Dio diviene uomo per rendere Adamo Dio

La festa dell’Annunciazione della santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria è una delle poche feste che troviamo in quaresima nella tradizione bizantina.
Della festa abbiamo testimonianze precise a Costantinopoli attorno al 530, e anche Romano il Melode le dedica nel vi secolo un kontàkion.
Allo sviluppo della festa contribuirono le omelie antiariane che sottolineano, accanto all’umanità di Cristo, anche la sua divinità eternamente sussistente in Dio, e l’omiletica siriana, che sottolinea con forza il parallelo tra Eva e Maria.
A Roma la festa fu introdotta da Papa Sergio i (687-701), di origine siriaca, con una celebrazione liturgica a Santa Maria Maggiore e una processione.
Sin dall’inizio la festa fu celebrata il 25 marzo, sempre nel periodo quaresimale, un tempo dunque che esclude qualsiasi solennità.
Nel 692 il quarto concilio di Costantinopoli prescrisse però di celebrare con tutta solennità la festa, e così nelle Chiese bizantine si sviluppò un sistema di rubriche liturgiche che cercano di combinare l’Annunciazione con le ufficiature quaresimali e con quelle della Settimana santa.
La festa del 25 marzo ha una vigilia il 24 e un dopo-festa il 26, giorno in cui si celebra la memoria dell’arcangelo Gabriele.
Infatti, molto spesso le grandi feste nella tradizione bizantina hanno, il giorno successivo alla festa, la celebrazione del personaggio di cui Dio si serve per portare a termine il suo mistero di salvezza.
La festa ha come tema portante l’annuncio dell’Incarnazione del Verbo di Dio e la gioia che ne scaturisce.
In molti dei tropari ricorre quasi come un ritornello l’esortazione “gioisci”: si tratta di una gioia che non ha niente di superficiale, bensì nasce dalla consapevolezza della salvezza che ci viene data in Cristo, in una festa che cerca di coinvolgere tutta la creazione nella lode e nella contemplazione del mistero celebrato.
I tropari sono un intreccio di citazioni bibliche, soprattutto veterotestamentarie, profezie che annunciano il Cristo e che la tradizione patristica ha letto sempre in chiave cristologica.
Questa stessa accentuazione cristologica è già in tutti i titoli dati a Maria, legati al mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio e della divina maternità di Maria: “Gioisci, terra non seminata; gioisci, roveto incombusto; gioisci abisso imperscrutabile; gioisci, ponte che fa passare ai cieli e scala elevata contemplata da Giacobbe; gioisci, divina urna della manna; gioisci, liberazione dalla maledizione; gioisci, ritorno di Adamo dall’esilio: il Signore è con te”.
Un altro tema che torna nei testi liturgici è l’accostamento di meraviglia e dubbio in Maria; meraviglia di fronte a quello che le viene annunciato, dubbio non tanto di fronte a quello che dovrà avverarsi, bensì di non essere di nuovo ingannata come Eva da qualcuno che annuncia grandi cose (“sarete come Dio”).
Un altro accostamento di meraviglia e stupore è applicato dalla liturgia anche all’arcangelo di fronte al contenuto dell’annuncio, con una serie di affermazioni cristologicamente contrastanti, molto simili ai temi degli Inni di sant’Efrem il Siro: “L’inafferrabile che è nel più alto dei cieli, nasce da una vergine! Colui che ha il cielo per trono e la terra come sgabello si rinchiude nel grembo di una donna! Colui che i serafini dalle sei ali non possono fissare, si compiace di incarnarsi da lei.
Colui che qui è presente è il Verbo di Dio”.
Le letture del vespro sono prese dall’Antico Testamento, pericopi che già tutta la tradizione patristica di oriente e occidente legge in chiave cristologica: la scala di Giacobbe (Genesi, 28, 10-17); la porta chiusa da dove passa soltanto il Signore (Ezechiele, 43, 27 – 44, 4); la casa costruita dalla sapienza di Dio (Proverbi, 9, 1-11).
Il tropario della festa riassume in modo breve e chiaro il tema di fondo della celebrazione: “Oggi è il principio della nostra salvezza e la manifestazione del mistero nascosto da secoli: il Figlio di Dio diviene Figlio della Vergine, e Gabriele porta la buona novella della grazia.
Con lui dunque acclamiamo alla Vergine: Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te”.
Nell’ufficiatura del mattutino uno dei suoi testi è di un autore bizantino, Teodoro Graptos (778-845), vissuto in piena controversia iconoclasta.
L’opera è un acrostico, e si svolge servendosi di un genere letterario che già Efrem usa spesso, cioè quello del dialogo o disputa tra due personaggi – qui tra l’arcangelo e la Madre di Dio – a strofe alterne.
L’autore riprende il tema accennato già al vespro, la meraviglia dello stesso arcangelo per quello che deve annunciare, e lo stupore e la paura della Vergine, paura di essere ingannata di nuovo come Eva.
L’ultimo dei tropari del mattutino riassume il mistero della nostra salvezza, già manifestato nei vangeli e nella tradizione patristica: “Il mistero che è dall’eternità è oggi rivelato, e il Figlio di Dio diviene figlio dell’uomo, affinché, assumendo ciò che è inferiore, possa comunicarmi ciò che è superiore; Dio diviene uomo per rendere Adamo Dio”.
Nella Divina liturgia del giorno 25 si leggono due brani, dalla lettera agli Ebrei (2, 11-18) e dal vangelo di Luca (1, 24-38).
“E l’angelo andò via da lei”.
Questo versetto che chiude la pericope dell’Annunciazione mi fa sempre impressione.
Il Signore ci annuncia la sua buona novella e poi ci lascia? No, non è l’abbandono né la solitudine che dobbiamo leggere nel vangelo di Luca, ma il fatto che nella nostra vita cristiana siamo chiamati a dare una risposta, con la nostra responsabilità e maturità, umana e cristiana.
(©L’Osservatore Romano – 25 marzo 2009)

«Una religione sana rifiuta la violenza»

Cari amici, lieto dell’occasione che mi è data di incontrare rappresentanti della comunità musulmana in Camerun, esprimo il mio cordiale ringraziamento al Signor Amadou Bello per le gentili parole rivoltemi in vostro nome.
Il nostro incontro è un segno eloquente del desiderio che condividiamo con tutti gli uomini di buona volontà – in Camerun, nell’intera Africa e in tutto il mondo – di cercare occasioni per scambiare idee su come la religione rechi un contributo essenziale alla nostra comprensione della cultura e del mondo ed alla coesistenza pacifica di tutti i membri della famiglia umana.
Iniziative in Camerun come l’Association Camerounaise pour le Dialogue Interreligieux mostrano come tale dialogo accresca la comprensione vicendevole e sostenga la formazione di un ordine politico stabile e giusto.
Il Camerun è la Patria di migliaia di cristiani e di musulmani, che spesso vivono, lavorano e praticano la loro fede nello stesso ambiente.
I seguaci tanto dell’una quanto dell’altra religione credono in un Dio unico e misericordioso, che nell’ultimo giorno giudicherà l’umanità (cfr.
Lumen gentium, 16).
Insieme essi offrono testimonianza dei valori fondamentali della famiglia, della responsabilità sociale, dell’obbedienza alla legge di Dio e dell’amore verso i malati e i sofferenti.
Plasmando la loro vita secondo queste virtù e insegnandole ai giovani, cristiani e musulmani non solo mostrano come favoriscono il pieno sviluppo della persona umana, ma anche come stringono legami di solidarietà con i loro vicini e promuovono il bene comune.
Amici, io credo che oggi un compito particolarmente urgente della religione è di rendere manifesto il vasto potenziale della ragione umana, che è essa stessa un dono di Dio ed è elevata mediante la rivelazione e la fede.
Credere in Dio, lungi dal pregiudicare la nostra capacità di comprendere noi stessi e il mondo, la dilata.
Lungi dal metterci contro il mondo, ci impegna per esso.
Siamo chiamati ad aiutare gli altri nello scoprire le tracce discrete e la presenza misteriosa di Dio nel mondo, che Egli ha creato in modo meraviglioso e sostiene con il suo ineffabile amore che abbraccia tutto.
Anche se la sua gloria infinita non può mai essere direttamente afferrata in questa vita dalla nostra mente finita, possiamo tuttavia raccoglierne barlumi nella bellezza che ci circonda.
Se gli uomini e le donne consentono all’ordine magnifico del mondo e allo splendore della dignità umana di illuminare la loro mente, essi possono scoprire che ciò che è “ragionevole” va ben oltre ciò che la matematica può calcolare, la logica può dedurre e gli esperimenti scientifici possono dimostrare; il “ragionevole” include anche la bontà e l’intrinseca attrattiva di un vivere onesto e secondo l’etica, manifestato a noi mediante lo stesso linguaggio della creazione.
Questa visione ci induce a cercare tutto ciò che è retto e giusto, ad uscire dall’ambito ristretto del nostro interesse egoistico e ad agire per il bene degli altri.
In questo modo una religione genuina allarga l’orizzonte della comprensione umana e sta alla base di ogni autentica cultura umana.
Essa rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo: non solo per principi di fede, ma anche in base alla retta ragione.
In realtà, religione e ragione si sostengono a vicenda, dal momento che la religione è purificata e strutturata dalla ragione e il pieno potenziale della ragione viene liberato mediante la rivelazione e la fede.
Per questo vi incoraggio, cari amici musulmani, a penetrare la società con i valori che emergono da questa prospettiva ed accrescono la cultura umana, così come insieme lavoriamo per edificare una civiltà dell’amore.
Che l’entusiastica cooperazione tra musulmani, cattolici ed altri cristiani in Camerun sia per le altre nazioni africane un faro luminoso sul potenziale enorme di un impegno interreligioso per la pace, la giustizia e il bene comune! Con questi sentimenti esprimo ancora una volta la mia gratitudine per questa promettente opportunità di incontrarvi durante la mia visita in Camerun.
Ringrazio Dio onnipotente per le benedizioni che Egli ha concesso a voi e ai vostri concittadini e prego affinché i legami che uniscono cristiani e musulmani nella loro profonda venerazione dell’unico Dio continuino a rafforzarsi così che essi diventino un riflesso più chiaro della saggezza dell’Onnipotente che illumina i cuori dell’intera umanità.
(©L’Osservatore Romano – 20-21 marzo 2009) Una religione genuina «rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo, non solo per principi di fede, ma anche in base alla retta ragione».
Lo ha detto PapaBenedetto XVI alla nunziatura di Yaoundé, in Camerun, dove ha incontrato i rappresentanti dei musulmani del Paese africano.
Il colloquio si è svolto a porte chiuse.
All’indomani delle polemiche scaturite dalle parole dello stesso pontefice, che aveva giudicato inutile l’uso dei preservativi nella lotta all’Aids, Ratzinger affronta dunque il tema dell’ecumenismo.
CONVIVENZA POSSIBILE In Camerun l’Islam rappresenta circa il 22% di una popolazione di 17 milioni di persone e intrattiene buoni rapporti con le altre componenti religiose, a partire dai cattolici (il 27%).
Benedetto XVI ha lodato questo esempio di convivenza sottolineando che in questa nazione cristiani e musulmani «offrono testimonianza dei valori fondamentali della famiglia, della responsabilità sociale, dell’obbedienza alla legge di Dio, e dell’amore verso i malati e i sofferenti».
FEDE E RAGIONE Il Papa ha ripreso però anche il discorso sulla ragionevolezza delle religioni, un tema che aveva affrontato nel suo controverso discorso a Ratisbona.
«Oggi – ha detto ai musulmani – un compito particolarmente urgente della religione è di rendere manifesto il vasto potenziale della ragione umana, che è essa stessa un dono di Dio ed è elevata mediante la rivelazione e la fede».
Benedetto XVI ha rimarcato che «in realtà religione e ragione si sostengono a vicenda, dal momento che la religione è purificata e strutturata dalla ragione e il pieno potenziale della ragione viene liberato mediante la rivelazione e la fede».
«In questo modo – ha concluso – una religione genuina allarga l’orizzonte della comprensione umana e sta alla base di ogni autentica cultura umana.
Essa rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo».
Corriere, 19 marzo ’09

Il segreto del tempio di Raffaello

In occasione del bicentenario della Pinacoteca di Brera il 19 marzo viene presentato il restauro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello.
Sulla storia e le caratteristiche del dipinto pubblichiamo stralci di un testo scritto nel 1992 da uno degli autori del catalogo (edizioni Electa) che illustra l’intervento di recupero del capolavoro dell’urbinate.
Brera rappresenta con punte assai alte la cultura di quella Urbino che nel 1504 Raffaello lasciava preceduto da una lettera di Giovanna Feltria della Rovere a Pier Soderini, gonfaloniere di Firenze.
Urbino era stata il grande laboratorio di sperimentazione e ricerca che riuniva pittura e architettura.
Nella pala dello Sposalizio, non solo il tempio s’impone per la sua superba invenzione architettonica, ma irradia un’energia che costringe tutti i volumi – persone singole o gruppi – a disporsi in uno spazio razionale.
E ci rendiamo conto di come il colore squillante dell’edificio, quasi evocazione d’un fondo oro, che il restauro ha ora messo in piena luce, non abbia meno potenza della sapientissima costruzione prospettica.
Non ci si stancherà mai di confrontare il dipinto di Brera con il suo modello, ovvero con la pala del Perugino dello stesso tema, già a Perugia e trasferita, col déplacement napoleonico, a Caen.
Sembra anzi che una distanza di decenni separi le due opere, mentre, sappiamo, il Perugino non aveva ancora terminato la sua nel dicembre del 1503.
È allora impressionante la rivoluzione che compie Raffaello rispetto allo sfondo architettonico, già di per sé innovativo, immaginato dal Perugino.
Il fatto è che nel dipinto di Brera il tempio non è più fondale, ma volume collocato nello stesso spazio dei protagonisti.
Tanto che solo a un’attenta osservazione ci accorgiamo che le lastre che pavimentano la piazza non partono a raggiera dai gradini del tempio, ma corrono parallele in prospettiva.
Raffaello non è intervenuto soltanto sulla disposizione delle figure rispetto ad uno spazio architettonicamente definito; ha insistito sull’avvenimento, e ce ne ha fatti testimoni.
È emozionante osservare come, dall’esempio ancora non compiuto, il giovane maestro estragga figure che vi apparivano secondarie, portandole alla ribalta e traendone una forza plastica impensata.
Si veda la figura del pretendente deluso che spezza la verga, dal Perugino posta verso il fondo e distante dal centro della storia e inspiegabilmente accompagnata da un personaggio seminudo – reminiscenza, forse, di altre composizioni classicheggianti dello stesso Perugino.
Raffaello porta il pretendente in primo piano, gli dà il rilievo e il peso d’una scultura e fa sì che la sua ombra sia proiettata in diagonale sino a fondersi con le ombre di Giuseppe e del sacerdote.
Cogliamo qui la sicurezza con cui Raffaello punta dritto al nucleo narrativo della storia.
Poiché ora davvero nulla può distrarci dal raccoglimento di quella dextrarum junctio.
Raffaello lo portò dunque in primo piano e lo ritrasse speculare rispetto al modello.
Se era il modello…
Infatti è dimostrato come in quegli anni vi fosse uno scambio di cartoni tra il Perugino e Raffaello e dunque non è affatto improbabile che la figuretta dipinta dal Perugino non sia che la versione ridotta, la flebile eco, di una figura molto più elaborata e forte di Raffaello.
Konrad Oberhuber ha giustamente scritto di “limpidezza statuaria delle figure” nello Sposalizio di Brera.
E notiamo anche, nel volto del giovane, una concentrazione che ci rammenta una delle creazioni più famose dell’antichità, lo Spinario trasferito dal Laterano in Campidoglio.
L’aveva già visto, Raffaello? È la stessa domanda che ci si pone per il destriero posto lontano, oltre il tempio, sulla sinistra della pala di Brera – cui il restauro dà ora la giusta evidenza -, o per la comparsa della torre delle Milizie sullo sfondo della piccola tavola con san Giorgio che Raffaello dipinse poco dopo il 1504, in occasione della nomina di Guidubaldo di Montefeltro a cavaliere dell’Ordine della giarrettiera.
Gli argomenti addotti da John Shearman provano, al di là di ogni possibile dubbio, il passaggio di Raffaello a Roma intorno al 1502-1503, all’epoca della sua collaborazione con Pinturicchio per gli affreschi nella biblioteca Piccolomini a Siena.
Sicuramente Raffaello visitava Roma con ricordi precisi di quanto aveva appreso a Urbino, specie da Francesco di Giorgio.
Il tempio a pianta centrale dello Sposalizio è infatti in debito con le invenzioni di Francesco di Giorgio.
Ma a Roma incontrava un altro urbinate, un concittadino con una lunga esperienza lombarda, Bramante.
Le volute che ingentiliscono i contrafforti del tempio riprendono le ricerche di Bramante sul duomo di Pavia e forse sono in debito con altri incontri con architetti di tradizione bramantesca, che poterono avvenire nella stessa Città di Castello.
Ma è comunque sia inevitabile pensare a un incontro di grande significato nello studio di Bramante a Roma.
E forse il colloquio con Bramante avrà persuaso Raffaello a costruire un modellino tridimensionale del tempio.
Se è impensabile, il tempio, senza un previo studio in pianta, così certamente senza un modello tridimensionale Raffaello non avrebbe studiare il gioco delle volte nel portico, né quello delle luci sui ricci dei contrafforti.
Sulla sinistra la luce li colpisce con tale forza da farli apparire di metallo battuto, mentre man mano che si procede verso sinistra si smorza, attraversa una zona intermedia di oro caldo per finire dove i ricci si profilano scuri, plumbei, sul cielo vespertino.
Mettere per prima cosa un volume in pianta era un’operazione ben nota a Raffaello, poiché l’aveva raccomandata Piero della Francesca nel trattato sulla prospettiva conservato nella biblioteca ducale.
E come per Piero, così per lui un’architettura dipinta doveva essere chiara e logica, funzionale e pratica.
John Shearman si pose il problema delle funzioni assegnate da Raffaello alla terrazza dell’edificio posto sullo sfondo dell’Incoronazione di Enea Silvio a poeta laureato negli affreschi della biblioteca di Siena: to smelling flowers, to drying the washing, and to beating a wife.
Anche nello Sposalizio, le azioni sono consentanee all’architettura.
Mentre il Perugino lasciava un piccolo mendicante sui gradini del tempio in rassegnata sfiducia, il mendicante di Raffaello è attivo, ha sceso le scale e si è avvicinato a un gruppo di gentiluomini.
Intanto sotto il portico sostano in tutto tre persone: due in conversazione e una che sembra accertarsi della solidità di una colonna.
L’idea di un tempio a pianta centrale, intorno a cui aveva lavorato Francesco di Giorgio, era maturata alla corte di Urbino, dove Federico di Montefeltro voleva erigere per sé un mausoleo nel cortile di Pasquino.
Nei riflessi sulla corazza di Federico, nella pala oggi a Brera, si può osservare come Piero avesse previsto quale sarebbe stato il gioco delle luci all’interno del tempietto, se questo fosse stato edificato.
Raffaello, come scrisse bene Pierluigi De Vecchi, al momento del congedo da Urbino riandava alle proprie origini.
Ma senza superbia, come accertano proprio le riflettografie.
Poiché oggi che sappiamo che il committente dello Sposalizio fu Ser Filippo di Ludovico Albizzini, sappiamo anche che la cappella Albizzini in San Francesco era dedicata a san Giuseppe e al Santo Nome di Gesù.
E allora, non a caso le riflettografie eseguite per la Soprintendenza mettono in luce i ripensamenti di Raffaello proprio sul volto di san Giuseppe.
La collocazione della cappella Albizzini nella chiesa di San Francesco appare significativa anche per l’inversione, che compie Raffaello rispetto al Perugino, delle rispettive posizioni dei due gruppi degli uomini e delle donne.
Poiché la separazione dei due sessi ha una motivazione liturgica, come già si era osservato nella presentazione del 1983, dato che il dipinto del Perugino si trovava in una cappella addossata alla facciata nel duomo di Perugia, nella navata destra, mentre la pala di Raffaello era collocata in una cappella che si affacciava sull’unica navata di San Francesco a Città di Castello.
La cappella di Perugia ospitava la reliquia dell’anello del matrimonio di Maria.
Le fedeli che entravano nella cappella, da destra, per adorare l’importante reliquia, sembravano accodarsi al gruppo delle testimoni delle nozze.
Del tutto diversa era la situazione per la pala di Città di Castello.
Come era d’uso nelle chiese francescane, i due sessi erano distribuiti nell’unica navata, ponendo gli uomini più vicini al coro dei frati e le donne più vicine all’entrata.
Di conseguenza, chi osservava il dipinto di Raffaello, trovando gli uomini a destra, li considerava dalla parte del coro.
In tutti e due i casi i pittori erano stati ben consapevoli del rapporto che le due pale avrebbero istituito con lo spazio liturgico cui erano destinate.
(©L’Osservatore Romano – 19 marzo 2009)

Il linguaggio nell’educazione religiosa

2.
Il quadro organizzativo.
Lo studio si apre con una panoramica, necessariamente rapida, sul linguaggio, la sua rilevanza nella cultura odierna, su autori e scuole che vi hanno dato rilevanza ed hanno offerto stimoli particolarmente significativi (Marchetto).
In questo quadro di insieme viene richiamata in particolare la novità della riflessione recente proprio in quegli apporti che offrono suggestioni preziose alla ricerca ermeneutica anche in ambito religioso (Freni).
Da quelle premesse muove l’analisi più specifica sul linguaggio religioso, le connotazioni che lo qualificano, le condizioni che rendono possibile l’accesso al mondo della Trascendenza: legittimano il linguaggio su Dio (Trenti).
Il tema del linguaggio viene pure verificato in un tentativo di andare oltre l’ermeneutica per salvaguardare la novità del rapporto con Dio e il primato della sua presenza; confermando forse la logica ermeneutica dal versante opposto a quello consueto (Currò).
Viene insomma esplorato l’orizzonte in cui situare il linguaggio specifico della tradizione religiosa; a cominciare da quella biblica, espressa a grandi linee nella ricchezza e varietà di apporti che offre (Bissoli).
E’ sembrato anche importante riservare almeno un cenno alla grande tradizione orientale, proposta in ciò che ha di più caratterizzante e significativo (De Souza).
E aprire infine uno squarcio sufficientemente avvertito e attento alla grande provocazione che i testi fondanti offrono a documentazione della varietà e profondità della ricerca religiosa, anche oltre la tradizione occidentale (Pajer).
Un orizzonte dunque piuttosto ambizioso, interpretativo del linguaggio religioso e della sua significatività culturale e pedagogica.
Proprio questa valenza educativa del linguaggio religioso viene sottolineata con l’ ultimo intervento di carattere esplicitamente didattico (Romio).
Corroborato da una breve appendice applicativa.
3.
L’intento Il tema del linguaggio è centrale per ogni ricerca.
Gli studi che lo hanno recentemente rinnovato offrono suggestioni straordinariamente significative per l’incontro con i grandi temi della ricerca umana, anche là dove incrocia la pista che ha da sempre qualificato la riflessione religiosa.
Dire Dio, chiamarlo per nome, è aspirazione che attraversa la ‘presunzione umana’ fin dal suo nascere alla cultura, dai primi inni vedici.
L’apporto singolare offerto dalla riflessione ermeneutica ci ha resi avvertiti di quanto dire Dio può risultare illuminante e risolutivo anche per dire uomo.
La traccia religiosa non è dunque una pausa di riposo, un’oasi felice nella corsa all’incontro con noi stessi; ne è una condizione straordinariamente rivelativa appena ci si interroghi su chi siamo e sull’approdo cui siamo incamminati.
Donde il richiamo esplicito alla sua valenza educativa, spesso richiamata in ciascuno dei contributi, esplicitamente suggerita nella parte conclusiva.
Cfr.
TRENTI Z.
( a cura ), Il linguaggio nell’educazione religiosa, Leumann, Elledici, 2008, pp.
7-8.
PS.
Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo, man mano, ampi stralci di uno studio, appena apparso in Libreria; tende a far e il punto sugli aspetti più significativi del linguaggio in ambito educativo, soprattutto giovanile.
Gli Autori intendono far opera di stimolo e di richiamo su un aspetto provocante dell’educazione religiosa attuale.
La Redazione della Rivista ringrazia per ogni indicazione, suggerimento e magari contributo che Collaboratori e Lettori vogliano farle pervenire.
1.
L’attenzione al linguaggio L’importanza che il linguaggio assume nella ricerca attuale è un fatto sorprendente, ma allo stesso tempo comprensibile; documenta la situazione tipica del nostro tempo, carico di provocazioni e fervido di novità.
Il prenderne coscienza in maniera lucida è urgenza perentoria ed avvertita.
Tanto più quando l’esperienza lascia presagire l’orma misteriosa e sollecitante della trascendenza.
Il linguaggio si porta al cuore dell’esplorazione esistenziale: si piega sulla vita, anche nella sua quotidianità, tende e a decifrarla in tutti i suoi richiami, quello religioso compreso.
Anzi la riflessione religiosa muove per lo più da interrogativi profondi e appassionanti: si sforza di darvi comprensione e risposta.
Va quindi forgiando un linguaggio singolarmente affinato e pertinente, di cui gli interventi che proponiamo offrono ampia documentazione.
Il quadro organizzativo globale dello Studio ha privilegiato la riflessione ermeneutica per la rilevanza e autorevolezza che gode nel panorama culturale odierno; dovuta anche al fatto che vi sono approdati studiosi e pensatori eminenti: hanno contribuito e contribuiscono a decifrare l’esperienza umana anche nel presagio che la rapporta alla Trascendenza.

Annuario Pontificio del 2009

Benedetto XVI ha mostrato vivo interesse per i dati illu­strati e ha ringraziato per l’omaggio tutti coloro che hanno collaborato alla nuova e­dizione dell’Annuario.
Numerose le notizie sulla vita delle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche di tutto il mon­do, contenute nel volume.
Il numero dei ve­scovi ad esempio è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è l’Oceania (+ 4,7%), seguito da Africa (+ 3,0%) e da Asia (+ 1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+ 0,8%).
Nello stesso periodo l’America regi­stra una flessione dello 0,1%, mentre il pe­so delle varie aree geografiche è rimasto so­stanzialmente invariato nel tempo, con Eu­ropa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Anche il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio piutto­sto deludente.
I preti, infatti, sono aumen­tati nel corso degli ultimi otto anni, pas­sando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo del­le varie aree geografiche al dato comples­sivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dina­mica assai sostenuta (+ 27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché staziona­ria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita nega­tivi: meno 6,8% e meno 5,5% rispettiva­mente.
In espansione pure il numero dei diaconi permanenti.
Aumentano nel 2007, di oltre il 4,1% rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi mi­gliora a ritmi sostenuti in Africa, A­sia e Oceania, dove il loro numero non raggiunge ancora il 2% del to­tale mondiale, ma anche in aree do­ve la loro presenza è quantitativa­mente più rilevante.
In America ed in Europa, dove risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0%.
Più o meno stabile, invece, il numero dei seminaristi, passato da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione dif­ferente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibi­le crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazio­ne.
Mimmo Muolo Da Avvenire 01 03 2009 I dati statistici riferiti all’anno 2007 forniscono un’analisi sintetica delle principali dinamiche riguardanti la Chiesa Cattolica nelle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche del pianeta.
Nel corso degli ultimi due anni, la presenza dei fedeli battezzati nel mondo rimane stabile attorno al 17,3% , quale risultato dell’espansione del numero dei cattolici (1,4%) a ritmo sostanzialmente assimilabile a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (1,1%).
Nel 2007, si contano poco meno di 1.147 milioni di cattolici, a fronte dei 1.131 milioni circa nel 2006.
Il numero dei vescovi nel mondo è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è quello dell’Oceania (+4,7%), seguito da Africa (+3,0%) e da Asia (+1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+0,8%).
Nello stesso periodo l’America registra un tasso di variazione di 0,1%, mentre il peso delle varie aree geografiche è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, con Europa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio di performance piuttosto deludente.
I sacerdoti, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi otto anni, passando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo delle varie aree geografiche al dato complessivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dinamica assai sostenuta (+27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché stazionaria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita negativi, del 6,8%e del 5,5%.
Il numero dei diaconi permanenti continua a mostrare una significativa dinamica evolutiva.
Aumentano, al 2007, di oltre il 4,1%, rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi migliora a ritmi sostenuti sia in Africa, Asia e Oceania, dove essi non raggiungono ancora il 2% del totale, sia in aree dove la loro presenza è quantitativamente più rilevante.
In America ed in Europa, dove al 2007 risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0% .
A livello globale, il numero dei candidati al sacerdozio è aumentato, passando da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione differente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibile crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazione, rispettivamente, del 2,1 e dell’1 per cento.
(©L’Osservatore Romano – 1 marzo 2009) È stabile nel mondo la presenza dei cattolici.
Poco meno di un miliardo e 147 milioni di persone distribuite nei cinque continenti.
Anzi, si può dire che il lo­ro numero cresce con lo stesso trend di cre­scita della popolazione mondiale, per cui i fedeli della Chiesa di Roma rappresentano il 17,3 per cento degli abitanti del pianeta.
I dati, riferiti all’anno 2007, sono contenu­ti nell’Annuario Pontificio del 2009, pre­sentato ieri al Papa dal cardinale segreta­rio di Stato Tarcisio Bertone e dal sostituto della segretaria di Stato, monsignor Fer­nando Filoni, alla presenza dei curatori del­l’opera (monsignor Vittorio Formenti ed Enrico Nenna dell’Ufficio centrale di stati­stica della Chiesa), che è stata stampata dalla Tipografia Vaticana e che sarà tra bre­ve in vendita nelle librerie.

Numeri e fede/7: L’infinito è logico? L’aritmetica dice di sì

La matematica permette di indagare con successo gli aspetti logico- razionali del­la realtà.
«Offre alla scienza il modo di scoprire, ad ogni passo, straordinarie strutture logiche nell’universo, che fanno luce su armonie inattese e mostrano le­gami profondi fra fatti e feno­meni che a volte ci sembrano del tutto estranei fra loro.
Chi crede, chi ha già fatto qualche passo nel cammino della fede, non trova contrasto fra questi ri­sultati scientifici e la propria fe­de, ma anzi un’armonica, bellis­sima consonanza.
La matemati­ca ci costringe ad alzare lo sguardo: per ogni problema ci fa cercare una logica che lo inqua­dri e ne renda conto.
E questo porta a prospettive impreviste e sempre più elevate» .
È il pensie­ro del professor Antonio Mari­no, ordinario di Analisi matema­tica all’Università di Pisa.
Mari­no si rifà a Ennio De Giorgi, uno fra i maggio­ri matemati­ci del ’ 900.
De Giorgi a­veva messo in risalto u­no degli a­spetti più sorprendenti della scienza di Pitagora e di Euclide: «… per stu­diare le cose più concrete, bisogna passare attraverso la riflessione su con­cetti che sembrano superare la nostra esperienza sensibile».
L’intervista Tramite la matematica, dun­que, la scienza ci può spiegare l’Universo? «La matematica è lo strumento logico che permette di studiare ‘ come’ si svolgono certi feno­meni.
Quando si dice che la Scienza spiega il “come” e il “perché” delle cose, bisogna sta­re attenti ai termini: in sintesi la scienza dice il “come” ma non il “perché”.
Per fare un esempio, consideriamo la forza di gravità: alla base dell’analisi scientifica classica dei fenomeni che ricon­duciamo al concetto di forza di gravità, abbiamo la legge di gra­vitazione universale e la legge fondamentale della dinamica newtoniana.
Entrambe sono formulate in termini matemati­ci, anzi Isaac Newton inventò apposta – a modo suo e in con­correnza con Pierre Simon de Laplace – gli elementi fonda­mentali di quello che chiamia­mo ‘ calcolo differenziale’, sen­za il quale le leggi della dinami­ca non possono essere espresse e direi nemmeno pensate».
Che cosa ci dice questo esem­pio? «Anzitutto il fenomeno che con­sideriamo ha una struttura logi­co- razionale che ci permette di studiarlo, così razionale da essere esprimibile solo in termini matematici.
In secondo luogo, grazie a questa analisi fisico­matematica, possiamo dire “co­me” si comportano due corpi “dotati di massa” esposti alla re­ciproca attrazione ( il Sole e la Terra o la Terra e una mela, co­me quella mitica che sarebbe caduta sulla testa di Newton).
La scienza ci dice “come”, con qua­li leggi, certi fenomeni si svolgo­no, almeno dal punto di vista che lo scienziato di volta in volta si propone.
E quelle leggi, espri­mibili solo in formule logico­matematiche, permettono alla scienza di svolgere un suo com­pito essenziale: fare previsioni, a volte deterministiche a volte solo probabilistiche.
In questo senso diciamo che la scienza “spiega”».
Ed è sufficiente? «La scienza getta sguardi lumi­nosi sull’universo.
A volte è in grado di ricondurre tante leggi particolari ad una più semplice legge generale.
E questo è un al­tro bellissimo scorcio sulla ra­zionalità del creato.
Ma il pro­blema del vero “perché” resta: perché Terra e Sole si attraggo­no? Cioè, perché esiste quella legge fisica? Perché esistono le leggi fisiche? O se si vuole: per­ché è possibile organizzare parti della nostra conoscenza in for­mule logiche senza le quali gli oggetti stessi non sono nemme­no concepibili? Questa doman­da è filosofica e non ammette ri­sposte scientifiche, non nel sen­so rigoroso della scienza di oggi.
Tanto meno trova risposte defi­nitive sul piano strettamente lo­gico perché ogni sistema logico parte da assiomi “ragionevoli” ma non dimostrati.
La risposta dipende della proprie inclina­zioni.
Si può ad esempio dire che quella razionalità la inven­tiamo noi ma non c’è davvero, o altre cose, ma non si tratta di af­fermazioni scientifiche.
Qualcu­no dice che è inutile porsi do­mande alle quali non è possibile rispondere».
E come risponde chi crede? «Trova completa armonia fra la propria fede e il fatto che la mente umana possa cogliere la razionalità nel creato, dato che li pensa entrambi frutto di quello che potremmo chiamare il pen­siero creatore di Dio.
Direi che in questo universo logico sem­bra di scorgere un aspetto del Logos che pervade il creato, qualcosa dell’intelligenza del linguaggio, del Verbo: quell’ar­monia logica che si scopre nello studio di un problema e condu­ce poi essa stessa a fare nuove congetture e nuove scoperte.
Ma mi sento di dire che tutti gli stu­diosi, di qualunque credo o cul­tura, sono accomunati dalla me­raviglia per l’orizzonte scientifi­co che loro si prospetta, e avver­tono il senso di una comune im­presa.
Nell’ambito scientifico non trovano posto contrapposi­zioni filosofiche o religiose».
La matematica fa uso del con­cetto di infinito nella pratica quotidiana.
Come le riesce pos­sibile? «La matematica fa un uso quasi costante dell’insieme infinito dei numeri.
Il calcolo differen­ziale e il calcolo integrale ( il “calcolo infinitesimale”) sono fondati sull’intero insieme infi­nito dei numeri.
Ora gli studi sull’infinito matematico hanno portato a scoperte assai sor­prendenti, che sembrano con­trastare il senso comune, fra i quali un incredibile risultato: in parole assai grossolane, quale che sia il nostro progresso, l’in­sieme infinito dei numeri natu­rali ( 0,1,2, …
) mantiene e man­terrà sempre qualcosa che non possiamo compiutamente e­sprimere in modo formale.
Ep­pure la matematica si fonda sul­l’uso di questo infinito».
È questa la risposta all’enigma? «La risposta è solo una ragione­vole fiducia.
In questo campo come in tutta la scienza.
Ogni studioso compie un atto di fidu­cia a priori: egli studia un qual­che aspetto dell’universo, fidan­do in un’organizzazione razio­nale della natura, in un suo mo­do di essere esprimibile con del­le leggi, e anche nutrendo fidu­cia nella capacità di conoscere dell’uomo.
È un altro elemento di un comune percorso, nel qua­le sono coinvolte non solo le qualità strettamente logico- ra­zionali dello studioso, ma altre, forse tutte, le facoltà del suo es­sere persona pensante».
di Luigi Dell’Aglio

“Cristo nostra Pasqua”

  Pubblicato il sussidio liturgico-pastorale per il periodo di Quaresima-Pasqua 2009 degli Uffici e Servizi pastorali e degli organismi collegati della CEI.
Il titolo è “Cristo nostra Pasqua” (1Cor 5,7).
Il sussidio, edito dalla San Paolo, è disponibile in tutte le librerie cattoliche e si apre con la presentazione di S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI.
“Anno dopo anno, il cammino quaresimale viene a chiederci di rivolgere il nostro pensiero a ciò che è davvero essenziale – spiega il Segretario generale della CEI -.
Ecco quindi l’invito alla preghiera e alla carità, l’appello alla conversione e al digiuno dalle cose che appesantiscono il nostro procedere.
Ma tutto ciò è la vita, non la meta.
L’orizzonte, che rende lieto anche un tempo di purificazione qual è la Quaresima, è tutto nelle parole di San Paolo messe nel titolo del sussidio”.
Proprio l’apostolo delle genti, del quale si celebra il bimillenario della nascita ha messo al centro della sua predicazione apostolica il mistero di passione, morte e risurrezione del Signore Gesù, “mistero sul quale si incentra la riflessione del credente particolarmente nei Tempi liturgici di Quaresima e Pasqua – spiega don Domenico Falco, direttore dell’Ufficio liturgico nazionale -.
Presentandosi alla comunità di Corinto, San Paolo afferma di non sapere altro in mezzo a loro “se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso” (1Cor 2,2), anche se la sua educazione farisaica e la sua cultura ellenistica lo rendono ben consapevole che la predicazione della croce “è scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”(1Cor 1,23)”.
Scopo del Sussidio è offrire alle comunità cristiane (particolarmente ai parroci e ai loro diretti collaboratori) alcune indicazioni pastorali per vivere questo tempo forte dell’anno liturgico, con un riferimento anche all’Anno Paolino indetto dal Santo Padre.
Come già dallo scorso anno, la diffusione del Sussidio è stata affidata alla Periodici San Paolo.
La stessa Casa Editrice si è già preoccupata di inviare a tutti i parroci una comunicazione, dando indicazioni su eventuali prenotazioni di copie.
Il numero verde indicato per eventuali prenotazioni presso la Periodici San Paolo è 800.509645.
Allo stesso tempo, ci sembra utile informare che anche le Suore Pie Discepole hanno preparato una serie di posters per il tempo di Quaresima-Pasqua, corredato di sussidio.
Tra i contenuti del sussidio anche “la preghiera intorno alla mensa” e la testimonianza (preparata dalla Caritas Italiana).

Tornare al Concilio! A quello di Calcedonia del 451

Il testo che segue non è una recensione del libro “Chi ha paura del Vaticano II?”.
Prende però spunto dalla sua pubblicazione per esporre – nella forma di un dialogo – le questioni che la Chiesa di oggi si trova ad affrontare.
Come si vedrà, sono questioni di importanza capitale, che arrivano a toccare le fondamenta del Credo cristiano.
Questioni alle quali hanno dato risposta non solo il Vaticano II ma prima di esso i Concili cristologici dei primi secoli, di Nicea, di Efeso, di Calcedonia.
L’autore, Francesco Arzillo, 49 anni, romano, è magistrato amministrativo di rara competenza in filosofia e teologia.
Breve dialogo sul Concilio, tra un maestro e un allievo di Francesco Arzillo Il maestro (M.) è un professore di teologia sessantenne, moderatamente progressista, disposto a dialogare con tutti; si innervosisce solo con chi appare poco propenso a valorizzare appieno il Concilio della sua giovinezza, che gli ricorda, tra l’altro, i tumultuosi anni del seminario.
L’allievo (A.) è più giovane e non è un chierico; è un po’ irriverente, mai però verso il magistero ecclesiale; molti lo considerano un ultraconservatore; ma anche i tradizionalisti lo criticano perché consulta – anche se con cautela – gli scritti teologici di Henri de Lubac e difende sempre Giovanni XXIII e Paolo VI.
––––– M.
– Ciao! Sempre con un libro in mano.
Vediamo un po’ il tuo ultimo acquisto.
A.
– Eccolo: “Chi ha paura del Vaticano II?”, a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri.
M.
– Mi sorprendi.
Leggi Melloni e i teologi cattolico-progressisti da te sempre criticati.
Ho capito: il titolo del libro ha fatto leva sul tuo senso di colpa e vuoi espiare.
A.
– Maestro, vedo che non hai perso l’abitudine di sovrapporre la psicoanalisi alla teologia.
Io sensi di colpa non ne ho, almeno su questo punto.
Tu sai che ho sempre accettato con tutto il cuore il Vaticano II.
Come si può parlare oggi della Chiesa senza la “Lumen gentium”? O della Rivelazione divina senza la “Dei Verbum”? O della liturgia senza la “Sacrosanctum Concilium”? M.
– Allora dov’è il problema? A.
– Il problema è in questa interminabile disputa sul Concilio, in questo intricatissimo conflitto delle interpretazioni.
Certo, i saggi contenuti in questo libro sono assai raffinati, contengono spunti interessanti, si confrontano con le indicazioni di Benedetto XVI.
Però… M.
– Però? A.
– Essi mi richiamano alla mente – almeno in parte – ambienti, climi e luoghi comuni di quell’area cattolico-progressista che tende a fare del Concilio un mito.
Ma bada, non voglio etichettare gli autori, uso un indicatore idealtipico e orientativo.
M.
– La verità è che tu dici di accettare il Concilio, ma con una riserva mentale, perché critichi chi si batte per il Concilio.
A.
– Vedi che parli di una battaglia? Ecco, proprio questo è il punto, questa sovraeccitazione di alcuni durante e dopo il Concilio, questo clima di lotta continua, questa “agitation croissante aux alentours du Concile”: parole non mie ma del cardinale Henri de Lubac.
E poi questo modo di raccontarne la storia! La famosa “settimana nera”…
Ma che significa? Qual è il valore euristico di questa espressione? Nessuno! Se leggo le memorie di un aiutante di campo di Napoleone a Waterloo posso comprendere che parli di una “giornata nera”; ma da uno storico contemporaneo mi aspetto un tono più calmo, che mi faccia capire.
Ancora de Lubac, nel suo libro “Entretien autour de Vatican II” pubblicato nel 1985, parla di un “language historico-manichéen, qui sous un mode mineur s’est assez largement répandu”.
O non ti va più bene neppure de Lubac, del quale mi hai sempre parlato con sconfinata ammirazione? M.
– Una storiografia neutrale non esiste.
A.
– Sì, però occorre almeno essere pacati.
E comunque parlo di una sovraeccitazione che non è solo autobiografica e storiografica.
Ma è anche filosofica, oserei dire.
M.
– Cioè? A.
– Vedi, prendiamo ad esempio il problema dello “spirito” e della “lettera”.
M.
– Non mi tirare fuori la storia secondo cui i documenti conciliari andrebbero letti solo secondo la lettera! A.
– Perché vuoi banalizzare il discorso? È vero che la lettera va sempre tenuta in debito conto, ma non è comunque sufficiente per un’ermeneutica completa.
Su questo concordano il giurista romano Celso e san Paolo.
Il che mi basta.
M.
– E allora? A.
– Dipende da cosa intendiamo con “spirito”.
Qui entra in gioco la sovraeccitazione.
Prendi per esempio Hegel a Jena.
Era chiaramente sovraeccitato: in Napoleone vedeva la Storia che passa a cavallo…
Ricordi quel passo delle “Lezioni di Jena”, che non a caso è stato anche citato dal “negativista” Kojève quale esergo della sua “Introduzione alla lettura di Hegel”? Ricordi il tono? “Signori! Ci troviamo in un’epoca importante, in un fermento in cui lo Spirito ha fatto un passo in avanti.
Ha superato la sua precedente forma concreta e ne ha acquisita una nuova…”.
Ecco, quando io leggo certi teologi, certi storici di oggi, non posso fare a meno di pensare a quel tono lì.
M.
– Tu insinui, alludi e non concludi.
Non è mica questione di tono! A.
– Non sta a me dire fino a che punto si tratti soltanto di tono, o di legittima assunzione di spunti teoretici, o di cedimento alle logiche immanentistiche.
Ogni autore è diverso dall’altro.
M.
– Torniamo al Concilio.
Tu citi il giurista romano Celso, insisti sul testo, e trascuri l’evento.
A.
– Altra parola-chiave: l’evento.
Hegel? Heidegger? Pareyson? M.
– Ma lascia stare i filosofi! A.
– Non lascio stare niente! Voi teologi di oggi conoscete poco la filosofia, volete fare una teo-logia senza “logos”, a-filosofica o trans-filosofica.
Ma spesso è solo retorica.
E poi la cosa peggiore è quella di essere influenzati da Hegel senza neppure esserne consapevoli.
Se Hegel fosse qui tra noi sarebbe sorpreso dal gran numero di suoi discendenti intellettuali, di figli e figliastri… E comunque non sapete neppure scrivere i manuali.
È una fatica trovarne uno che non salti da San Tommaso a Rahner, omettendo tutto ciò che vi sta in mezzo! Oggi ci si può diplomare in teologia senza sapere pressoché nulla di Scoto, di Suarez, di Melchior Cano, del Caietano.
Prova a chiedere a dieci neodiplomati se abbiano mai sentito parlare di Scheeben, e dimmi se ne trovi più di un paio che ti rispondano affermativamente.
M.
– Ora stai esagerando.
A.
– Hai ragione.
Mi calmo.
M.
– L’evento! Pensa alla teologia, pensa alla “Dei Verbum”: Dio si rivela attraverso eventi e parole intimamente connessi tra loro…
A.
– Certo che penso alla teologia! Penso che la Rivelazione divina culmina in Cristo, nel quale Dio ci ha detto tutto.
Essa è compiuta, anche se non è ancora completamente esplicitata, come ricorda il Catechismo al paragrafo 66.
E poi al paragrafo 83: la tradizione “viene dagli Apostoli e trasmette ciò che costoro hanno ricevuto dall’insegnamento e dall’esempio e ciò che hanno appreso dallo Spirito Santo”.
Sarebbe erroneo pensare a un evoluzionismo storicistico.
Non è la realtà rivelata da Dio che si modifica o si evolve; è l’intelligenza credente che cresce approfondendosi.
Se questo è vero, l’Evento unico è Cristo, non esiste un’età dello Spirito che superi quella di Cristo.
M.
– Risparmiami la storia di Gioacchino da Fiore, per favore… A.
– E perché no? Se proprio vogliamo cercare un evento epocale pensiamo a san Francesco! Chi è stato più epocale di lui, per l’intero secondo millennio? Su questo potremmo essere d’accordo tutti, conservatori, progressisti, persino molti non credenti.
Però l’interpretazione di chi vedeva in Francesco l’inaugurazione dell’età dello Spirito fu giustamente respinta.
Francesco stesso ne sarebbe rimasto stupito, lui vedeva solo Cristo e la Trinità, in tutto.
M.
– Però la storiografia francescana è complessa.
Occorre tener conto della politica di san Bonaventura nel narrare la storia del fondatore… A.
– Ma quale politica! Già questo uso del termine, riferito a un ambito che un medievale non avrebbe mai qualificato come “politico”, mi dà fastidio, perché è frutto di una cattiva ermeneutica.
Si leggono gli eventi teologici, filosofici, giuridici di quel tempo con la lente del panpoliticismo moderno, si considera “politico” ogni ambito del reale.
Bel modo di calarsi in un’altra epoca, da parte di chi parla in continuazione di storia e di storicità! M.
– Insomma, dove vuoi andare a parare? A.
– Voglio solo dire che dobbiamo smetterla con questa storia dell’evento epocale.
Non esistono eventi epocali, a stretto rigore logico e teologico.
Quella dell’evento epocale rischia di essere solo una retorica buona per la “mobilitazione”, una forma di cripto-ideologia.
M.
– Ma cosa auspichi, l’eterno ritorno dell’identico? A.
– No.
Agostino ha dimostrato che la ciclicità pagana è superata per sempre.
Si tratta, piuttosto, di saper vedere l’Eterno nel tempo, che interseca un punto del tempo, “quel” punto del tempo, incarnandosi.
M.
– Tu torni indietro…
A.
– Torno alle fonti.
E alla Fonte.
M.
– Ma l’Evento unico rivive oggi o no? A.
– Esso è compiuto.
Il tempo è compiuto, vedi Marco 1, 15.
Anche se ne attendiamo la piena manifestazione.
M.
– E il Concilio Vaticano II? Ti aiuta o no nel cammino? A.
– Certo che mi aiuta! Esso però presuppone l’Evento unico e la sua definizione dogmatica irreversibilmente compiuta nei primi sette Concili ecumenici.
Capisci che non posso pensare a un evento che “de-calcedonizzi” Cristo – cioè gli tolga ciò che di lui è stato definito a Calcedonia – per inculturarlo nella modernità.
M.
– Ma nessuno vuole questo! A.
– Apparentemente quasi nessuno.
Certo non vuole questo il Vaticano II, che non ha inteso innovare la fede, come sostengono specularmente, con opposti scopi, le versioni estreme del tradizionalismo e del progressismo.
Mi chiedo però quanto arianesimo tendenziale e virtuale ci sia oggi in giro, quanto troppo ci si spinga a umanizzare Gesù.
Penso per esempio ai critici della “Dominus Iesus”, che nel 2000 ha dovuto richiamare l’abc della cristologia.
Mi chiedo: chi ha paura dei Concili di Nicea, di Efeso, di Calcedonia? M.
– Il tuo è un suggestivo espediente retorico.
Tu gerarchizzi i Concili per togliere vita in modo subdolo al Vaticano II.
A.
– No.
Però mi sembra che oggi siano in gioco i fondamenti della fede.
Gradirei quindi che si dia evidenza adeguata anche ai convegni su Nicea e su Calcedonia, invece di lasciarli a pochi specialisti eruditi.
M.
– Basta, sono stanco.
Torno a casa e leggo qualcosa dal mio libro più caro, il “Giornale dell’anima” di Angelo Giuseppe Roncalli.
A.
– Che coincidenza, lo sto leggendo anch’io…
__________ Il libro: “Chi ha paura del Vaticano II?”, a cura di Giuseppe Ruggieri e Alberto Melloni, Carocci, Roma, 2009, pp.
152, euro 16,50.
Chi ha paura del Vaticano II? Con questa domanda il teologo Giuseppe Ruggieri e lo storico del cristianesimo Alberto Melloni intitolano un volumetto a più voci da loro curato, uscito pochi giorni fa in Italia.
Il libro non è una novità.
È la ristampa del fascicolo 2 del 2007 di “Cristianesimo nella Storia”, la rivista dell’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, cioè del cenacolo di studiosi che – assieme a collaboratori di vari paesi – ha pubblicato la “Storia del Concilio Vaticano II” più letta al mondo, in cinque volumi completati nel 2001 ed editi in sette lingue.
Una “Storia” d’orientamento molto marcato, che interpreta il Concilio più come “evento epocale” che per i suoi documenti, più nello “spirito” che nella lettera, più come “nuovo inizio” che in continuità con la Chiesa precedente.
Oltre che Ruggieri e Melloni – l’unico ad aggiungere un nuovo capitolo ai testi già noti – gli altri autori del libro sono il francese Christoph Theobald, l’americano Joseph A.
Komonchak e il tedesco Peter Hünermann.
Nella prefazione, Ruggieri e Melloni negano che il libro sia un’apologia della “Storia” bolognese del Concilio Vaticano II.
Ma leggendolo si ricava proprio questo: che sono essi le eroiche sentinelle della giusta interpretazione del Concilio stesso; sono essi quelli che non ne hanno “paura” e ne preservano la vera “novità”; sono essi a fare ciò che neppure Benedetto XVI fa più: troppo cambiato rispetto al giovane Ratzinger che scriveva i discorsi esplosivi letti in Concilio dal cardinale Frings.
Per un’analisi dettagliata dei saggi contenuti nel volume, basta riandare al servizio che vi dedicò www.chiesa dopo che essi erano usciti sulla rivista “Cristianesimo nella Storia”: > Confermato: il Concilio fu “svolta epocale”.
La scuola di Bologna annette il papa (11.12.2007) Mentre l’interpretazione di papa Joseph Ratzinger del Concilio Vaticano II è quella da lui esposta nel memorabile discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005: > “Svegliati, uomo…”

Numeri e Fede/6: Beata matematica

L’intervista al professor Maurizio Brunetti, I Faà di Bruno erano una famiglia di scienziati, di religiosi e di eroi.
Francesco era sacerdote, il fratello Giuseppe era un padre Pallottino e si dedicò alle missioni; quanto a Emilio, morì nella sua nave inabissata a Lissa.
«Il nome di Francesco Faà di Bruno è legato a notevoli contributi, soprattutto a un’elegante formula per il calcolo delle derivate di ordine superiore di una funzione composta.
La sua vita fu talmente avventurosa che se ne potrebbe ricavare un film: militare, musicista, architetto, ingegnere – nel 1856, commosso dalla condizione dei non vedenti, lo era anche la sorella Maria Luigia, progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi – e, soprattutto, sacerdote e fondatore di un ordine religioso.
Faà di Bruno era stato allievo di Augustin Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, anche lui uomo di fede vissuta.
Fu infatti tra i fondatori de l’Association pour la Protection de la Religion Catholique e della Societé Catholique de Bons Livres.
Le opere scientifiche di Cauchy sono state raccolte in 27 volumi.
Un grande scienziato, ma anche un grande uomo che si spendeva in innumerevoli opere di carità e di apostolato culturale: “benché oberato da ogni sorta di occupazioni, trovava il tempo e l’animo per andare a visitare i poveri nei loro tuguri” racconta Faà di Bruno.
Il matematico francese aveva molto a cuore anche la santificazione delle feste: grazie alla sue pressioni, molti negozi furono costretti a chiudere nei giorni festivi permettendo così ai dipendenti di andare a Messa».
Non si parla mai di questi personaggi.
«Eppure sono eccezionalmente interessanti.
Penso al matematico svizzero Leonhard Euler, da noi noto come Eulero.
Di religione protestante, tutte le sere riuniva la numerosa famiglia e leggeva un capitolo della Bibbia.
Eulero racconta di aver compiuto molte delle sue scoperte mentre aveva un bambino in braccio e altri marmocchi che si rotolavano ai suoi piedi.
Matematici credenti sono arcinoti a ogni studente alle prese con gli esami di geometria e analisi matematica.
Per esempio, Jacques Binet, Charles Hermite e anche il boemo Bernard Bolzano, proprio quello del teorema Bolzano-Weierstrass, di cui si ricordano i tentativi per dimostrare logicamente che la religione cattolica – rivelata, e quindi depositaria di risposte alle questioni fondamentali – è quella perfetta, non solo fra le religioni che esistono, ma anche fra tutte quelle pensabili.
Per lui, la religione era “la quintessenza di tutte le verità che ci guidano alla virtù e alla felicità”».
Lei è credente? «Sono cresciuto in Alleanza Cattolica, nutrendomi della sua spiritualità ignaziana.
Il mio non è un caso isolato.
Secondo un’indagine condotta negli Usa, i matematici sono la categoria di scienziati in cui la percentuale di atei è più bassa.
Ma, se è vero che la scienza permette solo a volte di trovare Dio, è però certo che è stato Dio a far trovare all’uomo la scienza».
Questo perché la realtà è conoscibile? «Facciamo una considerazione.
Perché a Newton saltasse in mente di formulare un modello matematico per il moto di una mela che cade a terra, era necessario un presupposto certo: credere che una mela sarebbe sempre caduta con le stesse modalità, un minuto, un giorno o cento anni dopo.
È stato proprio questo presupposto sulla logicità del creato, che è condiviso solo dalle culture occidentali, a permettere alla scienza moderna di nascere e svilupparsi.
L’universo ha le sue leggi, non è capriccioso.
Storici della scienza come Edward Grant e Stanley Jaki hanno individuato nell’avvento del cristianesimo una condizione addirittura necessaria – e, col senno di poi, anche sufficiente – per la nascita della scienza moderna, quella cioè che tralascia ogni considerazione di natura non quantitativa, espungendo deduzioni di carattere filosofico e limitandosi a utilizzare gli strumenti della matematica per l’interpretazione dei dati sperimentali».
Una scienza che, quindi, nasce molto prima del secolo XVII e sboccia già nel Medioevo cristiano.
«La matematica, sia quella più astratta e simbolica, sia quella applicata alla fisica, prende il volo in epoche in cui la temperatura religiosa è alta.
L’algebra vide la luce tra l’ottavo e il nono secolo nel mondo islamico e, prima che prevalesse la prospettiva teo-filosofica dei mutakallimum – secondo cui l’enunciazione di una legge fisica sarebbe in contraddizione con l’onnipotenza di Allah -, furono anche pubblicati dei manuali di dinamica dei fluidi.
Nell’Europa medievale cristiana, appartenevano alla matematica due delle quattro discipline del quadrivium, cioè l’aritmetica e la geometria.
La nascita della scienza moderna va perciò anticipata almeno di qualche secolo.
Fino a poco tempo fa, se ne festeggiava il compleanno ricordando la pubblicazione nel 1687 dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton.
Certo, quest’opera è in tutti i sensi moderna.
Tuttavia Newton riconobbe, facendo proprio l’aforisma medievale di Bernardo di Chartres, di essere “un nano sulle spalle di giganti”.
Questi giganti, oggi, sono stati identificati: Giordano Nemorario, che nel secolo XIII aveva già formulato le leggi della statica; Nicola Oresme, che aveva risolto l’obiezione più forte contro l’ipotesi di una Terra in movimento; Giovanni Buridano, che formulò la nozione di “forza a distanza”, arrivata a Newton attraverso Alberto di Sassonia, Leonardo da Vinci, Giambattista Benedetti e Galileo Galilei».
Avvenire 9 Gennaio 2009 Luigi Dell’Aglio Una lista di grandissimi matematici della storia, che sono stati credenti in modo fervido e autentico.
Sono tanti, e di loro non si parla quasi mai.
Ecco la risposta argomentata e “sperimentale” che va data a chi dubita che si possa essere, al tempo stesso, matematici e credenti».
Il professor Maurizio Brunetti, matematico specializzatosi in Gran Bretagna e ora docente all’Università Federico II di Napoli, non si ferma a Ennio De Giorgi (1928-1996), genio e trascinante uomo di fede.
Brunetti risale agli ultimi tre secoli.
E va anche più indietro.
Nella lista non include Leibniz, Newton o Cartesio, che certamente non erano atei; nell’elenco iscrive invece quei matematici la cui fede attiva si esprimeva con scelte di vita che la rendevano particolarmente riconoscibile.
E colloca al primo posto il torinese Francesco Faà di Bruno (1825-1888), che la Chiesa ha proclamato beato nel 1988.

Un sussidio per la pastorale della sanità

L’Ufficio Nazionale per la pastorale della sanità e la sua Consulta hanno indicato il tema “Educare alla salute, educare alla vita” come ambito prioritario di riflessione per la Chiesa che è in Italia, in occasione della XVII Giornata Mondiale del Malato, il prossimo 11 febbraio 2009.
Il sussidio, elaborato con la piena collaborazione dell’Istituto Teologico Camillianum mira a sottolineare l’importanza di un rigoroso e profondo pensiero come premessa indispensabile per un’efficace azione pastorale in questi ambiti.
Ulteriori informazioni nel sito ”Il tempo che stiamo vivendo porta alla nostra attenzione lo smarrimento, o quantomeno l’indebolimento, del significato e del valore della vita umana, e le drammatiche vicende della cronaca recente ne sono la dimostrazione eclatante – scrive nella presentazione del sussidio don Andrea Manto, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della sanità -.
Sembra quasi che al crescere delle conoscenze per curare il corpo umano corrisponda un disinteresse sempre più ampio per il significato della vita e per la dignità della persona umana”.
D’altra parte, il disinteresse sistematico per la dignità dell’uomo e per le sue domande più caratterizzanti e profonde (il senso della vita e della morte, della sofferenza e della salvezza) è forse la principale causa di quella “emergenza educativa” che il Santo Padre Benedetto XVI ha richiamato in diversi pronunciamenti.
“Ci è sembrato opportuno, perciò, suggerire agli operatori sanitari e pastorali e alla comunità cristiana una riflessione sul legame tra i temi dell’educazione, della salute e della vita, per ribadirne la costitutiva interdipendenza e per evidenziarne la crescente fecondità pastorale” aggiunge don Manto.
Ulteriori informazioni nel sito internet www.chiesacattolica.it/sanita Documenti allegati:Messaggio del Santo Padre