Benedetto XVI. Donne nel Medioevo.



Il genio femminile nella storia del popolo di Dio” (Torino, Marietti 1820, 2011, pagine 141, euro 12) in libreria dal 20 luglio.

 

 

 

Nelle “collazioni” dedicate ad alcune sante donne, soprattutto mistiche, Papa Benedetto XVI torna a essere il professor Joseph Ratzinger, autore di una tesi di dottorato riguardante La teologia della storia in San Bonaventura (Monaco, 1959), dunque un “collega”, un eccellente conoscitore del pensiero e della spiritualità medievali, con il quale ho l’opportunità di dialogare su un terreno non troppo sbilanciato a mio svantaggio. Nell’opera si può vedere il capo della Chiesa cattolica comportarsi da paziente agiografo, sulle orme del suo lontano predecessore Gregorio Magno, che nei Dialoghi si dedicò ai Patres italici e in particolare alla vita e ai miracoli di san Benedetto.


Benedetto XVI presenta brevi ma accurate puntualizzazioni storiche sulla biografia di alcune sante medievali e riporta diverse citazioni dei loro scritti, perché i fedeli ne percepiscano la ricchezza spirituale e siano magari invogliati a leggerli direttamente. Compie insomma un’opera veramente meritoria di “volgarizzazione” e apre una nuova strada per i cristiani. Sono più di cinquant’anni che la cultura cristiana ha cominciato a riscoprire gli scritti dei Padri della Chiesa e degli autori cristiani della tarda antichità, ma le opere dei maestri spirituali del medioevo, nonostante la loro bellezza e profondità, restano ancora oggi in larga misura “terra incognita”, se si esclude la ristretta cerchia degli eruditi. Dobbiamo dunque rallegrarci quando il Santo Padre sottolinea “l’interesse per il cristiano odierno di attingere alle grandi ricchezze, in gran parte ancora da scoprire, della tradizione mistica medievale”.
L’argomento sul quale Benedetto XVI ha scelto di soffermarsi nelle prediche qui pubblicate coincide con le prevalenze tematiche dei recenti orientamenti della storiografia. I lavori pioneristici di Herbert Grundmann sul ruolo delle donne (la famosa Frauenfrage) nei movimenti religiosi del medioevo risalgono agli anni Trenta del Novecento, ma furono noti solo negli anni Cinquanta e Sessanta.


D’altro canto, la storia delle donne, a lungo trascurata, ebbe grande successo solo a partire dagli ultimi trent’anni del secolo scorso, influenzando anche il campo della storia religiosa. In questo stesso periodo, alcuni cultori della tarda antichità e del medioevo cominciarono a dedicare le loro ricerche alla storia della santità e del culto dei santi, rileggendo le fonti agiografiche in una prospettiva propriamente storica. I discorsi del Papa qui pubblicati si collocano all’incrocio di queste correnti del rinnovamento storiografico. Se ne percepisce chiaramente l’eco, anche se in modo discreto, visto il genere letterario degli interventi che non prevede il ricorso all’erudizione minuziosa.


Senza fare una lezione di storia, che sarebbe risultata fuori luogo, il Papa contestualizza opportunamente alcune nozioni, come quella della reclusione o della mistica nuziale, il cui significato sarebbe potuto sfuggire al grande pubblico, collegandole alla cultura e alla religiosità medievali, fino a fare intendere cosa abbiano comportato tali idee per la vita vissuta di alcune sante donne.


Accanto ad alcune personalità maggiori e largamente note, almeno in linea di massima, come Chiara d’Assisi, Caterina da Siena o Giovanna d’Arco, Benedetto XVI fa posto ad alcune figure meno famose ma non meno interessanti, come le sante monache di Helfta, in Turingia, Matilda di Hackeborn e Gertrude la Grande, la certosina francese Margherita di Oingt e Giuliana di Mont-Cornillon nell’area di Liegi. Come accade in ogni selezione, anche le scelte che il Papa propone, fra tante possibili figure di sante, potrebbero costituire argomento di discussione. Ci si potrebbe interrogare, per esempio, sui motivi dell’assenza di riferimenti alla Beata Maria di Oignies, la cui Vita, scritta da Giacomo di Vitry, è stata la prima biografia mistica nella storia dell’Occidente.
Il Papa pone giustamente l’accento su due aspetti fondamentali: la cultura religiosa delle donne di cui parla e le loro esperienze mistiche. Smentendo un luogo comune duro a scomparire, egli sottolinea il fatto che anche quando per umiltà queste donne si dichiaravano illitteratae, ciò non significa che devono essere da noi considerate ignoranti, quanto piuttosto sprovviste di una formazione di tipo scolastico.
Tanto è vero che dimostrano di possedere una solida cultura biblica, derivante dalla frequentazione dei testi liturgici. Anche le loro visioni o “rivelazioni” non devono essere considerate come dei sogni più o meno fasulli, perché trovano corrispondenza in alcuni concetti teologici ben identificabili. Il Papa si mostra impressionato dall’itinerario spirituale di queste sante, non diversamente da come lo furono nel medioevo i chierici che facevano loro da segretari o confessori.
Queste donne conobbero la vera e propria conversione, il passaggio repentino da una pratica di vita a un’altra, come nel caso esemplare di Angela da Foligno, che si lasciò alle spalle un’esistenza mondana per abbracciarne una penitenziale, fino a stabilire con Cristo una relazione intima che sbocciò in un’esperienza di vita unitiva con Dio stesso. A tal riguardo è particolarmente interessante il passo che il Papa dedica a Caterina da Genova, dove afferma che la mistica autentica, ben lungi dal mirare a una felicità narcisistica o a un distacco dagli esseri umani, è invece portata ad aprirsi agli altri, proprio perché comincia a vederli con gli occhi di Dio e ad amarli con il suo cuore.


Si tratta di una precisazione molto opportuna, che corregge una certa tendenza degli agiografi medievali. Questi, infatti, erano portati a codificare la vita delle loro eroine, dopo la conversione, come esistenza segnata non solo dal disprezzo del mondo in cui prima erano vissute, ma anche da una totale indifferenza nei confronti della sorte del prossimo, il quale fungeva come rappresentazione dell’ostacolo nei confronti della scelta di vita contemplativa. Sarebbe improprio voler estrarre da questi testi, il cui fine è più pastorale che dottrinale, una ricognizione sistematica e comparativa, tra ieri e oggi, a proposito del ruolo della donna nella vita religiosa, benché il Papa non esiti in alcune circostanze a sollevare, anche a tal riguardo, problemi importanti, come quando afferma che le donne, pur essendo escluse dal sacerdozio ordinato, hanno avuto e hanno un ruolo peculiare nella Chiesa, grazie ai carismi di cui sono spesso gratificate dallo Spirito Santo. Si riferisce specialmente ai doni della visione e della “capacità a discernere i segni dei tempi”, cioè di profetizzare per il bene del popolo cristiano, come fecero nel medioevo Ildegarda di Bingen e Brigida di Svezia. Alcune delle sante donne, di cui Benedetto XVI analizza e presenta qui la vita, avevano però superato le fratture tradizionali riguardanti le specializzazioni dei ruoli tra uomini e donne. È il caso, per esempio, di Ildegarda, che fu autorizzata da Eugenio III sia a rivolgersi ai fedeli e al clero per riportarli a una vita migliore sia a predicare a Colonia contro i catari.


Allo stesso modo, il Papa pone l’accento sulle notevoli doti teologiche di Gertrude la Grande, che l’avevano predestinata all’apostolato. Non dobbiamo dimenticare, d’altra parte, che nel medioevo era diffusa la credenza secondo cui santa Maria Maddalena sarebbe andata in Provenza con il fratello Lazzaro, dopo l’Ascensione di Cristo, per evangelizzare i pagani.
Scegliendo qui di parlare solo di figure femminili, il Papa evidenzia che le donne sante hanno precorso i tempi, con intuizioni e premonizioni che la Chiesa avrebbe ripreso e codificato solo in seguito. Illustra, per esempio, come la devozione di Giuliana di Mont-Cornillon, riguardante la presenza “reale” di Cristo nell’Eucaristia, abbia contribuito poi all’istituzione della festa particolare in onore del Corpus Domini e alla sua estensione all’insieme della cristianità con Papa Giovanni XXII nel 1317.
I testi di Benedetto XVI mettono inoltre l’accento sulla radicalità dell’impegno delle donne, una volta che esse hanno accolto la rivelazione dell’elezione divina e la conseguente vocazione alla missione. Il Papa evidenzia l’esempio di Giovanna d’Arco che, pur essendo stata condannata a morire sul rogo da un tribunale ecclesiastico, non derogò mai alla sottomissione nei confronti dell’autorità della Chiesa. Avrebbe anche potuto riferirsi a Chiara d’Assisi che, durante tutta la sua vita religiosa, si sforzò di resistere ai tentativi del papato miranti a imporre alle “Povere Dame recluse” di San Damiano una regola di stampo benedettino, che avrebbe loro consentito di acquisire beni, mentre lei li rifiutava per non rompere l’ultimo legame con i frati minori e con la povertà evangelica promessa a san Francesco.


Benedetto XVI riprende questi due punti quando ricorda che le richieste di Chiara d’Assisi furono soddisfatte alla vigilia della sua morte e quando sottolinea che fu la prima donna a scrivere la regola dell’ordine religioso da lei stessa fondato. È vero anche, però, che già nel secolo XII, Eloisa, dopo il suo ingresso nel monastero del Paraclito, stese personalmente una regola, ed è vero anche che quella di santa Chiara venne ben presto sostituita da un’altra – quella di Papa Urbano IV – che imponeva alle clarisse di accettare possedimenti e redditi fissi.


La testimonianza delle sante, qui proposta da Benedetto XVI alla meditazione dei fedeli, libera il sesso a torto ritenuto debole sia dai sospetti dipendenti dalla simbologia di Eva responsabile del peccato originale sia dai pregiudizi di debolezza intellettuale e morale trasmessi al medioevo cristiano dalla tradizione letteraria antica. Il Papa ricorda, proprio attraverso la storia, che alcune di loro, sia monache sia laiche, sono salite ai vertici dell’esperienza religiosa attraverso l’unione mistica con Cristo, fino al punto di esercitare un forte ascendente sui chierici che le seguivano e diffondevano i loro messaggi.

(©L’Osservatore Romano 17 luglio 2011)


La sobrietà che fa crescere

 

«Il P.I.L. misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sul nostro Paese, ma non se possiamo essere orgogliosi di esserne cittadini».


Mi viene spontaneo tornare al discorso che Robert Kennedy pronunciò all’Università del Kansas nel marzo 1968 – solo tre mesi prima di essere assassinato – ogni volta che sento parlare di manovre fiscali, crescita economica, sviluppo sostenibile, deficit pubblico… Sì, perché credo che siano argomenti che non riguardano solo politici ed economisti.
Ma argomenti che dovrebbero aprire la riflessione alla qualità della nostra vita quotidiana e della convivenza nella società civile. E tematiche di questo genere dovrebbero essere affrontate con uno sguardo più ampio, non limitato a facili contrapposizioni tra economia di mercato e stato sociale o improbabili alternative secche tra crescita dei consumi e povertà incombente.
In particolare, varrebbe la pena di riscoprire la valenza di uno stile di vita e un atteggiamento nei confronti dei beni materiali e del loro uso che – come ha osservato il cardinale Tettamanzi – è «segno di giustizia prima ancora che di virtù»: la sobrietà. Ben più di un semplice accontentarsi di quanto si ha o della capacità di non sprecare, la sobrietà ha una dimensione interiore, abbraccia un modo di vedere la realtà circostante che discerne i bisogni autentici, evita gli eccessi, sa dare il giusto peso alle cose e alle persone.
Sobrietà a livello personale significa riconoscimento e accettazione del limite, consapevolezza che non tutto ciò che ho la possibilità tecnica o economica di ottenere deve forzatamente entrare in mio possesso: la capacità di rinuncia volontaria a qualcosa in nome di un principio eticamente più alto obbliga a interrogarsi sulla scala di valori in base alla quale giudichiamo le nostre e le altrui azioni.
La moderazione non è la tiepidezza di chi è indifferente a ogni cosa e si crogiola in un preteso «giusto mezzo», ma la forza d’animo di chi sa subordinare alcuni desideri per valorizzarne altri, di chi sa riconoscere il valore di ogni cosa e non solo il suo prezzo, di chi orienta la propria esistenza verso prospettive non ossessionate da un incessante «di più», di chi sa dire con convinzione «non tutto, non subito, non sempre di più!». Sobrietà è la forza interiore di chi sa distogliere lo sguardo dal proprio interesse particolare e allarga il cuore e il respiro a una dimensione più ampia.
La «crisi» che viviamo dal 2008 in realtà era già operante da tempo: chi osservava la situazione ecologica, chi non era cieco di fronte alle crisi  alimentari,  poteva forse prevedere la crisi finanziaria, quindi monetaria ed economica. Ma chi aveva e ha occhi capaci di discernimento poteva però rilevare una «crisi» ben più profonda, una crisi spirituale, una crisi dell’umanizzazione, un avanzare della barbarie.
Dopo la caduta del muro di Berlino c’è stato un abbaglio, una fiducia smisurata nel mercato che sembrava garantire quello stile di vita consumistico cui ci eravamo abituati da qualche decennio…
Ora non si tratta di ritornare indietro, ma di tornare al centro sì, all’asse che permette alla politica di rendere possibile ciò che è giusto, ciò che è doveroso, ciò che è necessario al «ben-essere» autentico, di tornare all’asse su cui economia di mercato e solidarietà, competitività e coesione sociale possono interagire ed essere coerenti con la ricerca della qualità della vita umana e della convivenza sociale.
Solo tenendo conto di queste istanze si può uscire dall’attuale mancanza di visione sull’avvenire ed elaborare e realizzare un progetto di società a dimensione umana, altrimenti si continuerà a inoculare germi di sfiducia soprattutto nelle nuove generazioni, che intuiscono la necessità di non ridurre l’uomo a produttore-consumatore ma che tuttavia percepiscono la loro impotenza.
In questa ricerca, giustizia e solidarietà sono elementi che trovano nella sobrietà stimolo e sostegno.
E questo, se era vero in una società rurale e dotata di scarsi mezzi, lo è paradossalmente ancora di più in un mondo e in un’economia globalizzati. Infatti, la sobrietà non è solo misura nei propri comportamenti ma anche consapevolezza del nostro legame profondo e ineliminabile con le generazioni che ci hanno preceduto, con quelle che verranno dopo di noi e con quanti, nostri contemporanei, abitano assieme a noi il pianeta.
Nell’usare dei beni di cui dispongo e nell’ambire ad altri, non posso ignorare la necessità di un’equa distribuzione delle risorse: accaparrarsi beni, sfruttare il pianeta, disinteressarsi delle conseguenze immediate e future del proprio agire significa alimentare ingiustizie che, anche se non si ritorcessero contro chi le compie, sfigurano l’umanità e offendono il creato stesso.
Solo una sobrietà così concepita può tracciare un cammino sicuro per la solidarietà umana o, per usare una terminologia cristiana, per una «comunione universale». E questa solidarietà non è tanto il serrare le file da parte di un gruppo sociale per difendersi da un nemico comune o da un’avversità condivisa, non è solo la reazione spontanea e generosa davanti a una sciagura, ma è – a monte di queste cose – la percezione che nostri sodali nell’avventura umana sono quanti ci hanno preceduto e hanno lavorato e lottato per consegnarci condizioni di vita meno precarie, sono coloro che verranno dopo di noi e ai quali riconsegneremo un patrimonio eroso dallo sfruttamento e sono anche, ben più presenti ai nostri occhi, quanti oggi stesso vicini a noi o lontani, non dispongono di beni essenziali per una vita degna e anzi pagano sulla loro pelle i privilegi di cui noi godiamo e che pretendiamo  di accrescere continuamente.
Se non dimenticassimo questa solidarietà generazionale e mondiale, la sobrietà ci apparirebbe allora come l’unico stile di vita capace di restituire, a noi stessi per primi, dignità umana e senso dell’esistenza. In questo senso sobrietà e sviluppo non sono antitetici, se per sviluppo non intendiamo la crescita ininterrotta e l’accumulo incessante ma il pieno dispiegarsi delle potenzialità dell’essere umano, un fiorire delle risorse nascoste in ciascuno di noi che la stessa «decrescita» alimenta con la sua ricerca dell’essenziale. Davvero, la sobrietà ci fornisce gli strumenti per misurare noi stessi e il nostro rapporto con «ciò che rende la vita degna di essere vissuta».

 

in “La Stampa” del 3 luglio 2011

Padre Jean-Pierre, priore dei monaci dell’Atlante

 

 

Padre Jean-Pierre, 60 anni, è il priore di Notre-Dame de l’Atlas – unico monastero cristiano maschile nell’Africa del Nord – installato da più di dieci anni a Midelt, in Marocco.

 

 

Quando contempla il paesaggio dal giardino del monastero, padre Jean-Pierre vi legge tre dimensioni della vita che condivide con i suoi fratelli. Ai suoi piedi, il giardino, coltivato a meli e mandorli, che è uno dei luoghi di lavoro della comunità, gli ricorda che “fratello” è una parola da vivere concretamente ogni giorno. Un po’ oltre, le case in cui vivono – a volte con difficoltà – delle famiglie musulmane gli ricordano che lui è ospite del popolo marocchino accanto al quale vorrebbe testimoniare che “la fraternità e la pace sono un dono di Dio fatto agli uomini”. Infine, linea scura all’orizzonte, l’Alto Atlante dominato dal monte Ayache (3757 metri) lo invita “al silenzio, all’ascesi, alla contemplazione, all’assoluto”. Ma, precisa, ci sono anche le nuvole! “Mi ricordano che il mio io troppo chiacchierone mi impedisce di ascoltare gli altri, il totalmente Altro.”


Padre Jean-Pierre, 60 anni, è il priore di Notre-Dame de l’Atlas – unico monastero cristiano maschile nell’Africa del Nord – installato da più di dieci anni a Midelt, in Marocco (1). C’entra forse qualcosa il fatto che egli sia nato a due chilometri dall’abbazia di Aiguebelle à Montjoyer, nella Drôme, abbazia madre dell’Atlas. “È vedendo vivere Frère Gabriel che ho deciso di diventare monaco, conferma. Non aveva niente, ma aveva trovato la vera felicità.”


A quell’epoca, Jean lavorava alla distilleria dell’abbazia. Durante la pausa di mezzogiorno correva dai 15 ai 20 chilometri, sognava di fondare una famiglia felice e di seguire una carriera sportiva.
Eppure, a 23 anni, quello che allora a Montjoyer chiamavano “il comico” divenne “l’inclassificabile”. Qualificato per i campionati francesi, rinunciò al desiderio di diventare maratoneta, alla casa e ai capelli lunghi per entrare – malgrado l’opposizione della sua famiglia – all’abbazia di Aiguebelle, prima tappa di un’esistenza che lo avrebbe portato a diverse riprese sul continente africano.


La prima volta fu per raggiungere il monastero di Kutaba, in Camerun. Vi resterà nove anni, prima di diventare eremita nelle Alpi dell’Alta Provenza. “È là che ho saputo della morte dei monaci di Tibhirine, spiega. Non avevo capito nulla del senso della loro presenza, ma il dono della loro vita ha definitivamente chiarito la loro vocazione che era di essere là per amare Dio, l’Algeria, gli algerini. Il cuore del Vangelo, è l’amore fino al dono di sé.” Un anno dopo, riparte quindi, questa volta per il Marocco, dove c’è dal 1988 a Fès una dépendence dell’Atlas, diventata il luogo su cui è ripiegata la comunità. Poi fa parte del piccolo gruppo di frati costituitosi ad Algeri nella speranza di tornare a Tibhirine, prima di essere eletto priore dell’Atlas e formalmente trasferito a Fès.
“A Fès, racconta Jean-Pierre, la comunità stava allo stretto e aveva pochi contatti con la popolazione. Le Suore francescane missionarie di Maria, stabilite a Midelt, 200 chilometri più a sud, desideravano lasciare il convento per vivere in luoghi più adatti a loro. Mi sono quindi recato alla Kasbah Myriem il 2 febbraio 1999. Faceva freddo. Ma sono stato conquistato dal luogo, dove, da allora, godiamo i benefici della lunga presenza delle suore, del capitale di  fiducia che resta acquisito.” La comunità conta oggi tre fratelli. L’altro Jean-Pierre, detto “l’anziano”, 87 anni, radioso e grave, ultimo testimone di Tibhirine; José Luis, 63 anni, dirigente di commercio diventato a 47 anni monaco di Santa Maria de Huerta in Spagna, uomo insieme franco e generoso, a volte percorso dall’urgenza; e Jean-Pierre, semplice e posato, abitato da un’instancabile fiducia. Frère Godefroy, ufficiale di marina diventato monaco di Aiguebelle, dovrebbe presto raggiungerli.


Questi monaci, che vivono secondo la regola dell’ordine cistercense di stretta osservanza, si ritrovano sette volte al giorno, fin dalle quattro del mattino, in cappella per pregare. Tra i molteplici compiti da svolgere, Jean-Pierre, l’unico che può guidare, si occupa degli acquisti, in gran parte al suk e nel negozio di alimentari di Hussein. Jean-Pierre detto “l’anziano” è incaricato della contabilità e fa il portinaio. José Luis, fratello incaricato dell’ospitalità, è anche molto occupato nei lavori intrapresi nel monastero da dieci anni.


Questi lavori devono molto alle qualità di costruttore di Jean-Pierre. A 18 anni, questo innamorato di vecchie pietre aveva comperato nel suo villaggio natale un edificio in rovina che era appartenuto
ad una struttura monastica e l’aveva restaurato. Più tardi, a Notre-Dame de Kutuba, aveva migliorato gli edifici delle piantagioni di caffé. A Midelt, ha trasformato la cappella, chiuso il chiostro, ristrutturato l’insieme del monastero. Ora quello che era il garage ospita la cappella Charles de Foucauld, benedetta da Mons. Vincent Landel, arcivescovo di Rabat, il 21 maggio, giorno del 15° anniversario della morte dei monaci di Tibhirine, ai quali è dedicato un memoriale. Il locale dove si trovavano le vasche per la tintura della lana è diventato la cappella del Padre Albert Payriguère (1883-1959), che vi riposa da circa un anno. Il laboratorio di tessitura ha lasciato il posto ad una comoda foresteria per accogliere i cristiani residenti in Marocco, nonché gli ospiti di passaggio alla ricerca, come dice mons. Landel, di “un luogo-sorgente dove prendersi il tempo di lasciarsi amare da Dio, di lasciarsi spogliare, e di comprendere meglio quanto il contatto con l’islam è un invito ad approfondire la propria fede cristiana”.


Appassionato di archivi, Jean-Pierre ha anche condotto delle ricerche sull’eredità spirituale della Chiesa in Marocco. Ha studiato i rapporti che esistono tra Charles de Foucauld e Notre-Dame de l’Atlas, si è entusiasmato per la testimonianza di quattro testimoni che amerebbe veder uscire dalla dimenticanza: Padre Albert Peyriguère, discepolo di Charles de Foucauld che si stabilì a El-Kbab, in una tribù di Berberi; padre Charles-André Poissonnier (1897-1938), eremita francescano che si stabilì a Tazert, dove morì a 40 anni di tifo; Élisabeth Lafourcade (1903-1958), membro dell’istituto secolare “Gesù operaio”, che divenne la “toubiba” (dottoressa) di Ksar-Es-Souk; Cécile Prouvost (1921-1983), francescana missionaria di Maria, che divenne  nomade tra i nomadi e le cui “sorelle” continuano la missione a Tattioune. I loro ritratti, dipinti da un pittore di Midelt, sono appesi alle pareti della sala del capitolo.
“Questi quattro testimoni ci mostrano quale debba essere la nostra presenza cristiana su questa terra d’islam, spiega Jean-Pierre. Una vita ‘con’, una vita di condivisione, di amicizia, secondo l’ultimo comandamento di Gesù: ‘Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato’ (Gv 15,12). Tutti e quattro hanno servito fino al limite delle loro forze, fino al dono della loro vita, per Amore. Con i sette fratelli di Tibhirine, è la stessa voce che ci giunge, la stessa linea spirituale che ci è tracciata.”


Al loro seguito, i fratelli dell’Atlas proseguono in una dolce austerità e in una reale precarietà la loro ricerca di Dio, aprendosi al contempo al mondo musulmano che li circonda. Vivono un dialogo quotidiano, in costante ricerca del giusto equilibrio tra chiusura ed apertura, con i loro vicini che fanno attenzione a che non siano disturbati nell’ora della preghiera e che chiedono loro talvolta di intercedere per loro. Due volte al giorno, condividono il tè alla menta a cui li invitano Omar e Baha, dipendenti del monastero, e anche un po’ “di casa”. A volte vanno anche nelle famiglie che li invitano a condividere il loro pasto. Il 22 maggio hanno ricevuto gli operai che li avevano aiutati durante i lavori, insieme alle loro famiglie e ai due imam delle moschee vicine.
“Noi siamo, come indica lo stemma di Notre-Dame de l’Atlas, un segno sul monte, conclude Jean- Pierre. Viviamo qui il mistero di Nazareth e quello della Visitazione che Christian de Chergé considerava una festa ‘quasi patronale’ della comunità dell’Atlas. Come Maria che parte per incontrare Elisabetta, noi andiamo ad incontrare ‘l’altro’”…


Se il paesaggio che contempla dal frutteto evoca per Jean-Pierre l’essenziale della vita monastica, allo scriptorium dove va ogni giorno dopo le prime lodi mattutine vi sono segni discreti ma di rara intensità che esprimono bene la sua vocazione. Sulla sua scrivania ha messo un quadretto con tre fotografie, quelle di padre Peyriguère, di padre Gabriel, morto due anni fa, e di Élisabeth Lafourcade. È lì che, nell’oscurità colma di silenzio, si dedica, accanto ai suoi fratelli, alla lectio divina, e ascolta al levar del giorno l’appello alla preghiera del muezzin.


(1) Due libri sono dedicati al monastero: Un signe sur la montagne, di Raymond Mengus, Éd. Salvator, p. 185, € 19.

Un monastère cistercien en terre d’islam, di Étienne d’Escrivian, Éd. Cerf, p. 272, € 20.


in “La Croix” dell’11 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

L’acqua del Vangelo e la dittatura dell’apparenza

 

Per riflettere insieme in questo giorno di Pasqua parto da alcune frasi del romanzo «Il nomade» (Feeria 2010) di Giuliano Agresti, l’Arcivescovo di Lucca che è scomparso nel 1990 lasciando in quanti lo conobbero il ricordo di una fede e di una carità vissute fino alla misura della santità.

Il protagonista del racconto è un uomo che nella maturità dell’esistenza decide di vivere da nomade, muovendosi su una povera bicicletta e facendo il mestiere di arrotino, forte solo della sua fede in Dio e del suo bisogno di libertà.

 

L’essersi fatto nomade non gli impedisce di seguire le vicende del suo tempo – l’Italia degli anni di piombo – e di portarne le stigmate nel cuore. «Gli doleva – afferma il racconto, chiaramente autobiografico – soprattutto una società presaga di ulteriori sfasci, involuzioni, tempi neri e che non trovava la forza morale di essere diversa. In questo più ancora lo provava lo spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negavano la profezia. Si sentiva addosso la suggestione dell’impotenza. Lo avrebbe reso cinico se non avesse avuto il suo “Dio familiare”».
Queste parole mi sembrano di un’impressionante attualità e danno ragione del tema che ho scelto di proporre alla riflessione comune in questa Pasqua: la profezia e il rischio della sua negazione.
La testimonianza biblica è concorde sul fatto che la profezia non s’inventa, non è frutto di carne o di sangue, né tanto meno è un atteggiamento legato al prurito di novità o al desiderio di farsi strada. Si è profeti per dono dall’alto, per vocazione e missione, e si vive la profezia in umile obbedienza all’Eterno, quasi costretti, nella condizione di chi non può sottrarsi a un obbligo che lo sovrasta e che gli chiede tutto.
Lo esprime bene una storiella, frutto di fantasia, eppure carica di verità. Un umile fedele, ricco di carità e amico del vero, muore e si presenta al cospetto di Dio. L’Eterno lo accoglie alla Sua presenza e dopo averlo a lungo scrutato dall’alto del suo trono, gli dice: «Sai che sei stato un profeta?». Lui risponde: «Signore, non me n’ero mai accorto!». Lo spirito profetico è dono ricevuto, e si vive nella docilità di un cuore umile e di una vita donata.
Che cos’è dunque la profezia? Spesso si pensa che essa sia un guardare in avanti, anticipando gli eventi. In realtà, nella Bibbia profezia vuol dire guardare la storia dalla fine, vederla cioè nella luce di Dio e misurarla sulle esigenze della Sua verità e del Suo amore infinito. Come ci fa capire l’Apocalisse – vera teologia della speranza sotto forma di teologia della storia – sguardo profetico è quello che riferisce tutto al sovrano e ultimo giudizio dell’Eterno. Per la fede cristiana rivelatore di questo giudizio d’assoluto amore è il Cristo: è in lui che apparirà la verità su ogni cuore, «e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto».
Lui solo è l’Amen, «l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». “Amen” richiama in ebraico la parola emet, che vuol dire sia verità che fedeltà, perché nella mentalità biblica la verità è un rapporto di alleanza, una fedeltà che non va mai tradita. La parola emet è composta da tre consonanti, “alef”, “mem” e “tau”, che sono rispettivamente la prima lettera dell’alfabeto ebraico, quella centrale e l’ultima: l’inizio, il centro e il compimento del mondo, che nelle parole viene rappresentato.
Si capisce allora come Gesù, «Alfa e Omega, Colui che è, che era e che viene», sia per chi crede la verità – fedeltà di Dio, nella cui luce tutto va vagliato nel suo autentico valore. Come Lui il profeta è testimone della verità, pronto a dirla anche quando fosse rischioso o risultasse perdente secondo la logica mondana.
Come Gesù è profeta chi annuncia la buona novella ai poveri qui e ora e proclama la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi, contagiando la libertà agli oppressi e la grazia ai peccatori oggi.
Nega, invece, la profezia chi guarda ai poveri – per esempio agli immigrati che fuggono dalla disperazione e bussano alle nostre porte – solo come a un problema o a un fastidio da evitare; chi considera i prigionieri delle schiavitù del nostro tempo – drogati, alcolisti, dipendenti dalle alienazioni prodotte dal mondo virtuale della rete – solo come colpevoli che si sono cercati la loro punizione, senza muovere un dito per aiutarli; chi giudica la cecità e lo smarrimento di tanti come la conseguenza inevitabile di loro scelte sbagliate, e non si adopera a testimoniare con amore la luce; chi, insomma, agli oppressi non s’impegna a dire una parola di speranza e a donare una possibilità di
liberazione. Parimenti, nega la profezia chi non chiama per nome il male, chi chiude gli occhi di fronte allo scandalo dato specialmente dai potenti moralmente corrotti e non ne denuncia l’intollerabilità in nome di un calcolo politico, di un volgare interesse.
Lo «spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negano la profezia» può riguardare, insomma, tutti, specialmente quanti dovrebbero proporsi come guide affidabili del popolo, lampade poste a illuminare la via. Il rischio è che non scorra più limpida l’acqua del Vangelo, e che possa un giorno venir imputato a quanti non danno voce alla verità di essere stati conniventi con un potere malato, con la dittatura dell’apparenza.
L’augurio che faccio a me e a tutti noi, credenti e non credenti appassionati al bene comune, è pertanto quello di un’autentica libertà di cuore, di una lungimiranza evangelica, di una capacità di pensare in grande, per sognare il sogno di Dio ed essere pronti a pagare il prezzo più alto perché esso prenda corpo nella vita degli uomini. Lo formulo con le parole di un cristiano d’altri tempi, che seppe credere nella forza della profezia di Gesù e la visse fino in fondo, pagando con la vita il coraggio della sua testimonianza: Tommaso Moro. Lord Cancelliere del Re d’Inghilterra, andò incontro al martirio pur di non rinnegare la propria coscienza piegandosi ai soprusi del sovrano o facendosi connivente con la sua vita corrotta.
Prigioniero nella Torre di Londra in attesa dell’esecuzione, scrisse tra l’altro queste parole: «Dammi la Tua grazia, Signore buono, per stimare un nulla il mondo, per aggrapparmi a Te con la mente e non dipendere dalla bocca degli uomini, per camminare nella via stretta che conduce alla vita e ritenere un niente la perdita della ricchezza del mondo, degli amici, della libertà, della vita, onde possedere Te».

*Arcivescovo di Chieti-Vasto

in “Il Sole 24 Ore” del 24 aprile 2011

Il senso della Pasqua per chi non crede


 

La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte

Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta.

 

Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul
terreno dell’oscuro e del difficile.

Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus , «la vecchiaia è per sua natura una malattia ». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo. Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono
curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi,
persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.

 

La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini. Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo,
leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne». Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.

Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla.

Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della  mia  fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione».

Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni.
L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre». O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.

 

in “Avvenire” del 15 aprile 2011

Il segreto di Gesù

1. Vogliamo vedere Gesù

 

 

Vogliamo vedere Gesù.” (Gio 12, 21). Era di fronte a loro, l’uomo, Gesù.

Non era che un uomo, canta Maria Maddalena nel film Jesus Christ Superstar;

e l’armonia sorprendente di quel canto ha attraversato, qualche anno addietro, le Contrade del mondo.

Non era che un uomo… Ma l’affermazione torna carica di evocazione e di mistero.

Non era che un uomo quando, entrato di sabato nella sinagoga, vi trova un uomo dalla mano inaridita: ‘e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato e poi accusarlo…

– mettiti nel mezzo.

– è lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?

– Ma essi tacevano.

– E guardandoli tutt’intorno, con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori,

disse a quell’uomo:

– stendi la mano!

– la stese e la sua mano fu risanata. (Cfr. Marco, 3, 1 e ss.)

Non era che un uomo quando la morte dell’amico lo sorprende.

– Se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto, suona carica di amarezza la voce

della Sorella…

– Tuo fratello risusciterà!

– So che risusciterà nell’ultimo giorno.

– Io sono la risurrezione e la vita. …

E, detto questo, gridò a gran voce: Lazzaro, vieni fuori!

E il morto uscì con i piedi e le mani avvolti in bene e il volto coperto da un sudario.

Gesù disse loro: Scioglietelo e lasciatelo andare.

Non era che un uomo quando gli portano una donna colta in flagrante adulterio e insinuano: Mosé, nella legge, ci ha ordinato di lapidare donne come questa.

Tu che ne dici?

Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.

E sulla loro insistenza:

– Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei.

E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.

Ma quelli, udito ciò, se ne andarono, uno per uno, cominciando dai più anziani, fino agli ultimi.

– Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?

– Nessuno, Signore.

– Neanch’io ti condanno; va’ e non peccare più.

Non era che un uomo quando umiliato  e vilipeso, sfigurato dal dolore, rivendica alta e sovrana la sua dignità.

– una delle guardie diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: così rispondi al sommo sacerdote?

Gli rispose Gesù: “ Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gio. 18, 22-23)

– e al potente di turno che presume di avere ogni potere su di lui, ricorda:

“Tu non avresti alcun potere su di me se non Ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande.” (Gio.19, 11)

Non era che un uomo?

Il centurione romano lo accompagna, scorta d’onore, fino alla croce. Lo vede morire di una morte atroce, come può morire un uomo.

E tuttavia vedendolo spirare in quel modo, come nessun uomo muore, disse: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!” (Mc 15, 39).

Allora i Greci avevano ragione: volevano vedere Gesù. I suoi i gesti e le sue parole rivelavano, ma contemporaneamente nascondevano chi era veramente Gesù.

Dietro il volto palese e fascinoso si sottraeva la vera figura del Maestro:

restava nascosto il segreto di Gesù

 

RPR    10 marzo ’11

La tristezza della lussuria

La sapienza dei padri della Chiesa fin dai primi secoli ha saputo distinguere tra alcuni peccati gravissimi – passibili di «scomunica» e di una lunga penitenza pubblica prima della riammissione nella comunità cristiana: apostasia, adulterio, omicidio, aborto…
– ma legati a un singolo gesto e altri peccati o vizi «capitali» che sono invece espressione di una patologia spirituale molto più profonda.
Comportamenti generati da «pensieri malvagi» che in certo senso minano la personalità stessa di chi li commette, facendolo finire in una spirale di depravazione sempre più disumana: autentici «vizi dell’anima», che nascono dal cuore e che a partire dal cuore vanno contrastati.
Tra questi la lussuria, il rapporto deformato con il sesso, una passione che porta a ricercare il piacere per se stesso, il godimento fisico avulso dallo scopo al quale è legato.
Il piacere sessuale è il più intenso piacere fisico, un piacere complesso che investe il corpo e la psiche, un piacere inerente all’atto sessuale, di cui tuttavia costituisce solo un aspetto.
Ora, se il piacere è cercato nella «quantità», nella compulsione, nell’eccedenza, l’incontro sessuale viene ridotto alla sola genitalità, al piacere fisico e all’orgasmo, l’interesse si focalizza sull’organo specificamente implicato in esso e lì si rinchiude, senza aperture ad alcuna finalità.
L’unico scopo diventa possedere l’altro per farlo strumento del proprio piacere: l’altro è ridotto al suo corpo, alle sue parti erotiche e desiderabili, diventa un oggetto, addirittura un elemento feticistico…
Ma l’energia sessuale è unificante quando è rivolta all’amore, alla comunicazione, alla relazione, cioè a una «storia» d’amore; ridotta all’erotismo, invece, essa frammenta, divide, dissipa il soggetto.
Chi è preda della lussuria assolutizza la propria pulsione e nega la relazione con l’altro, compiendo così una scissione della propria personalità e riducendo l’altro a una «cosa», prima ancora che a una merce.
Le pulsioni erotiche, non più ordinate e armonizzate nella totalità del sé, sfogano la propria natura caotica e selvaggia, fino a sommergere l’altro, indotto nella fantasia o nella realtà – quasi sempre con prepotenza – all’atto sessuale: la lussuria si manifesta là dove il piacere sessuale è incapace di sottostare alle elementari regole della dignità propria e altrui.
Eppure questa passione nasce nello spazio della sessualità, dimensione umana positiva tesa alla comunione tra uomo e donna: la complessità del piacere sessuale non riguarda solo la genitalità e l’orgasmo, ma coinvolge la persona intera, con tutti i suoi sensi.
Linguaggio d’amore, manifestazione del dono di sé all’altro, il piacere sessuale è coronamento dell’unione e, come tale, resta inscritto nella storia di un uomo o di una donna: appare nella pubertà ed è accompagnato dalla fecondità, per poi conoscere una stagione di sterilità, fino alla sua estinzione.
La lussuria, per contro, consiste nell’intendere il piacere come realtà scissa dai soggetti, dalla loro storia d’amore, ed è perciò una ferita inferta a se stessi e all’altro.
Quando si separa il corpo dalla persona, allora l’esercizio della sessualità è sfigurato, degenera, sfocia in aridità, diventa ripetizione ossessiva, obbedisce all’aggressività e alla violenza.
L’amore, che è dono di sé e accoglienza dell’altro, è smentito radicalmente dalla lussuria, che vuole il possesso dell’altro; e così il rapporto sessuale, che dovrebbe essere un linguaggio «altro», sempre accompagnato dalla parola ma anche eccedente la parola stessa, diventa la morte del linguaggio, della comunicazione, impedendo di fatto ogni comunione.
Viviamo in un contesto culturale, costruito ad arte da molti mass media e sfruttato dalla pubblicità, in cui l’unica realtà non oscena è quella dell’erotismo: è ormai inevitabile imbattersi in immagini erotiche, che si imprimono nella mente per riemergere in seguito e stimolare fantasie perverse.
Per reagire a tale clima ammorbante dovremmo acquisire la consapevolezza che la lussuria toglie la libertà: chi ne è schiavo finisce per asservirsi all’idolo del piacere sessuale, un idolo ossessionante che innesca una pericolosa dipendenza.
Chi è preda della lussuria è come malato di bulimia dell’altro, lo cosifica in modo reale nella prestazione sessuale o in modo virtuale nell’immaginazione.
La vera perversione in atto nella lussuria è infatti quella che induce a concepire l’altro come semplice possibilità di incontro sessuale, come mera occasione di piacere erotico.
Come non notare oggi il fenomeno della senescenza precoce dell’esercizio sessuale nelle nuove generazioni? Come ignorare l’esercizio di un eros virtuale, la  ornodipendenza da internet? Per questa strada ci si incammina verso il baratro di un libidogramma piatto, si uccide l’eros per sempre.
Una gestione sana del piacere sessuale comporta che la presa di coscienza di un corpo sessuato si accompagni alla volontà di incontrare l’altro nella differenza e nel rispetto dell’alterità: si tratta di integrare la sessualità nella persona, attraverso l’unità interiore della persona nel suo essere corpo e spirito.
Certo, richiede una padronanza di sé, ma questa è pedagogia alla vera libertà umana: o l’essere umano domina le proprie passioni oppure si lascia da esse alienare e ne diventa schiavo.
Il lussurioso riceve come salario del proprio vizio una tristezza e una solitudine più pesanti, alle quali pensa di riparare entrando nella spirale lussuriosa per nuove esperienze, nuovi incontri, nuovi piaceri: sì, una spirale «dia-bolica» che separa sempre di più piacere da relazione e fecondità.
Per questo la disciplina interiore, anche nello spazio della sessualità, è sempre opera di libertà e, quindi, di ordine e di bellezza: è uno sforzo di umanizzazione capace di trasformare anche l’esercizio della sessualità in un’opera d’arte, in un capolavoro che corona una storia d’amore.
in “La Stampa” del 19 gennaio 2011