come una salva.

Poi vennero i grandi boschi, gli alberi

in mantelli verdi di foglie,

la famiglia dei fiori, silenziosi ma di bellissimi colori.

Poi gli animali: i veloci cavalli, i fedeli cani, i forti leoni…

chi potrebbe annoverare tutti?

Al culmine della festa

arrivò una coppia bella:

un giovane e una giovane,

come la coppia regale del banchetto,

benché arrivassero ultimi, si sedettero a capotavola,

gli altri invitati gioirono.

Tutti si sentivano figli del sole del mezzogiorno,

prediletti nel regno appena nato del firmamento splendido.

Ma all’improvviso un’ombra entrò

nel palazzo di cristallo del sole,

altre piccole ombre la seguirono.

All’inizio nessuno si curò di loro,

ma arrivavano sempre di più,

si mischiavano tra gli ospiti,

e ad un certo punto fece quasi buio.

Il sole neonato cominciò a spegnersi.

Gli ospiti si spaventarono, e tutti fuggirono dal banchetto. 

La giovane coppia umana rimase sola nella notte

che diventava sempre più oscura.

Ma il ragazzo non si spaventò nel suo cuore,

abbracciando il suo amore parlò al mondo:

“Non temete, mari e fiori,

non temete animali ed erbe!

Il sole non è morto, solo riposa

per sorgere domani di nuovo con una forza rinnovata.”

Ma durante questa prima notte nessuno dormiva,

né erba, né albero, né vento, né mare.

Tutti aspettarono se sarebbe stata vera la promessa del loro giovane re

sul ritorno del sole.

E quando al mattino la luce si svegliò nella sala di cristallo

del suo palazzo, la accolse un giubilo più grande del primo giorno.

Perché allora tutto il mondo seppe:

la notte è sempre solo un sogno,

dopo il sogno arriva però la splendida realtà della luce.

(János Pilinszky, poeta cattolico, molto religioso, che ha conosciuto l’esperienza dei lager, che dovette rimanere in silenzio, con il solo permesso di scrivere favole).

Preghiera

 Io sono venuto

in questo mondo

perché coloro

che non vedono

vedano e quelli

che vedono

diventino ciechi.

Apri i miei occhi, Signore,

alle meraviglie del tuo amore.

Io sono cieco sulla strada.

Guariscimi: voglio vederti.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO

LIBRO IN EVIDENZA-Rubrica periodica di «Catechetica ed Educazione»

Christoph Theobald, Un concilio in incognito? Il sinodo, via di riconciliazione e creatività, EDB, Bologna 2024, pp. 192.

Christoph Theobald, An Incognito Council? The Synod, a Path to Reconciliation and Creativity, EDB, Bologna 2024, pp. 192.

The Author is a well-known theologian of German origin, resident in Paris, professor at the Centre Sèvres, the Jesuit institute of the French capital. It may be useful to know that many of his works, including this one, have been translated into Italian, in particular by EDB (publisher of the Dehonians) of Bologna.

Theobald is recognized for his thinking on ecumenical dialogue and for an innovative vision of the role of the Catholic Church in the contemporary world. He affirms, deepens and disseminates the need for a “synodal” and fraternal Church, in line with the reforms promoted by Pope Francis.

The book we present is easy to read and understand, written in a calm style, well documented on the reality of the Synod in progress without a feeling of hypercriticism of which the synodal work is often criticized and even more ignored.

We note well that the Author does not want to express personal thoughts, but to report and interpret the path of the Synod so far. It includes two stages: the result, from the beginning of the work (2021-2022), is summarized in the first Synod (October 2023); a second stage follows that concludes in the second Synod (October 2024). Theobald obviously cannot speak about this, since his text was written first, but he foresees the tasks in light of the documents gradually published by the Pope and the General Secretariat. Significant conclusions and new proposals for the continuation of the synodal journey are to be expected.

The A.’s vision is already expressed in the title: An incognito council? The synod, a path of reconciliation and creativity. For Theobald, the current synod is not the expiration of a commitment among many synods, usual in the history of the Church. First of all, it has a close connection, indeed by root, with the Second Vatican Council, of which it wants to be an extension, not only aspiring to be understood as a council not declared as such (incognito), but to be so in fact, notably with two of its distinctive traits defined as “path of reconciliation and creativity”, for which the Synod in progress is called by him a path, made of openness and dialogue at a religious and social level, with a profoundly innovative, creative purpose, in view of a new evangelization under the guidance of the Spirit of Jesus (or Holy Spirit) that does not make a new Church, but the same Church renewed as in the origins, “not a different Church, but a different Church”.

Theobald’s book is placed within this framework of ideas. It is 190 pages well structured in six chapters of which we give here, in brief summary, the contents. Essential inspiration comes from the Scriptures as a “missionary travel report” that wants to continue in the Synod and is its soul (chap. 1); the A. the question is asked: “if synodality is a “constitutive dimension of the Church”, how is it constituted?”. The answer is clear and dominant: it is based on Baptism which creates a fraternal equality of the baptized; it takes its orientation and inspiration from Vatican II; for which the Church must always be understood as “people of God” (chap. 2); a clarification on the Synod itself follows: it is an intercontinental and intercultural journey (some experiences in Africa and Europe are reported, seen as “gifts” of the Holy Spirit) (chap. 3); a solid reflection on the soul of the synodal journey could not be missing: “A journey of spiritual and institutional conversion” (chap. 4); in chaps. 5 and 6 the strong points of the first synodal stage are summarized (until October 2024). The task that engages the Church in profoundly reforming itself remains central. Chap. 5 mentions the basic contents and problems: the renewed and indispensable participation of women in the life of the Church; the real involvement of all Christians and not only the clergy; a regained credibility especially with regard to scandals and institutional crises, underlining the importance of a structural and spiritual reform to regain the trust of the faithful; to this end the Church must renew its way of exercising authority, transforming it into an “authority of fraternity”, capable of promoting dialogue and inclusion; the Church should overcome internal and social conflicts through a spirit of brotherhood, thus contributing to cohesion in secular societies. Last but not least, theological science must give its contribution to the elaboration of emerging thoughts and proposals. In chapter 6 Theobald expresses, so to speak, his synodal dream with a statement that he repeats elsewhere: “synodality must be seen within a messianic vision of the world”.

He concludes by asking whether the breadth, novelty and depth of the synod can be outlined as “a council incognito?”. It is a question that, reading the book, sounds like a challenge: who and how can one say no?

 Cesare Bissoli

Istituto di Catechetica, UPS. Roma

XXVIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Sapienza 7,7-11

      Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto, non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta. Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile. 
          
  • Il brano appartiene alla seconda parte del libro della Sapienza, là dove viene presentato Salomone, il saggio per antonomasia e la sua ricerca per la sapienza. Dopo una prima parte che metteva in luce la piccolezza di Salomone (cf. 7,1-6), il nostro brano mette in luce il valore della sapienza. L’idea madre sta qui: la sapienza è superiore a tutte le ricchezze.

     — Il v. 7 da l’intonazione perché qualifica la sapienza come dono di Dio, un bene che si chiede a Lui. Si tratta quindi di una realtà qualitativamente diversa da tutte quelle che l’uomo può acquisire da sé.

     — I vv. 8-10 fanno l’inventario dei beni solitamente ricercati: potere (v. 8), ricchezza (v. 9), salute e bellezza (v. 10). Viene utilizzata la tecnica del contrasto e della sproporzione: non è neppure ipotizzabile un raffronto tra questi beni e la sapienza, tanto questa li supera di gran lunga.

     — Il v. 11 recupera tutti i beni, come corredo della sapienza. Quindi, sembra suggerire l’autore, non viene snobbato nulla di quanto l’uomo incontra sulla terra.

     L’implicita raccomandazione – sull’esempio di Salomone che sceglie e preferisce la sapienza – è di ricercare i beni del cielo (tale è appunto la sapienza), sapendo che «tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7,33).

Seconda lettura: Ebrei 4,12-13

         La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.    
  • Tra le ricchezze che il cristiano deve ricercare e possedere, va senz’altro annoverata la Parola di Dio. Il testo è un minuscolo ma prezioso trattato sul suo valore.

     La Parola di Dio, presentata sotto la metafora della spada (cf. Ef 6,17; Ap 1,16), è detta viva (in greco posto enfaticamente all’inizio), forse perché compie azioni importanti, vitali. È attribuita alla Parola una specie di personificazione (cf. Is 55,10ss.), che si manifesta anche nella caratteristica dell’essere efficace e tagliente. Ad esso viene attribuito un potere di discernimento che spesso la coscienza non possiede, perché intrappolata nei meandri di false rappresentazioni. La Parola di Dio svolge quindi la preziosa funzione di indagare, illuminare, orientare.

     Una vera bussola che il Signore pone sul cammino del credente e della comunità, per rendere più sicuro il suo cammino. Dono di Dio, è una ricchezza offerta agli uomini.

Vangelo: Marco 10,17-30

           [In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».] Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».  

Esegesi

     La professione di fede di Pietro divide in due parti il Vangelo secondo Marco: se prima Gesù era impegnato ad annunciare la Buona Novella a tutti, ora, senza rinunciare ad istruire la folla, coagula il suo interesse sul gruppo dei Dodici che ha fatto l’opzione per Lui.

     Troviamo materiale eterogeneo quanto a genere letterario, perché composto da un racconto di vocazione, da un ammonimento e da una risposta all’implicita richiesta di Pietro; però comune è la tematica, quella della ricchezza, una specie di filo conduttore che rinsalda le diverse parti. In dettaglio:

     — Gesù incontra un ricco e lo chiama alla sua sequela, vv. 17-22; il racconto è animato dal movimento iniziale di correre incontro a Gesù in contrasto con quello finale di allontanamento; il primo movimento sottintende una gioia della ricerca, il secondo è accompagnato da tristezza.

     — Colloquio di Gesù con i discepoli sulla ricchezza come ostacolo per l’ingresso nel regno dei cieli; la difficoltà viene superata dalla potenza divina, vv. 23-27.

     — Problema di Pietro circa la ricompensa alla sequela e la conseguente risposta di Gesù; esiste una ricompensa immediata e una futura, vv. 28-31.

     L’insegnamento rimbalza dai discepoli a tutti gli uomini che vogliono mettersi alla sequela di Cristo; esso porta luce e orientamento e, per il cristiano, diventa norma di vita.

     Notiamo un inizio elettrizzante di uno che corre incontro a Gesù: si presagisce qualcosa di interessante. Al movimento spaziale l’evangelista Matteo aggiunge anche un movimento temporale: secondo lui si tratta di un giovane: per Marco è chiaramente un adulto perché dirà «fin dalla mia giovinezza». Oltre alla corsa, il mettersi in ginocchio davanti a Gesù, denota la stima verso il maestro di Nazaret. C’è grande aspettativa.

     — «Maestro buono… Nessuno è buono, se non Dio solo». L’appellativo, di uso raro e insolito, sembra rifiutato da Gesù. In realtà, egli aiuta a capire dove sta la vera e unica sorgente della bontà, alla quale tutti devono attingere: il Padre; ce lo rammenta sempre la liturgia: «Padre santo, fonte di ogni santità…» (Prece eucaristica II). Chi ricerca la vita eterna, deve orientarsi verso quel Dio che ha espresso la sua volontà di santità nel decalogo.

     — «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…». Gesù cita la quintessenza dell’alleanza al Sinai: si allinea con la migliore tradizione biblica di cui afferma l’autenticità e di cui conferma la continuità. La proposta della ‘seconda tavola’, quella che contiene i doveri verso il prossimo, dimostra che qui si gioca la veridicità dell’amore a Dio.

     — La risposta piace ma non propone nulla di nuovo: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». L’uomo che sta davanti a Gesù sente il bisogno di qualcosa che vada oltre; a lui il merito di aver intuito che Gesù può indicare quel qualcosa.

     — Il salto di qualità arriva negli atteggiamenti e nei sentimenti prima ancora che nelle parole. L’evangelista Marco ha regalato all’umanità il particolare stupendo dello sguardo e dei sentimenti di Gesù: «fissò lo sguardo su di lui, lo amò». È un dettaglio di toccante tenerezza, esclusivo del secondo vangelo. La forza di quello sguardo e la carica di quell’amore spingono ad accogliere il novum che l’uomo aveva vagamente percepito in Gesù e che ora si sente proporre: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».

     — Tutto gravita attorno a due poli che bilanciano la risposta: «Va’, vendi» e «Vieni! Seguimi!». Sono due coppie di imperativi che vivono un drammatico contrasto: movimento di allontanamento il primo, di avvicinamento il secondo. L’originalità sta nel prospettare la povertà evangelica e la sequela di Cristo, l’una come condizione dell’altra: «Il vero modo di tesorizzare presso Dio è quello di dare. Uno non ha quanto ha accumulato, bensì quanto ha donato» (S. Fausti). In ogni caso ci si deve allontanare da qualcosa per incamminarsi dietro a Qualcuno. Idee e progetti che prima si realizzavano in proprio, ora si realizzano in società, meglio, in comunione.

     — Gesù chiama quell’uomo a diventare suo discepolo; gli propone l’ideale suggestivo e arduo della sequela. Scrive Kierkegaard: «Diventare discepolo consiste nell’essere intimamente coinvolto in un drammatico e salutare confronto di contemporaneità con Cristo, invece di mantenersi nello stato di ammiratore disimpegnato». La vocazione a seguire Gesù esige un legame con la sua persona, perché Gesù non promette altro che se stesso e una rottura con il presente. Al di fuori di questa comunione saranno solo idee e progetti avventizi e sterili, destinati a vita breve e senza seguito. Il Cristo non chiede di essere sradicati o isolati, propone invece il legame e la comunione con Lui. Praticamente Gesù dice al ricco:  «Seguimi!». Lui e Lui solo è la meta dei comandamenti, la loro pienezza Gesù riprende la domanda del suo interlocutore che voleva qualcosa di più. La risposta è Gesù stesso: è Lui che fa la differenza con la risposta tradizionale, pur valida, ma insufficiente.

     — Quell’uomo ha paura dell’ignoto e preferisce l’ancoraggio al presente; perde il suo entusiasmo iniziale, smorzandosi in una tristezza che lo incupisce e lo allontana. La conclusione dell’episodio è quanto mai laconica: «Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni». Con il «se ne andò rattristato» si registra prima la tristezza che si e dipinta sul volto, all’esterno, seguita dalla motivazione «a queste parole»; si dà  poi l’analisi psicologica dello stato d’animo con quel «scuro in volto» seguito dalla seconda motivazione «possedeva infatti molti beni». La tristezza esteriore è più immediata ed è causata dalle parole di Gesù ha valore più transitorio. L’afflizione invece pesca nel profondo, intacca tutta l’esistenza e proviene dalla ricchezza alla quale l’uomo è schiavisticamente legato.

     Dalla corsa iniziale all’allontanamento finale: qui sta la miserevole vicenda di chi si arricchisce davanti agli uomini e non davanti a Dio.

     — Sussiste per tutti il pericolo della ricchezza (vv. 23-27). L’accaduto diventa occasione per un salutare monito a tutta la comunità ecclesiale. Le parole di Gesù «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!» ghiacciano l’uditorio e gettano nella costernazione i discepoli. Va ricordato che i discepoli erano cresciuti alla teologia dell’Antico Testamento che considerava la prosperità materiale come il sacramento della benedizione divina. Non si sa fin dove la predicazione profetica e la teologia dei salmi fossero riuscite a intaccare lo zoccolo duro dell’opinione popolare, del resto ampiamente accolta e propagandata dalla classe dei sadducei. Di fatto coesistevano l’ideale dei poveri di JHWH che ponevano la loro fiducia esclusivamente in Dio e la prassi dei ricchi che si ritenevano depositari della benevolenza divina perché potevano disporre di beni materiali. A Gesù spetta il non facile compito di ribaltare un pensiero comune e di profilarne un altro. Quasi incurante dello shock provocato, rincara la dose: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!». Gesù non fa sconti. Secondo lo stile orientale, l’idea viene sostenuta da un paragone: « È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». È una iperbole cioè una voluta esagerazione per far capire il messaggio (fallaci i tentativi di trasformare kamelos ‘cammello’ in kamilos ‘gomena corda di nave’, oppure di pensare ad una porticina delle mura di Gerusalemme denominata ‘cruna dell’ago’). Davanti ad una reale e consistente difficoltà, la soluzione viene dal Signore: «tutto è possibile presso Dio»; la frase, presa da Gn 18,14 (Sara e Abramo) ricorda il potere di Dio.  

     — Se quell’uomo ha fallito, i discepoli hanno lasciato tutto e seguito il Maestro, implicitamente viene chiesto che cosa toccherà loro (cf vv. 28-31). La risposta di Gesù è inaspettata e, come sempre, profonda: viene promessa una ricompensa futura, definitiva e una immediata, provvisoria. La prima è la «vita eterna», quella vita che il ricco aveva ricercato ma pure rifiutato, quella nella quale è impossibile entrare se si è ricchi. Quella provvisoria sta nel fatto che i discepoli di Cristo, rinunciando alla casa, alla famiglia e alla proprietà, ritrovano una nuova famiglia ed una casa nella comunità cristiana. Il pensiero è ben illustrato da Mc 3,34-35 dove Gesù aiuta a superare i legami familiari giuridici per ritrovare i legami della fede.

Meditazione

Il capitolo 10 del Vangelo di Marco, che stiamo ascoltando nella liturgia di queste domeniche, è un susseguirsi di domande rivolte a Gesù, che si lascia interrogare. Infatti il suo vivere tra di noi, la sua parola, il suo agire, suscita domande a donne e uomini spesso sicuri di sé, che volen­tieri evitano di mettere in discussione le loro abitudini e il loro modo di vivere. «La parola di Dio – e in Gesù la Parola si è fatta carne – è viva ed efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, e scruta i sentimen­ti e i pensieri del cuore». Così abbiamo ascoltato nella lettera agli Ebrei. Ci immaginiamo dal racconto evangelico un certo entusiasmo di quel tale, che corse incontro a Gesù, certo di avere una risposta a una domanda profonda che si portava nel cuore: «Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» Aveva osservato i comandamenti fin dalla giovinezza, come prescriveva la legge. Lo afferma in risposta al Signore quasi con una punta di orgoglio, ma anche di insoddisfazione, altrimenti perché si sarebbe rivolto a Gesù? Era un uomo buono, alme­no si sentiva tale, se con tanta sicurezza dichiara l’adempimento dei comandamenti. Eppure, nel suo correre verso il Signore, nel suo domandare, emerge un bisogno e una richiesta di qualcosa di più. E il Signore «fissò lo sguardo su di lui, lo amò». È lo sguardo profondo di Gesù, che penetra al di là delle paure e delle sicurezze dell’uomo.

Con questo stesso sguardo Gesù aveva fissato Pietro nel momento del rinnegamento e della paura, quasi per ricordargli lo sguardo dell’i­nizio, quando il fratello Andrea lo aveva condotto da lui. È uno sguardo pieno di amore, con cui il Signore vuole rispondere in maniera profon­da alla domanda di quell’uomo e di ognuno di noi. Esso, come per Pietro, diventa una domanda e un invito: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo, e vieni e seguimi.» Gesù nel suo amore coglie ciò che manca alla vita di quell’uomo, ricco, ma in difetto, non realizzato, non pienamente uomo, uno che non era riuscito ancora a raggiungere la pienezza della sua vita. Non per nulla in Matteo è un giovane, quasi a dire qualcuno che ancora deve raggiungere la maturità deve realizzarsi. In Marco è semplicemente «un tale». Potrebbe essere qualsiasi di noi. In quello sguardo pieno di amore il Signore coglie la situazione di ognuno di noi e del mondo in cui viviamo: donne e uomini ricchi, sazi nel loro benessere, forse anche fedeli ai comandamenti oppure onesti, come tanti si credono, ma non pienamente umani. Gesù nel suo invito svela l’insoddisfazione ed anche, si potrebbe dire, l’immaturità di quel ricco, che si era creduto già vicino alla vita eterna. Egli sembra dire che non basta essere vicini alla vita eterna, se si vive insoddisfatti e in maniera non pienamente umana.

L’invito del Signore a quell’uomo ricco è molto chiaro. Sì, ti manca qualcosa di essenziale. Va’, vendi quello che hai, separati dai tuoi beni, lascia quello che credi il tuo tesoro, vivi la solidarietà con i poveri e avrai un tesoro nel cielo. «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e la ricchezza», aveva detto parlando alle folle (Mt 6,24). La parola di Gesù è un ammonimento e un invito prezioso per la vita di ognuno di noi, non solo dei consacrati, come talvolta lo si intende. Gesù propone ad ogni discepolo un tesoro, che non è possibile acquistare, che non si ottiene con un benessere che lascia insoddisfatti. Questo tesoro è innanzitutto nel cielo. Ma il suo possesso comincia già fin da oggi. Infatti Gesù aggiunse: «Poi vieni e seguimi». La sequela è anche separazione da qualcosa di nostro. Noi a fatica sappiamo separarci da quello che abbiamo, anzi molti vivono per possedere, spendono energie e sostanze solo per il loro interesse. La vita dei poveri, la miseria di molti, non li tocca, non li muove a compassione. Lo aveva detto Gesù poco prima nel vangelo di Marco: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso», cioè si separi da se stesso, «prenda la sua croce e mi segua». (8,34). E più avanti: «Se la tua mano, il tuo piede, tuo occhio… ti scandalizzano, tagliali È meglio entrare nella vita con una mano, un piede, un occhio soli, che con due nella Geenna». (9,43-47). Oggi si fa fatica a rinunciare a qualcosa, anzi soprattutto nella crisi abbiamo paura di perdere il benessere in cui abbiamo vissuto. Così la misura è il calcolo, la paura fa alzare muri davanti agli altri, soprattutto ai poveri. «Seguimi» è un invito a vivere in maniera pienamente umana, a diventare grandi come Gesù nell’amore, a respirare la libertà del dare gratuitamente, così come abbiamo ricevuto. Ma quel ricco, conclude con una punta di amarezza il vangelo, «a queste parole si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.» Nella paura di perdere quello che abbiamo, nell’attaccamento ai beni, crescono donne e uomini tristi, afflitti, insoddisfatti, mai lieti per quello che hanno, poco generosi e molto calcolatori, stretti di cuore. Sembra lo specchio di una grande parte del mondo in cui noi abbiamo la grazia di vivere.

Appaiono così più chiare le parole del Signore di fronte alla scelta dell’uomo ricco: «Quanto è difficile per coloro che hanno ricchezze entrare nel regno di Dio!» E i discepoli rimasero stupefatti e pieni di domande. «E chi può essere salvato?» Gesù per la seconda volta «fissò i discepoli e disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”». Ancora una volta lo sguardo di amore del Signore comprende il nostro smarrimento, soprattutto il senso di impossibilità, il pessimismo che domina il nostro cuore. La sua parola è un chiaro invito alla fede. Gesù ci insegna a credere, ad affidarci a Dio, a vincere la paura con la fiducia e l’ascolto. La fede fa vivere. Non solo! Quel seguimi è un invito a credere, a fidarsi, a non ascoltare le ragioni del nostro mondo ricco, rassegnato e insoddisfatto. Gesù non chiede di buttare a mare tutto quanto abbiamo: non è questo il senso della frase evangelica. La decisione che questa pagina evangelica vuole provocare in noi riguarda il primato da dare a Dio sopra ogni cosa. Gesù ci chiede di porre Dio al di sopra di tutto, anche dei beni che abbiamo, e. di considerare i poveri come nostri fratelli verso i quali siamo debitori di amore e di aiuto. Essi hanno diritto al nostro amore e al nostro aiuto. Quel che chiede il Signore, a prima vista, ha i tratti di una rinuncia e in parte lo è, ma è soprattutto una grande sapienza di vita. Ovviamente si tratta non della sapienza del mondo che spinge a rinchiudersi in se stessi e nelle cose del mondo, ma della sapienza che viene da cielo, di cui ascoltiamo dalle Sante Scritture: «La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento. L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta» (Sap 7,8-10). La risposta di Gesù alla richiesta che Pietro ha fatto a nome dei discepoli spiega concretamente le conseguenze di tale sapienza evangelica: chi abbandona tutto per seguire Gesù (ossia, chi pone Gesù al di sopra di ogni cosa) riceverà in questa vita il centuplo e, dopo la morte, la vita eterna. È l’esatto contrario di quello che nor­malmente si pensa, ossia che la vita evangelica sia innanzitutto privazio­ne. Così pensò anche l’uomo ricco. In verità, la scelta di seguire il Signore sopra ogni cosa è sommamente «conveniente», non solo per salvare la propria anima nel futuro, ma anche per gustare «cento volte» la vita su questa terra. Il brano tratto dal libro della Sapienza conclude: «Insieme a lei (la sapienza che viene dal cielo) mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile». Chi mette Dio al primo posto nella sua vita, entra a far parte della Sua «famiglia» ove trova fratelli e sorelle da amare, padri e madri da venerare, case e campi ove lavorare. Trova l’amore.

Quel seguimi conduce così i discepoli in un mondo largo, quello della famiglia di Dio, il mondo senza confini dei fratelli, delle sorelle, delle madri, dei padri, dei figli, dei campi e delle case. Qui noi già rice­viamo il centuplo, ciò che quel ricco cercava senza saperlo. Questa condizione è come un’anticipazione della vita eterna, perché è il modo di vivere di Dio, non per sé, ma in comunione, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Signore vuole che noi già fin da oggi gustiamo la gioia e la dolcezza di questa vita in comunione, che fa della libertà una scelta di amore, della ricchezza un dono immeritato, della vita cristiana una proposta spirituale in un mondo dominato dalle cose e dall’io. Nella Liturgia Eucaristica possiamo rendere lode e ringraziare il Signore con tutto il cuore perché ha guardato con amore a ognuno di noi e ci ha detto «seguimi». Ringraziamolo perché ci ha concesso la sapienza di una vita pienamente umana, perché guidata dalla luce del Vangelo.

L’immagine della domenica

Terminillo (Monti Reatini)     –      2021  

«La gente viaggia per meravigliarsi dinnanzi all’altezza delle montagne, alle enormi onde del mare, ai lunghi corsi dei fiumi, alla vastità dell’oceano, al movimento circolare delle stelle; eppure passano davanti a se stessi senza nemmeno accorgersene».

(Sant’Agostino)

Casella di testo: Sapienza 7,7-11
Ebrei 4,12-13
Marco 10,17-30

Una cosa ti manca, va', vendi, dona.... Quell'uomo non ha un nome, è un tale, di cui sappiamo solo che è molto ricco. Il denaro si è mangiato il suo nome, per tutti è semplicemente il giovane ricco. Nel Vangelo altri ricchi hanno incontrato Gesù: Zaccheo, Levi, Lazzaro, Susanna, Giovanna. E hanno un nome perché il denaro non era la loro identità. Che cosa hanno fatto di diverso questi, che Gesù amava, cui si appoggiava con i dodici? 
Hanno smesso di cercare sicurezza nel denaro e l'hanno impiegato per accrescere la vita attorno a sé. È questo che Gesù intende: tutto ciò che hai dallo ai poveri! Più ancora che la povertà, la condivisione. Più della sobrietà, la solidarietà. Il problema è che Dio ci ha dato le cose per servircene e gli uomini per amarli. E noi abbiamo amato le cose e ci siamo serviti degli uomini...

Quello che Gesù propone non è tanto un uomo spoglio di tutto, quanto un uomo libero e pieno di relazioni. Libero, e con cento legami. Come nella risposta a Pietro: Signore, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio? Avrai in cambio una vita moltiplicata. Che si riempie di volti: avrai cento fratelli e sorelle e madri e figli... 

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Il Vangelo chiede la rinuncia, ma solo di ciò che è zavorra che impedisce il volo. Messaggio attualissimo: la scoperta che il vivere semplice e sobrio spalanca possibilità inimmaginabili.
(Ermes Ronchi)

Preghiere e racconti

“Perché gli adulti si affannano tanto ad accumulare cose?”

“Pensare che la felicità dipenda dal possesso di qualcosa è un autoinganno rassicurante. Siccome la cosa importante diventa avere o non avere, la ricerca si orienta verso qualcosa che è al di fuori di noi, evitandoci la fatica di guardare nella nostra interiorità. Seguendo questo ragionamento, possiamo essere felici senza cambiare, semplicemente ottenendo questo o quello.”

“E la gente non se ne rende conto?” insistette il giovane principe, che evidentemente faceva una gran fatica a credere che l’umanità fosse così cieca.”

“Il problema, mio giovane amico, è che la nostra società ha moltiplicato a tal punto le cose da desiderare che la gente non capisce di aver sbagliato strada finché non si è accaparrata l’ultima della lista. Lo sai come si aggrappano a qualsiasi possibilità, per remota che sia, pur di non ammettere che sbagliano e devono cambiare. Il fatto è che quando finalmente mettono le mani su questa benedetta ultima cosa, hanno perso la prima. Sono come quei giocolieri che lanciano in aria sette cappelli insieme. E pensa che sono solo sette! Ma la cosa peggiore è che la gente sa solo quello che vuole sul momento, quando è vicina a raggiungere ciò che voleva. E allora si scopre che quello che ritenevano il loro obiettivo finale non lo era davvero, e così sciupano la vita in una continua ricerca infruttuosa, saltando di cosa in cosa, come se questi oggetti fossero le pietre di un fiume che non finiranno mai di attraversare. In linea generale, chi è ossessionato dal desiderio di possedere rimane intrappolato nel futuro. Non vive mai il presente e non se lo gode, perché la sua attenzione è orientata a qualcosa che sta sempre per succedere.”

(A.G. ROEMMERS, Il ritorno del giovane principe, Corbaccio, Milano, 2012, 60,61)

Ti mancava una cosa sola

Non sappiamo il tuo nome, ma meglio così, sei tutti noi. Eri ancor giovane, dice qualcuno, ma avevi già un passato da raccontare e una posizione ce l’avevi, economica e non solo. Eri anche una persona perbene, un bravo ragazzo, come si dice.

Vorremmo tornare a quel tuo incontro straordinario con Gesù, il giorno che passò dal tuo paese. Chissà anche tu quante volte ci sarai ritornato su, col pensiero, nella tua vita di poi, nelle notti insonni o nelle pause del giorno.

Dovevi esserne rimasto affascinato. Dovevi aver detto anche tu: “Nessuno parla come costui!”. Quel giorno, mentre stava andandosene, non hai voluto perdere l’occasione di incontrarlo. Ti sei slanciato verso di lui senza ch’egli ti cercasse (o non era forse lui quella nostalgia d’infinito che già bruciava in te?), gli sei caduto alle ginocchia, come i tuoi servi davanti a te, gli ha posto la domanda cui solo lui, ne eri certo, poteva rispondere: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Forse ne avevi sentito parlare da lui, fatto sta che tu ci credevi, che la tua storia non sarebbe finita su questa terra.

Il Maestro t’aveva rimesso, al di là di ogni infatuazione, davanti all’Unico buono. Lui dunque da amare anzitutto. E t’aveva snocciolato i comandamenti delle relazioni umane secondo Dio. Non era facile per te esservi fedele, ma ce l’avevi fatta. Non avevi ammazzato nessuno, lasciavi ad ognuno la sua donna e i suoi beni, e mai nessuno avevi danneggiato con la menzogna e l’inganno. Tuo padre e tua madre li avevi rispettati, ci mancherebbe altro. Con che gioia hai detto a Gesù: “Ho sempre obbedito a questi comandamenti”.

Gesù non ti ha guardato, semplicemente, come si guarda uno che parla; ti fissò, dice Marco, che, benché di poche parole, precisa: ti amò. Era come se volesse per primo offrirti quel più d’amore che stava per chiederti. “Una sola cosa ti manca: va’ vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”.

Non avresti mai pensato che ti chiedesse tanto. Forse un’elemosina più consistente, pensavi, una preghiera più lunga, una penitenza. Ti è mancato il fiato. In un istante hai rivisto tutto quello che avevi e quello che speravi di avere. Il frutto delle fatiche dei tuoi padri e tue a chi non ne aveva diritto? e poi… seguire Gesù: dove? con che prospettive?

Inutile chiederti com’è stato che hai scelto liberamente eppure sei rimasto triste. La conosciamo questa tristezza, questa falsa libertà. Il dramma di non volare alto per godere a bassa quota eppure rimanere infelici. L’impotenza di vedere il bene, di volerlo anche, senza riuscire a sceglierlo. Eccome, se ti capiamo.

Vorremmo però capire che cosa non ha funzionato nella tua storia, cioè nella nostra. Anche Simone e Andrea non avevano ancora capito niente di Gesù, anzi, non gli avevano neppure fatto la tua bella domanda, e forse non erano neppure osservanti come te. Eppure, subito, l’hanno seguito. Perché loro sì e tu no?

“Perché aveva molti beni”, sembra aiutarci Marco. Il mistero della ricchezza! S’attacca al cuore, alla mente, alla volontà come una zavorra. Uno apre le ali e non sa più volare. Uno prova ad amare e non dà che qualche battito. Uno prova a camminare, ma non ce la fa a trascinare tutto. Ad ascoltare, ma le orecchie sono tappate. A vedere, ma è come se non vedesse. Esigenze, esigenze, esigenze. Guai se manca una cosa, guai se non c’è l’altra.

A differenza di te che almeno te ne sei andato triste e hai misurato l’enorme nostalgia che, chissà, forse un giorno avrebbe potuto spingerti a tornare, noi invece crediamo che si può mettere insieme l’avere molto e la vita eterna, l’accumulo dei beni e la fede in Gesù Cristo. Credici, amico lontano, siamo ben più disgraziati noi. Fa’ una cosa, regalaci un po’ della tua tristezza, anzi tutta.

La conoscenza di sé e conoscenza di Dio

La tradizione islamica ha conservato un hadît secondo il quale chi conosce se stesso conosce il suo Signore. Un passo neotestamentario è significativo di questa ricerca concomitante di sé e di Dio. In Mc 10,17-22, «un tale», un personaggio anonimo, dunque in cerca della propria identità, corre da Gesù e si getta ai suoi piedi interrogandolo su come ottenere la vita eterna (v. 17). In questa persona (che non è «un giovane» come in Mt 19,20 e neppure «un capo» come in Lc 18,18, ma appunto solo «un tale») si coniugano dunque ricerca di Dio e ricerca di identità personale. E questa ricerca si esprime in una domanda: «Che cosa devo fare?» (v. 17). La risposta di Gesù non è estrinseca, non è rivolta verso l’esterno, non è sbilanciata sul piano del «fare», ma propone un itinerario interiore. Gesù pone una contro-domanda che conduce il suo interlocutore a interrogarsi sul movente profondo, sul perché di quella ricerca. Gesù lo fa andare al fondo di se stesso. L’itinerario che Gesù propone comprende infatti, anzitutto, la conoscenza di sé, l’ordinamento delle relazioni umane con gli altri, con le realtà esterne, con la propria storia famigliare (i comandi etici del decalogo ricordati nel v. 19). Quindi, la rivelazione della povertà profonda, della mancanza che abita il suo interlocutore («una cosa ti manca»: v. 21), non dopo però avergli apprestato lo spazio di amore al cui interno accogliere tale rivelazione e superarla grazie alla relazione con Gesù stesso (v. 21: «Gesù fissatelo lo amò e gli disse: “… vieni e seguimi”»). Conoscenza di Dio e conoscenza di sé, dice questo testo, passano attraverso l’adesione alla persona di Gesù Cristo. L’anonimo interlocutore di Gesù però rifiuta il rischio del farsi amare e di ricevere la propria identità nella relazione con un altro, e così resta senza nome, senza volto, definito solamente da ciò che ha, da ciò che possiede: «Se ne andò afflitto perché aveva molti beni» (v. 22).

(Luciano MANICARDI, La vita interiore oggi. Emergenza di un tema e sue ambiguità, Magnano, Qiqajon, 1999, 12-13).

Quello che non abbiamo cercato

“Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato. Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui. La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato. A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.

(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).

Incontrare Cristo

«Incontrare Cristo significa mettervi sulla strada dell’esperienza dell’amore, della gioia, della bellezza, della verità. Decidere di non custodire e di non approfondire il segreto dell’incontro con lui equivarrebbe a condannarsi a una vita senza senso e senza amore. Vorrei soprattutto dirvi, non abbiate paura, non abbiate timore di aprirvi a Cristo, di entrare nel suo mistero».

(Card. C.M. Martini).

«Non potete servire a Dio e a mammona»

Pensiamo all’episodio emblematico del giovane ricco che non riesce a staccarsi dal fasto del suo palazzo per seguire Cristo (Matteo 19,16-26). La frase paradossale che suggella quell’evento è netta: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Luca, che è l’evangelista dei poveri, offre un intero brano centrato sulla ricchezza «disonesta e iniqua» ( 16,1 -13). In esso ricorre al termine mammona per definire quei tesori materiali che occupano cuore e vita dell’uomo. Si tratta di un vocabolo aramaico che indica i beni concreti, ma che contiene al suo interno la stessa radice verbale della parola amen, che denota la fede.

La ricchezza diventa, quindi, un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona». Eppure questo non significa un masochismo pauperista. Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola. La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).

(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).

Ricchezza-Felicità

1. Marco narra di un tale (Mc 10,17), giovane di età secondo Matteo (Mt 19,20), notabile non più giovane secondo Luca (Lc 18,18.21), di condizione benestante: «Possedeva molti beni» (Mc 10,22), «era molto ricco» (Lc 18,23). Un possidente con un interrogativo che gli attraversa l’anima, è nell’abbondanza economica e nella stima sociale, ha ereditato l’ereditabile, eppure è inquieto e non pienamente soddisfatto.

Gli manca qualcosa, un deficit che fa di quell’uomo un essere di ricerca che con sollecitudine non teme di varcare la soglia della sua abitazione e della sua condizione per incrociare, quale mendicante di frammenti di luce, la via di un tale di nome Gesù che passava di là. Un caso che il desiderio di trovare una via d’uscita alla propria domanda ha convertito in evento, quello dell’incontro. Una prima annotazione. Solo il desiderio di altro e di incontri di senso fa dell’io murato in se stesso, nelle sue sicurezze e nelle sue paure un «homo viator», una creatura della strada capace di fiutare chi passa per via.

E’ il caso del ricco del racconto evangelico che spinto dalla brama di una parola di sale al suo interrogativo esce dai suoi confini, corre da Gesù, si inginocchia davanti a lui e lo rende partecipe del suo problema: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (Mc 10,17). Da annotare come quest’uomo di domanda e di ricerca si riveli altresì uomo di discernimento, indice dell’urgenza del saper distinguere i buoni dai cattivi maestri, una soglia non sempre facile da varcare.

E uomo di invocazione, la sua sete di conoscenza del che fare si affida a una fontana di nome Gesù detto Maestro perché sa insegnare, sa cioè trasmettere segni, parole-simboli-gesti, che sono chiavi di lettura in grado di orientare in positivo il cammino dell’uomo dentro la complessità del reale. Detto Maestro buono perché insegna ciò che è buono-bene (Mt 19,17), vale a dire Dio e la sua via, e perché testimonia con la vita ciò che insegna. In lui parola e gesto sono indissolubilmente congiunti.

2. La narrazione evangelica è davvero una «lezione magistrale» nel suo iniziare a una intelligenza semplice e profonda della figura della «soglia», nel suo dirci che il confine lo si varca quando si coniugano percezione di una mancanza, desiderio di colmarla e coraggio di attingere acqua che sgorga da presenze di saggezza, veicoli della Sapienza di Dio fatta carne in Gesù. E’ questa la prima tappa di un cammino a cui segue quella della indicazione della via da intraprendere per pervenire alla meta della vita eterna, la via del prendere in mano la propria vita e del chiedersi qual’è la ragione vera che la sostiene e la dirige.

Ragione che di fatto diventa legge al cammino dell’uomo, legge che per Gesù sono i comandamenti definiti dalla Torà, specificatamente quelli della seconda tavola che si riferiscono ai doveri verso il prossimo; precetti da leggersi alla luce dell’«amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18). In sintesi l’esodo verso la terra promessa di una vita bella e buona, umanissima quindi e sottratta al potere della morte, è la via del bene a cui si accede, suggerisce Gesù, varcando la soglia della Legge-Torà.

Alla domanda che aprendo varchi introduce nei sentieri della ricerca succede la sorpresa di un incontro che apre la porta a una parola di senso, a un esistere che trasforma il presente e dischiude al futuro. Un esserci nel bene nella lucida, amata e voluta consapevolezza che cosa buona è non uccidere l’uomo: il suo sangue, i suoi legami e il suo diritto a relazioni nella non doppiezza, nella non illusione e nell’onore (Mc 10,19), e non sono che esempi, sono il tuo limite e la tua verità.

Il volto dell’altro, che è insieme interpellazione categorica e invocazione struggente a non essere violato in sé, nei suoi affetti, nei suoi pensieri e nelle sue cose, diventa la rivelazione del tuo volto, della tua verità: divenire il custode dell’altro. Senza condizioni come testimonierà il consegnarsi in amore e libertà di Gesù a coloro che lo hanno consegnato a morte.

Una soglia, questa della custodia, attraversata dal ricco: «Maestro,tutto questo l’ho custodito fin dalla mia giovinezza» (Mc 10,20), una confessione che libera in Gesù uno sguardo d’amore nei suoi confronti tradotto in una singolarissima parola: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi! Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10,21-22).

La soglia data da una chiamata personalissima, il passare oltre divenendo compagno di viaggio di un amico trovato condividendone il sogno di dedizione incondizionata di sé e di donazione totale di ciò che si ha a vantaggio del povero mondo, non è stata varcata. A motivo di un amore più grande, la ricchezza.

E un uomo chiamato a divenire senza riserve la sua verità, il perdersi per un amico e il perdere per i poveri, ciò che gli mancava per essere compiutamente se stesso, nel negarsi a questo finisce per varcare la soglia dell’oscurità e della tristezza. La luminosità e la gioia di chi si consegna all’orizzonte del dono lasciano il posto all’oscurità e alla tristezza figlie della conservazione di sé e di ricchezze murate.

3. Un capitolo attualissimo, quello del rapporto ricchezza-felicità sotteso al brano evangelico. Il ricco che ha varcato la soglia della giusta domanda, se vi sia un presente che meriti futuro e un modo di essere e di esistere che renda sensato e felice il giorno dato a vivere, giorno proteso a una fioritura che neppure la morte può interrompere, si è arrestato dinanzi alla proposta e da quel momento, le cose non saranno più come prima, entra nella tristezza, si è preclusa la felicità.

(Giancarlo Bruni)

Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro?

Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi. Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro. È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria. Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.

Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria. Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza. Vogliono averne sempre di più. Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia. In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro. Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso. Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri. Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri. Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità. Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri. O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano. Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.

Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro. Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo. Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli. Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente. Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità. E sono necessari criteri etici. Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici. Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia. Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità. È necessaria soprattutto la libertà interiore.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).

Che cosa è tuo?

«A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro. Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti. Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi. Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.

Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti. Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno?

Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente. Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno. E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.

Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra. Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.

(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).

Preghiera

Sono io, Signore, Maestro buono, quel tale che tu guardi negli occhi con intensità di amore. Sono io, lo so, quel tale che tu chiami a un distacco totale da se stesso.

È una sfida. Ecco, anch’io ogni giorno mi trovo davanti a questo dramma: alla possibilità di rifiutare l’amore. Se talvolta mi ritrovo stanco e solo, non è forse perché non ti so dare quanto tu mi chiedi? Se talvolta sono triste, non è forse perché tu non sei il tutto per me, non sei veramente il mio unico tesoro, il mio grande amore? Quali sono le ricchezze che mi impediscono di seguirti e di gustare con te e in te la vera sapienza che dona pace al cuore?

Tu ogni giorno mi vieni incontro sulla strada per fissarmi negli occhi, per darmi un’altra possibilità di risponderti radicalmente e di entrare nella tua gioia. Se a me questo passo da compiere sembra impossibile, donami l’umile certezza di credere che la tua mano sempre mi sorreggerà e mi guiderà là, oltre ogni confine, oltre ogni misura, dove tu mi attendi per donarmi null’altro che te stesso, unico sommo Bene.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO

XXVII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Genesi 2,18-24

        Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.  
  • Il brano è stato scelto perché richiamato dal Vangelo odierno. Esso è desunto dal cosidetto racconto jahvista della creazione dell’uomo (Gen 2). Si tratta di un racconto sulle origini, che vuole cioè risalire alle condizioni fondamentali e originarie dell’esistenza umana. Prima di dare inizio alla storia degli uomini, si parla delle condizioni stesse nelle quali si svolge tale storia.

     1. Annotazioni – Il brano mette in evidenza due dimensioni essenziali dell’esistenza umana: prima dimensione, i presupposti positivi di un’esistenza felice, che Dio stesso crea e mette sul cammino dell’uomo, associandoli al suo apparire nel mondo: una natura meravigliosa (il giardino), aiuto nel lavoro (gli animali), amicizia ed amore tra uomo e donna, ecc. (Gen  2); seconda dimensione, condizioni negative, derivate dal peccato dell’uomo: vergogna davanti a Dio, rapporti conflittuali tra uomo e donna, tra fratello e fratello; sproporzione tra gli sforzi investiti nel lavoro ed i risultati ottenuti (Gen 3-4).

     — Dio parla di un male dell’uomo, che intende superare mediante la sua creazione, cioè il «male» della solitudine (v. 18). Gli uomini giungono alla pienezza del loro essere soltanto nel vivere comune. Vivere da soli è una sofferenza, è un male («non è bene che l’uomo sia solo»).

     — Gli animali costituiscono un aiuto per l’uomo, ma non si trovano al suo stesso livello (vv. 19-20). Non possono né porsi in dialogo paritetico con l’uomo, né tantomeno sostituirlo.

     —L’immagine della «costola», dalla quale è «costruita» la donna (v. 22) sta ad indicare che l’uomo e la donna sono formati dalla stessa sostanza e perciò si appartengono mutuamente. Sono parenti, non sono estranei tra loro.

     —Adamo esprime questo rapporto parentale tra lui e la donna. Le parole: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (v. 23) sono espressioni proverbiali, che significano appunto parentela, appartenenza.

     — L’unione tra uomo e donna, che fonda una nuova famiglia, è più forte del legame che unisce figli e genitori (v. 24).

     — Da sottolineare infine l’assoluta parità tra uomo e donna messa in chiaro dal testo biblico. L’espressione «un aiuto che gli corrisponda» non vuole significare un aiuto in senso strumentale, subordinato, bensì un completamento, senza del quale non sarebbe possibile alcuna attività umana; le parole che completano la frase «che gli corrisponda» stanno ad indicare, appunto, la corrispondenza e la parità tra i due. Sarà il peccato a trasformare questa parità in disuguaglianza (Gen 3,16). Si può dire: la parità corrisponde alla volontà originaria di Dio; la disuguaglianza è conseguenza del peccato.

Seconda lettura: Ebrei 2,9-11

       Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.     
  • Siamo all’interno dell’introduzione della Lettera agli Ebrei, che sviluppa tutta una cristologia: in primo luogo l’Autore paragona Gesù ai profeti (1,1-2) e in secondo luogo alla Sapienza personificata ed agli angeli (1,4-2,19). Gli angeli sono certo esseri celesti, ma Gesù, come uomo, è superiore a loro. Mediante questi confronti la Lettera agli Ebrei esprime la fede nella divinità di Gesù.

     Siccome Gesù si è abbassato al di sotto degli angeli, benché superiore ad essi, è stato incoronato di onore e di gloria (v. 9). Ciò corrisponde all’interpretazione cristologica del salmo 8.

     — C’è di più: Gesù non solo si è umiliato, abbassandosi al di sotto degli angeli. È andato oltre, ha addirittura sofferto la morte per tutti, e anche per questo gli è stata data la gloria. Si tratta dello stesso pensiero che troviamo nell’inno di Fil 2,6-10. Il volontario abbassamento di Gesù affrontato con la morte diventa causa della sua speciale esaltazione divina.

     — Si presenta un parallelo tra creazione e redenzione (v. 10): come il mondo creato è opera di un solo Dio («per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose»), così anche l’opera della salvezza deve essere un’opera unica.

     — Tra Colui che santifica e coloro che vengono santificati esiste una (misteriosa) comunione. La santità dell’uno si trasmette ai molti, sì che la santità abbraccia tutti. In tal modo la santità costituisce una famiglia, un legame tra fratelli e parenti («non si vergogna di chiamarli fratelli»).

     — In poche parole, la Lettera agli Ebrei mostra lo stretto rapporto di appartenenza che esiste tra Gesù Cristo, che si abbassò nella morte, e tutti gli uomini che possono aver parte alla sua gloria ed alla sua santità.

Vangelo: Marco 10,2-16

        In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».  A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio». Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.        

Esegesi

     Il vangelo odierno si inserisce esattamente agli inizi del percorso compiuto da Gesù nel territorio della Giudea (10,1) verso Gerusalemme, e cioè verso l’ora della sua passione e morte, annunciata già due volte (8,31ss.; 9,30 ss.). Le discussioni, come quella di oggi sul divorzio e poi sulla sua autorità, il tributo a Cesare, la risurrezione dei morti ed il primo comandamento segnano un crescendo, che prepara l’esplosione finale dell’ostilità contro di lui, con la decisione di metterlo a morte. Il che conferisce una tensione drammatica ad ogni dettaglio delle controversie, che non sono puramente accademiche nel magistero di Gesù. Inoltre l’aver egli varcato i confini della Giudea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, aumenta il rischio cui vogliono esporlo i Farisei con la domanda sul divorzio. Erode ha recentemente ripudiato sua moglie, vivendo in relazione adultera con quella del fratello, per questo aspramente redarguito da Giovanni Battista (Mc 7,17-29). Con la sua risposta, Gesù o avrebbe sconfessato il Battista, che il popolo teneva in grande considerazione, oppure sarebbe incorso nel furore del re e della vendicativa Erodiade.

     «È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?» (vv. 2-4). La legge di Mosè accordava al marito il diritto di rimandare la moglie se avesse trovato in lei «un fatto indecoroso» (Dt 24,1). Al tempo di Gesù, questo era oggetto di discussione tra due scuole rabbiniche: quella rigorista di Shammai che riconosceva legittimo motivo solo il caso di adulterio da parte della moglie, quella lassista di Hillel che ammetteva come valido qualsiasi motivo, anche il più futile. I farisei con la loro domanda «mettono alla prova» Gesù, volendo indurlo subdolamente a pronunciarsi a favore o dei rigoristi o dei lassisti, per poi accusarlo.

     «Per la durezza del vostro cuore» (vv. 5-6). Gesù non si lascia coinvolgere nelle dispute di scuola, ma si vale di due principi ermeneutici che risolvono l’apparente problema: il primo dichiara che la legge mosaica non ha valore di precetto, ma di «concessione» accordata alla «durezza di cuore» (in greco sklerokardìa), vale a dire all’incapacità umana di intendere e fare la volontà di Dio. Il secondo principio risale alla volontà originaria di Dio («all’inizio»), che si esprime nel suo progetto creatore, anteriormente al peccato e alla ribellione dell’uomo, volontà divina che nessuna legge successiva può invalidare.

     «Chi ripudia la propria moglie… e se lei, ripudiato il marito» (vv. 11-12). Donna ed uomo sono messi sullo stesso piano. Non è solo la donna colpevole di adulterio verso il marito (come si riteneva al tempo di Gesù, stando a come viene enunciata la domanda dei Farisei), ma anche il marito si rende colpevole di adulterio se rimanda la propria moglie e prende una donna sposata. I diritti sono uguali, in linea con quello che Gesù ha detto sulla volontà originaria di Dio. Chiunque li lede, uomo o donna, commette peccato di adulterio.

     «Gli presentavano dei bambini perché li toccasse» (vv. 13-16). Posta ad immediato seguito delle dichiarazioni precedenti, la scena dei bambini e le parole che Gesù rivolge ai discepoli (v. 15) assumono un significato particolare. La «logica» su cui è fondato il vincolo matrimoniale è la stessa che si richiede per entrare nel regno di Dio: i bambini sono simbolo di questa logica, che non si ostina a far valere i propri diritti o a misurare i torti degli altri, che non persegue secondi fini, né avanza pretese, ma si affida a Dio con assoluta semplicità filiale.

Meditazione

     «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18). Dopo averlo chiamato alla vita, il desiderio di Dio chiama l’uomo alla comunione. Non nella solitudine, ma nell’incontro e nella relazione l’adam può essere davvero a immagine e somiglianza di Colui che lo ha creato e lo custodisce nell’esistenza. «Voglio fargli un aiuto», afferma più precisamente Dio. ‘Aiuto’ in ebraico è detto con un termine (‘ezer) che solitamente nel Primo Testamento ha per soggetto Dio. Dio è infatti ‘aiuto’ per l’uomo, ma la sua prossimità e il suo sostegno si rendono presenti anche mediante le relazioni che gli uomini vivono tra loro. Soprattutto in quella relazione singolare che si stabilisce tra l’uomo e la donna, dove l’alterità, non l’uguaglianza, diventa luogo di comunione. Tra noi essere umani non possiamo vivere un’alterità maggiore di quella che sussiste tra l’uomo e la donna, eppure è proprio questa differenza a essere chiamata a diventare una ‘sola carne’. «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (v. 24). È questa unità nella differenza a divenire segno dell’alleanza, cioè di quel rapporto con Dio che all’uomo è donato di accogliere nella sua esistenza. Dio è l’Altro, il Trascendente, il Creatore, eppure con l’uomo egli vuole stabilire la sua comunione, oltrepassando ogni distanza. Vivendo in una relazione d’amore e di dono reciproco, fino a divenire una sola carne, l’uomo e la donna intuiscono che tale deve essere anche la loro relazione con Dio: persino la differenza che c’è tra il Creatore e la sua creatura può essere vissuta – questo Dio promette ad Adamo donandogli Eva – non come lontananza o separazione, ma come spazio di dono, di incontro, di comunione. L’astuzia del serpente ingannerà Adamo ed Eva; mentendo li indurrà a credere il contrario. La distanza che c’è da Dio è incolmabile, Dio non la vuole riempire con il suo dono e la sua prossimità, e allora Adamo, questa è la terribile suggestione del peccato, dovrà conquistarla con le sue mani, anziché accoglierla da quelle di Dio. E il peccato comprometterà non solo la buona relazione con Dio, ma anche quella tra Adamo ed Eva. Tra loro, anziché la logica del dono, si insinuerà, a causa del peccato, quella del potere o del possesso.

     La comunione, infatti, ha i suoi criteri. Diventare una sola carne è possibile solo se si è disposti ad assumere in se stessi la logica di Dio. Il racconto della Genesi ce lo ricorda, con un linguaggio simbolico, ma nello stesso tempo suggestivo ed eloquente. Eva è creata ed è donata ad Adamo nel sonno, mentre costui dorme. Adamo non ha nessun potere su di lei. Non è lui a progettarla, a immaginarla, neppure a meritarla; la può solo accogliere come dono gratuito per la sua vita. Se può imporre il nome a tutte le altre creature del giardino, non può farlo con Eva. «La si chiamerà donna» (v. 23). Più che imporre un nome, Adamo deve riconoscerlo e riceverlo da altri. Nel simbolismo biblico dire il nome di una realtà significa poter esercitare il proprio dominio su di essa. Ma non sarà così tra Adamo ed Eva.

     Adamo non potrà dominare Eva né esserne dominato: sono l’uno davanti all’altra, nella loro reciproca uguaglianza, «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (v. 23). Diversi, ma eguali; diversi non per dominarsi o sottomettersi, ma per essere in comunione l’uno con l’altra. Adamo dorme, ma Dio gli dona Eva togliendogli una delle costole e richiudendo la carne al suo posto (cfr. v. 21). Questa ferita è come il simbolo della vita di Adamo che deve aprirsi a sua volta al dono. Eva è un dono di Dio per Adamo, ma è un dono che passa attraverso la vita stessa di Adamo che nella ferita del suo costato viene dischiusa al dono. Ricevendo il dono di Dio Adamo riceve se stesso in modo diverso, come un donatore. La sua è una ferita aperta e richiusa, perché è entrando in questo spazio del dono che la vita di Adamo si compie pienamente. Solo in questo momento egli diviene compiutamente uomo, in una sorta di seconda nascita. «Così l’uomo nasce facendo nascere» (P. Beauchamp). La benedizione di Dio, il suo dono per la nostra vita, lo si accoglie sempre così: nello spazio di una ferita, di un’esistenza cioè che si lascia trasformare e aprire dall’azione di Dio non alla dinamica del possesso, ma a quella del dono.

     Nell’evangelo Gesù ricorda che è per la durezza del nostro cuore che Mosè scrisse la norma sul ripudio, ma non è questo il disegno originario del Padre. Un cuore duro è appunto un cuore che non sa vivere in questa logica di Dio, segnata dalla gratuità e dal dono, che consente la vera comunione tra Dio e tra di noi, e anche tra l’uomo e la donna. Più che alla stregua di un mero precetto, le parole di Gesù sono da intendersi come una promessa. A chi accoglie la logica del Regno, che è il compimento del disegno creaturale del Padre, liberato e riscattato dal peccato introdotto dalla durezza di cuore dell’uomo, è offerta una possibilità nuova. Gesù lo dirà poco più avanti, sempre in questo capitolo, ai discepoli stupiti di fronte alle sue parole sulla ricchezza. «”E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: “E chi può essere salvato?”. Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio”» (Mc 10,25-27). La radicalità richiesta al matrimonio è simile a quella richiesta alla povertà: c’è un’impossibilità che l’uomo sperimenta a motivo della durezza del proprio cuore, che però può aprirsi ad accogliere la possibilità che viene da Dio. La Legge di Mosè si è fatta carico del peccato dell’uomo offrendo un rimedio misericordioso alla durezza del suo cuore. Ma Gesù è più grande di Mosè e della sua Legge, egli ci offre non solo un rimedio, ma una possibilità nuova dentro la nostra impossibilità. L’indissolubilità del matrimonio è «l’espressione del mondo che viene: solo chi partecipa del Regno nella sequela del re (cioè Cristo) ne diventa capace» (D. Attinger). In questo modo la fedeltà dell’amore tra l’uomo e la donna diviene davvero segno trasparente di ciò che Dio congiunge (cfr. v. 9). A unire l’uomo e la donna in modo indissolubile non è tanto un atto estrinseco o giuridico di Dio, quanto la qualità del suo amore che nel Regno ci viene donata, un amore fedele, accogliente, fecondo. Da questo amore niente, neppure il peccato o la durezza del nostro cuore può separarci, come ricorda Paolo in Rm 8,35-39, e questo amore, regnando su di noi, ci consente di superare ogni possibile lontananza o separazione, vivendole nei vincoli di una più forte comunione.

     È allora significativo che, a queste parole sulla radicalità del matrimonio, Marco aggiunga subito dopo ciò che Gesù dice benedicendo i bambini che vengono a lui: «a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (v. 14-15). Negli evangeli il bambino è simbolo di chi è debole, piccolo, impotente. Non può fare affidamento sulle proprie forze, ma su ciò che ancora deve attendere e ricevere da altri. Si accoglie così il regno di Dio: come un dono da ricevere senza pretendere di conquistarlo confidando nelle nostre possibilità. Gesù accoglie i bambini e nello stesso tempo sottolinea il loro bisogno di dover accogliere. Tale è il regno di Dio: da un lato è la manifestazione di un amore che ci accoglie persino nelle nostre debolezze; dall’altro è la manifestazione di un amore che si dona gratuitamente alle nostre debolezze rendendoci capaci di ciò che altrimenti ci rimarrebbe impossibile.

     Di questo amore la Chiesa è chiamata a farsi segno anche verso i rapporti coniugali tra l’uomo e la donna. Da un lato deve annunciare una radicalità, quale l’indissolubilità del matrimonio, che in Gesù Cristo diviene possibile perché egli guarisce e scioglie la durezza del cuore umano; dall’altro deve rimanere come Gesù accogliente delle debolezze e delle impossibilità che gli uomini sperimentano, come bambini. Ma a chi è come loro appartiene il regno di Dio!

L’immagine della domenica

CASTELLUCCIO DI NORCIA (zone terremotate)      –      2018  

«Se avessi un messaggio per i miei coetanei, sarebbe sicuramente questo: “siate quello che vi piace…, ma ad ogni costo evitate una cosa: il successo…

Se avete imparato solo

come raggiungere il successo,

la vostra vita probabilmente

è stata sprecata”».

(Thomas Merton, Love and Living, 1979)

Casella di testo: Genesi 2,18-24
Ebrei 2,9-11
Marco 10,2-16

Il tema del divorzio nel giudaismo al tempo di Gesù si poneva in maniera diversa da come si pone nel nostro tempo. Il diritto a divorziare era esclusivamente dalla parte dell’uomo. I casi nei quali la donna poteva chiedere il divorzio erano molto rari e di difficile applicazione. E, a complicare di più le cose, il rabbino Hillel interpretava la legge di Mosé (Dt 24,1) in maniera tale che qualsiasi cosa dispiacesse al marito, gli dava il diritto di ripudiare la moglie. 
 
Inoltre il testo del Deuteronomio si deve leggere completo, perché il testo intero (Dt 24, 1-4) considera abominevole il fatto che il marito della divorziata si sposi di nuovo con lei, se lei ha avuto un secondo marito. Era un problema di “purezza rituale”, non di indissolubilità matrimoniale (Joel Marcus).
 
La domanda dei farisei non era la domanda sul divorzio, così come ora si pone, ma la domanda sulla disuguaglianza di diritti tra l’uomo e la donna. Cioè, i farisei domandavano se i privilegi dell’uomo fossero praticamente illimitati, come sosteneva la scuola teologica di Hillel. Ebbene, questo è quello che Gesù non tollera. La disuguaglianza di diritti è direttamente contraria al Vangelo. 
 
Gesù argomenta a favore dell’uguaglianza di diritti ricorrendo al progetto originale di Dio: che l’uomo e la donna “non sono due, ma una sola carne”, cioè si fondono in un’unità che equivale ad una perfetta uguaglianza in dignità e diritti, sebbene siano così evidenti le differenze. La differenza è un fatto. L’uguaglianza è un diritto. Dedurre da questo vangelo quello che Gesù non ha potuto voler dire, perché non gliel’hanno neanche chiesto, è manipolare per ignoranza quello che Gesù ha detto. 
(José María Castillo)

Preghiere e racconti

Dio garante dell’indissolubilità

Il matrimonio è più del vostro amore reciproco,

ha maggiore dignità e maggiore potere.

Finché siete solo voi ad amarvi,

il vostro sguardo si limita nel riquadro isolato della vostra coppia.

Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena di generazioni che Dio fa andare e venire e chiama al suo regno.

Nel vostro sentimento godete solo il cielo privato della vostra felicità.

Nel matrimonio invece venite collocati attivamente nel mondo e ne diventate responsabili.

Il sentimento del vostro amore appartiene a voi soli.

Il matrimonio, invece, è una investitura, un ufficio.

Per fare un re non basta che lui ne abbia voglia. Occorre che gli riconoscano l’incarico di regnare.

Così non è la voglia di amarvi che vi stabilisce come strumento di vita.

E’ il matrimonio che ve ne rende atti.

Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio.

E’ il matrimonio che, d’ora in poi, porta sulle spalle il vostro amore.

Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa.

Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte a ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno.

Dio è il garante dell’indissolubilità.

E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena,

nessuna tentazione,

nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito.

(Dietrich Bonhoeffer)

Una carne sola: Dio congiunge le vite, è autore della comunione

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma.

Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

Alcuni farisei si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova. La domanda è scontata: è lecito a un marito ripudiare la moglie? La risposta è facile: sì, è lecito. Ma non è questa la vera posta in gioco. Il brano mette in scena uno dei conflitti centrali del Vangelo: il cuore della persona o la legge? Gesù afferma una cosa enorme: non tutta la legge ha origine divina, talvolta essa è il riflesso di un cuore duro (per la durezza del vostro cuore Mosè diede il permesso del ripudio…).

La Bibbia non è un feticcio. E per questo Gesù, infedele alla lettera per essere fedele allo spirito, ci prende per mano e ci insegna ad usare la nostra libertà per custodire il fuoco e non per adorare la cenere! (Gustav Mahler). C’è dell’altro, più importante e più vitale di ogni norma, e sta dalle parti di Dio. A Gesù non interessa regolamentare la vita, ma ispirarla, accenderla, rinnovarla, con il sogno di Dio. Ci prende per mano e ci accompagna a respirare l’aria degli inizi: in principio, prima della durezza del cuore, non fu così.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Dal principio Dio congiunge le vite! Questo è il suo nome: Dio-congiunge, fa incontrare le vite, le unisce, collante del mondo, legame della casa, autore della comunione. Dio è amore, e «amore è passione di unirsi all’amato» (san Tommaso). Il Nemico invece ha nome Diavolo, Separatore, la cui passione è dividere.

L’uomo non divida, cioè agisca come Dio, si impegni a custodire la tenerezza, con gesti e parole che creano comunione tra i due, che sanno unire le vite. Tutto parte dal cuore, non da una norma esterna. Chi non si impegna totalmente nelle sue relazioni d’amore ha già commesso adulterio e separazione. Il peccato è tradire il respiro degli inizi, trasgredire un sogno, il sogno di Dio.

Portavano dei bambini a Gesù… Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò. È l’unica volta, nei Vangeli, che viene attribuito a Gesù questo verbo duro. L’indignazione è un sentimento grave e potente, proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria: i bambini sono cosa sacra. A chi è come loro appartiene il regno di Dio. I bambini non sono più buoni degli adulti; non sono soltanto teneri, ma anche egocentrici, impulsivi e istintivi, però sanno aprire facilmente la porta del cuore a ogni incontro, non hanno maschere, sono spalancati verso il mondo e la vita.

I bambini sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, si fidano della vita, credono nell’amore. Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla, non contaminato ancora.

(Ermes Ronchi)

La chiamata a essere amanti come Dio ama

La parte più lunga del vangelo di questa domenica (gli ultimi quattro versetti narrano dell’incontro tra Gesù e i bambini e delle rimostranze dei discepoli) ci testimonia un confronto di Gesù con alcuni farisei, i quali lo mettono alla prova, lo tentano, cercando di sorprenderlo in errore riguardo alla tradizione dei padri, sul tema della possibilità del divorzio.

Questo annuncio evangelico è esigente, chiaro: da una parte ci scandalizza, soprattutto se conosciamo la faticosa realtà della vicenda nuziale; dall’altra, lo stesso brano può essere utilizzato come un bastone, per giudicare e condannare chi è in contraddizione con le parole chiare e piene di parrhesía pronunciate da Gesù.

Per questo, ogni volta che devo predicare su questo testo mi metto in ginocchio non solo davanti al Signore, ma anche davanti ai cristiani e alle cristiane che vivono il matrimonio, per dire loro che, certo, rileggo le parole di Gesù e le proclamo, ma senza giudicare, senza minacciare, senza l’arroganza di chi si sente immune da colpe al riguardo, memore di ciò che Gesù afferma altrove: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28).

Chi legge queste parole di Gesù non sta dall’altra parte, in uno spazio esente dal peccato, ma innanzitutto si deve sentire solidale con quanti, nel duro mestiere del vivere e nell’ancor più duro mestiere del vivere in due nella vicenda matrimoniale, sono caduti nella contraddizione alla volontà del Signore. Non posso dunque fare altro che offrire qui alcuni semplici spunti di meditazione, eco della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture.

Nel millennio dell’Antico Testamento la pratica del divorzio era comune in tutto il medio oriente e il mondo mediterraneo. Il divorzio era una realtà normata dal diritto privato, che lo prevedeva solo su iniziativa del marito. Il matrimonio era un contratto, neppure scritto, e dobbiamo riconoscere che nell’Antico Testamento non vi è nessuna legge sul matrimonio. Il brano del Deuteronomio a cui certamente si riferiscono i farisei (Dt 24,1-4) in verità appartiene alla casistica e non alla dottrina, perché mette a fuoco un caso particolare, e di conseguenza deve essere recepito con dei limiti ben precisi. Si legge in quel testo:

Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso (‘erwat davar, lett.: “nudità di qualcosa”), scriva per lei un certificato di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa (Dt 24,1).

Viene dunque contemplato il caso in cui l’uomo trovi nella moglie “qualcosa di vergognoso”, espressione assai vaga che i rabbini interpretano in modi molto diversi; in tal caso, il marito ha la possibilità di divorziare. A certe condizioni, pertanto, il divorzio è permesso e ne è prevista la procedura, ma da questo non si può concludere che nella Torah, nella Legge di Mosè vi sia una dottrina sul matrimonio e la sua disciplina. D’altra parte, i profeti, i sapienti e gli stessi testi essenici non offrono posizioni certe e chiare che escludano il divorzio e proclamino che la Legge di Dio lo vieta.

Ma ecco che Gesù è chiamato dai farisei a esprimersi proprio su questa possibilità: “È lecito a un marito ripudiare la propria moglie?”. Egli risponde con una domanda: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi a lui: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”. È come se gli dicessero: “Questa è la Torah!”.

Gesù allora interviene in modo sorprendente: non entra nella casistica religiosa a proposito della Legge; non si mette a precisare le condizioni necessarie al ripudio, come facevano i due grandi rabbi del suo tempo, Hillel e Shammai; non si schiera dalla parte dei rigoristi né da quella dei lassisti. Nulla di tutto questo: Gesù vuole risalire alla volontà del Legislatore, di Dio. In tal modo egli ci fornisce un principio decisivo di discernimento nel leggere e interpretare la Scrittura: fare riferimento all’intenzione di Dio (e non a tradizioni umane: cf. Mc 7,8.13!), che attraverso le sua parola messa per iscritto vuole rivelarci la sua volontà.

Questa dunque la replica di Gesù ai suoi interlocutori: “Per la durezza del vostro cuore (sklerokardía) Mosè scrisse per voi questa norma. Ma nell’in-principio (be-reshit, en archê: Gen 1,1) della creazione Dio ‘li fece maschio e femmina’ (Gen 1,27); ‘per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola’ (Gen 2,24). Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”.

Gesù risale al disegno del Creatore, alla creazione dell’adam, il terrestre tratto dall’adamah, la terra (cf. Gen 2,7; 3,19), fatto maschio e femmina perché insieme i due vivano nella storia, la storia dell’amore, la storia della vita, l’uno di fronte all’altra, volto contro volto, in una reciproca responsabilità, chiamati nel loro incontro a diventare una sola realtà, una sola carne.

In questo incontro di amore c’è la chiamata a essere amanti come Dio ama, essendo lui amore (cf. 1Gv 4,8.16); in questo incontro c’è l’arte e la grazia del dono gratuito l’uno all’altra, a cominciare dal proprio corpo; c’è l’alleanza che fa sì che l’incontro sia storia nel tempo e tenda dunque all’eternità, fino alla morte, per andare anche oltre la morte.

Questa la volontà di Dio nel creare il terrestre e nel porlo nel mondo quale sua unica immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27). È un mistero grande, ma tanto grande che è difficile per dei terrestri fragili, deboli e peccatori viverlo in pienezza. In verità, sappiamo quanta miseria si sperimenti in questo faticoso incontro, come sia facile la contraddizione, come questo capolavoro dell’arte del vivere insieme nell’amore sia perseguibile, e mai pienamente, solo con l’aiuto della grazia, con l’efficacia del Soffio santo del Signore.

Eppure l’annuncio di Gesù permane, in tutta la sua chiarezza: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Subito dopo, questa parola dura ed esigente viene spiegata da Gesù ai suoi discepoli, nella casa in cui la comunità si ritrovava. E viene spiegata con un’aggiunta straordinaria per la cultura del tempo, visto che Gesù mette sullo stesso piano la responsabilità dell’uomo e quella della donna: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.

Certo, Mosè ha cercato di umanizzare la pratica del divorzio, imponendo al marito di percorrere una via giuridica di rispetto per la donna. Ma Gesù, proprio guardando alla durezza di cuore dei destinatari della Torah, osa andare ben oltre, mettendo in evidenza la volontà, l’intenzione del Creatore.

Del resto, lo aveva già fatto altre volte, svelando, per esempio, la volontà di Dio sul sabato e sulla sua osservanza (cf. Mc 2,23-28): qui, là, sempre Gesù si fa interprete autentico della Legge non attraverso vie legalistiche, non attraverso interpretazioni fondamentaliste, ma annunciando profeticamente la volontà di Dio a tutti, in particolare ai peccatori pubblici e agli esclusi, da lui sempre accolti, perdonati, mai condannati.

È con questo annuncio del Vangelo che si apre il sinodo sul tema della vita familiare voluto da papa Francesco. I padri sono chiamati ad ascoltare lo Spirito santo nella docilità e nell’umiltà, per ridire oggi la volontà di Dio, che può solo e sempre essere espressa alla luce della sua misericordia.

(Enzo Bianchi)

Il diverso

Il “diverso” originario è la donna nei confronti dell’uomo e l’uomo nei confronti della donna. E pertanto se il riconoscimento della diversità non è in primo luogo riconoscimento della diversità della sessualità umana, il sociale umano resta sempre esposto al rischio di discriminazioni ingiuste. Proprio perché il tutto dell’humanum è presente potenzialmente nella particolarità di ciascuna diversità, la pienezza della persona si realizza nella loro unità. L’uomo è per la donna e la donna è per l’uomo poiché solo uomo e donna dicono la verità intera della persona umana.

L’intrinseca bontà o valore dell’istituto matrimoniale consiste precisamente in questo: esprime-realizza in radice nell’unità uomo-donna l’humanum nella sua interezza. Bontà e preziosità che non si trova in nessun altra relazione sociale. Tocchiamo un punto fondamentale della vicenda umana e della sua comprensione. Provo a dirlo in modo breve e per quanto riesco semplice. All’origine, al “principio” della vicenda umana non stanno tante unità chiuse in se stesse. Sta una dualità; un rapporto: un uomo e una donna. Il dato umano originario non è l’identità, ma la relazione; la “figura” dell’incontro non è il contratto di individui originariamente estranei, ma è l’incontro nell’amore fra due persone diverse: uomo e donna.

(Cardinale Carlo Caffarra,”Matrimonio e laicità dello Stato”,Congresso Teologico-Pastorale Internazionale di Valencia, 4 luglio 2006).

I cervi

Si racconta che i cervi quando vogliono recarsi al pascolo, in certe isole  lontane dalla costa,  per attraversare la lingua di mare poggiano la testa sulla schiena altrui.

Succede così che uno soltanto, quello che apre la fila, tiene alta la propria testa senza appoggiarla sugli altri; quando però egli si è stancato, si toglie dal davanti e si mette per ultimo, sicché anche lui può appoggiarsi sul compagno.

In questo modo tutti insieme portano i loro pesi e giungono alla meta desiderata: non affondano perché l’amore fa loro da nave.

(S. Agostino)

Due in una sola carne

Dove potrei trovare parole in grado di descrivere quel matrimonio che la chiesa unisce, che l’offerta eucaristica conferma e la benedizione sigilla, gli angeli proclamano e il Padre ratifica? Difatti nemmeno qui in terra i figli possono contrarre il matrimonio secondo le norme stabilite e secondo il diritto vigente senza il consenso paterno. Quale coppia è mai quella di due cristiani, uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola disciplina, un solo servizio di Dio! Ambedue sono fratelli, uguali tutti e due in quel loro servizio. Niente li separa né nello spirito, né nella carne; al contrario, sono veramente due in una sola carne (cfr. Gen 2,24; Mt 19,6; 1Cor 6,16; Ef 5,31). E dove vi è una sola carne, lì vi è pure un solo spirito. Infatti insieme pregano, insieme si prostrano davanti a Dio, insieme osservano le prescrizioni del digiuno, a vicenda si istruiscono, a vicenda si esortano, a vicenda si riconfortano. Tutti e due si riconoscono in perfetta uguaglianza nella chiesa di Dio, in perfetta uguaglianza nel banchetto di Dio, in perfetta uguaglianza nelle prove, nelle persecuzioni, nelle consolazioni. Nessuno dei due si nasconde all’altro, nessuno si sottrae all’altro, nessuno è di peso all’altro. […] Tra loro due risuonano salmi e inni, si sfidano reciprocamente a chi canta meglio al Signore. Cristo gioisce al vedere e ascoltare queste cose e invia loro la sua pace (cfr. Gv 14,27). Là dove due sono riuniti, egli è là, presente (cfr. Mt 18,20) e là dove egli è presente, non c’è il Malvagio.

(TERTULLIANO, Alla consorte 2,8,6-8, SC 273, pp. 148-151).

La vita in due

Grazie, Signore

perché ci hai dato l’amore

capace di cambiare le cose.

Quando un uomo e una donna

diventano uno nel matrimonio

non appaiono più

come creature terrestri

ma sono l’immagine stessa di Dio.

Così uniti non hanno paura di niente

con la concordia, l’amore e la pace

l’uomo e la donna sono padroni

di tutte le bellezze del mondo.

Possono vivere tranquilli

protetti dal bene che si vogliono

secondo quanto Dio ha stabilito.

Grazie, Signore

per l’amore che ci hai regalato.

(S. Giovanni Crisostomo).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Pierazzi

PER L’APPROFONDIMENTO