Le cinque perle di Giovanni Paolo II

 

i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia

un bilancio storico e spirituale di un pontificato.

 

In vista della beatificazione di Giovanni Paolo II ha ripreso slancio un’operazione tutt’altro che semplice, inauguratasi già immediatamente dopo la sua morte: quella di tracciare un bilancio storico e spirituale di un pontificato che non solo è durato più di venticinque anni, ma che ha attraversato un periodo storico estremamente complesso e sconvolgente – basti pensare ai due crolli epocali: il muro di Berlino e le Torri gemelle o, prima ancora, all’attentato subito dal papa – e il cui protagonista aveva a sua volta vissuto in prima persona il dramma della seconda guerra mondiale e della Shoah, la cattività comunista e l’evento di grazia del Vaticano II. Su quali elementi soffermarsi per un’analisi complessiva? I documenti portanti del magistero, come le encicliche? I messaggi veicolati dagli innumerevoli viaggi? La tipologia della moltitudine di santi e beati canonizzati? Le caratteristiche e gli orientamenti teologici degli ecclesiastici nominati all’episcopato o al cardinalato? La gestione dei rapporti interni alla Curia o delle relazioni con i capi di stato?
Un’opzione rischiosa ma al contempo feconda è stata quella scelta da Alberto Melloni – docente di Storia del cristianesimo all’ Università di Modena-Reggio Emilia e direttore della Fondazione per le Scienze religiose di Bologna – che ha individuato Le cinque perle di Giovanni Paolo II (Mondadori, pp. 154, 18), cioè «i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia», come recita il sottotitolo. Scelta non facile, che l’autore motiva efficacemente nelle prime pagine del libro, e che lo porta a isolare delle gemme preziose per poterle incastonare nell’insieme del pontificato wojtyliano così da permetterne una lettura luminosa e al contempo destinata a durare ben al di là della momentanea attenzione mediatica legata alla beatificazione.
Di queste «perle», l’aver celebrato il concilio come la «grande grazia del XX secolo», la visita alla sinagoga di Roma e il primo incontro delle religioni ad Assisi appartengono al biennio 1985-1986, la richiesta di perdono per i peccati commessi dai figli della chiesa nel corso della storia è al cuore del Giubileo del 2000, mentre la strenue opposizione alla guerra si colloca già nel periodo del progressivo declino fisico del Papa. Sono cinque eventi che contengono sì una forte carica innovativa rispetto al passato, ma che, paradossalmente, rivelano anche una profonda continuità con
la grande tradizione della chiesa e la sua capacità di annunciare il vangelo in un mondo che cambia.
Non a caso mi sembra che la «perla» chiave che ha in sé la capacità di suscitare le altre sia proprio la prima: la valorizzazione del Vaticano II attraverso un «sinodo straordinario» dei vescovi che ne riafferma la qualità di massima espressione del magistero pontificio e quindi di criterio alla luce del quale discernere a valutare ogni scelta successiva, e non viceversa. Non sorprende allora che negli altri gesti, ricostruiti ed evidenziati da Melloni con sagacia e copiosa documentazione, l’ispirazione profondamente conciliare emerga con particolare evidenza e sia esplicitamente richiamata dal papa stesso.
Davvero sono perle che «hanno bisogno di essere narrate per essere comprese» e che anche quanti, come la nostra generazione, hanno avuto il privilegio di vederle risplendere sotto i loro occhi, devono rileggere e rielaborare per assaporarne tutta la portata evangelica, così da trasmetterle come tesoro prezioso alle generazioni che verranno.

Le cinque perle di Wojtyla
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 30 aprile 2011

 

 


Melloni: Ecco le cinque perle di Giovanni Paolo II


By Rai Vaticano | Aprile 25, 2011

A pochi giorni dalla beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, lo storico Alberto Melloni ci propone nel suo nuovo libro “Le cinque perle di Giovanni Paolo II”, edito da Mondadori, una sua chiave di lettura del pontificato del papa polacco. Si tratta di un approfondimento di alcuni eventi che hanno lasciato il segno e che hanno bisogno di essere compresi in una prospettiva autonoma. Le cinque perle di Giovanni Paolo II sono i gesti e i momenti della vita e del pontificato di  questo Papa, che agiscono dentro la Chiesa . Ho chiesto all’autore di spiegarci meglio alcuni punti del suo libro.

 

 

I rapporti tra la comunità ebraica e il Papa non sono mai stati una semiretta”, afferma nel secondo capitolo del suo libro, ma possiamo dire che il rapporto tra il rabbino Toaff  e Papa Wojtyla è stato particolare, non a caso è citato nel testamento del Pontefice. Come è stato il loro rapporto? Che cosa ha rappresentato la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma nel 1986 in questa complessa storia tra la Chiesa cattolica e gli ebrei?

La comunità ebraica di Roma è stata nei secoli testimone di uno sviluppo delle concezioni del potere e della salvezza della chiesa latina: ha visto la prima chiesa perseguitata, quella che prende il potere nell’impero, quella dell’alto medievo, il maturare della discriminazione religiosa, la persecuzione e la ghettizzazione, la pressione rude della conversione, gli accomodamenti con una macchina di governo pontificia, l’emancipazione nello Stato unitario, i diversi atteggiamenti davanti alle leggi razziali e alla persecuzione nazifascista, la stagione del concilio, il lento riconoscimento dello Stato d’Israele. Del percorso che va dal Vaticano II al mea culpa del 2000, è stato testimone diretto Rav Toaff, rabbino capo di una comunità ferita dalla razzia del 16 ottobre e poi dal battesimo del suo rabbino capo Zolli. Quella comunità ha potuto vedere una metamorfosi degli atteggiamenti cattolici con Giovanni XXIII e poi con “Nostra Aetate” , che per Giovanni Paolo II è stato un atto di svolta al quale bisognava rispondere in modo creativo, come ha fatto con la visita alla Sinagoga, ad Assisi e con il mea culpa del 2000. Come sempre nella vita di papa Wojtyla, il gesto conta più delle parole: quella espressione “fratelli maggiori” non è lusinghiera per chi conosca la bibbia, così come il fugace segno di croce al Muro occidentale quando deposita la sua preghiera di perdono nel pellegrinaggio giubilare a Gerusalemme avrebbero potuto suscitare diffidenze o irritazioni. Che non ci furono perché l’eloquenza del gesto superava e spiegava ciò che le parola non dicevano: il coraggio di Rav Toaff è stato quello di pazientare perché quella metamorfosi avviata al concilio producesse tutti i suoi frutti, almeno per quella generazione, in attesa che la prossima faccia la sua parte.

Proseguendo nella lettura del suo libro, la terza perla per lei e’ Assisi, lo spartiacque del nuovo atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le altre religioni. Che cosa ha voluto sottolineare in questo capitolo?

Il concilio non aveva programmato un documento sulle religioni, ma solo una dichiarazione sugli ebrei che, a valle della Shoah e dell’ombra che da quella si allungava sulla intera esperienza cristiana di vertice e di base, spiegasse perché la chiesa di Roma sentiva di dover affermare al suo massimo grado il riconoscimento delle promesse, la perennità dell’alleanza e la detestazione dell’antisemitismo “di chiunque e di qualunque epoca”. Fu per attenuare la resistenza dei vescovi arabi e dei loro governi che si decise di estenderlo e mimetizzarlo in un atto, “Nostra Aetate”, che esprimesse stima e attenzione per l’islam, e anche per le altre grandi religioni. Ma così facendo si creava una indiretta analogia: come il rapporto con l’ebraismo era qualcosa di essenziale per la chiesa, si veniva a suggerire che anche nel rapporto da fare con le altre religioni si doveva adottare la stessa grammatica. Israele, come sacramento di tutte le alterità, diventava un modello del bisogno cristiano di comprendere la fede degli altri con gli occhi di Dio. Questa intuizione rimane silente fino al 1986, segmentata in segretariati e mansionari di curia: Assisi rappresenta un evento enorme perché dice come la chiesa di Roma vuole guardare agli altri non come a civiltà o come ad antagonisti, ma come a voci della preghiera comune che sale dalla terra chiedendo a Dio la pace che gli uomini dimenticano di fare.

Papa Benedetto XVI nell’omelia della messa crismale concelebrata in San Pietro, ha fatto esplicitamente il nome di Karol Wojtyla come esempio di riscatto per tutti i cristiani,  e lei  scrive  nel quarto capitolo: “finalmente il momento del perdono e del mea culpa viene fissato al 12 marzo 2000, un gesto il cui annuncio e’ stato accolto polemicamente”. Ci puo’ spiegare?

Il mea culpa era stato proposto fin dal 1993 in un concistoro straordinario: e la reazione di alcuni porporati, come Biffi, era stata molto negativa. Si pensava che chiedere perdono volesse dire aprire una falla nella difesa del magistero e dell’autorità delle autorità: e che dunque quelle cose che la modernità aveva rimproverato alla chiesa andassero al contrario o sbandierate o al massimo contestualizzate in tempi lugubri e violenti per tutti. Wojtyla invece non cede: da padre conciliare aveva vissuto la discussione sul caso Galileo al Vaticano II; da vescovo aveva partecipato all’atto del dare e chiedere perdono con il quale vescovi tedeschi e polacchi si erano abbracciati a vent’anni dalla fine della II guerra mondiale; come persona aveva perdonato chi gli aveva sparato nel 1981 e alla fine ottenne al suo mancato killer la grazia del Quirinale. Per lui il riconoscersi della Chiesa come “casta meretrix” non era una concessione fatta al marketing – anche se poteva perfino essere usata così – ma qualcosa che andava dovuto a Dio. Ancora una volta sul piano delle formule si oscilla (peccato della chiesa, nella chiesa, dei figli della chiesa), ma il senso è chiaro e consente al cattolicesimo romano oggi di poter guardare a orrori come quelli della pedofilia – che non sono certo tipici del suo clero, ma che hanno toccato anche un clero mal guidato – con gli occhi di chi sa che non è della propaganda di sé che la Chiesa ha bisogno ed è ministra, ma di una misericordia di cui è la prima mendicante.

Antonia Pillosio

 


Il mio Wojtyla segreto

 

intervista a Joaquin Navarro-Valls

 

«Sono seduto accanto a Gianni Agnelli, nella sede della Stampa estera. La segretaria mi porta un bigliettino scritto a mano: il Papa la vorrebbe vedere a pranzo. È uno scherzo. E quando sarebbe?
Subito, tra un’ora». Fu un’ora che sarebbe durata ventidue anni per Joaquin Navarro-Valls, il  giornalista e medico psichiatra spagnolo che sarebbe stato fino alla sera dell’addio alla vita di Giovanni Paolo II, il Beato Wojtyla dal primo maggio prossimo, il decoder quotidiano fra l’eterno e il quotidiano, fra la santità e il giornalismo. Nessun altro, salvo monsignor Dziwisz, oggi cardinale, e le suore di pietra che vidi pregare accanto alla salma esposta nella Sala Clementina, avrebbe trascorso tanto tempo, diviso tanti silenzi, tanti segreti e tante parole con Karol Josef Wojtyla,
quanto Navarro-Valls. Una vita con il Papa, in perenne equilibrio tra la comunicazione pubblica e le stanze segrete, tra il sublime del messaggio e il purgatorio dei mass media.

Era il 1984.
«Davanti a me c’è il capo della Chiesa Cattolica, il successore di Pietro, di cui avevo letto alcuni testi ma che conoscevo soltanto da lontano, come giornalista. Mi chiede se avessi qualche idea per migliorare la comunicazione della Santa Sede».

 

In che lingua parlavate?
«In italiano. La vostra, anzi, la nostra lingua come aveva detto la sera della elezione, parlando dalla Loggia».

 

Lei che idee gli propose?
«Gli dissi che non sapevo che cosa dire, così, su due piedi. E lui, ridendo: e lei me lo dica lo stesso.
Lui taceva, mi studiava con il capo un po’ piegato, quei suoi occhi taglienti, ironici, allegri, lo sguardo che mantenne anche quando gli occhi furono imprigionati nella maschera della sofferenza».

 

Per due decenni, fino a quando l’infermiera suor Tobiana Sobodka riferì di avere sentito il Papa mormorarle all’orecchio in polacco «…pozwólcie mi odejsc do domu Ojca…», «lasciatemi tornare alla casa del Padre», nella sera del 2 aprile 2005, Navarro-Valls avrebbe guardato ogni giorno in quegli occhi, cercando di capire quello che lui stesso non poteva capire, il mistero di un Pontefice destinato al cielo delle beatitudini cristiane.

«Me lo domandavo, agli inizi, anche io chi fosse, che cosa fosse il mistero di Wojtyla. Ha cambiato la storia della politica e della diplomazia, senza essere né un politico né un diplomatico. Ha rivoltato le premesse della filosofia dominante senza esercitare più la professione del filosofo, ha affascinato il mondo dei media prendendo posizioni impopolari. Voleva appassionatamente attirare l’attenzione sul messaggio, ma il mondo sembrava ossessionato dal messaggero. Credevano di amare il cantante, e non si rendevano conto, o non volevano ammetterlo, che in realtà erano attratti dalla musica».

 

Una musica che all’orecchio del tempo sembrava stonata.
«Perché suonava alla rovescia rispetto agli spartiti dominanti dell’epoca: il pessimismo e la cupezza della nostra esistenza e della nostra condizione umana dietro il benessere materiale del nostro piccolo spicchio di mondo, Europa e Americhe. Il messaggio di Giovanni Paolo II è radicale, rivolta quegli spartiti. Diceva: voi uomini siete molto meglio di quanto la cultura moderna vi faccia credere, siete molto meglio di quanto voi stessi crediate di essere. Dunque non abbiate paura di essere ciò che siete, creature divine».

 

Invadeva i teleschermi, li “bucava”, occupava la televisione ormai divenuta satellitare, dunque globale. Lei non temeva, come curatore della sua immagine, di rischiare l’overdose?
«No, perché sapeva che il segreto per dominare la televisione e non lasciarsene dominare è semplicemente ignorarla, come scrisse il critico televisivo del New York Times quando andammo in America nel 1987. C’era il suo messaggio, c’erano le sue parole, e c’era la fusione tra la forza del suo messaggio e il vissuto esistenziale che si manifestava quando lo comunicava alla gente. Chi lo ascoltava sapeva che quanto diceva era vero. Il suo linguaggio e i suoi gesti esprimevano la verità».

 

Si preparava a questi eventi? Studiava le pose, gli angoli di ripresa, le luci, la scenografia e la sceneggiatura?
«Mai, neppure una volta. Per lui le telecamere, il trucco, le luci non esistevano. Questi atteggiamenti da personaggetti che si fanno spiegare come e dove devono guardare, se fissare l’obbiettivo o guardare fuori, se sorridere o sembrare seri, non lo sfioravano mai. I primi tempi mi preoccupavo, sapendo quanto la telecamera possa essere crudele. Ma per lui comunicare era far apparire la verità, non costruire un’apparenza».

 

La Curia diffidava?
«La Curia, come ogni organizzazione istituzionalizzata, può tendere alle volte a guardare verso il proprio interno. Lui la faceva guardare verso l’esterno».

 

Recalcitravano, le porpore?
«La Curia era non soltanto utile ma necessaria. E lui, come Papa, marcava la strada».

 

Una lunghissima strada. Duecento viaggi dentro l’Italia, poi in centosessanta nazioni fuori dall’Italia.
«Una volta mi disse una cosa che sembrava elementare: “Sa, nel passato era la gente ad andare in parrocchia. Oggi è il parroco che deve andare dalla gente”. Questa, così apparentemente semplice, era una un’illuminazione straordinaria che lui portava con sé da una lunga esperienza nel proprio Paese».

 

Lei che è un credente, un uomo dell’Opus Dei, si rendeva conto di vivere accanto a un santo?
«Lo andavo comprendendo standogli accanto giorno dopo giorno, non avevo dubbi. La fede non l’ho avuta da lui ma accanto a lui il contenuto della fede si “vedeva”, e lo metta tra virgolette perché questo andrebbe spiegato. Quello che cercavo di imparare era come la santità si sarebbe fatta carne in lui, in noi cristiani. Questo lo avrei scoperto soltanto nella convivenza quotidiana».

 

Per esempio?
«La preghiera. Per un credente, la preghiera spesso è un obbligo. Oppure il risultato di una convinzione fondata. Per lui era una necessità, un bisogno, come per noi respirare».

 

Aveva un preghiera preferita?
«Nutriva la sua preghiera con i bisogni degli altri. Gli arrivavano migliaia di messaggi di tutto il mondo, in tutte le lingue: una malattia, un problema famigliare, l’angoscia di un futuro senza futuro… L’ho visto in ginocchio per ore nella sua cappella con questi messaggi in mano: tutte le sofferenze umane come tema della sua conversazione con Dio. Penso che per se stesso non rimanesse alcuno spazio nella sua preghiera. Penso che lui non avesse delle “cose sue”. Solo cose
degli altri».

 

E c’era una costante nel parlare con Dio?
«Lui, che pure aveva riportato l’ottimismo nel mondo incupito e pessimista, custodiva un suo segreto. Era convinto che quello di cui veramente l’essere umano avesse più bisogno era la misericordia di Dio. Per questo la cerimonia di beatificazione avverrà il primo maggio, il giorno della Misericordia. Sembrerebbe un paradosso. Tanto fiducioso, tanto ottimista, lui che apriva orizzonti sterminati alla persona umana, eppure con il senso della limitatezza della creatura umana.
L’ultima messa, celebrata nella stanza in cui morì, era già la messa della domenica, la messa della Divina Misericordia».

 

Come psichiatra, lei, dottor Navarro, è mai caduto nella tentazione di guardare Karol Wojtyla come a un paziente?
«Non c’era materia per considerarlo un paziente. E non c’era tentazione, semmai deformazione professionale, come il sarto che vede un abito o il calzolaio che guarda le scarpe e le valuta, per abitudine. Mi impressionava il magnifico equilibrio interiore tra tutte le sue virtù. Virtù che, quando coabitano in una sola persona, possono anche impazzire. In lui, questa pazzia delle virtù non c’era.
Convivevano senza difficoltà. Per esempio: non sapeva perdere un minuto eppure non aveva mai fretta».

 

Neppure alla vigilia degli incontri più delicati?
«Nemmeno in queste occasioni. Semplicemente, metteva tutto se stesso nella preparazione di questi viaggi. Sapeva mortificarsi senza spettacolarità: rispetto al cibo, per esempio. Il rapporto con il cibo e con le bevande era di indifferenza, ne era quasi infastidito. Andavamo in paesi tropicali, caldissimi, umidi, come l’Indonesia. Era ovvia la disidratazione per il caldo. Il suo medico, io stesso, eravamo preoccupati per la perdita di liquidi. Lui, con straordinaria e discreta eleganza, ritardava di bere».

 

Dormiva bene, quando non soffriva?
«Voleva sempre che si viaggiasse di notte nei voli intercontinentali, per arrivare al mattino sul posto e avere così davanti a sé tutta una giornata di lavoro. Nel suo ultimo viaggio in Messico, e aveva ottant’anni, l’Alitalia gli aveva preparato un lettino dietro una tenda. Noi del seguito – laici, cardinali, monsignori – cercavamo di dormire almeno un po’, raggomitolandoci nei sedili. Quando atterriamo, l’incaricato della compagnia mi avvicina e mi dice: noi avevamo preparato il lettino per il Papa, ma abbiamo visto che è intatto. Era troppo stretto, era scomodo? Non si preoccupi, lo
rassicurai, è stato sveglio tutto il viaggio per prepararsi. Tredici ore di viaggio leggendo, studiando, pregando».

 

Mangiava anche poco?
«Non gli importava molto di ciò che aveva davanti. In certi periodi dell’anno faceva soltanto un pasto completo al giorno. E fino all’ultimo, il giorno prima di ordinare nuovi vescovi o sacerdoti, digiunava».

 

Potrebbe essere una definizione laica della santità il riuscire a vivere nell’equilibrio delle proprie virtù. Era questa serenità la radice, la causa del suo essere un uomo allegro, ironico? «Era un uomo allegro, è verissimo. L’ironia era il suo tratto caratteriale più evidente. Ma la sua  gioiosità non era quella banale delle persone che non sanno fare a meno della risata da barzelletta.
Le fondamenta del suo carattere, che io definisco allegro, stanno tutte in due righe».

 

Di diari? Di confessioni?
«No, della Genesi. Dove si dice che siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza. È chiaro che se ci credi, ma se ci credi davvero davvero, allora, qualunque cosa accada, anche la tragedia più spaventosa, anche Fukushima, non cambia il fatto che il mio fine ultimo di creatura è il lieto fine, l’happy end. Non ce ne possono essere altri. Dio non può tradire le creature fatte a propria immagine e somiglianza. Se hai questa certezza, anche la sofferenza ha un senso».

 

Lo sentiva scherzare?
«Molto. Amava scherzare, stuzzicare e prendere affettuosamente in giro anche i suoi collaboratori, i parroci e i preti diocesani delle parrocchie romane che andava a visitare. Incontrandoli la sera prima, voleva sapere quanti vecchi, quanti bambini, quante donne incinte, quanti malati gravi fossero sotto le loro cure, per poi trovarsi preparato a tutto. Ma come, Santità, gli disse un cardinale quando già stava poco bene, vuole andare a visitare un’altra parrocchia romana? Guardi eminenza che forse lei dimentica che io sono il vescovo di Roma».

 

Cercava sempre il contatto con la gente?
«C’era una grande fisicità in lui, baciava le donne in fronte e coccolava i loro bambini, prendeva sottobraccio i vecchi, afferrava le mani di chi gliele tendeva. “Ma sei proprio tu quello che ho visto in televisione?”, gli domandò un bambino colombiano sfuggito alla sorveglianza e corso sul palco del Papa. Prima che lo riacciuffassero, lui lo abbracciò e tolse al bambino quel dubbio – che a quella età doveva essere importante».

 

Un Papa prete, come sarebbe stato anche Luciani, da cui prese il nome, Giovanni Paolo. Aveva anche lui dubbi sulla morte improvvisa del suo predecessore, nel sonno, appena trenta giorni dopo l’elezione?
«No. Per lui, i sospetti erano letteratura, fiction, non lo interessavano. Mi raccontò invece di come ebbe la notizia della morte di Papa Luciani. Lo seppe dal suo autista, mentre quella mattina andava in visita pastorale a una parrocchia di Cracovia. Lui che era stato nel Conclave pochi giorni prima dovette sapere dall’autista che era morto il Pontefice che aveva eletto».

 

Come reagì?
«Sentì un’immensa tristezza invaderlo, poi lo assalì un’inquietudine enorme che lo scuoteva e che non riusciva a spiegarsi».

 

Forse un presentimento.
«Forse. Ma lui non ripartì per Roma, per il secondo Conclave in poche settimane, pensando di doverci restare come Papa. Non parlava mai di quei due Conclavi. Non disse mai se avesse ricevuto qualche voto anche nel Conclave che elesse Luciani».

 

Anche i santi si arrabbiano?
«Raramente, ma sì, se la ragione è giusta. Le uniche volte in cui l’ho visto arrabbiato, se arrabbiato è la parola corretta, erano sempre situazioni di violenza fisica o morale rivolta contro la gente, come la guerra nel Libano, o nei Balcani. Si tormentava, e tormentava noi chiedendoci che altro può fare il Papa per impedire una guerra. O come sarebbe poi stata l’invasione dell’Iraq, alla quale era molto contrario».

 

Lo disse pubblicamente.
«E anche privatamente. Quando incontrò George W. Bush, gli disse chiaramente: mister President, lei sa quale opinione ho della guerra in Iraq. Discutiamo di altro. Ogni violenza, contro uno o un milione, era una bestemmia diretta all’immagine e alla somiglianza di Dio. Non accettava che l’essere umano cercasse di risolvere le differenze con gli altri attraverso la violenza, come gli animali».

 

Molti grandi santi, antichi e moderni, hanno confessato di avere vacillato, di essere stati aggrediti da dubbi. Lo so che sembra una bestemmia, detta per un Papa e oggi un beato, ma Karol Wojtyla credeva davvero davvero, come dice lei, in Dio?
«Penso che possa rispondere qualsiasi persona che lo abbia visto e seguito. La sua fede la si vedeva.
Alla fine ormai della sua vita, nel 2005, quando dovettero praticargli una tracheotomia all’ospedale Gemelli per permettergli di respirare e quindi non poteva parlare, in sala post-operatoria fece un gesto. Sembrava voler dire qualcosa che non poteva dire. La suora capì. Gli portò un cartoncino con un pennarello. Lui ci scrisse sopra con decisione, a grandi lettere irregolari: TOTUS TUUS. Era mettere per iscritto la sua accettazione di quello che Dio voleva per lui anche in quel momento».

 

Era rassegnato.
«No, era convinto della propria totale appartenenza a Dio, attraverso l’intercessione di Maria. Ho detto convinto, perché questa era stata la motivazione profonda di tutta la sua vita di Papa. Non voleva vincere, voleva convincere, come lui stesso era stato convinto dallo Spirito quando era un giovanotto che giocava a calcio come portiere e remava sul suo adorato kayak in Polonia».

 

Ma il duello contro l’Urss, i regimi, le burocrazie comuniste lo aveva pur vinto.
«Vincere non era una parola che appartenesse alla sua filosofia, al suo orizzonte interiore».

 

Eppure fu costretto a una sfida che al mondo apparve un duello senza quartiere attorno alle sorti della sua Polonia, nel 1980. Il tempo di Solidarnosc e di Lech Walesa…
«In quei anni di tensione Ronald Reagan gli scriveva molto, gli mandava a Roma l’ambasciatore  Vernon Walters, ex generale, uno dei pochi ambasciatori americani che parlassero le lingue, poi il consigliere per la sicurezza nazionale Bob McFarlane. Reagan parlava allora della Russia come “l’impero del male”: un’espressione che il Papa non avrebbe mai usato sapendo che il cristianesimo esisteva in Russia da mille anni prima. Era inevitabile vedere in loro due strade diverse. Il fine che muoveva Giovanni Paolo II non era l’America o l’anticomunismo, e neanche in fondo una qualsiasi
forma di società neo capitalistica e libertaria idealizzata, bensì la dignità assoluta e trascendente della persona umana che è capace di scegliere il proprio destino. La sua originalità era la potenza dei valori antropologici universali e la fede incrollabile nella persona umana in quanto tale».

 

Forse perché il Papa non ha divisioni corazzate, come diceva Stalin.
«Aveva una forza diversa e il Cremlino se ne accorse presto. Non è molto noto ma, in quel 1980, i satelliti spia e gli Awacs fotografavano i movimenti delle truppe della Germania comunista che si dispiegavano sul confine occidentale della Polonia, da dove sarebbe partita l’invasione che tutti temevamo. Io ero a Varsavia in quei giorni e andavo a dormire convinto che mi sarei svegliato con i carri sovietici in strada. Era dicembre e Giovanni Paolo II scrisse una lettera personale e privata a  Leonid Breznev».

 

Come Leone Magno con Attila? Per ordinargli in nome di Dio di non toccare la Polonia?
«No, sarebbe forse stato un errore, avrebbe fatto infuriare il Cremlino e offeso l’orgoglio dei sovietici. Gli scrisse, con grande chiarezza e con la conoscenza diretta che aveva di quei regimi e della loro mentalità, solo per ricordargli che appena cinque anni prima, nel 1975, lui stesso, Breznev, aveva firmato a Helsinki un trattato solenne in cui l’Urss si impegnava a non interferire negli affari interni di ogni altra nazione europea. Dunque, se avesse invaso la Polonia avrebbe violato la sua stessa parola, la parola dell’Unione Sovietica».

 

E Breznev rispose?
«Sì, ma non con una lettera, né per via diplomatica. La sua vera risposta fu la rinuncia all’azione di forza. Eppure Breznev sapeva, come sapevamo tutti, che lasciare la Polonia al proprio destino sarebbe stata la fine per la stessa Unione Sovietica e che il sogno del Papa, che era un’Europa dall’Atlantico agli Urali, ma senza il dominio di una potenza, si sarebbe inesorabilmente avvicinato».

 

La lettera segreta di Giovanni Paolo II fece quello che le potenze militari e la Guerra fredda non avevano saputo fare.
«Quando andammo a Praga nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, il presidente Vaclav Havel ricevette il Papa all’aeroporto e, da buon letterato, gli disse: “Io non so se so che cosa è un miracolo. Ma oggi mi sembra di vedere un miracolo”».

 

Un miracolo politico, diplomatico, strategico. Il profeta disarmato che distrugge la massima potenza militare del mondo.
«Questo era chiaro, ma non si deve pensare a lui come a un leader politico in abito religioso, deciso a cambiare regimi e confini. Non salì sulla cattedra di Pietro per liberare l’Europa dell’Est dal comunismo, ma per diffondere il messaggio dell’assoluta centralità della persona umana, della creatura, che esiste come tale perché ha un creatore, e in quella verità deve ritrovarsi. Questa era l’essenza postmoderna, post-ideologica, post-esistenzialista, dunque implicitamente post-marxista e leninista, l’essenza cristiana della sua predicazione».

 

Ci fu però un’altra risposta, un anno dopo la resa sovietica di fronte alla Polonia. In Piazza San Pietro. Il giorno 13 maggio del 1981. Ali Agca.
«La sofferenza era già entrata nella sua vita da anni ma probabilmente quello fu il suo primo incontro, brutale, inaspettato, con il dolore fisico: uomo robusto e sano, non lo aveva davvero mai affrontato. La prima di una serie tremenda di prove».

 

La corsa all’ospedale Gemelli, destinato a diventare il “Vaticano 2”. Il complicato lavoro dei chirurghi sull’intestino, perforato da due dei quattro proiettili sparati dall’aggressore, con colostomia temporanea.
«Era ancora cosciente, sull’ambulanza. Perse i sensi arrivando in ospedale, per la perdita di sangue e il crollo della pressione sanguigna. Ma riuscì in un momento di lucidità a dire ai medici di lasciargli al collo lo scapolare, il rettangolo di stoffa dei carmelitani dedicato alla Vergine. Fu operato con lo scapolare addosso, quella volta e in tutti gli interventi successivi che dovette subire».

 

Ebbe la certezza dell’intervento provvidenziale, «materno» come lo definì, della Madonna per deviare le pallottole e non colpire organi vitali. Ci fu chi lo accusò di un peccato di superbia, per averlo pensato.

«È esattamente il contrario. Per una persona che ha il senso della totale dedizione alla Madonna, è
semmai un riconoscere di aver ricevuto un dono e di avere un debito».

Ma qualche dubbio doveva averlo.
«Non sull’attentato ma sul possibile collegamento dell’attentato con il terzo segreto di Fatima. Per questo prima di far pubblicare quel testo anni dopo, mandò il cardinale Tarcisio Bertone, allora segretario della Dottrina della fede sotto il cardinale Ratzinger, in missione da suor Lucia, l’ultima superstite dei tre bambini che videro la Madonna. Voleva essere certo, sapere se l’ultimo segreto fosse davvero la profezia dell’attentato al Papa. Bertone chiese a suor Lucia se questa interpretazione fosse coerente con quello che la Madonna le aveva rivelato. Suor Lucia rispose di sì; che era coerente con quanto lei aveva scritto con l’ingenuità di una bambina di allora dieci anni che lo aveva visto attraverso questa immagine. Fece inviare a Fatima il bossolo di un proiettile sparato da Agca che ora è incastonato all’interno della corona della Vergine nel santuario».

 

Credette dunque alla «mano materna che aveva deviato un’altra mano». Ma chi aveva mosso invece la mano assassina di Agca? I servizi segreti bulgari appaltati da Mosca utilizzando una marionetta turca? Il Papa lo pensava?
«Rispondo con quello che disse lui stesso andando per la prima volta in visita in Bulgaria dopo la fine del regime: non considero il carissimo popolo bulgaro responsabile collettivamente».

 

Era un uomo solo, come si dice tanto spesso dei potenti e dei veri grandi?
«No, non lo era né di fatto né per carattere. Raramente era da solo o con il suo segretario, durante i pasti. Riceveva vecchi amici, collaboratori, intellettuali… Erano occasioni stupende per conversazioni informali. C’era nella sua vita sempre ampio spazio per l’interazione. Giovanni Paolo II non era mai solo, perché non voleva esserlo. Però questa facilità nei contatti umani non lo privava della solitudine riflessiva, il pensare da solo».

 

Nessun amico, nessun cardinale, neppure l’amatissimo cardinale Ratzinger, nessun addetto stampa possono però mai essere tua madre, tuo fratello.
«Ricordo che quando una volta gli domandai chi lo avesse accompagnato il giorno in cui fu ordinato sacerdote, lui mi rispose: “A quell’età avevo già perso tutte le persone che avrei potuto amare”. Sul tavolino accanto al suo letto di morte c’era la piccola foto del padre e della madre che gli era stata regalata in uno dei viaggi all’estero».

 

L’incontro con la sofferenza morale era avvenuto molto presto, da ragazzo. La salita sul monte della sofferenza fisica sarebbe cominciata quel giorno in piazza San Pietro e non si sarebbe più fermata fino al morbo di Parkinson, l’umiliazione finale del suo messaggio, il male che colpisce la gestualità, l’espressività. Perché attendeste tanti anni, dodici, per ammettere che ne era stato colpito?
«Perché non ce n’era bisogno. Il Parkinson, con quel tremore incontrollabile alle mani e la rigidità dei muscoli facciali, è una malattia che qualunque studente di medicina del primo anno, qualunque persona che ne sia stata colpita o che abbia un parente che ne sia stato colpito, può diagnosticare guardando un minuto la persona che ne soffre. Lei pensa che è necessario presentare una persona incinta di sei mesi dicendo che è incinta? Lo si vede; è evidente. Anche nella patologia, Wojtyla non poteva e non voleva nascondere nulla».

 

Vedeste insieme, e a volte lei da solo, i cosiddetti grandi del mondo. Lei andò in missione a Mosca, poi a Pechino per coronare il sogno di un viaggio in Russia e in Cina… «Che non si fecero….». …e a Cuba dove invece riusciste.
«Parlai a lungo, dalle otto di sera alle due del mattino, con Fidel Castro, e così si sistemarono alcune precondizioni al viaggio del Papa. Nei colloqui privati non gli parlai mai della sua educazione presso i Gesuiti, fu lui a ricordarla a me».

 

Si rendeva conto, il Papa, che avrebbe celebrato messe in chiese in cui si mescolavano tranquillamente il cristianesimo con la santeria, le Madonne con i Serpenti di Mare?
«Lo sapeva benissimo. E questa conoscenza era una ragione in più per quel viaggio. La gente aveva bisogno delle sue parole, del suo insegnamento che non trovavano da nessuna parte per la scarsità del clero, l’isolamento cubano e le difficoltà di formarsi».

 

Le diceva tutto, sui suoi colloqui privati con capi di stato o di governo?
«Raccontava i termini dei colloqui e lasciava decidere che cosa era necessario dire all’opinione pubblica. Naturalmente faceva con tutti loro riflessioni profonde di carattere etico. Un giorno  ricevette un capo di stato autocrate e violento. Uscendo, dopo il colloquio, commentò quasi tra sé: “Sembra quasi un agnellino”».

 

Come vedeva gli Stati Uniti, i suoi presidenti?
«Ammirava moltissime cose dell’America, l’apertura, la mobilità sociale, il senso religioso che pervade la vita e non solo la Costituzione. Ha conosciuto e incontrato cinque presidenti americani.
Si comportava allo stesso modo con tutti, con Carter, con Reagan, con Bush padre, con Clinton, con Bush figlio. Di Bush giovane apprezzava, per esempio, la legge che ritirava i finanziamenti pubblici alla ricerca sulle staminali embrionali, non le guerre».

 

Dunque non poteva apprezzare molto Clinton, che era dichiaratamente pro aborto.
«Il presidente Clinton aveva una certa simpatia naturale. E Clinton, che ammirava Wojtyla, ha scritto: “Non vorrei mai fare una campagna elettorale contro di lui”».

 

E con Reagan?
«Si sono incontrati diverse volte. Parlavano in profondità ma avevano due missioni diverse anche se alla fine storicamente hanno coinciso. Erano come due linee parallele: la diplomazia della forza e la forza delle virtù».

 

Come guardava all’Italia, alla vita politica italiana?
«Con enorme tenerezza. In Italia facemmo più di duecento viaggi, visite, pellegrinaggi, e quella sua scelta celebre di rivolgersi alla folla in Piazza San Pietro usando l’italiano…».

 

… se sbaglio mi coriggerete?
«…Appunto. Fu la testimonianza di quell’affetto, del riconoscimento all’Italia che aveva donato mezzo millennio di papi. Seguiva la politica italiana ma non le scaramucce quotidiane. L’ho detto, non era un politico. Quando andò in Parlamento si rivolse alla nazione italiana, non a questo o quel gruppo; parlò di valori, non di destra o sinistra. Guardava spesso i titoli dei telegiornali alla sera e poi basta. Ma il capitolo di una sua amicizia italiana è tutto da ricordare».

 

Sandro Pertini.
«Sì, il presidente Pertini. Nel giorno dell’attentato, Pertini si fece portare all’ospedale Gemelli e restò in attesa dell’esito dell’intervento, come un parente prossimo, tempestando di domande medici e infermieri, lui che non era credente. Restò fino alle rassicurazioni dell’équipe dei chirurghi. Soltanto dopo cinque ore tornò al Quirinale».

 

Wojtyla ricambiò questo gesto?
«Ci provò. Quando seppe che l’ex presidente stava morendo, nel 1990, il Papa andò discretamente nell’ospedale dove era ricoverato. Chiese di vederlo, di parlargli per un’ultima volta perché lui sapeva che Pertini lo avrebbe voluto salutare».

 

Forse sperava in una conversione sul letto di morte.
«Questo non lo so. Non conosco i pensieri del Papa né quelli di Pertini. Forse voleva soltanto confortare un moribondo, da uomo a uomo. Se avesse voluto anche il conforto religioso, il Papa sarebbe stato lì, il prete accanto al moribondo».

 

Riuscì a vederlo, prima che morisse?
«No. Non lo lasciarono entrare nella stanza dell’amico. Quando il Papa si sentì negare il permesso, chiese soltanto che gli portassero una sedia. Se la fece sistemare nel corridoio sul quale dava la stanza del Presidente e rimase a pregare in silenzio e in solitudine, per il vecchio amico che se ne stava andando. Dopo parecchio tempo si alzò e disse che tutto era già fatto. E, altrettanto discretamente, tornò in Vaticano. Non volle dare nessuna pubblicità alla cosa».

 

C’era, anche in tanti che avrebbero voluto ascoltare la sua voce, la delusione per il suo conservatorismo dottrinale e inflessibile in materia di amore, di sesso, di omosessualità, di sacerdozio femminile, di celibato sacerdotale. Sembrava stridere così violentemente con la sua persona pubblica, con la fisicità di cui abbiamo parlato. Eppure era entrato in seminario a diciannove anni, dunque aveva visto e conosciuto la vita.
«Concordo con il giudizio di tanti studiosi – dentro e fuori la geografia cattolica – che il più originale contributo del pensiero di Wojtyla è la sua concezione della persona umana. Ne parlammo molto.
Prima ancora di parlare di peccato, di legge divina, di morale, Wojtyla vedeva la natura umana, della quale tutti siamo portatori. Oggi, “natura umana” è un’espressione politicamente scorretta, si tende di più a parlare di “genere”, di “costruzione sociale” come antagonista alla natura. Ma anche se la cultura prende origine nell’azione, questo non vuole dire che non sia naturale. E la natura umana ha una sua eloquenza evidente».

 

Negarlo sembra la negazione della libertà morale, dunque della salvazione?
«Giovanni Paolo II pensava che all’essere umano – e soltanto all’essere umano – appartiene anche il dover essere. Questo fa dell’uomo una “persona”. Anche gli animali sono, ma non devono essere niente altro di ciò che sono; la loro perfezione è biologica. Nell’uomo la perfezione non è di natura biologica ma morale. Naturalmente si può rifiutare la questione del “dover essere” ma in questo caso l’uomo sta rifiutando se stesso, sta rifiutando di essere ciò che è».

 

Era quella intransigenza che i critici avvertivano dietro la sua personalità, la sua figura così affascinante?
«Non c’era nessuna contraddizione, se ci pensiamo. L’intransigenza morale, sui principi che hanno a che vedere con la verità, che non era intellettualmente negoziabile, si accompagnava sempre alla sua infinita, illimitata pietas, alla comprensione, alla tolleranza per la persona. La discussione è sulle idee e, alla fine, sulla verità; la persona merita di più che la discussione. E questo lo portava esattamente a quello di cui l’essere umano aveva per lui un bisogno assoluto: la misericordia, soprattutto quella divina».

 

Ma prima la devi accettare, questa misericordia?
«Certo e la puoi rifiutare, ma allora si entra nel vuoto della solitudine assoluta, nel buio più completo. Quando lo sentivo parlare, si vedeva insieme la profondità della sua fede e la ricchezza del suo pensiero. O se si vuole, della enorme ragionevolezza della religione e della fede».

 

Un uomo allegro che predicava non il diritto a non soffrire, come scrive oggi la scienza, ma quasi il dovere di soffrire?
«Direi piuttosto, l’inevitabilità della sofferenza. Con un realismo ottimista ma non ingenuo, pensava che imparare a vivere è anche imparare a soffrire. La sofferenza è l’ambito dell’umano, è la condizione del nostro essere, è ciò di cui abbiamo paura. Non soltanto la sofferenza fisica, ma quella spicciola, quotidiana, il figlio che ti fa penare, il sogno che non si avvera, l’amico che ti tradisce, il mondo che sembra impazzire, tutto quello che ci fa soffrire ma che non ci farà mai andare da un medico perché nessun medico può curare o lenire queste cose».

 

Eppure l’insegnamento della Chiesa sembra essere così spaventato da questo nostro corpo, dalle sue pulsioni, dai suoi desideri.
«Non per Wojtyla. E io penso nemmeno per la Chiesa. Non aveva nessuna paura del corpo.
Accarezzava e benediva la pancia delle donne incinte, faceva sport – quando poteva, e cioè non con la frequenza necessaria – lottava tenacemente per tenere in funzione il proprio corpo anche quando era logoro e già non rispondeva agli impulsi. Amava il corpo perché con il corpo l’essere umano si inserisce nella storia: nella storia umana e in quella della salvezza. Ma a questo amore per il corpo si aggiungeva il rispetto che un corpo – il proprio e quello degli altri – merita proprio perché non è un ammasso di cellule ma la condizione storica della persona. Di tutto questo rimane un suo magnifico libro – Uomo e donna lo creò – che è già un classico non soltanto della letteratura cristiana ma anche del pensiero umano».

 

Anche a rischio di apparire crudeli, ingenerosi, verso chi risponde ad altri richiami, a chi vorrebbe scegliere la propria fine?
«Anche a rischio di questo perché la più terribile delle crudeltà sarebbe ingannare trattando gli altri come cose anziché come persone».

 

Un rischio che il successore, Papa Ratzinger, corre anche di più, non mostrando quella fisicità, quella corporeità che Wojtyla esprimeva.
«Ma questo è soltanto l’aspetto esteriore. Si dovrebbe riflettere su quanto profonda fosse la sintonia fra questi due uomini pur tanto diversi fra loro. Era stato lui a chiedere a Ratzinger, nel 1981, di venire a Roma, e poi a trattenerlo anche dopo l’età del pensionamento quasi, direi, contro la sua volontà».

Aveva bisogno di lui?
«Probabilmente, sì».

 

Si può parlare di un capolavoro del pontificato di Wojtyla?
«Per me, il suo capolavoro è stato quello che verrà confermato nella sua beatificazione. Il capolavoro che, con l’aiuto di Dio, lui ha compiuto in se stesso: aver detto di sì fino all’ultimo momento a tutto quello che Dio gli chiedeva. La sua totale disponibilità ad essere quello che Dio gli domandava che fosse, sia quando era un giovane uomo vigoroso sia quando non ce la faceva più.
Quando voleva parlare alla finestra e non ci riusciva e si agitava prima di calmarsi. Totus tuus, non ce la faccio più, e subito dopo Totus tuus. Questo era il presagio di santità che vedevo in lui, come mi avevate chiesto all’inizio, fino al momento in cui si arrese all’ultima volontà divina, che era quella di tornare alla casa del Padre. Non scelse di morire. Scelse – ancora una volta nella sua vita – di accettare quello che un Altro aveva scelto per lui».

 

Erano le 21,37 del 2 aprile 2005, quando il tracciato cardiografico si appiattì e il dottor Buzzonetti, medico pontificio, certificò la fine. Alla finestra della sua stanza nel Palazzo apostolico, fu accesa la piccola candela della tradizione polacca per i morti. Suor Tobiana gli posò la mano sulla testa.
Attorno al letto di morte del Papa, «senza che ci fosse stato prima un accordo» dice ora Joaquin Navarro-Valls, suore, infermieri, preti cominciarono a intonare il Te Deum laudamus, non una nenia funebre, ma l’inno cristiano più solenne e trionfale del ringraziamento. Ringraziamento non per una morte, ma per tutta la vita straordinaria nell’ordinario quotidiano che l’aveva preceduta.
La piazza, là sotto, era piena, ma silenziosa. Le voci del «Santo subito» avrebbero presto riempito quel silenzio.

 

in “la Repubblica” del 24 aprile 2011

 

 


 

 

 

 

 

 

ARTICOLI CORRELATI


Wojtyla beato di Massimo Faggioli in Europa del 30 aprile 2011

“questa beatificazione è anche la presa d’atto che il pontificato di Giovanni Paolo II ha ridetto il cattolicesimo contemporaneo, che non si lascia ridurre ad un’unica ed esclusiva dimensione teologica o ideologica: con buona pace degli atei devoti, dei lefebvriani di complemento à la de Mattei, e dei chierici del dissenso di Micromega”
  • La verità di Wojtyla intervista a Joaquìn Navarro-Valls a cura di Aldo Maria Valli in Europa del 30 aprile 2011
Anticipiano alcuni stralci dell’intervista di Aldo Maria Valli con Joaquín Navarro-Valls che apparirà nel fascicolo di maggio della rivista “Studi cattolici”. “Lui diceva loro che erano molto superiori alle ipotesi che la cultura moderna offriva su loro stessi. Sapeva aprire loro orizzonti antropologici e religiosi che nessuno osava proporre ai giovani.”
“Domani tutti costoro… guarderanno – mi domando – in alto e penseranno che una storia umana si è definitivamente conclusa e c’è un altrove? Penseranno alla beatitudine di Giovanni Paolo II? A cos’altro penseranno? «Sta in silenzio davanti al Signore e spera» recita l’inizio del Salmo 36. È un Salmo bellissimo, colmo di conforto. Ma anche colmo di vuoto, nella semplicità di questo versetto, per i cristiani. Perché i cristiani devono credere e sperare in cose impossibili…”
“Un’opzione rischiosa ma al contempo feconda è stata quella scelta da Alberto Melloni… che ha individuato «Le cinque perle di Giovanni Paolo II» (Mondadori), cioè «i gesti di Wojtyla che hanno cambiato la storia», come recita il sottotitolo… mi sembra che la «perla» chiave che ha in sé la capacità di suscitare le altre sia proprio la prima: la valorizzazione del Vaticano II…”
“da Papa Wojtyla può venire un messaggio anche per la festa del lavoro. Per cui si può ben immaginare e auspicare un filo diretto che da Piazza S. Pietro giunge a Piazza S.Giovannni.”
“Tra i motivi di grande attualità dell’azione svolta da Giovanni Paolo II c’è soprattutto il tema dell’accoglienza. (…) Una lezione tanto piu utile e necessaria oggi che anche nella comunità ecclesiale, sul tema immigrazione, non tutte le sensibilità sono armonizzate, vista anche la contiguità, assai discutibile, con alcune posizioni politiche. (…)

 

29 aprile 2011

 

Per “essere in comunione con Roma”, “essere presenti”, “rendere omaggio” o semplicemente “dire grazie a Giovanni Paolo II” … numerosi momenti di preghiera e celebrazioni ritrasmesse su grandi schermi… Dediche di vie, centri pastorali, vetrate di chiese… statue (di m. 1,30 a Neudorf, m. 1,80 a Aix, di m. 3 a Fourvière, di m. 3,80 a Parigi…) … e anche un flash-mob di danza…
Gli “anni di Giovanni Paolo II” restano per molti cattolici sinonimo di dinamismo e fierezza. “Beatificando rapidamente Giovanni Paolo II, il Vaticano si sforza di riattivare quel momento di grazia che si è da allora assopito, sottolinea Portier. Bisogna ricordarsi che, dopo il pontificato depressivo di Paolo VI, quello di Giovanni Paolo II ha mostrato che la Chiesa poteva ancora essere piena di vitalità, sicura di se stessa, capace di guadagnare punti sullo scacchiere demografico e politico”
“Almeno in due campi – predicazione della pace e rapporto con le religioni non cristiane – Papa Wojtyla è andato in avanscoperta, oltre le indicazioni che erano venute dal Vaticano II. Quando i due temi coincidevano – come nelle tre «giornate» interreligiose di Assisi: 27 ottobre 1986, 9-10 gennaio 1993, 24 gennaio 2002 – egli si affidava al genio dei gesti simbolici.”
“Il malessere della Chiesa si è aggravato a causa del fatto che essa non ha accettato di cambiare. Piuttosto essa è regredita nell’utero materno, si è aggrappata alla Roccia Polacca per non avere le vertigini. Il rischio è che questa beatificazione si trasformi, nella gestione di alcuni settori cattolici identitari, in un tentativo di riprodurre il wojtylismo e dunque il nuovo regime di cristianità oltre Wojtyla, bloccando ulteriormente i cambiamenti. A meno che Benedetto XVI non trovi il coraggio di rovesciare il piatto”

 

28 aprile 2011

 

“i santi, tutti i santi, sono uomini e come tali non possono essere perfetti”. Sbaglia dunque il Vaticano che da tempo cerca di staccare Wojtyla dal suo pontificato: “Impossibile staccare l’uomo dalle sue azioni” e per questo Wojtyla va beatificato.
Il 1 Maggio Giovanni Paolo II verrà beatificato: due voci opposte a confronto. ” Io considero Karol Wojtyla il più grande oscurantista del XX secolo. …. Il nemico è l’illuminismo: questo è il filo rosso di tutta la sua predicazione. La presunzione, mostruosa secondo lui, che l’uomo prenda in mano il proprio destino prescindendo dall’obbedienza a Dio”(Flores D’Arcais “Nella memoria popolare,…, non attecchisce l’idea del papa oscurantista. Ha aperto nuovi orizzonti al cattolicesimo. Il rapporto con gli ebrei: …. Ha posto con forza la questione dei diritti sindacali sul finire del secolo XX, specie dopo la caduta del comunismo… L’autocritica sugli errori del passato …”(Politi)
“C’è chi dice che è stato fatto beato troppo presto. Concorda? «aspettare uno o due anni in più non avrebbe molto significato. Esiste nei confronti di Wojtyla un certo revisionismo: la sua grandezza scandalizza la stretta misura sia di alcuni laici sia di alcuni ecclesiastici. Per altro verso, lui si è sempre sentito un uomo del Concilio Vaticano II, come è evidente anche dal suo testamento»”

La Bibbia nella storia d’Europa dalle divisioni all’incontro

 

Dalle divisioni all’incontro

Aula Grande Fondazione Bruno Kessler | Trento, via Santa Croce 77

Convegno a Trento il 30 aprile – 1 maggio organizzato dall’associazione Biblia in collaborazione con la Fondazione TKessler, che ospita l’evento, e il centro per l’ecumenismo e il dialogo dell’Arcidiocesi tridentina. Tra i relatori:  teologi, accademici e scrittori italiani e internazionali.

 

 

La Bibbia è ancora il «Grande Codice» dell’Occidente? Qual è stato il passato e qual è il futuro del libro che, di volta in volta elemento di unione o pomo della discordia, è stato il motore delle vicende europee? Sono le domande che risuonano al centro del convegno che a Trento da domani fino a domenica discute de «La Bibbia nella storia d’Europa dalle divisioni all’incontro».
Organizzato dall’associazione Biblia in collaborazione con la Fondazione Kessler, che ospita l’evento, e il centro per l’ecumenismo e il dialogo dell’Arcidiocesi tridentina, vede sul tavolo dei relatori teologi, accademici e scrittori italiani e internazionali, provenienti dal mondo cattolico e protestante ma anche laico, come ad esempio Tullio de Mauro, a cui è affidata la prolusione. Il programma oscilla tra studi di approfondimento storico e riflessione sull’attualità: «Anche la storia della ricezione dei singoli testi e del testo scritturistico nel suo insieme fa certamente parte della
cultura biblica – afferma Marinella Perroni , del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e membro del comitato scientifico di Biblia –. ‘ Scriptura crescit cum legente’, diceva Gregorio Magno. Un motto che se interpretato in senso troppo individualista o intimista non darebbe ragione del carattere del testo venerato come ‘sacro’ da ebrei e cristiani e riconosciuto come cardine dello sviluppo culturale umano. La Scrittura cresce infatti anche attraverso la lettura che ne fanno le Chiese e i gruppi sociali nelle diverse epoche culturali e nei diversi momenti religiosi collettivi. Per questo la ricerca nei confronti del Libro non può prescindere dal prestare attenzione anche a momenti della storia della
ricezione biblica. Non c’è dubbio che, strettamente intrecciata con lo sviluppo della cultura d’Europa, la Bibbia è stata anche una delle cause delle sue profonde lacerazioni religiose e politiche. Ripercorrere la storia della formazione delle Scritture ebraiche e cristiane nella città di Trento, che è stata scenario di uno dei momenti più drammatici della storia intracristiana, supera la semplice ricostruzione del passato e si traduce in interrogativi sul futuro: oggi, per la cultura
europea, la Bibbia è ancora fonte e motivo di divisione o può aprire nuovi spazi di maturazione culturale e di dialogo religioso?».
Per Paolo Ricca , già decano della Facoltà valdese di Teologia «Certamente la Bibbia è oggi ancora il testo più ecumenico che ci sia. Tutte le Chiese di tutte le tendenze e orientamenti, unanimemente riconoscono in lei la ‘parola originaria’. È l’elemento che ha permesso al Cristianesimo di diventare quello che i testimoni volevano che fosse. Per questo un Cristianesimo che si allontana dalla Bibbia  si allontana anche dalla sua natura e va alla morte spirituale e fisica. Se c’è una parola che può unire le Chiese, malgrado le differenze interpretative, è quella della Scrittura. Quella è la parola della fede cristiana: un riconoscimento che c’è sempre stato, anche quando i cristiani tra loro non si parlavano».
Una parola che non è sempre stata accessibile nel mondo cattolico, come sottolinea la storica Gigliola Fragnito : «Fino al Concilio di Trento l’Italia era, insieme con Germania e Polonia, il paese dove più alta era la circolazione di volgarizzamenti parziali del testo sacro». Una serie di pronunciamenti dell’Inquisizione e della Congregazione dell’Indice bloccarono alla fine del Cinquecento ogni traduzione «in lingue materne», la cui sorte designata era il rogo: «Una risoluzione contrastata, a cui si opposero semplici fedeli ma anche vescovi e inquisitori. E che fu valida per Italia, Spagna e Portogallo, dove vigeva l’Inquisizione, ma non per il resto d’Europa. In Francia e nelle Fiandre, ad esempio, ebbero circolazione diverse traduzioni. Solo nel 1758 con Benedetto XIV il divieto venne abrogato, ma il gap rimase. È solo con il Concilio Vaticano II che si incoraggia la lettura della Bibbia. E Giovanni Paolo II, in proposito, ha fatto moltissimo».
Cosa resta però oggi della Sacra Scrittura in Occidente? Se, come constata amaramente Ricca «La Bibbia oggi è piuttosto assente. In Italia come all’estero o è cancellata o è in corso di cancellazione», più articolata è l’opinione di Piero Stefani, biblista e studioso di ebraismo: «Si sta verificando una situazione singolare, capovolta rispetto a quella più tipicamente attestata nel passato. Nei paesi cattolici, dove era stata sottratta alla lettura diretta, la Bibbia ora sta crescendo sempre più nella conoscenza dei singoli fedeli e oggi è certamente molto più nota e letta rispetto a
quando venne chiuso il Concilio Vaticano II. Nei paesi tradizionalmente protestanti invece, dove il testo sacro era patrimonio di dominio pubblico, la secolarizzazione sta progressivamente erodendone la conoscenza e la diffusione. Un dato, questo, che vale soprattutto per le Chiese riformate storiche e per l’Europa: c’è infatti a livello globale un biblicismo aggressivo e fondamentalista assai rigoglioso nelle chiese evangelico-pentecostali. L’avvicinamento delle
tradizioni cattolica e protestante è invece ormai un fatto acquisito a livello accademico. È significativo che questo convegno abbia luogo a Trento: rispetto a quei tempi, infatti, la Bibbia non è più oggetto di contesa. Biblisti protestanti e cattolici sono oggi quasi indistinguibili, mentre prima mancava riconoscimento reciproco. Vale la pena segnalare che il nuovo atteggiamento nel mondo cattolico è precedente al Concilio Vaticano II e può essere anticipato al 1943 e all’enciclica Divino Afflante Spiritu con cui Pio XII legittimò il metodo storico critico, vale a dire proprio quello che la
Chiesa per secoli aveva combattuto del mondo protestante. Su questo panorama resta invece meno individuabile il passaggio nel mondo ortodosso, dove la lettura della Bibbia passa sempre attraverso la mediazione dei Padri».
Accanto a queste due linee c’è un fenomeno sempre più largamente diffuso di un approccio non religioso al testo biblico: «La Scrittura – prosegue Stefani – viene affrontata come un testo letterario, secolare». La Bibbia un archetipo narrativo, sulla falsariga dell’Iliade e dell’Odissea?

«Gli episodi della storia biblica vengono sempre più frequentemente sottoposti a operazioni diriscrittura. Questo modo di accostarsi, trasversale alle diverse culture e diffuso soprattutto fuori dai nostri confini, consente però anche un approccio sereno al testo, senza la vis polemica e ideologica del laicismo».

Alessandro Beltrami

in “Avvenire” del 28 aprile 2011

L’acqua del Vangelo e la dittatura dell’apparenza

 

Per riflettere insieme in questo giorno di Pasqua parto da alcune frasi del romanzo «Il nomade» (Feeria 2010) di Giuliano Agresti, l’Arcivescovo di Lucca che è scomparso nel 1990 lasciando in quanti lo conobbero il ricordo di una fede e di una carità vissute fino alla misura della santità.

Il protagonista del racconto è un uomo che nella maturità dell’esistenza decide di vivere da nomade, muovendosi su una povera bicicletta e facendo il mestiere di arrotino, forte solo della sua fede in Dio e del suo bisogno di libertà.

 

L’essersi fatto nomade non gli impedisce di seguire le vicende del suo tempo – l’Italia degli anni di piombo – e di portarne le stigmate nel cuore. «Gli doleva – afferma il racconto, chiaramente autobiografico – soprattutto una società presaga di ulteriori sfasci, involuzioni, tempi neri e che non trovava la forza morale di essere diversa. In questo più ancora lo provava lo spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negavano la profezia. Si sentiva addosso la suggestione dell’impotenza. Lo avrebbe reso cinico se non avesse avuto il suo “Dio familiare”».
Queste parole mi sembrano di un’impressionante attualità e danno ragione del tema che ho scelto di proporre alla riflessione comune in questa Pasqua: la profezia e il rischio della sua negazione.
La testimonianza biblica è concorde sul fatto che la profezia non s’inventa, non è frutto di carne o di sangue, né tanto meno è un atteggiamento legato al prurito di novità o al desiderio di farsi strada. Si è profeti per dono dall’alto, per vocazione e missione, e si vive la profezia in umile obbedienza all’Eterno, quasi costretti, nella condizione di chi non può sottrarsi a un obbligo che lo sovrasta e che gli chiede tutto.
Lo esprime bene una storiella, frutto di fantasia, eppure carica di verità. Un umile fedele, ricco di carità e amico del vero, muore e si presenta al cospetto di Dio. L’Eterno lo accoglie alla Sua presenza e dopo averlo a lungo scrutato dall’alto del suo trono, gli dice: «Sai che sei stato un profeta?». Lui risponde: «Signore, non me n’ero mai accorto!». Lo spirito profetico è dono ricevuto, e si vive nella docilità di un cuore umile e di una vita donata.
Che cos’è dunque la profezia? Spesso si pensa che essa sia un guardare in avanti, anticipando gli eventi. In realtà, nella Bibbia profezia vuol dire guardare la storia dalla fine, vederla cioè nella luce di Dio e misurarla sulle esigenze della Sua verità e del Suo amore infinito. Come ci fa capire l’Apocalisse – vera teologia della speranza sotto forma di teologia della storia – sguardo profetico è quello che riferisce tutto al sovrano e ultimo giudizio dell’Eterno. Per la fede cristiana rivelatore di questo giudizio d’assoluto amore è il Cristo: è in lui che apparirà la verità su ogni cuore, «e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto».
Lui solo è l’Amen, «l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». “Amen” richiama in ebraico la parola emet, che vuol dire sia verità che fedeltà, perché nella mentalità biblica la verità è un rapporto di alleanza, una fedeltà che non va mai tradita. La parola emet è composta da tre consonanti, “alef”, “mem” e “tau”, che sono rispettivamente la prima lettera dell’alfabeto ebraico, quella centrale e l’ultima: l’inizio, il centro e il compimento del mondo, che nelle parole viene rappresentato.
Si capisce allora come Gesù, «Alfa e Omega, Colui che è, che era e che viene», sia per chi crede la verità – fedeltà di Dio, nella cui luce tutto va vagliato nel suo autentico valore. Come Lui il profeta è testimone della verità, pronto a dirla anche quando fosse rischioso o risultasse perdente secondo la logica mondana.
Come Gesù è profeta chi annuncia la buona novella ai poveri qui e ora e proclama la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, contagiando la libertà agli oppressi e la grazia ai peccatori oggi.
Nega, invece, la profezia chi guarda ai poveri – per esempio agli immigrati che fuggono dalla disperazione e bussano alle nostre porte – solo come a un problema o a un fastidio da evitare; chi considera i prigionieri delle schiavitù del nostro tempo – drogati, alcolisti, dipendenti dalle alienazioni prodotte dal mondo virtuale della rete – solo come colpevoli che si sono cercati la loro punizione, senza muovere un dito per aiutarli; chi giudica la cecità e lo smarrimento di tanti come la conseguenza inevitabile di loro scelte sbagliate, e non si adopera a testimoniare con amore la luce; chi, insomma, agli oppressi non s’impegna a dire una parola di speranza e a donare una possibilità di
liberazione. Parimenti, nega la profezia chi non chiama per nome il male, chi chiude gli occhi di fronte allo scandalo dato specialmente dai potenti moralmente corrotti e non ne denuncia l’intollerabilità in nome di un calcolo politico, di un volgare interesse.
Lo «spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negano la profezia» può riguardare, insomma, tutti, specialmente quanti dovrebbero proporsi come guide affidabili del popolo, lampade poste a illuminare la via. Il rischio è che non scorra più limpida l’acqua del Vangelo, e che possa un giorno venir imputato a quanti non danno voce alla verità di essere stati conniventi con un potere malato, con la dittatura dell’apparenza.
L’augurio che faccio a me e a tutti noi, credenti e non credenti appassionati al bene comune, è pertanto quello di un’autentica libertà di cuore, di una lungimiranza evangelica, di una capacità di pensare in grande, per sognare il sogno di Dio ed essere pronti a pagare il prezzo più alto perché esso prenda corpo nella vita degli uomini. Lo formulo con le parole di un cristiano d’altri tempi, che seppe credere nella forza della profezia di Gesù e la visse fino in fondo, pagando con la vita il coraggio della sua testimonianza: Tommaso Moro. Lord Cancelliere del Re d’Inghilterra, andò incontro al martirio pur di non rinnegare la propria coscienza piegandosi ai soprusi del sovrano o facendosi connivente con la sua vita corrotta.
Prigioniero nella Torre di Londra in attesa dell’esecuzione, scrisse tra l’altro queste parole: «Dammi la Tua grazia, Signore buono, per stimare un nulla il mondo, per aggrapparmi a Te con la mente e non dipendere dalla bocca degli uomini, per camminare nella via stretta che conduce alla vita e ritenere un niente la perdita della ricchezza del mondo, degli amici, della libertà, della vita, onde possedere Te».

*Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il Sole 24 Ore” del 24 aprile 2011

Roma 19 02 2011

Sono un esercito.
Un esercito senza armi e le poche che hanno, sono spuntate dalla crisi.
«Se non ci fossimo anche noi, questo Paese andrebbe gambe all’aria.
Ma la politica fa fatica ad ascoltarci», si lamenta Maria Pia Bertolucci, vicepresidente del Centro Nazionale Volontariato che si ritrova in questo polo fieristico appena fuori Lucca, dove fino a domani il Terzo Settore si conta e cerca di contare sempre di più.
Tra gli stand degli oltre duecento espositori di questo primo «Villaggio solidale» si trova una merce rara.
Quella che Stefano Zamagni presidente dell’Agenzia per le onlus, sintetizza con metafora culinaria: «Siamo come il lievito della pasta.
Fermentiamo la società.
Operiamo perché la politica e l’economia ritrovino una concezione non individualistica della società».
A pensarla così in Italia sono quasi in tre milioni, uomini e donne, giovani e vecchi, laici e cattolici, quasi tutti sconosciuti perchè non è mica una bandiera da sventolare quella del volontariato.
Le statistiche ufficiali parlano di oltre 52 mila associazioni.
4500 quelle che si occupano di donazione del sangue, 3500 sono di pronto soccorso, altrettante di trasporto sanitario, più di 600 operano nel volontariato ospedaliero.
Se non ci fossero se ne sentirebbe la mancanza.
Visto che ci sono si fa quasi finta di niente.
Anche se da più parti – è d’accordo anche il leader dell’udc Casini – si sente la necessità di istituire un dipartimento del volontariato presso Palazzo Chigi.
Eppure non è solo il valore sociale quello che conta.
Secondo la John Hopkins University il volontariato in Europa vale 3 punti di Pil.
L’Italia però sta nel fondo con solo lo 0,11%.
Virtuosi nel volontariato sono danesi, finlandesi e svedesi con quasi un abitante su due impegnato nel sociale.
In Italia uno su quattro, meglio di Romania, Polonia e Spagna.
Una macchina enorme che genera ricchezza equamente distribuita.
Ma il 100 per 100 dei volontari si rimbocca le maniche senza guadagnare un euro.
A tenere oliata la macchina ci sarebbero le donazioni, quel 5 per 1000 destinato alle onlus.
In teoria, perchè il volontariato aspetta ancora le donazioni del 2009 e giusto tre giorni fa nel decreto Milleproroghe si è stabilito che qualunque sia la cifra raccolta, alle onlus non possono essere devoluti più di 400 milioni di euro, un quarto dei quali destinati a combattere una malattia seria come la Sla.
Tutti gli euro in più se li pappa lo Stato.
Marco Granelli, presidente del Coordinamento nazionale dei centri servizio per il volontariato non ci sta a subire da solo gli effetti della crisi: «Lo Stato ha trovato 5 milioni per la proroga delle quote latte, 15 milioni per aumentare il numero dei consiglieri comunali, 30 milioni per il digitale tv.
E noi chi siamo?».
Loro che in questo 2011 festeggiano l’anno internazionale del volontariato lavorano e stanno zitti.
Da 11 anni Banca Popolare Etica macina credito e investimenti.
In soli 2 anni Banca Prossima è riuscita far girare 1,5 miliardi di euro tra le associazioni.
«Con la crisi la gente ha sempre più bisogno di noi.
Ma così ci minano nelle fondamenta», giurano i volontari senza più voce, impegnati a sopperire alle carenze di un sistema che non ce la fa più ma che non può più fare a meno di loro.
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Regia: Mario Martone Nazione: ITALIA, FRANCIA Anno: 2009 Presentato: 67.a Mostra Internazionale D•Arte Cinematografica di Venezia – In Concorso È la storia di tre ragazzi del sud Italia, Domenico, Angelo e Salvatore, i quali, nel periodo risorgimentale, a seguito delle feroci repressioni borboniche, decidono di unirsi ai moti clandestini miranti all’unificazione dell’Italia.
Entrano così a far parte della “Giovine Italia” di Giuseppe Mazzini, viaggiando per l’Europa in cerca di finanziatori per le loro azioni rivoluzionarie e trovando, in un primo momento, l’appoggio di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, principessa animata da forti sentimenti antiaustriaci e liberali.
Dopo il fallimento del tentativo di spedizione in Savoia, organizzato da Mazzini, la principessa però ritirerà il suo appoggio, anche se il suo salotto resterà un circolo di ritrovo per gli intellettuali e gli esuli italiani.
Salvatore, figlio di contadini, viene (per le sue umili origini) scelto per incontrare Mazzini a Ginevra, e incaricato di procurarsi un’arma con la quale un cospiratore, Antonio Gallenga, medita di assassinare Carlo Alberto di Savoia (ma il Gallenga, intimorito non porterà a termine il suo piano, nascondendosi).
Dopo il fallimento della spedizione egli viene accusato da Angelo di essere una spia al servizio dei piemontesi e viene ucciso da questi in un impeto di fanatismo ideologico.
Dopo l’assassinio Angelo scappa, viaggiando a lungo per l’Europa dove finirà per entrare nel circolo di Felice Orsini, rivoluzionario che si è distaccato dalle idee di Mazzini, ritenendo i di lui metodi inadeguati per la lotta politica e che medita un attentato a Napoleone III.
L’attentato, in cui viene coinvolto anche Angelo, fallisce però miseramente e l’Orsini insieme con Angelo e altri due compagni viene arrestato e processato.
Angelo e Orsini finiranno con l’essere quindi condannati a morte ed entrambi ghigliottinati in Francia.
Domenico, nel frattempo, dopo aver passato in carcere gran parte della sua giovinezza, stringendo durante la prigionia amicizie con alcuni importanti esuli italiani attivi nella lotta politica, torna nel sud Italia dove incontra il giovane Saverio, figlio del vecchio amico Salvatore, legandosi insieme a lui ai garibaldini e vivendo con loro la presa del potere di Vittorio Emanuele II e la conseguente disillusione per un’Italia unità nel nome di ideali repubblicani e democratici.
Caduti in mano piemontese, anche il giovane Saverio finirà vittima della repressione dei bersaglieri inviati dai Savoia.
Ormai vecchio, Domenico assisterà inoltre agli ultimi sviluppi del post-unità, vivendo una nuova, forte disillusione dopo aver visto il repentino distacco di Francesco Crispi dai vecchi ideali mazziniani e l’avvicinamento a politiche monarchiche repressive.
Stanco e disilluso a Domenico non resterà che meditare tristemente sulle passate speranze e sulle presenti delusioni (e tradimenti ideologici) che segnano tragicamente l’inizio della storia d’Italia.
La vicenda, lunga e complessa è, a livello del racconto, schematizzata in quattro parti, divise in altrettanto sezioni con rispettivo titolo.
Nella prima parte (intitolata: «Salvatore») viene mostrata, a grossi tratti, la vicenda di Salvatore, il più umile dei tre amici cospiratori dalla sua “investitura” mazziniana (con il relativo “onore” di essere da Mazzini incaricato di armare la mano del Gallenga) fino alla morte, avvenuta per mano di Angelo, ormai diventato fanaticamente ossessionato dalla rivoluzione.
Nella seconda sezione («Domenico» viene invece presentata la figura di Domenico, nei suoi fervidi tentativi cospiratori contro il nemico borbonico e austriaco.
In questa parte del film la figura di Domenico è ancora mostrata come piena di giovanili speranze e di fiducia nell’ideale mazziniano e rivoluzionario.
La sezione dedicata a Domenico si interrompe lasciando il posto alla terza (quella di «Angelo».
Nella terza parte, abbiamo il delinearsi della figura di Angelo, ormai invecchiato, ma non per questo rassegnato nel suo ideale del gesto “risolutore” e violento che dovrebbe dare una svolta alla lotta politica.
Macchiato dalla colpa dell’omicidio di Salvatore, che porta come un peso, la storia di Angelo si conclude, anche in questo caso, con la morte del personaggio, invischiato nel fallito attentato di Napoleone III e giustiziato.
La quarta e ultima sezione, infine, ripresenta la figura di Domenico, dai lunghi giorni di prigionia fino alla sua adesione ai garibaldini.
Le quattro sezioni qui presentate sono (tranne la vicenda di Salvatore che è quasi “autoconclusiva”) a tratti intrecciate tra loro, restituendoci la visione d’insieme di un grande “affresco” della storia risorgimentale attraverso le emblematiche vicende dei tre personaggi.
In questa grande visione, spicca con evidenza la grande disillusione di Domenico, personaggio che non a caso sopravvive ai due amici, entrambi uccisi ed entrambi “perdenti” nel triste gioco della lotta politica.
La disillusione di Domenico è del resto ben motivata dalla similarità dei comportamenti dei nemici borbonici e austriaci e degli “amici” piemontesi, che vengono mostrati dall’autore nel compimento di analoghi comportamenti repressivi nei confronti dell’inerme popolazione locale, come a dire che, cambiando pur l’ordine delle dominazioni (straniere o italiche che siano), il risultato finale di sopraffazione non cambia.
La sequenza della morte di Saverio, personaggio legato a quello di Salvatore (suo padre nella vicenda) ed egualmente “sconfitto”, è a questo riguardo molto indicativa: egli infatti viene ucciso, non dal nemico borbonico, ma dalla repressione dei piemontesi (e, anzi, l’episodio della sua morte, con la fucilazione a “tradimento” dei bersaglieri Savoia, nonostante l’armistizio e il mancato processo di un legittimo tribunale acuisce la sensazione di arbitraria malvagità delle azioni repressive dei “nuovi dominatori”).
La finale disillusione di Domenico, poi, è ben motivata dalla consapevolezza del prezzo che la neonata nazione ha dovuto pagare, nonostante le numerose morti.
La nuova Italia, è sì unita, ma tradita nelle fondamenta ideologiche profonde che avevano ispirato le insurrezioni.
Non a caso l’ultima sequenza del film mostra, in un parlamento vuoto, l’ombra di Francesco Crispi durante il famoso e storico discorso con il quale l’ex rivoluzionario democratico mostrerà di aver cambiato del tutto (con l’opportunismo che coinvolge la maggior parte degli esponenti della nuova classe politica) il suo credo ideologico: «noi unitari siamo monarchici e sosterremo la monarchia meglio dei monarchici antichi».
E l’amara riflessione finale di Domenico chiude il film, dando quindi un significato profondo al titolo «Noi credevamo», che mostra come l’Unità italiana sia stata raggiunta tradendo però tutto quel complesso di ideali, speranze e convinzioni che avevano animato, nel profondo, i protagonisti dei moti risorgimentali.
Il film di Martone si caratterizza, come un ottimo film di vicenda dalla buona struttura e dall’eccellente realizzazione artistica, che non fa pesare le oltre tre ore di visione, supportato anche da un cast di attori – quasi tutti ben diretti – che aggiungono valore a un’opera che, per l’impegno complessivo, meriterebbe di sicuro un riconoscimento (di qualsiasi tipo) in questa mostra del cinema.

“Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”

Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2010

 

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio di Benedetto XVI per la 43ª Giornata Mondiale della Pace, che si celebrerà il 1° gennaio 2010 sul tema: “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”.


Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato

1. IN OCCASIONE DELL’INIZIO DEL NUOVO ANNO, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero. Per questa XLIII Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché « la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio»1 e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale – guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani –, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza – se non addirittura dall’abuso – nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi « quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino».2

2. Nell’ Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future. Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità.3 Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo. Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare: « Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? » (Sal 8,4-5). Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che « move il sole e l’altre stelle».4

3. Vent’anni or sono, il Papa Giovanni Paolo II, dedicando il Messaggio della Giornata Mondiale della Pace al tema Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, richiamava l’attenzione sulla relazione che noi, in quanto creature di Dio, abbiamo con l’universo che ci circonda. « Si avverte ai nostri giorni – scriveva – la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata… anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura ». E aggiungeva che la coscienza ecologica « non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi, trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete».5 Già altri miei Predecessori avevano fatto riferimento alla relazione esistente tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, Paolo VI ebbe a sottolineare che « attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, (l’uomo) rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione ». Ed aggiunse che in tal caso « non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana”.6

4. Pur evitando di entrare nel merito di specifiche soluzioni tecniche, la Chiesa, « esperta in umanità », si premura di richiamare con forza l’attenzione sulla relazione tra il Creatore, l’essere umano e il creato. Nel 1990, Giovanni Paolo II parlava di « crisi ecologica » e, rilevando come questa avesse un carattere prevalentemente etico, indicava l’« urgente necessità morale di una nuova solidarietà».7 Questo appello si fa ancora più pressante oggi, di fronte alle crescenti manifestazioni di una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione. Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali? Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti « profughi ambientali »: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come non reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali? Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo.

5. Va, tuttavia, considerato che la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato. Saggio è, pertanto, operare una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo.8 L’umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti. Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando – siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale –, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra di loro. Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini. Obbligano, in particolare, a un modo di vivere improntato alla sobrietà e alla solidarietà, con nuove regole e forme di impegno, puntando con fiducia e coraggio sulle esperienze positive compiute e rigettando con decisione quelle negative. Solo così l’attuale crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità.

6. Non è forse vero che all’origine di quella che, in senso cosmico, chiamiamo « natura », vi è « un disegno di amore e di verità »? Il mondo « non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso… Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà».9 Il Libro della Genesi, nelle sue pagine iniziali, ci riporta al progetto sapiente del cosmo, frutto del pensiero di Dio, al cui vertice si collocano l’uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza del Creatore per « riempire la terra » e « dominarla » come « amministratori » di Dio stesso (cfr Gen 1,28). L’armonia tra il Creatore, l’umanità e il creato, che la Sacra Scrittura descrive, è stata infranta dal peccato di Adamo ed Eva, dell’uomo e della donna, che hanno bramato occupare il posto di Dio, rifiutando di riconoscersi come sue creature. La conseguenza è che si è distorto anche il compito di « dominare » la terra, di « coltivarla e custodirla » e tra loro e il resto della creazione è nato un conflitto (cfr Gen 3,17-19). L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto. Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel Libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità. Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso»,10 mentre la Rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per « custodirla e coltivarla » (cfr Gen 2,15).11 Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente. E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, « piuttosto tiranneggiata che governata da lui».12 L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola.13

7. Purtroppo, si deve constatare che una moltitudine di persone, in diversi Paesi e regioni del pianeta, sperimenta crescenti difficoltà a causa della negligenza o del rifiuto, da parte di tanti, di esercitare un governo responsabile sull’ambiente. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ricordato che « Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli».14 L’eredità del creato appartiene, pertanto, all’intera umanità. Invece, l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.15 Non è difficile allora costatare che il degrado ambientale è spesso il risultato della mancanza di progetti politici lungimiranti o del perseguimento di miopi interessi economici, che si trasformano, purtroppo, in una seria minaccia per il creato. Per contrastare tale fenomeno, sulla base del fatto che « ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale »,16 è anche necessario che l’attività economica rispetti maggiormente l’ambiente. Quando ci si avvale delle risorse naturali, occorre preoccuparsi della loro salvaguardia, prevedendone anche i costi – in termini ambientali e sociali –, da valutare come una voce essenziale degli stessi costi dell’attività economica. Compete alla comunità internazionale e ai governi nazionali dare i giusti segnali per contrastare in modo efficace quelle modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose. Per proteggere l’ambiente, per tutelare le risorse e il clima occorre, da una parte, agire nel rispetto di norme ben definite anche dal punto di vista giuridico ed economico, e, dall’altra, tenere conto della solidarietà dovuta a quanti abitano le regioni più povere della terra e alle future generazioni.

8. Sembra infatti urgente la conquista di una leale solidarietà inter-generazionale. I costi derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni non possono essere a carico delle generazioni future: « Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, ch’è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere. Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una responsabilità che appartiene anche ai singoli Stati e alla Comunità internazionale».17 L’uso delle risorse naturali dovrebbe essere tale che i vantaggi immediati non comportino conseguenze negative per gli esseri viventi, umani e non umani, presenti e a venire; che la tutela della proprietà privata non ostacoli la destinazione universale dei beni;18 che l’intervento dell’uomo non comprometta la fecondità della terra, per il bene di oggi e per il bene di domani. Oltre ad una leale solidarietà inter-generazionale, va ribadita l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intra-generazionale, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e quelli altamente industrializzati: « la comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro».19 La crisi ecologica mostra l’urgenza di una solidarietà che si proietti nello spazio e nel tempo. È infatti importante riconoscere, fra le cause dell’attuale crisi ecologica, la responsabilità storica dei Paesi industrializzati. I Paesi meno sviluppati e, in particolare, quelli emergenti, non sono tuttavia esonerati dalla propria responsabilità rispetto al creato, perché il dovere di adottare gradualmente misure e politiche ambientali efficaci appartiene a tutti. Ciò potrebbe realizzarsi più facilmente se vi fossero calcoli meno interessati nell’assistenza, nel trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie più pulite.

9. È indubbio che uno dei principali nodi da affrontare, da parte della comunità internazionale, è quello delle risorse energetiche, individuando strategie condivise e sostenibili per soddisfare i bisogni di energia della presente generazione e di quelle future. A tale scopo, è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti improntati alla sobrietà, diminuendo il proprio fabbisogno di energia e migliorando le condizioni del suo utilizzo. Al tempo stesso, occorre promuovere la ricerca e l’applicazione di energie di minore impatto ambientale e la « ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi».20 La crisi ecologica, dunque, offre una storica opportunità per elaborare una risposta collettiva volta a convertire il modello di sviluppo globale in una direzione più rispettosa nei confronti del creato e di uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori propri della carità nella verità. Auspico, pertanto, l’adozione di un modello di sviluppo fondato sulla centralità dell’essere umano, sulla promozione e condivisione del bene comune, sulla responsabilità, sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla prudenza, virtù che indica gli atti da compiere oggi, in previsione di ciò che può accadere domani.21

10. Per guidare l’umanità verso una gestione complessivamente sostenibile dell’ambiente e delle risorse del pianeta, l’uomo è chiamato a impiegare la sua intelligenza nel campo della ricerca scientifica e tecnologica e nell’applicazione delle scoperte che da questa derivano. La « nuova solidarietà », che Giovanni Paolo II propose nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1990,2 2 e la « solidarietà globale », che io stesso ho richiamato nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2009,23 risultano essere atteggiamenti essenziali per orientare l’impegno di tutela del creato, attraverso un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale, soprattutto nel momento in cui va emergendo, in maniera sempre più evidente, la forte interrelazione che esiste tra la lotta al degrado ambientale e la promozione dello sviluppo umano integrale. Si tratta di una dinamica imprescindibile, in quanto « lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità».24 Tante sono oggi le opportunità scientifiche e i potenziali percorsi innovativi, grazie ai quali è possibile fornire soluzioni soddisfacenti ed armoniose alla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, occorre incoraggiare le ricerche volte ad individuare le modalità più efficaci per sfruttare la grande potenzialità dell’energia solare. Altrettanta attenzione va poi rivolta alla questione ormai planetaria dell’acqua ed al sistema idrogeologico globale, il cui ciclo riveste una primaria importanza per la vita sulla terra e la cui stabilità rischia di essere fortemente minacciata dai cambiamenti climatici. Vanno altresì esplorate appropriate strategie di sviluppo rurale incentrate sui piccoli coltivatori e sulle loro famiglie, come pure occorre approntare idonee politiche per la gestione delle foreste, per lo smaltimento dei rifiuti, per la valorizzazione delle sinergie esistenti tra il contrasto ai cambiamenti climatici e la lotta alla povertà. Occorrono politiche nazionali ambiziose, completate da un necessario impegno internazionale che apporterà importanti benefici soprattutto nel medio e lungo termine. È necessario, insomma, uscire dalla logica del mero consumo per promuovere forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti. La questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune. D’altronde, come ho già avuto modo di ricordare, « la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo; esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di «coltivare e custodire la terra» (cfr Gen 2,15), che Dio ha affidato all’uomo, e va orientata a rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio».25

11. Appare sempre più chiaramente che il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi, gli stili di vita e i modelli di consumo e di produzione attualmente dominanti, spesso insostenibili dal punto di vista sociale, ambientale e finanche economico. Si rende ormai indispensabile un effettivo cambiamento di mentalità che induca tutti ad adottare nuovi stili di vita « nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti».26 Sempre più si deve educare a costruire la pace a partire dalle scelte di ampio raggio a livello personale, familiare, comunitario e politico. Tutti siamo responsabili della protezione e della cura del creato. Tale responsabilità non conosce frontiere. Secondo il principio di sussidiarietà, è importante che ciascuno si impegni al livello che gli corrisponde, operando affinché venga superata la prevalenza degli interessi particolari. Un ruolo di sensibilizzazione e di formazione spetta in particolare ai vari soggetti della società civile e alle Organizzazioni non-governative, che si prodigano con determinazione e generosità per la diffusione di una responsabilità ecologica, che dovrebbe essere sempre più ancorata al rispetto dell’ « ecologia umana ». Occorre, inoltre, richiamare la responsabilità dei media in tale ambito, proponendo modelli positivi a cui ispirarsi. Occuparsi dell’ambiente richiede, cioè, una visione larga e globale del mondo; uno sforzo comune e responsabile per passare da una logica centrata sull’egoistico interesse nazionalistico ad una visione che abbracci sempre le necessità di tutti i popoli. Non si può rimanere indifferenti a ciò che accade intorno a noi, perché il deterioramento di qualsiasi parte del pianeta ricadrebbe su tutti. Le relazioni tra persone, gruppi sociali e Stati, come quelle tra uomo e ambiente, sono chiamate ad assumere lo stile del rispetto e della « carità nella verità ». In tale ampio contesto, è quanto mai auspicabile che trovino efficacia e corrispondenza gli sforzi della comunità internazionale volti ad ottenere un progressivo disarmo ed un mondo privo di armi nucleari, la cui sola presenza minaccia la vita del pianeta e il processo di sviluppo integrale dell’umanità presente e di quella futura.

12. La Chiesa ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso. Il degrado della natura è, infatti, strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana, per cui « quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio”.27 Non si può domandare ai giovani di rispettare l’ambiente, se non vengono aiutati in famiglia e nella società a rispettare se stessi: il libro della natura è unico, sia sul versante dell’ambiente come su quello dell’etica personale, familiare e sociale.28 I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. Volentieri, pertanto, incoraggio l’educazione ad una responsabilità ecologica, che, come ho indicato nell’Enciclica Caritas in veritate, salvaguardi un’autentica « ecologia umana » e, quindi, affermi con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura.29 Occorre salvaguardare il patrimonio umano della società. Questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato.

13. Non va infine dimenticato il fatto, altamente indicativo, che tanti trovano tranquillità e pace, si sentono rinnovati e rinvigoriti quando sono a stretto contatto con la bellezza e l’armonia della natura. Vi è pertanto una sorta di reciprocità: nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi. D’altra parte, una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della « dignità » di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, ad impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della « grammatica » che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare. Infatti, anche la posizione contraria di assolutizzazione della tecnica e del potere umano, finisce per essere un grave attentato non solo alla natura, ma anche alla stessa dignità umana.30

14. Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. La ricerca della pace da parte di tutti gli uomini di buona volontà sarà senz’altro facilitata dal comune riconoscimento del rapporto inscindibile che esiste tra Dio, gli esseri umani e l’intero creato. Illuminati dalla divina Rivelazione e seguendo la Tradizione della Chiesa, i cristiani offrono il proprio apporto. Essi considerano il cosmo e le sue meraviglie alla luce dell’opera creatrice del Padre e redentrice di Cristo, che, con la sua morte e risurrezione, ha riconciliato con Dio « sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli » (Col 1,20). Il Cristo, crocifisso e risorto, ha fatto dono all’umanità del suo Spirito santificatore, che guida il cammino della storia, in attesa del giorno in cui, con il ritorno glorioso del Signore, verranno inaugurati « nuovi cieli e una terra nuova » (2 Pt 3,13), in cui abiteranno per sempre la giustizia e la pace. Proteggere l’ambiente naturale per costruire un mondo di pace è, pertanto, dovere di ogni persona. Ecco una sfida urgente da affrontare con rinnovato e corale impegno; ecco una provvidenziale opportunità per consegnare alle nuove generazioni la prospettiva di un futuro migliore per tutti. Ne siano consapevoli i responsabili delle nazioni e quanti, ad ogni livello, hanno a cuore le sorti dell’umanità: la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! Per questo, invito tutti i credenti ad elevare la loro fervida preghiera a Dio, onnipotente Creatore e Padre misericordioso, affinché nel cuore di ogni uomo e di ogni donna risuoni, sia accolto e vissuto il pressante appello: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2009

BENEDICTUS PP. XVI

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1 Catechismo della Chiesa Cattolica, 198.

2 BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7.

3 Cfr n. 48.

4 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, 145.

5 Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 1.

6 Lett. ap. Octogesima adveniens, 21.

7 Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 10.

8 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 32.

9 Catechismo della Chiesa Cattolica, 295.

10 ERACLITO DI EFESO (535 a.C. ca – 475 a.C. ca), Frammento 22B124, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526.

11 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 48.

12 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 37.

13 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 50.

14 Cost. Past. Gaudium et spes, 69.

15 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 34.

16 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 37.

17 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 467; cfr PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, 17.

18 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 30-31.43.

19 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 49.

20 Ibid.

21 Cfr SAN TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 49,5.

22 Cfr n. 9.

23 Cfr n. 8.

24 PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, 43.

25 Lett. enc. Caritas in veritate, 69.

26 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 36.

27 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 51.

28 Cfr ibid., 15.51.

29 Cfr ibid., 28.51.61: GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 38.39.

30 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 70.

 

 

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 15 dicembre 2009 –