L’Africa, grande speranza della Chiesa

18-20 novembre: viaggio del Papa in Benin. Per la seconda volta nel suo pontificato, Benedetto XVI si reca in Africa.

 

Segno dell’importanza che il papa, che viaggia poco, accorda a “quell’immenso polmone spirituale” rappresentato, ai suoi occhi, dall’Africa. Il continente, in cui la metà della popolazione ha meno di 25 anni, costituisce per Benedetto XVI  la grande speranza della Chiesa”.

Qual è l’obiettivo di questo viaggio?

È un viaggio lampo che chiude una sequenza aperta nel marzo 2009 in Camerun. La prima visita di Benedetto XVI sul  continente era stata contraddistinta dalle dichiarazioni sul preservativo, la cui distribuzione, aveva detto, “aumenta il  problema” dell’aids. Ma Benedetto XVI aveva anche consegnato ai vescovi un documento di lavoro preparatorio al  sinodo dedicato a “La Chiesa cattolica in Africa” nell’ottobre dello stesso anno.
Quel documento, che analizzava senza compiacimenti la situazione della Chiesa nel continente africano e si soffermava  a lungo sui mali di cui soffre l’Africa – povertà, corruzione, instabilità politica, tensioni religiose ed etniche, tribalismo  – è servito in questi due anni da ruolino di marcia per i vescovi.
Durante una messa a Cotonou in Benin, il 20 novembre, Benedetto XVI consegnerà loro l’“esortazione apostolica”  post-sinodale, che costituisce la conclusione di quei lavori e dei percorsi individuati per migliorare il ruolo della  Chiesa cattolica nelle società africane e per promuovervi, come desidera il Vaticano, “la riconciliazione, la giustizia e la  pace”.

Quali sono i paesi in cui vengono vissute vere tensioni interreligiose?

Somalia, Rwanda, Liberia, Congo… Sono paesi    devastati da guerre micidiali, quattro tragedie. Ma sono anche esempi che mostrano che “se in Africa ci sono violenze e  guerre, queste non si confondono nella maggior parte dei casi con guerre di religione”, afferma Christian Coulon,   professore emerito alla facoltà di Scienze Politiche dell’università di Bordeaux e specialista per l’Africa. I motivi di  questo sono molti. A parte poche eccezioni (Sudan, Mauritania, Comore e Jibuti), gli Stati africani si dichiarano in grande maggioranza laici. Del resto, “a differenza di quanto è avvenuto nel resto del mondo, il cristianesimo e l’islam in  Africa sono stati reinterpretati secondo gli idiomi e i precetti della cultura africana – che – li hanno pervasi di uno  spirito di tolleranza”, spiega Akintude Akinade, professore di teologia all’università di Georgetown (USA).
Perché allora tante violenze religiose in Nigeria e in Sudan, con milioni di morti nell’ultimo mezzo secolo? L’analisi dei  conflitti riguarda una realtà molto più complessa e non si riassume in scontri tra cristiani e musulmani. Per il caso della  igeria, Christian Coulon preferisce mettere in primo piano “la cultura della violenza che si è instaurata con  l’esplosione urbana, con la guerra del Biafra, con la corruzione della classe dirigente, in particolare con la mancanza di  regole politiche.
Cultura nutrita da una segmentazione territoriale che ha portato alla creazione di 36 stati federati, che cercano ognuno  i stabilire le proprie frontiere e di affermare la propria identità, in un contesto in cui prevale la pluralità  religiosa ed etnica, anche se certi gruppi esercitano una certa egemonia”.
“Le cause sono etniche e politiche, non hanno nulla a che vedere con la religione”, è l’analisi di Sulaiman Nyang,  specialiste dell’Africa e dell’islam all’università Howard, a Washington. Quanto al Sudan, non è un caso se la seconda  guerra civile (1983-2005) tra il Nord musulmano e il Sud cristiano ed animista sia esplosa poco tempo dopo la  scoperta di petrolio in quella parte meridionale del paese. Anche qui “le poste in gioco sembrano essere non tanto  religiose quanto politiche e territoriali”, osserva Christian Coulon.
Da quest’analisi non si può però giungere alla conclusione della neutralità del fattore religioso nei conflitti africani,  tanto più che tale fattore si inserisce in un contesto di sconvolgimenti sociali, economici e politici del continente.  Christian Coulon ricorda ad esempio che “il rinnovamento religioso in Africa e la comparsa di nuovi movimenti  religiosi (musulmani, cristiani profetici, o altri) portano delle mobilitazioni che, in certe situazioni, sono anche  suscettibili di creare rivalità e conflitti tra comunità.

Qual è lo sguardo della Chiesa sull’Africa?

I vescovi africani e il Vaticano non esitano a denunciare l’insieme dei mali di cui soffre il continente. Vi vedono in parte  elle cause interne legate alla cattiva governance e alla corruzione dei poteri costituiti, ma chiamano in causa  anche chiaramente “l’Occidente” per un certo numero di derive.
Nel loro documento del 2009, i vescovi africani denunciavano “le forze internazionali che fomentano guerre per  smerciare le loro armi” e accusavano l’Occidente di “sostenere poteri che non rispettano i diritti umani” o di “rapinare  le risorse naturali” del continente. Il papa stesso aveva denunciato il mondo occidentale che, nonostante la fine del  “colonialismo politico”, “continua ad esportare rifiuti tossici spirituali” sul continente. Agli occhi del papa, l’Africa è globalmente minacciata da due rischi importanti, “il materialismo e il fondamentalismo religioso”, allusione alle Chiese  vangelical e all’islam. La gerarchia cattolica si preoccupa anche di una “perdita dell’identità culturale africana  che porta al lassismo morale, alla corruzione e al materialismo”.

Qual è la situazione della Chiesa cattolica in Africa?

La Chiesa cattolica gode di una certa autorità nei paesi in cui opera stabilmente da lunga data. Presente nella gestione  degli ospedali e delle scuole, costituisce talvolta una delle rare istituzioni stabili e perenni in paesi attraversati da crisi  ricorrenti.
Anche se non frequenti, le prese di posizione di certi vescovi che criticano apertamente i poteri costituiti migliorano  l’immagine della Chiesa. In altri casi, il fatto che membri del clero si compromettano con i potentati locali mina in parte  a credibilità della Chiesa.
Per quanto riguarda l’aspetto religioso, la chiesa cattolica deve confrontarsi con le pratiche legate a credenze  ancestrali ancora molto vive: pratiche occulte, libagioni, culto degli avi, sacrifici offerti agli idoli e agli dei, stregoneria. L’istituzione denuncia quelle tradizioni, talvolta praticate perfino da membri del clero, come “incompatibili con il messaggio evangelico”.
Il clero africano gode di una giovinezza e di una vitalità che a volte i paesi europei gli invidiano. Ma il comportamento  dei suoi rappresentanti suscita delle critiche. Alcuni di loro gestiscono attività commerciali parallelamente al loro  ministero o non sfuggono alla corruzione diffusa. Rese fragili da una cattiva gestione, certe diocesi sono in fallimento.  Roma rimprovera loro anche di non rispettare sempre il celibato.
Preso dalla sua dottrina, il Vaticano sviluppa a volte analisi lontane dalla realtà dei paesi africani, in particolare in  materia di controllo delle nascite, di morale sessuale o di lotta contro l’aids. Inoltre, la denuncia ricorrente di  “edonismo” e di “materialismo”, che, secondo il Vaticano, riguarda anche l’Africa, può apparire lontana per  popolazioni che vivono al limite della povertà.

Quali sono le sfide con cui la Chiesa deve confrontarsi?

Come in altre regioni del mondo, la Chiesa cattolica in Africa si deve confrontare con la concorrenza di ciò che i  vescovi chiamano “la proliferazione cancerosa delle sette di tutti i tipi”, in altre parole le Chiese protestanti  evangelical, in pieno sviluppo. La lettura letterale della Bibbia o le promesse di guarigione e di ricchezza vantate dagli  evangelical riguardano gruppi di popolazione che la Chiesa cattolica non riesce necessariamente più a convincere.  Aggiunto alla sopravvivenza delle credenze tradizionali, questo fenomeno è una fonte potenziale di indebolimento  della Chiesa, per la quale il continente rimane comunque una potenziale terra di evangelizzazione.
Spesso presente in paesi a maggioranza musulmana, la Chiesa cattolica denuncia anche regolarmente il proselitismo  musulmano, la difficoltà per i credenti di esercitare la loro libertà di coscienza e di convertirsi al cristianesimo, oltre al  fondamentalismo, portatore “di intolleranza e di violenza”.
I religiosi africani si sforzano di lottare contro “il pensiero unico occidentale, che ha influenze nocive” sulla famiglia e  sulla morale sessuale. Infine, di fronte all’emigrazione, i vescovi auspicano di “suscitare negli africani subsahariani un  sussulto per una rinascita dell’uomo nero” e invitano i loro governanti a prendere in mano i destini dei loro popoli.

in “Le Monde – Géo & Politique” del 13 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

La ricetta europea sulla scuola italiana

 

Tra le 39 domande rivolte lo scorso 8 novembre dalla Commissione Europea al Governo italiano su come verranno “concretamente tradotti in pratica” (locuzione ripetutamente usata) gli impegni assunti dal presidente Berlusconi nella lettera inviata alle autorità comunitarie di Bruxelles, e in quella sede apprezzati, quattro riguardano il sistema di istruzione. Sono le domande numero 13, 14, 15 e 16, raggruppate sotto la voce Human Capital. Eccole.

13) Come verranno ristrutturate le singole scuole (individual schools) con risultati insoddisfacenti nelle prove INVALSI?

14) Come intende il governo italiano valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Che tipo di incentivi saranno utilizzati a tal scopo?

15) Con quali specifiche misure il governo intende incrementare l’autonomia e la competizione tra università? Che cosa comporta in pratica l’espressione “più spazio di manovra sui costi delle iscrizioni universitarie”?

16) Per quanto riguarda la riforma dell’università quali sono i provvedimenti attuativi che ancora devono essere adottati?

Ma la parte più interessante del questionario, per così dire, inviato al governo italiano è la premessa metodologica (General question), che vale la pena di riportare qui di seguito perché è con questo tipo di approccio e di linguaggio che l’Italia dovrà sempre più rapportarsi (la traduzione è nostra).

Si prega di fornire una versione commentata della lettera che indichi, per ciascuna misura o impegno:

1        se è già stato posto in opera, e – se lo è – con quale grado di implementazione;

2        se è stato già adottato dal governo ma non ancora approvato dal Parlamento: in tal caso, precisare i tempi dell’approvazione parlamentare e le modalità di attuazione;

3        se è un impegno nuovo, fornire un concreto piano operativo per la sua adozione e implementazione, compreso lo scadenzario e il tipo di strumenti giuridici che il governo intende utilizzare.

Si prega inoltre di indicare, se del caso, il costo preventivato (estimated budgetary impact) di ciascuna misura/impegno e le rispettive fonti di finanziamento.




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tuttoscuola.com lunedì 14 novembre 2011

 

Scuola: verso la revisione delle Indicazioni del 1° ciclo

 

Dopo l’informativa sindacale di una decina di giorni fa, anche in un altro recente incontro con i referenti degli Uffici scolastici regionali il Miur ha confermato che si va verso la possibile revisione delle Indicazioni per scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, assumendo a riferimento le Indicazioni per il curricolo varate dal ministro Fioroni.

Si tratta di una scelta molto chiara che, a quanto sembra, ha trovato il consenso del mondo sindacale e dovrebbe incontrare anche i favori degli insegnanti.

Per arrivare alla eventuale revisione delle Indicazioni, il ministero sta seguendo contestualmente varie piste di lavoro, la prima delle quali è il monitoraggio previsto dal regolamento per il primo ciclo (dpr 89/2009), affidato all’Ansas, che ha predisposto un apposito questionario (che le scuole potranno compilare entro il 30 novembre) in linea da una settimana.

Le prime valutazioni sul questionario sono sostanzialmente positive per il suo taglio “laico” rispetto alle riforme Gelmini. Potrebbe rappresentare effettivamente una opportunità per le scuole sia per una autovalutazione interna delle attività svolte in questo triennio sia per esprimere osservazioni e proposte utili per l’annunciata revisione delle Indicazioni.

Una cosa è certa: la scuola chiede, dopo anni di cambiamenti all’insegna della discontinuità, di mettere finalmente una parola ferma sulla definizione degli obiettivi di apprendimento e dei traguardi di competenza: una volta per tutte.

Per arrivare a quel traguardo il ministero è obbligato a tempi rapidi, ma ha fatto sapere che intende operare raccogliendo, oltre agli esiti del monitoraggio, anche documentazione di buone pratiche.

Se tutto andrà bene (sperando anche che vi sia ampia condivisione sulle scelte) le Indicazioni revisionate potrebbero essere pronte dal prossimo settembre (ma non significa che entreranno in vigore da quella data), avviando un processo di assestamento nelle scuole e di pianificazione delle produzione editoriali dei libri di testo.






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tuttoscuola.com lunedì 14 novembre 2011

 

Di fronte alle prospettive deflazionistiche: un nuovo modello di leadership

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano.

 

Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul PIL per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.

Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.

A questo punto le soluzioni non sono più tante.

Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento.

È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari.

È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia.

Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.

I paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino.

Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.

Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.

Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli.

L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.

Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce.

Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al PIL. Nei paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del PIL, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.

La soluzione è in mano ai governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione.

Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica.

Ma soprattutto i governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una “governance” adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

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Tra i numerosi interventi di Ettore Gotti Tedeschi sul crollo della natalità come causa ultima dell’attuale crisi economica mondiale, ecco una sintesi dell’articolo da lui pubblicato l’estate scorsa su “Atlantide”, rivista della Fondazione per la sussidiarietà, dell’area di Comunione e liberazione:

> Riprendiamo a fare figli e l’economia ripartirà

Su “L’Osservatore Romano” del 27 agosto 2011 Gotti Tedeschi si è pronunciato con ancor più energia contro la tassazione dei patrimoni privati, sostenuta da politici, sindacalisti, economisti, imprenditori e uomini d’affari di diversi paesi, oltre che da numerosi esponenti cattolici:

> L’orizzonte di Noè, per una vera soluzione della crisi

Gotti Tedeschi è inoltre fermamente contrario a una tassazione delle transazioni finanziarie in un paese come l’Italia, nel quale il risparmio delle famiglie è molto elevato. A suo giudizio questo risparmio privato, invece che punito con nuove tasse, dovrebbe essere indirizzato, con garanzie da parte dello Stato, a finanziare le imprese medie e piccole che sono l’ossatura dell’economia produttiva italiana.

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Una netta stroncatura del documento del pontificio consiglio della giustizia e della pace è venuta anche da un economista laico italiano di grande autorevolezza, il professor Francesco Forte, successore all’Università di Torino sulla cattedra che fu del grande economista liberale Luigi Einaudi, governatore della Banca d’Italia e poi presidente della repubblica dal 1948 al 1955:

> Il professor Forte boccia il temino targato Bertone

In Francia un commento critico del documento è venuto dal professor Jean-Yves Naudet, dell’Université Paul Cézanne d’Aix-Marseille III, presidente dell’Associazione degli economisti cattolici:

> Un texte qui doit inviter à la réflexion

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Il documento del 24 ottobre 2011 del pontificio consiglio della giustizia e della pace:

> “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”

E la presentazione che ne hanno fatto il cardinale Turkson, monsignor Toso e l’economista Becchetti:

> Conferenza stampa del 24 ottobre 2011

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L’enciclica “sociale” di Benedetto XVI:

> “Caritas in veritate”

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Monitoraggio delle Indicazioni Nazionali per il primo ciclo

Il ministero dell’istruzione, Direzione Generale degli ordinamenti scolastici, ha emanato il 4 novembre la circolare n. 101, con la quale fornisce indicazioni alle istituzioni scolastiche del primo ciclo, statali e paritarie, sul monitoraggio delle Indicazioni, previsto dall’art. 1 del Regolamento di riordino del 1° ciclo (DPR 89/2009).

Il monitoraggio, affidato all’ANSAS, è volto a raccogliere le esperienze che dal 2009 le istituzioni scolastiche hanno realizzato in ordine all’applicazione delle Indicazioni (nazionali/Moratti e per il curricolo/Fioroni) per realizzare al meglio le riforme introdotte dal ministro Gelmini.

Si tratta, come ben si può capire, di una importante operazione che servirà a conoscere apertamente lo stato di attuazione delle modifiche intervenute, le criticità e le potenzialità dei processi avviati, nonché per raccogliere gli esiti delle esperienze condotte e della relativa valutazione.

La finalità ultima del monitoraggio è, comunque, quella di contribuire all’eventuale revisione delle attuali Indicazioni e, proprio per questo, “è di tutta evidenza – precisa la 101 – che l’ampio concorso delle scuole alla sua compilazione potrà contribuire a tale rilevante operazione. In ugual modo tali risultanze saranno tanto più probanti in quanto frutto di approfondimenti da parte di tutto il personale scolastico coinvolto e di valutazione il più possibile condivisa”.

Sembra di capire che la compilazione del questionario non costituisce un adempimento obbligatorio per le scuole, ma piuttosto un’occasione di notevole importanza per contribuire alla revisione delle Indicazioni (e forse non solo di quelle).

Per dare la misura di questa operazione di cui non vi sono significativi precedenti per la dimensione del target di destinazione, bastano alcune cifre: nel settore statale le istituzioni scolastiche del 1° ciclo interessate al monitoraggio sono 7.161, i docenti di scuola dell’infanzia circa di 82 mila, quelli della primaria altri 200 mila e i prof. della secondaria di I grado 130 mila, per un totale complessivo che, dirigenti compresi, arriva a circa 420 mila persone. Per il settore paritario, dove le istituzioni scolastiche interessate sono circa 12 mila con quasi 70 mila unità di personale scolastico interessato.

La carica della 101 sfiora il mezzo milione di persone.


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Indicazioni nazionali, criteri e tempi per il monitoraggio

La circolare n. 101 del 4 novembre u.s., oltre a chiarire la finalità dell’operazione-monitoraggio per l’eventuale revisione delle Indicazioni, fornisce suggerimenti sulle modalità di compilazione del questionario (compilazione che avviene on line da parte delle scuole accreditate sul sito dell’ANSAS (http://www.indire.it/indicazioni/monitoraggio).

Dopo aver precisato anche che oltre al questionario, sono “allo studio ulteriori iniziative-focus per raccogliere dalle scuole significative esperienze sull’applicazione delle Indicazioni, al fine di disporre di una qualificata base di riferimento per l’eventuale revisione”, la Direzione Generale per gli ordinamenti scolastici indica le modalità per accreditarsi presso l’ANSAS e fissa come termine ultimo per la compilazione del questionario il 30 novembre prossimo. Ma chi dovrà provvedere alla compilazione del questionario?

Il Miur fornisce una risposta aperta e flessibile: “In considerazione del fatto che il questionario è strutturato in quattro parti, una di carattere generale e le altre riferite a ciascuno dei tre settori scolastici interessati (infanzia, primaria e secondaria di I grado), è possibile prevedere, a titolo esemplificativo, che il dirigente, eventualmente insieme al proprio staff di direzione, proceda alla compilazione degli aspetti generali, lasciando ai docenti l’incarico di rispondere alle domande sugli specifici aspetti del proprio settore, eventualmente tramite il personale docente incaricato di funzioni strumentali oppure mediante gruppi di lavoro o commissioni specificamente predisposte”.

Ci sembra un modo appropriato per affrontare questa importante operazione di rilevazione che non ha certamente caratteristiche referendarie, anche se non è difficile prevedere che non mancherà chi cercherà di darvi una applicazione strumentale.

C’è infine un ultimo consiglio fornito alle istituzioni scolastiche: è opportuno stampare copia del questionario, scaricabile in formato pdf sul sito dell’ANSAS, per farne oggetto preliminare di conoscenza, approfondimento e discussione prima della sua compilazione formale.


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Futuro dell’umanità

Tutti vorrebbero conoscere il futuro dell’ umanità. È più di una semplice curiosità o di un sfizio dell’ immaginazione. Si tratta di un bisogno arcano, da sempre nascosto nel profondo delle aspirazioni di ciascuno. Gli strumenti statistici e le analisi della società, tuttavia, riescono oggi, malgrado l’ invalicabilità del limite, a dirci qualcosa su come sarà probabilmente il mondo di domani. O, almeno, come potrebbe presentarsi la condizione di vita sulla Terra, se i parametri attuali rimanessero costanti. Cosa evidentemente insicura. È questo l’ argomento dell’ importante rapporto di quest’ anno del Fondo dell’ Onu per la popolazione. Il quadro che emerge sul futuro dell’ umanità appare veramente molto interessante. Intanto si conferma un dato del presente che riguarda il censimento complessivo. Dal 31 ottobre il nostro pianeta ha 7 miliardi di abitanti, un miliardo in più rispetto a 12 anni fa e 6 rispetto all’ Ottocento. Fin qui abbiamo a che fare non con le previsioni ma con una constatazione di base. L’ aumento demografico si consolida. Tanto che, se i tassi di crescita resteranno gli attuali, gli inquilini della Terra toccheranno nel 2100 la quota di 15 miliardi. Ma sappiamo anche che la tendenza attuale – come è già avvenuto prima – decrescerà nel futuro. Una prima riflessione s’ impone e riguarda la distribuzione degli incrementi che coinvolgono l’ emisfero nord in modo sensibilmente inferiore rispetto a quello centrale e meridionale. Nell’ Europa Occidentale ci sono oggi 170 abitanti per chilometro quadro. Nell’ Africa subsahariana 70. Maa nessuno viene in mente di affermare che in Europa ci sono troppe persone. Le ragioni macrodemografiche sono ovviamente complesse, coinvolgendo sia gli atteggiamenti economici che le identità culturali. In ogni caso il ritmo di aumento delle natalità, con il concorso effettivo della vita media, connesso con l’ invecchiamento occidentale, contribuirà di sicuro ad una forma di mescolamento migratorio inevitabile. Il documento delle Nazioni Unite, tuttavia, guarda soprattutto alle probabili modalità di configurazione dell’ ordine sociale dell’ avvenire. Si è registrato una costante intensificazione della mobilità, non soltanto da Paese a Paese, ma anche tra i diversi continenti. E, cosa abbastanza significativa, un processo di urbanizzazione crescente che si realizzerà in modo massiccio nei prossimi 40 anni. Qui si indica già un campo su cui attivare politiche adeguate, viste le tendenze all’ accentramento di popolazione di vasta scala nelle città. D’ altronde, il ruolo politico delle grandi metropoli sta diventando sempre più consapevolmente un perno del processo d’ integrazione democratica. Qui s’ incontrano demografia e cultura democratica. Il rapporto dà, però, in modo esplicito alcune indicazioni chiare sui giovani, cui è riconosciuto un potenziale enorme a causa del fatto che la metà della popolazione mondiale sarà composta da persone con meno di cinquant’ anni. Poiché l’ 80% proverrà da continenti in via di sviluppo, puntare su istruzione, salute e occupazione è interesse unanime. Stesso discorso anche per la condizione femminile che appare addirittura, tra le righe del resoconto, un elemento chiave per il bene comune dell’ umanità. L’ emancipazione del genere femminile, in costante accentuazione, garantirà insieme all’ acquisizione di un ruolo e di un’ identità specifica delle donne, un protagonismo fondamentale nell’ educazione delle successive generazioni. Due osservazioni di straordinaria rilevanza devono essere accompagnate a questi fatti. In primo luogo la constatazione, valida a livello globale, che non è possibile uno sviluppo complessivo dell’ umanità senza che le dinamiche spontanee siano supportate da interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’ accesso alle risorse. Questo primo punto è imprescindibile per scongiurare catastrofi umanitarie ed esiti negativi in termini di miseria e di impossibile sopravvivenza, specialmente nei Paesi cerniera che hanno rapidamente accesso a tassi di crescita significativi. In secondo luogo, come emerge con chiarezza nelle conclusioni del rapporto, è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite perché le crisi non verranno certo dall’ aumento della popolazione, ma dalle diseguaglianze culturali, ambientali ed economiche che possono insinuarsi. Per adesso, anzi, è una costante la crescita economica legata alla crescita demografica. Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’ applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali. Intervenire laddove gli sprechi sono estenuanti, pianificare un controllo degli investimenti, vuol dire garantire un’ espansione dell’ umanità in un mondo vivibile tendenzialmente e senza problemi da tutti. Appare, in tal senso, impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato nel permettere educazione, salute e formazione etica civilizzatrice della prole. Si deve riconoscere, insomma, che solo nel tessuto domestico si formano le categorie etiche fondamentali e si constata la pratica dell’ equa dignità tra i sessi, nonché la fiducia nel grado di umanizzazione che s’ intende diffondere a livello intergenerazionale. Dà comunque soddisfazione, per una volta, intravedere un quadro complessivo in cui non è la crescita di umanità ma la diminuzione d’ immoralità a minacciare il futuro. Un futuro, conviene precisare, che o è umano o non esiste. E per questo può pensarsi anche nel segno dell’ ottimismo.

 

Repubblica

02 novembre 2011 

Africa. Quella religione che immola i bambini

 

con una denuncia diretta, Benedetto XVI ha criticato le religioni tradizionali africane che arrivano ad uccidere vecchi e bambini come in una moderna caccia alle streghe

 

Il primo personaggio a destra nella foto, accanto al papa, al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e al rabbino David Rosen, è il professor Wande Abimbola, nigeriano.

Ad Assisi, al “pellegrinaggio” promosso da Benedetto XVI lo scorso 27 ottobre, Abimbola ha preso la parola “a nome dei capi e dei seguaci delle religioni indigene d’Africa”. Lui stesso è sacerdote e rappresentante mondiale della religione Ifa e Yoruba, diffusa in larga parte dell’Africa subsahariana e arrivata anche nelle Americhe sulla rotta delle migrazioni.

Parlando ad Assisi, Abimbola ha chiesto che “alle religioni indigene africane venga dato lo stesso rispetto e considerazione delle altre religioni”.

E Benedetto XVI – che quando scrive i discorsi di suo pugno, come in questo caso, non è mai politicamente corretto – l’ha preso in parola.

Nel discorso tenuto poco dopo ai trecento esponenti religiosi e “cercatori della verità”, il papa ha espresso considerazioni critiche su tutte le religioni, comprese le religioni tradizionali africane. Le ha accomunate in una storia fatta anche di “ricorso alla violenza in nome della fede”: una storia, quindi, bisognosa per tutte di purificazione.

Ma due giorni dopo l’incontro di Assisi, Benedetto XVI è stato ancor più crudo e mirato. Ricevendo in Vaticano i vescovi dell’Angola in visita “ad limina”, ha denunciato una violenza che in nome delle tradizioni religiose africane arriva persino ad uccidere bambini ed anziani:

“Uno scoglio nella vostra opera di evangelizzazione è il cuore dei battezzati ancora diviso fra il cristianesimo e le religioni tradizionali africane. Afflitti dai problemi della vita, non esitano a ricorrere a pratiche incompatibili con la sequela di Cristo. Effetto abominevole di ciò è l’emarginazione e persino l’uccisione di bambini ed anziani, a cui sono condannati da falsi dettami di stregoneria. Ricordando che la vita umana è sacra in tutte le sue fasi e situazioni, continuate, cari vescovi, ad alzare la vostra voce a favore delle sue vittime. Ma, trattandosi di un problema regionale, è opportuno uno sforzo congiunto delle comunità ecclesiali provate da questa calamità, cercando di determinare il significato profondo di tali pratiche, d’identificare i rischi pastorali e sociali da esse veicolati e di giungere a un metodo che conduca al loro definitivo sradicamento, con la collaborazione dei governi e della società civile”.

Già due anni prima, nel 2009, nel corso del suo viaggio in Angola, Benedetto XVI aveva sollevato la questione:

“Tanti vivono nella paura degli spiriti, dei poteri nefasti da cui si credono minacciati; disorientati, arrivano al punto di condannare bambini della strada e anche i più anziani, perché – dicono – sono stregoni”.

E aveva anche respinto un’obiezione corrente nella stessa Chiesa:

“Qualcuno obietta: ‘Perché non li lasciamo in pace? Essi hanno la loro verità; e noi, la nostra. Cerchiamo di convivere pacificamente, lasciando ognuno com’è, perché realizzi nel modo migliore la propria autenticità’. Ma, se noi siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che senza Cristo la vita è incompleta, le manca una realtà – anzi la realtà fondamentale –, dobbiamo essere convinti anche del fatto che non facciamo ingiustizia a nessuno se gli presentiamo Cristo e gli diamo la possibilità di trovare, in questo modo, anche la sua vera autenticità, la gioia di avere trovato la vita. Anzi, dobbiamo farlo, è un obbligo”.

Anna Bono, esperta di tradizioni africane, ha commentato sul giornale cattolico on line “La Bussola Quotidiana”:

“Ciò che il papa ha denunciato non succede solo in Angola. In Africa la stregoneria è una delle più radicate e persistenti istituzioni tribali. Se ne parla poco, forse anche perché la sua esistenza contraddice la prevalente rappresentazione delle comunità tradizionali africane come modelli di pacifica convivenza, tolleranza, equità e armonia sociale, depositarie di valori umani che l’Occidente avrebbe invece sacrificato al potere e al denaro”.

Nello stesso commento, Anna Bono riferisce alcuni casi recenti di uccisioni di bambini per motivi di stregoneria in vari paesi dell’Africa, o di loro mutilazioni “a causa delle proprietà speciali attribuite ai loro organi”, come avviene con gli albini.

C’è chi è rimasto stupito per una denuncia così esplicita di tali uccisioni, fatta da Benedetto XVI parlando ai vescovi dell’Angola.

I discorsi del papa ai vescovi in visita “ad limina”, infatti, passano sempre al vaglio della diplomazia vaticana, di solito molto prudente.

Questa volta, però, anche il revisore che se ne è più di tutti occupato, in segreteria di Stato, sapeva il fatto suo.

L’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, oggi sostituto segretario di Stato per gli affari generali, cioè numero due del governo centrale della Chiesa subito dopo il cardinale Tarcisio Bertone, era nunzio in Angola quando Benedetto XVI visitò quel paese, con tappa precedente nel Camerun, e sollevò il velo su quell’abominio.

Il 18 novembre prossimo papa Joseph Ratzinger si recherà in Benin per consegnare a una rappresentanza di vescovi del continente l’esortazione apostolica conclusiva del sinodo dei vescovi del 2009, dedicato appunto all’Africa.

Sarà interessante vedere che cosa il documento dirà sulle religioni tradizionali africane.

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Il discorso del 29 ottobre 2011 di Benedetto XVI ai vescovi dell’Angola:

> “Nella gioia della fede…”

E l’omelia tenuta dal papa a Luanda il 21 marzo 2009:

> “Come abbiamo sentito…”

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Il commento di Anna Bono su “La Bussola Quotidiana”:

> La strage dei bambini “stregoni”

La crisi economica: una riflessione sulle cause e le soluzioni

 

Crescere nella crisi.

Commissione famiglia e società della Conferenza dei vescovi di Francia

 


Tutte le analisi sull’attuale crisi economica indicano la necessità di «cambiare i nostri comportamenti e i nostri stili di vita. Tuttavia, sembra che a una simile lucidità non si accompagni una reale disponibilità al cambiamento. Anche quando pareva che vi fosse un consenso sulla necessità di un cambiamento di rotta, come nel caso della riforma del sistema pensionistico, sui termini delle modifiche da operare vi era poi un disaccordo tale che la sua realizzazione appariva frutto di una costrizione imposta piuttosto che un compromesso accettato in vista di un bene comune». Sembrano parole indirizzate al contesto italiano quel le a firma della Commissione famiglia e società dell’episcopato francese rese note lo scorso febbraio nel documento Crescere nella crisi. Esso, infatti, si rivolge a quel «malessere più generale » costituito dalla mancanza di «fiducia negli altri e nella collettività nazionale », che, assieme alla lucidità rispetto a un futuro incerto, generano «una grande angoscia, della quale la prossima generazione rischia di essere la prima vittima». Sullo stesso tema e con tonalità simili sono anche intervenuti i vescovi irlandesi (cf. in questo numero a p. 474).

J.-C. Descubes, Commissione famiglia e società Conferenza dei vescovi di Francia

 

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Dalla crisi alla speranza.

Consiglio giustizia e pace della Conferenza vescovi cattolici irlandesi


«Solidale con tutti coloro che soffro no a causa della crisi economica», il Consiglio per la giustizia e la pace della Conferenza episcopale irlandese ha pre sentato il 21 febbraio scorso una di chiarazione aggiungen do «la sua voce a tutte quelle che si levano per domandare un cambiamento positivo nella nostra società». L’attuale momento «di notevole inquietudine politico- finanziaria» vie ne analizzato – alla luce dell’en ci clica Caritas in veritate – con un’attenzione particolare ai «costi umani» di una crisi i cui effetti «sorprendenti e spaventosi» sono disoccupazione, insicurezza, «crollo del – la fiducia nelle istituzioni» e disperazione. Di fronte al fallimento di un modello economico e culturale, consapevoli che non si uscirà dalla crisi senza promuovere una «cultura della speranza», i membri del Consiglio offrono un’alternativa ispirata ai valori evangelici e alla dottrina sociale cristiana nella quale, tenendo conto «delle variabili presenti in ogni equazione politica: efficienza economica, libertà individuale, tutela dell’ambiente e giustizia sociale», an che «il principio di gratuità e la logica del dono» trovano spazio tra i criteri che possono e devono regolare l’attività economica.

Consiglio per la giustizia e la pace – Conferenza vescovi cattolici irlandesi

 

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Da consultare

Nota: “Per una riforma del sistema finanziario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale” (24 ottobre 2011)

 

 

Un nuovo modello di leaderschip

Ettore Gotti Tedeschi

Gli errori di interpretazione e la sottovalutazione dell’attuale crisi economica sono stati gravi e perdurano. Sono state male interpretate le sue vere origini, cioè il crollo della natalità, e le conseguenze che hanno portato all’aumento delle tasse sul pil per assorbire i costi dell’invecchiamento della popolazione. E sono stati sottovalutati gli effetti delle decisioni prese per compensare questi fenomeni, soprattutto con la delocalizzazione produttiva e con i consumi a debito.
Non sono stati poi presi nella giusta considerazione l’urgenza di intervenire e i criteri da seguire per sgonfiare il debito prodotto. Non è stato quindi previsto il crollo di fiducia che ha condotto al ridimensionamento dei valori delle Borse e alla crisi del debito.
A questo punto le soluzioni non sono più tante. Per ridurre il debito totale – pubblico, delle banche, delle imprese, delle famiglie – e riportarlo ai livelli precedenti alla crisi, cioè a circa il 40 per cento in meno, è immaginabile, ma non raccomandabile, cancellarne una parte con una specie di concordato preventivo in base al quale i creditori vengano pagati al 60 per cento. È pensabile, ma si tratta di un’ipotesi senza prospettive, inventare qualche nuova bolla per compensare il debito con una crescita di valori mobiliari o immobiliari. È valutabile – ma speriamo sia solo una tentazione – una tassazione della ricchezza delle famiglie, sacrificando però una risorsa necessaria allo sviluppo e producendo allo stesso tempo un’ingiustizia. Si può anche ricercare una via di sviluppo rapido, grazie a una crescita di competitività, che nella crisi globale non è però facile generare. Non ci sono capitali da investire, le banche sono deboli, il problema demografico penalizza la domanda e gli investimenti. In questo contesto, inoltre, i consumi a debito non sono nemmeno immaginabili.
I Paesi occidentali sono costosi e per renderli economici in tempo breve si dovrebbe intervenire sul costo del lavoro. Interventi di stampo protezionistico per sostenere le imprese non competitive produrrebbero però svantaggi per i consumatori e ridurrebbero i consumi già in declino. Si potrebbe svalutare la moneta unica, ma questa iniziativa condurrebbe all’aumento dei prezzi di beni importati.
Qualcuno, per sgonfiare il debito, pensa anche all’inflazione. Ma l’inflazione non si accende se la crescita economica è pari a zero, se i salari sono fermi, se incombe l’ombra della disoccupazione e se diminuiscono persino i prezzi delle materie prime.
Si potrà affermare che la spirale inflazionistica non si avvia finché non c’è sfiducia nella propria moneta. La questione è che oggi non ci si può fidare di nessuna valuta: tutte, compresi euro e dollaro, sono deboli. L’inflazione non parte anche perché la liquidità non circola, ma soprattutto perché quella creata dalle banche centrali ha sostituito quella prodotta dai sistemi bancari per sostenere la crescita a debito.
Il primo problema oggi non è quindi l’inflazione ma la deflazione. I mercati stanno infatti privilegiando la liquidità. Questo perché in regime deflazionistico il valore della moneta cresce, mentre durante l’inflazione decresce. Far progredire l’economia oggi senza aumentare il debito pubblico significa correlare i tassi di interesse al pil. Nei Paesi con un debito pubblico superiore al 100 per cento del pil, è evidente che, per ottenere una crescita dell’1 per cento senza fare aumentare il debito, bisogna avere tassi non superiori all’1 per cento, penalizzando in questo modo i risparmi.
La soluzione è in mano ai Governi e alle banche centrali che devono realizzare un’azione strategica coordinata di reindustrializzazione, rafforzamento degli istituti di credito e sostegno dell’occupazione. Questo richiederà tempo, un tempo di austerità nel quale ricostituire i fondamentali della crescita economica. Ma soprattutto i Governi devono ridare fiducia ai cittadini e ai mercati attraverso una governance adatta ai tempi, che, oltre a garantire adeguatezza tecnica, sia anche un modello di leadership. Cioè uno strumento per raggiungere l’obiettivo del bene comune.

(©L’Osservatore Romano 4 novembre 2011)

 

 

La vera crescita? Meno finanza e più produzione

Paolo Sorbi

Avvenire 3 novembre 2011

La continuità e la profondità dell’attuale crisi sistemica internazionale ha sorpreso in buona parte la comunità dei ricercatori. Grandi quantità di dollari e di euro sono state introdotte nei circuiti finanziari dagli stati del G20, ma sino ad ora non c’è nessuna credibilità di uscire a breve termine dalla crisi internazionale dell’economia/mondo. Si è, comunque, preso atto della fine di un lungo ciclo dello stesso sviluppo capitalistico globale.

 

 

 

I meccanismi liberistici senza regole non funzionano. Si è iniziata una riflessione sui temi della produzione e dell’economia riecheggiando tematiche “interventiste” degli stati nazionali pensando di ricopiare alcuni modelli keynesiani degli anni Trenta. Ma la natura della crisi globale non è assimilabile a quella della prima grande crisi del 1929. Gli attuali processi di stagnazione internazionale non sono l’assemblaggio delle singole crisi dei sistemi nazionali. Inoltre l’attuale crisi generale (non solo economica, ma anche culturale ed antropologica) inizia a bloccare le forti crescite economiche classiche che avevano visto per protagonisti gli stati ed i grandi territori del Brasile, della Russia, dell’India e della Cina. Contemporaneamente, negli ultimi due anni, dati Fao, il numero di coloro che sono affamati non solo non è diminuito, ma è accresciuto: addirittura del 25%.

Dai grattacieli di Manhattan, ai deserti dell’Africa centrale è tutto il ciclo della globalizzazione “soft” – cioè quella prima ed iniziale fase di globalizzazione della finanza e delle tecnologie che aspiravano ad una crescita senza contraddizioni – ad aver ceduto. Sono i “cicli lunghi”, studiati dall’economista, Kondratieff, delle conflittualità sociali e popolari, ad aver indotto ristrutturazioni ed innovazioni di portata internazionale. Gli esiti economici, all’inizio del terzo millennio, sono stati grandi mutamenti “hard” per il volto feroce che hanno assunto verso centinaia di milioni di nuovi poveri. Un altro “volano” che ritengo decisivo, è determinato dalle dinamiche-sociodemografiche su scala globale.

È stato il crollo della natalità in Usa, Europa e Giappone, ad essere uno dei vettori dell’attuale crisi internazionale di stagnazione dello sviluppo. Sono le ricerche del maggior economista-demografo contemporaneo Alfred Sauvy, a dimostrare che nell’Occidente della crescita zero, la mancanza di innovazioni è correlata al “grande inverno” dell’invecchiamento delle popolazioni. Quelle ricerche dimostrano che tra popolazione giovane, sviluppo economico ed innovazioni istituzionali c’è una forte correlazione. Colpisce la decelerazione economica, ancora poco studiata, della Cina. Cresciuta in anni di boom economico straordinario in modo impressionante, in recenti surveys della società “Oxford Economic” emergono dati preoccupanti di un deleveraging, vale a dire di una rapida ed improvvisa decrescita che potrebbe raggiungere uno stop netto verso il 2014.

Gli investimenti in Cina si fermano, perché crescono contemporaneamente i tassi bancari ed il costo del lavoro per l’estesa diffusione di lotte operaie e popolari. La catena delle forniture in Asia colpisce il motore profondo della crescita economica ininterrotta e si aprono problemi di recessione e disoccupazione anche in quei territori. L’estensione rapidissima di lotte sociali è emersa anche in tutta la realtà del colosso brasiliano. Conflittualità sempre più apportatrici di fiducia tra fasce sociali estremamente povere di quelle aree che, per la prima volta nella loro storia, si autoidentificano come lavoratori portatori di rivendicazioni e saperi culturali solidali. Quello che sta accadendo, durante questi recenti anni di crisi internazionale, non a sufficienza monitorato dalla ricerca sociale, è un grande mutamento di ciclo economico.

La globalizzazione reale ha voluto dire un processo di costruzione e di decentramento produttivo in una sorte di corrente tecnologica “nord-sud” del mondo. Ora invece quella corrente si rovescia verso una tendenza “sud-nord”. Nell’attuale crisi, innumerevoli realtà imprenditoriali multinazionali, sia americane che europee, cominciano a comprendere che non conviene più l’outsourcing produttivo in molte aree dei cosiddetti paesi in sviluppo.

Un recente studio del “McKinsey Quarterly”, fine del 2010, evidenzia che in Cina i salari sono cresciuti del 15% all’anno, dal 2000 al 2009. Nei prossimi anni di rallentamento, anche in Cina, i salari cresceranno, comunque, tra il 20 ed il 30% in più. Gli utili stanno diminuendo, perché i costi della produzione stanno rapidamente aumentando.

Ad esempio, Barack Obama, all’inizio di quest’anno, nel suo discorso sullo stato dell’Unione ha enfatizzato l’importanza del “rientro in patria” degli ordini manifatturieri e tecnologici. In Inghilterra la crescita delle piccole e medie imprese dei segmenti della meccanica e del tessile, dopo oltre tre decenni di declino, ha subito una rapida ripresa riportando quei segmenti produttivi, all’inizio degli anni Novanta. Insomma l’Occidente finanziarizzato ha in buona parte perduto i criteri dell’economia reale che non può essere un semplice mondo di servizi e consumi.

“Ritorno della produzione” in Occidente vuol dire, secondo recenti ricerche di team di sociologi industriali, tra cui Francesco Garibaldo, che bisogna mettere mano ad una riorganizzazione sul territorio anche del sindacato e dei suoi modelli di partecipazione e democrazia. È ovvio che le nuove produzioni saranno sempre di più finalizzate ai mutamenti ecosistemici, decisivi per aprire concretamente nuove strade di crescita, ma anche per aprire nuove strade a modelli sociali differenti ed, in parte, anche oltre le logiche del puro profitto capitalistico.

Non è il ritorno meccanico ad una tradizionale forza-lavoro industriale, ma è certamente una crescita di lavori collegata a queste nuovi materiali e nuove produzioni, a dinamiche di mobilità sostenibili, a dinamiche di manutenzione del territorio, a dinamiche anche di grandi opere, ma di certe opere, orientate alla conversione strutturale ed ecosistemica delle vecchie strutture capitalistiche che non possono produrre “nuova crescita”.



ATRI CONTRIBUTI


«Pochi giorni fa – ricorda il parroco – il Vaticano ha pubblicato una nota in cui chiede l’istituzione di un’autorità mondiale che regoli il mercato finanziario e monetario». Da qui le campane, piccolo segno per un proposito enorme: superare l’idea assoluta di libero mercato, che alla fine si riduce al «libera volpe in libero pollaio»
“Deve tornare alle profezie di allora [degli anni 60], il cattolicesimo, se vuole rispondere al collasso generato da quella che nel 1991 papa Wojtyla chiamò l’«idolatria del mercato»… Recependo Benedetto XVI, il documento vaticano rivendica il primato di spiritualità, etica e politica su economia e finanza… Intervenendo sul Financial Times, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams ha definito l’idea di un governo mondiale «alquanto utopistica», ma ha elogiato la concretezza della ricetta vaticana, contrapposta alla vaga protesta degli indignati di St Paul’s Cathedral”
“Pensare una riforma finanziaria senza fare opera di verità… significa votare al fallimento ogni tentativo. Affinché emerga un’economia “giusta e responsabile”, la Chiesa del Var ritiene che ogni attività economica debba avere come norma l’adeguatezza tra ciò che viene fatto e ciò che è dovuto. È doveroso rimettere l’uomo al centro dell’economia attraverso la definizione di un quadro etico”
“Le monastère au travail: le Royaume de Dieu au défi de l’économie”, un libro della sociologa Isabelle Jonveaux. “I monaci mostrano che un modello fondato su valori diversi da quelli del mondo – rispetto della persona, carità, aiuto reciproco, rifiuto del rendimento ad ogni costo – può avere successo… Ci propongono l’idea di un’economia della sobrietà: produrre in funzione dei bisogni e non di più. E se si riceve di più, si dona”
“Ma che mondo è questo nostro nel quale la concentrazione della ricchezza è tale per cui i bonus della Goldman Sachs, anno domini 2009, sono pari al reddito di 224 milioni delle persone più povere del pianeta? Globalizzare produzione e commerci, attorno al dogma della libera circolazione dei capitali, e deregolare le società occidentali, in nome del massimo lucro di manager e azionisti, ha prodotto il sonno del diritto. E come il sonno della ragione di Goya, anche questo genera un mostro: l’eccesso di disuguaglianza”
“All’interno delle categorie prevalenti nel modello di sviluppo ancora oggi dominante non c’è soluzione. Per uscire da questo circolo vizioso occorre cambiare prospettiva… Un prezioso contributo viene da Michael Porter, guru del pensiero manageriale internazionale, il quale opportunamente ha cominciato a parlare di «valore condiviso»”
“L’etica protestante del lavoro ha contribuito a far crescere le economie del nord Europa più di quelle dei paesi del sud del continente e gli effetti in questi mesi di crisi del debito sono evidenti a tutti…”
“l’arcivercovo di Canterbury Rowan Williams scomunica «gli idoli dell’alta finanza», ciechi e sordi… [e] chiama la Chiesa anglicana alla mobilitazione. Uno: occorre che gli istituti separino le loro attività commerciali «dalle transazioni speculative»… Due: si ricapitalizzino le banche con denaro pubblico a patto che le banche stesse «siano obbligate» a intervenire per rinvigorire l’economia reale… Tre, così come il Vaticano, anche la Chiesa anglicana… raccomanda l’adozione della «Tobin tax»”
“Gli indignati di Londra non ce l’hanno fatta ad abbattere il capitalismo, ma sono riusciti almeno a provocare un certo parapiglia nella Chiesa d’Inghilterra. Accampati da due settimane sul sagrato della cattedrale Saint-Paul, nel cuore della City, le poche centinaia di manifestanti hanno vinto un’importante battaglia nei confronti dei dignitari religiosi: questi ultimi hanno rinunciato in extremis a lanciare una procedura di espulsione, autorizzando de facto la stabilizzazione dell’accampamento”
Testo completo dell’articolo dell’Arcivescovo di Canterbury, Dr Rowan Williams, pubblicato sul quotidiano The Financial Times. “La Chiesa d’Inghilterra e la Chiesa Universale sono autenticamente interessate all’etica del mondo finanziario e al problema di sapere se le nostre pratiche finanziarie sono a servizio di coloro che hanno bisogno di essere serviti – o se sono semplicemente diventate idoli che chiedono per se stesse un servizio acritico”
“non è possibile uno sviluppo complessivo dell’umanità senza… interventi precisi e razionali che garantiscano equità nell’accesso alle risorse… è insensato lavorare su progetti neo-malthusiani di controllo e limitazione delle nascite… Investire in politiche sociali, senza più territori determinati e chiusi, significa trasferire inevitabilmente a livello planetario l’applicazione di certe prerogative etiche un tempo affidate agli Stati nazionali… impossibile non guardare alla famiglia come soggetto sociale privilegiato…”

 


La religione, un bene rifugio per rispondere alla crisi

Altro che società incredula, crisi del sacro, insignificanza della fede! Il «brusio degli angeli» abita ancora la nostra epoca, così densa di incertezze e paure, di esistenze precarie, di domande di senso.
La modernità avanzata non spegne il bisogno di Dio, anche se non riempie necessariamente le chiese. L’inquietudine  spinge alcuni verso nuove mete spirituali, ma i più ricercano certezze e rassicurazioni nella religione della tradizione,   anche se il loro cammino in questo campo è incerto e altalenante. Ciò vale in particolare in un’Italia in cui  l’appartenenza cattolica è ancora rilevante, nonostante la presenza sempre più marcata di altre fedi e tradizioni  religiose.
In che cosa consiste oggi la voglia di sacro, l’esperienza diretta del trascendente? Quote crescenti di italiani (anche non  particolarmente coinvolti nella pratica religiosa) sembrano vivere in un mondo «straordinario», che si manifesta  nell’avvertire la benevolenza di Dio nella propria vita, nella sensazione che di tanto in tanto Dio fa capolino nella  propria esistenza, nella percezione di aver ricevuto una grazia o un favore divino, nell’idea di far parte di un mondo di  spiriti e di mistero che trascende l’esperienza terrena.
Non da oggi, ovviamente, la gente presta attenzione ai segni del soprannaturale, anche se nel passato essi venivano  ercepiti e ricercati più all’esterno (nei luoghi della «rivelazione», nei  santuari, nelle Madonne che piangono) che nelle  pieghe della coscienza. Ciò per dire che non si tratta soltanto di un’eco attuale (o di un restyling) della religiosità  popolare, in quanto queste sensazioni e emozioni coinvolgono anche persone ben inserite nella modernità avanzata.  Saremmo dunque di fronte ad una tendenza moderna, che si è accentuata in Italia negli ultimi anni, in parte collegabile  ai tempi non facili di crisi economica che stiamo vivendo. Tuttavia, il fenomeno non è solo italiano, e la sua diffusione  ha spinto alcuni studiosi a parlare di un «reincantamento del mondo». Un’immagine che contrasta l’idea che l’epoca  attuale sia segnata dalla «deprivazione spirituale»; o che gli uomini e le donne del nostro tempo – parafrasando Peter  Berger – non siano più in grado di «parlare con gli angeli». In sintesi, molti avvertono il bisogno di «una sacra volta»  che li protegga; anche se non è detto che questo sentimento abbia a tradursi in un cammino di ricerca spirituale.
L’immagine di una «sacra volta» familiare sotto cui ripararsi rimanda ad un altro tratto di fondo: il ruolo svolto dal  cattolicesimo nel Paese, a cui ancor oggi dichiara di appartenere oltre l’80% degli italiani; e ciò pur in una stagione in  cui aumenta sia il pluralismo religioso, sia la ricerca di spiritualità alternative. Anche l’appartenenza cattolica ha una  funzione rassicurante per la nazione?
Perché molti continuano a identificarsi – pur in modo ambivalente – con il cattolicesimo, mentre in altri paesi europei  cresce (assai più di quanto avviene da noi) il gruppo dei «senza religione» e di quanti si ancorano ad altre fonti di  salvezza?
L’idea di fondo è che per molti italiani il cattolicesimo sia un affare troppo di famiglia per liberarsene a cuor leggero,  per confinarlo nell’oblio; o troppo intrecciato con le vicende personali per farne a meno nei momenti decisivi  dell’esistenza. Ovviamente il mondo cattolico italiano si compone anche di una minoranza di fedeli particolarmente  impegnati (circa il 20% della popolazione), in cui rientrano i praticanti regolari e i membri delle molte associazioni i cui rappresentanti si sono riuniti alcuni giorni fa a Todi a parlare di politica. Tuttavia, richiamando un’immagine del  cardinal Martini, oltre ai «cristiani della linfa», vi sono quelli «del tronco, della corteccia e infine coloro che come  muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero». Per cui, a fianco di credenti convinti e attivi, è larga la quota  di popolazione che continua ad aderire alla religione della tradizione più per i buoni pensieri che essa evoca che come  criterio di vita, più per l’educazione ricevuta che per specifiche convinzioni spirituali.
Nella società dell’insicurezza, può essere ragionevole non spezzare i legami con la religione prevalente, ritenendola un  serbatoio di risorse a cui attingere in caso di necessità; anche per non avventurarsi in percorsi religiosi che mal si  conciliano con la propria cultura e abitudini.
Parallelamente, l’adesione al cattolicesimo rappresenta per molti una sorta di difesa di un’identità
nostrana in un’Italia via via più multiculturale, soprattutto di fronte a un islam assai visibile sul
territorio e enfatizzato dai mass media.
Un rapporto flessibile, selettivo, «su misura» è dunque la cifra prevalente dell’adesione di molti italiani alla fede della  tradizione. Un cattolicesimo con propri tempi e ritmi, in alcuni casi più orecchiato che vissuto, evocato anche da chi  ha confinato la fede in una «memoria remota». La persistenza di questo cattolicesimo delle intenzioni o della forma (o  anagrafico, o di famiglia) è il dato più paradossale dell’epoca attuale. L’avvento del pluralismo culturale e religioso non  produce necessariamente l’abbandono dei riferimenti di fede, anche se ne condiziona l’espressione. Si può essere  convinti che non c’è più una fede esclusiva, che detiene il monopolio della verità; o che ogni credo umano e religioso  sia legittimo e plausibile se professato con serietà e coerenza; ma nello stesso tempo rimanere ancorati alla propria  tradizione religiosa se essa è in grado di offrire una risposta culturalmente collaudata alle questioni decisive  dell’esistenza. Qui emerge forse un limite della cultura laica pur ben presente nel Paese, che da un lato accusa la chiesa  di attribuire un’ anima cattolica anche agli italiani che vivono come «se Dio non ci fosse», ma dall’altro è in difficoltà ad offrire un set di risorse (conoscitive, simboliche, esperienziali) sufficientemente competitive circa il significato ultimo del vivere e del morire.

in “La Stampa” del 1° novembre 2011