Nuovi movimenti religiosi…

una sfida per la chiesa cattolica

Un fenomeno sottostimato ma in rapida espansione, un vero e proprio “boom”. Non usano mezzi termini gli studiosi per descrivere la diffusione negli ultimi anni dei “movimenti evangelicali, pentecostali e carismatici”.

È il termine “tecnico” usato nel mondo accademico per definire le “sette” o “i nuovi movimenti religiosi”. Un fenomeno trasversale a tutte le Chiese cristiane e difficilmente quantificabile, sebbene si stimi che i membri delle Chiese pentecostali nel mondo siano più di 400 milioni. A questo fenomeno è dedicata una Conferenza internazionale che ha preso avvio oggi a Roma ed è promossa dalla Conferenza episcopale tedesca. “Evangelicali, pentecostali, carismatici: nuovi movimenti religiosi, una sfida per la Chiesa cattolica”, il titolo della conferenza alla quale prendono parte rappresentanti del Vaticano, delle Conferenze episcopali e di molte diocesi, nonché studiosi del settore. A coordinare i lavori è la Conferenza episcopale tedesca che ha istituito negli anni Novanta un gruppo di ricerca per lo studio delle sette e dei nuovi movimenti religiosi. L’idea nasce da un’intuizione dell’allora presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, cardinale Walter Kasper. 

Fenomeno globale. “La scomparsa della religione a lungo attesa e data per certa non si è materializzata. Al contrario: in tutto il mondo, si osserva piuttosto un vero e proprio boom di religioni”. Si apre con questa constatazione la ricerca presentata dal professore di Munster, Karl Gabriel, che subito aggiunge: “Questo fenomeno globale di rinnovamento religioso ruota però intorno a gruppi che sono tradizionalmente indicati come ‘sette’”. La crescita della cristianità nel mondo è dunque ampiamente dovuta ai nuovi movimenti religiosi. In America Latina – fa notare lo studioso – le Chiese pentecostali sono cresciute a “un ritmo mozzafiato” per diversi anni. L’Africa del Sud è testimone di un’espansione del cristianesimo carismatico. E anche in Asia orientale, compresa la Cina, le forme carismatiche del cristianesimo sono in crescita. 

Che cosa si cela dietro questo fenomeno? La lista di fattori endogeni di crescita è lunga: concorrono sicuramente anche gli “sconvolgimenti sociali ed economici del Sud del mondo” e i nuovi movimenti offrono ai propri seguaci “identità e significato”, “rafforzano l’autostima”, “permettono alle persone di sentirsi a casa”. La ricerca commissionata dalla Conferenza episcopale tedesca e presentata a Roma ha preso in visione 4 Paesi: Costa Rica, Filippine, Ungheria e Sud Africa. Nel capitolo riservato al Costa Rica, interessante è il coinvolgimento delle donne in questo fenomeno, perché sono soprattutto loro a essere maggiormente attratte da questo tipo di proposta religiosa e le ragioni vanno anche ricercate nelle condizioni di precarietà in cui spesso si trovano a vivere. 

Il dialogo. “La realtà pentecostale e carismatica è una realtà trasversale che è entrata praticamente in tutte le tradizioni cristiane. Si parla già da un decennio di una pentecostalizzazione del cristianesimo”. Così spiega a margine del convegno mons. Juan Usma Gomez, esperto conoscitore del movimento pentecostale per il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Il fenomeno è “fonte di preoccupazione per tutti i vescovi in diversi continenti”. E il Pontificio Consiglio ha affrontato la questione perché “cosciente dell’importanza di conoscere i pentecostali e di dare una risposta concreta alla comunità cattolica locale”. Mons. Usma fa notare come dal 1972 è stato avviato il dialogo internazionale cattolico-pentecostale che ha permesso di “superare pregiudizi e idee preconcette” ma anche di “affrontare temi difficili come il proselitismo e la conversione”.

Quale il segreto di tanto successo? “Magari si potesse dare una risposta semplice”, dice mons. Usma. “Vi sono molte risposte. Alcune sono positive: riescono a dare il senso di Dio, rinnovata spiritualità, stile attraente e consono ai tempi odierni. Altre sono negative: proselitismo, inganno, promesse di beni spirituali e di prosperità materiale”. Possono influire anche “debolezza psicologica e ingenuità”. “Ad ogni modo essi riescono a offrire un’esperienza di Dio nei loro seguaci”. Una certa “demonizzazione” verso questo fenomeno, aggiunge mons. Usma, “ha impedito ai cattolici di capire la loro forza e fatto sottostimare il loro potere di fare seguaci”. Come allora affrontare la questione? “Conoscendolo e facendosi conoscere. È cioè importante conoscerli e far conoscere loro il vero volto della Chiesa cattolica e dei cattolici”.

Una sfida per le chiese

I dati sono da capogiro: secondo gli studiosi, dall’anno 2000 i carismatici e i pentecostali in tutto il mondo stanno aumentando al ritmo di circa 19 milioni ogni anno. E il Centro di ricerca “per lo Studio del cristianesimo globale” (Stati Uniti) afferma che nel 2000 i credenti carismatici/pentecostali erano già circa 582 milioni. Si prevede che entro il 2025 arriveranno a quota 800 milioni e che entro il 2050 i pentecostali potrebbero raggiungere il numero dei credenti indù nel mondo. Insomma, da movimento essenzialmente nuovo alla fine del XIX secolo, il pentecostalismo è diventato il movimento sociale o religioso con il maggior successo del ventesimo secolo. Questi i “numeri” con cui uno dei massimi esperti del fenomeno, Philip Jenkins, della “Baylor University”, ha aperto la sua relazione intervenendo oggi a Roma a una conferenza internazionale sui nuovi movimenti religiosi organizzata dalla Conferenza episcopale tedesca. Una tre giorni di dibattito e confronto alla quale hanno partecipato rappresentanti del Vaticano, membri delle Conferenze episcopali nazionali e studiosi. Scopo dell’incontro quello di delineare il fenomeno e cercare di dare orientamenti per azioni pastorali alle Chiese locali. Maria Chiara Biagioni, per il Sir, ha seguito l’incontro.

Le ragioni di un successo. La ricerca presentata da Jenkins ha cercato di capire che cosa si nasconde dietro al fenomeno del pentecostalismo il cui successo nel mondo va ricercato anche a partire dal contesto demografico mondiale: a fronte di una popolazione in rapida crescita in regioni del mondo come Africa, Asia e America Latina, l’Europa – demograficamente parlando – è in rapido declino. Questi nuovi movimenti religiosi, inoltre, fanno presa nelle aeree periferiche delle grandi metropoli, abitate soprattutto negli ultimi anni da milioni di migranti in fuga dalle zone rurali. In queste condizioni non solo di estrema povertà ma anche di “forte senso di estraneità”, questi movimenti offrono accoglienza, supporto, cura spirituale. È un fenomeno facilmente registrabile nelle favelas brasiliane e può spiegare, per esempio, il successo a San Paolo di un gruppo evangelicale dal nome “Renascer em Cristo” che riesce a riunire ogni anno ad aprile per la “Marcia per Gesù” dai 2 ai 3 milioni di persone. Non si può, dunque, approcciare questa realtà, senza tenere conto di questo aspetto fondamentale dei nuovi movimenti religiosi: quello di dare “rifugio” alle persone. Più ancora, una “famiglia”, dove “i suoi membri si aiutano vicendevolmente per superare le difficoltà della povertà”. Molto forte poi anche è il fattore “miracoli” e “guarigioni” soprattutto in contesti dove la povertà è causa di privazioni, malattie, fame, inquinamento, droga e prostituzione. “In contesti simili – nota Jenkins – è facile capire perché la gente si fa facilmente prendere dall’affermazione di essere sotto l’assedio delle forze demoniache, e che solo l’intervento divino può salvare”. 

Un fenomeno “non preso in considerazione a sufficienza”. Così il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, descrive al Sir la realtà dei nuovi movimenti religiosi, pentecostali ed evangelicali. “Questo fenomeno – dice – mostra che è in atto un grande cambiamento nel paesaggio ecumenico e che si affacciano nel dialogo nuovi partner”. E sulla possibilità di avviare un dialogo con una “galassia” così complessa, il cardinale Koch risponde: “Noi possiamo avere un dialogo solo con coloro che esprimono il desiderio di avere un dialogo”, facendo notare come “alcuni gruppi pentecostali si definiscono anti-ecumenici e anti-cattolici”. La strada del dialogo in questi contesti viaggia, comunque sia, a livello nazionale e locale. “Occorre prendere in seria considerazione questo fenomeno – ripete il cardinale -. Credo che sia questa la sfida principale e pone una domanda: che cosa facciamo? Perché la gente che appartiene alle nostre Chiese, non solo cattolica ma anche protestanti, si allontana? È una grande domanda, una grande sfida per noi”. “Le ragioni degli abbandoni sono molto differenti tra loro”. È però assolutamente necessario conoscerle e interrogarsi sulla “realtà del cristianesimo e della Chiesa cattolica in quel determinato Paese”. Quale orientamento pastorale suggeriscono questi movimenti? “In primo luogo – afferma il presidente del Pontificio Consiglio – un nuovo slancio missionario ma per essere missionari dobbiamo prima essere noi stessi convinti della nostra fede. E questa deve essere semplice, vera, buona e bella”.

 

La “Saggezza digitale” compito di riflessione per i cattolici

La rete e la carta. Due modalità di comunicazione il cui rapporto può apparire problematico e che in più di un caso vivono un conflitto. Ma nessuno può negare che il futuro della comunicazione passa attraverso un rapporto sempre più virtuoso tra la stampa e Internet. A dirlo sono le 186 testate cattoliche aderenti alla Fisc (Federazione italiana dei settimanali cattolici), riunite in convegno a Chioggia da oggi a sabato sul tema “Informazione in rete: carta stampata e web”. Presenti in circa 170 diocesi, queste testate (1 agenzia, 6 on line, 1 quotidiano, 2 bisettimanali, 128 settimanali, 18 quindicinali e 25 mensili) raggiungono gran parte del territorio nazionale e pure gli italiani all’estero, con 5 giornali loro dedicati. “Giornali di carta e Rete sono destinati a viaggiare insieme, non per combattersi, ma per richiamarsi a vicenda”, ha esordito il presidente nazionale della Fisc e direttore del “Corriere Cesenate”, Francesco Zanotti, aprendo i lavori. Mentre monsignor Vincenzo Tosello, direttore di “Nuova Scintilla” (Chioggia), ha ripercorso i cent’anni della testata, il cui anniversario viene celebrato con questo appuntamento. Infatti, il logo prescelto unisce la prima testata (“La Scintilla”) a una raffigurazione della versione attuale per tablet. 

Tra difficoltà e mutamenti. Certo, per la carta stampata non mancano le difficoltà, specie in questo periodo, motivo per cui serve “un’attenta analisi dei fenomeni in atto nel campo della rete e della multimedialità e nel contempo una lungimirante lettura dei possibili sviluppi al fine di orientare le scelte nell’ambito della stampa diocesana”, ha richiamato nella prolusione monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e presidente della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali. Il primo dei problemi è di natura economica: cala la pubblicità e “le vendite risentono della minore disponibilità di risorse economiche”. In secondo luogo, “la possibilità per ognuno di accedere all’informazione in tempo reale e gratuita su web, tv e radio”. A tal riguardo, ha sottolineato, “è cambiato il nostro modo di ricercare e apprendere informazioni”, “siamo bombardati e ‘inseguiti’ da un enorme flusso, potremmo dire un ‘torrente impetuoso’ d’informazioni, sempre a portata di mano attraverso un unico strumento: lo smartphone o il tablet”, mentre “la corsa all’acquisto tecnologico, sebbene rallentata, è l’unica ancora in continua crescita”.

La “saggezza digitale”. Conseguenza del “torrente” informativo del web è la mancanza di filtri e gerarchie tra le notizie. “Oggi domina il criterio della velocità”, ha osservato Giuliodori, interrogandosi “se non si stia sacrificando la qualità comunicativa, e quindi relazionale, sull’altare della quantità e dell’efficienza”. In altri termini non basta usare il digitale, ma bisogna conseguire una “saggezza digitale” – ovvero la “capacità di prendere decisioni più sagge in quanto potenziate dalla tecnologia”, secondo la definizione di Marc Prensky – ed è questo il “nuovo passo evolutivo del genere umano”, senza il quale “la società moderna corre il rischio di un’involuzione”. Un passo al quale i cattolici sono chiamati elaborando “strategie di marketing non soltanto commerciale, ma che potremmo definire preminentemente ad alto impatto antropologico, finalizzato a rilanciare con forza questo prezioso servizio la cui peculiarità è rappresentata dalla capacità di cogliere e comunicare i valori fondamentali”. “Chi, se non la stampa cattolica, potrà avere il compito difficile, ma assai urgente, di far comprendere l’importanza di un’etica della comunicazione?”. Questa la domanda posta dal presule ai rappresentanti delle testate cattoliche, invitandoli “a non perdere, cammin facendo, l’essenziale della nostra vocazione e missione”.

Sfida educativa. In gioco c’è “una sfida che è innanzitutto educativa”, come ricordano gli Orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio. Di fronte a uno “sviluppo esponenziale dei mezzi di comunicazione”, “dev’essere potenziato – ha sottolineato il vescovo – l’impegno a svolgere un ruolo incisivo a livello culturale e sociale”. “Così – ha aggiunto – le nostre testate vivranno e si rafforzeranno se riusciranno a promuovere e a stimolare il dialogo nelle realtà locali, poiché la loro missione è soprattutto formativa e a servizio della comunità”. “La stampa cattolica – secondo Giuliodori – deve mantenere e potenziare la capacità di essere una bussola nel mondo dell’informazione”, “avere la forza e l’audacia di rivolgersi agli utenti dei nuovi media”, offrendo “un’informazione in grado di accompagnare il lettore attraverso gli spazi di riflessione, di confronto e approfondimento”, “generando una comunicazione efficace, capace anche di sedurre, ma soltanto per accompagnare lo sguardo, l’attenzione del lettore e il suo cuore verso un ‘oltre’”. Il presidente della Commissione Cei ha infine ricordato “l’eccellente esempio del quotidiano ‘Avvenire’ e di non pochi settimanali diocesani”, evidenziando che, “di fronte al bombardamento d’informazioni e d’immagini, la nostra stampa può rappresentare il mediatore capace di valorizzare, raccogliere e, se necessario, filtrare le notizie smascherando quelle false e accompagnando nella lettura critica dei nuovi ambienti digitali, dalle potenzialità straordinarie, ma anche pieni d’insidie”.

a cura di Francesco Rossi, inviato Sir a Chioggia

La svolta digitale

Carta stampata e web non sono certo in contraddizione, anche se effettivamente spesso sono ormai in concorrenza, fino al punto che i giornali cartacei paventano una sorta di ineluttabile declino sull’onda sempre più travolgente della Rete. Di fatto, le cose non sono così drammatiche, tanto è vero che sorgono e si affermano anche nuove testate a stampa. Il che significa che – in particolare nel mondo dell’informazione – il successo, o semplicemente il gradimento, dipendono, più che dallo strumento in sé, da cosa si ha da dire e da come lo si dice o lo si vuol dire.
Riflettere su questo tema, vitale per il presente e per il futuro della loro stessa esistenza, significa per i settimanali diocesani – molti dei quali, come il nostro, vantano oltre un secolo di vita e di servizio alla gente e al territorio – dotarsi di una marcia in più per arrivare, attraverso la potente Rete globale, a molte più persone, in differenti modalità, e molto più in là rispetto ai nostri confini.
Nel nostro caso “La Scintilla”, fondata cent’anni fa, già diventata settant’anni fa “Nuova Scintilla”, è chiamata a rinnovarsi ulteriormente, questa volta non tanto nel nome della testata ma nelle modalità di approccio ai lettori, che sono sempre più anche “navigatori” della Rete, o “internauti” come vengono sinteticamente definiti: un pubblico certamente più giovane rispetto alla cerchia consueta dei nostri abbonati, un pubblico per alcuni aspetti anche più esigente e più interattivo, grazie alle molteplici possibilità di comunicazione offerte, oltre che dai siti, dai vari social network in cui noi, come già vari altri settimanali diocesani, siamo presenti e attivi.
Si tratta, concretamente, di rivedere anche il modo di pensare il giornale cartaceo in stretto collegamento con i vari interventi in Rete o, addirittura, con una vera e propria edizione on-line, che già alcuni stanno realizzando. Senza nulla togliere al valore della carta stampata – che dalla propria storia plurisecolare di servizio informativo e formativo trae motivo di giusto orgoglio e, ci auguriamo, anche linfa per sempre nuove fioriture – è fuor di dubbio che siamo stimolati a perseguire nuovi traguardi, senza bloccarsi in una sorta di deleterio arroccamento e senza fermarsi impauriti dalla gravità e dall’urgenza del compito.
Il convegno che si svolge a Chioggia da oggi al 13 aprile, sulla scia di altri recenti incontri nazionali che hanno aiutato i mass media d’ispirazione cristiana a riflettere sull’incalzante realtà del web, vuol essere appunto una sorta di presa di coscienza collettiva delle nostre 186 testate federate nella Fisc per un impegno comune che metta insieme idee, progetti ed energie, in modo da rispondere meglio alle inevitabili e avvincenti sfide dell’era digitale.
Circa vent’anni fa (nell’ottobre del 1994), proprio da Chioggia, dove si svolgeva il convegno Fisc sul tema “Informazione e mercato”, veniva lanciata la formula delle “sinergie” per affrontare le esigenze del mercato editoriale trasformato dalle nuove tecnologie e dalle impellenti esigenze di allora. Ora da Chioggia può scaturire per i nostri settimanali – ce lo auguriamo, anche per la competenza dei relatori e per la concretezza del dibattito che s’intende portare avanti – un nuovo impulso per affrontare insieme l’attuale “era digitale”. Ciò comporterà tracciare alcune linee comuni e prospettare anche progetti comuni (alcuni già sono in cantiere), attraverso la conoscenza e lo scambio delle esperienze in atto, ma anche con l’ardire verso nuovi sviluppi.
Come siamo convinti che non sono strumenti contraddittori, ma eventualmente complementari, il cartaceo e l’on-line, così sappiamo che non c’è contraddizione ma integrazione tra informazione nel territorio – nostra peculiare vocazione – e sguardo globale – nostra esigenza originaria già iscritta nel Vangelo che annunciamo. Raccontare il territorio nel web diventa più impegnativo, per esigenze tempistiche e di sintesi, ma è anche più efficace e a più ampio raggio, esposti e, in un certo senso, costretti alla verifica più immediata dei contenuti e dei metodi della comunicazione. Stampa e web hanno molto da condividere e, allo stesso tempo, molto da offrire, insieme, al vasto mondo di lettori e navigatori, anch’essi sempre più coinvolti nell’essenziale opera informativa.

 (*) direttore “Nuova Scintilla”

Stampa e web, crescere insieme

Non ci sono nuovi media che scacciano i vecchi, ma gli uni e gli altri vanno valorizzati secondo le loro specifiche caratteristiche. A riflettere su questo “doppio binario” contribuirà il convegno nazionale della Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc), che prenderà il via domani a Chioggia e ha per tema “Informazione in rete: carta stampata e web”. 186 le testate rappresentate dalla Fisc, tra cui “Nuova Scintilla”, il settimanale della diocesi che ospita il convegno, che festeggia i 100 anni dalla fondazione. Alla vigilia dell’appuntamento il Sir ha incontrato Francesco Zanotti, presidente nazionale della Fisc.

Quale messaggio intende dare la Federazione con un nuovo convegno dedicato al digitale?
“Vogliamo continuare a interrogarci su questo doppio versante della convivenza tra stampa e rete e sulle sfide che il web pone alla carta stampata. Dovremmo essere ‘inquieti’, coltivare quella sana inquietudine che ci rende desti e attenti al mondo in cui viviamo. Il rischio che corriamo, oggi più che mai, è quello di ‘sederci’ nelle redazioni mentre le notizie ci piovono addosso. La rete, invece, ci chiede con ancora più forza di essere originali. Le notizie si trovano se si sta in mezzo alla gente e, in un momento di risorse scarse, ci è chiesto un supplemento d’impegno”.

D’altra parte, proprio Internet favorisce questa “pioggia” d’informazioni…
“Non dobbiamo solo selezionare nel mare magnum delle notizie che ci arrivano. Come testate della Chiesa locale abbiamo una nostra originalità, prima di tutto nel territorio in cui ci troviamo, nelle nostre comunità, nelle storie della gente: possiamo raccontare la vita di parrocchie, gruppi, famiglie numerose, difficoltà e dolori vissuti in maniera esemplare. Noi possiamo leggere la realtà anche da un altro punto di vista. E lo possiamo fare pure attraverso la rete”.

Quindi, la rete è una risorsa per i giornali del territorio?
“Sì, dobbiamo solo evitare il rischio di una velocità che ci renda schiavi. Al contrario, è nostro compito specifico invitare alla riflessione, al ragionamento serio e pacato”. 

È possibile, a tal fine, coniugare cartaceo e web?
“Direi che è doveroso. Penso che si debba lavorare insieme tra cartaceo e web: sono due modalità per raggiungere pubblici diversi, o magari anche il medesimo, ma con approcci differenti. Oggi, per stare sulla rete, dobbiamo essere veloci e sintetici, pur sempre nel rispetto della notizia e della persona. È ciò che ci domanda chi va sui nostri siti. Mentre sulla carta stampata il lettore ci chiede un approfondimento, magari un commento. Inoltre il web ci consente ancora di più di diventare ‘rete’: una rete (di giornali del territorio) nella rete (digitale)”.

Sull’utilizzo delle nuove tecnologie già da anni vengono proposte riflessioni: si pensi ai convegni della Chiesa italiana (da “Testimoni digitali” ad “Abitanti digitali”, solo per citare i più recenti), ai messaggi del Papa per la Giornata delle comunicazioni sociali, ai precedenti convegni della Fisc (“Territorio e Internet, due luoghi da abitare”, titolava l’incontro di Cesena nel 2011). Quale riscontro si trova a livello di stampa del territorio?
“Ciascuno opera con autonomia giocandosi la sua responsabilità: questo è il limite ma anche la forza della nostra Federazione. In questi appuntamenti vengono offerte delle possibilità e anche quest’ulteriore riflessione avviene perché abbiamo bisogno di confrontarci. Poi c’è da registrare anche una certa – comprensibile – cautela nei passi che si compiono. Ma ci muoviamo con fiducia e con quella speranza che fa parte della nostra esperienza quotidiana”.

A suo avviso, i media cattolici – e in particolare quelli del territorio – come stanno affrontando la crisi?
“Ognuno mette in campo la sua fantasia con iniziative locali, un’ancora maggiore presenza sul territorio, esperienze per avvicinare i gruppi e la città. C’è inoltre da rilevare che, pur in un contesto di difficoltà generalizzata, la stampa locale soffre in misura minore rispetto a quella nazionale. Sui motivi di speranza, infine, in questi ultimi tempi abbiamo visto l’inizio delle pubblicazioni di ‘A sua immagine’, del nuovo periodico dei Paolini ‘Credere’ e la riapertura del settimanale diocesano di Salerno, ‘Agire’: sono segnali che ci fanno capire come la carta stampata abbia ancora un ruolo da giocare”.

Resta aperta la questione dei fondi per l’editoria…
“È una spina nel fianco per le nostre imprese editoriali, alle quali non vengono date certezze. Prendono solo una piccola parte di questi fondi, ma sono importi comunque significativi per i nostri bilanci”. 

A Chioggia si festeggeranno i 100 anni del settimanale diocesano locale, “Nuova Scintilla”. Nell’epoca della globalizzazione qual è lo spazio che ha la comunicazione del territorio?
“Proprio il territorio è l’arma vincente. Siamo chiamati a essere attenti al locale e, contemporaneamente, al nazionale e sovranazionale, con lo sguardo rivolto pure verso l’alto per fare un’‘altra’ informazione, illuminata dall’esperienza di fede. Questo è ciò che ha spinto a dar vita alle nostre testate: uno sguardo valido oggi come allora”.

SIR del 11/04/13

Educare alla cittadinanza responsabile

Lucida e severa analisi del segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, al convegno sulla formazione sociopolitica.
La presa d’atto: ”Carente la capacità di mobilitazione, di elaborazione di un progetto ispirato e assenza di strumenti socialmente e politicamente significativi”. Poi l’invito a ”non lasciarsi intimorire da momenti di appannamento” e a riprendere ”il lavorio nascosto della formazione e della maturazione di persone e di comunità”.
 
 
Dobbiamo riflettere attentamente sui limiti di una presenza sociale e politica dei cattolici oggi da più parti stigmatizzata. Non può essere il vortice disordinato delle opinioni, più o meno interessate e indirizzate a bella posta, a dettare l’agenda e i criteri dei nostri giudizi sulla rilevanza sociale e politica del cattolicesimo nel momento attuale; ma è certo che il deficit di incidenza diventa un indice anch’esso significativo quando è carente la capacità di mobilitazione, l’elaborazione di un progetto ispirato, l’assenza di strumenti socialmente e politicamente significativi per testimoniare e trasmettere il senso cristiano della vita sociale nelle sue varie articolazioni”.
A lanciare l’allarme è stato monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, durante l’omelia per la celebrazione eucaristica che ha aperto a Roma il secondo giorno del convegno nazionale sulla formazione sociopolitica “Educare alla cittadinanza responsabile 2”.
Per il vescovo, “non bisogna lasciarsi intimorire da momenti di appannamento; ci sono fasi oscure da attraversare; ma non dobbiamo lasciarci sopraffare dalle difficoltà momentanee”: “Questo è il tempo opportuno del lavorio nascosto ma fecondo della formazione e della maturazione di persone e di comunità dotate di franchezza e della capacità di portare una fede motivata e solida dentro l’intreccio, talora perfino caotico, dell’intera comunità civile”.

Parte preziosa della Chiesa. Il segretario della Cei ha ricordato che “la franchezza e la fede, che ne è la premessa e il fondamento, hanno qualcosa da dire a noi credenti di oggi, soprattutto perché ci invitano a non avere paura di mettere a nudo la nostra poca fede e il nostro scarso coraggio”. “Sommersi da una cultura dai molti feticci, come quello della privacy – così verbosamente sbandierato e altrettanto prontamente mortificato nei fatti – dobbiamo rompere l’incantesimo di una perfino teorizzata dissociazione tra coscienza privata e vita sociale, tra comportamenti personali e ruolo pubblico”. Nel pomeriggio di ieri, mons. Crociata ha aperto i lavori con un saluto dedicato all’azione pastorale della Chiesa, “destinata a rimanere incompiuta se non sarà capace di integrare la dimensione sociale e politica”. “Ogni proposta di formazione si deve innestare in un più vasto percorso di educazione umana e di maturazione nella fede, e il lavoro che voi svolgete – ha aggiunto il segretario rivolgendosi ai direttori degli uffici diocesani di pastorale sociale, responsabili e operatori degli enti diocesani di formazione sociopolitica – somiglia tante volte alla pesca infruttuosa di cui parla l’evangelista Giovanni. La stagione che viviamo è anche motivo di grave riflessione per noi cattolici, perché rispecchia la grande difficoltà di delineare e lasciare intravedere, e tanto meno attuare adeguatamente, progetti ispirati alla nostra visione della persona e della società”. La Chiesa “vi sente parte preziosa, chiamata ad animare in senso cristiano il tempo che ci è stato donato di vivere”, abbracciando “tutte le dimensioni dell’umano”. Bisogna solo “avere fiducia che il lavoro di formazione svolto con intelligenza e passione non rimarrà senza frutto”.

Raggiungere l’uomo là dove è. Sul nesso tra temi sociali e fede cristiana si è soffermato don Paolo Asolan, docente di teologia pastorale alla Pontificia università lateranense: “Una visione cristiana compiuta non considera l’ambito sociale ed economico, e quindi anche politico, come corollario della pratica della carità; piuttosto, – ha detto – come suo connotato essenziale”. L’interesse per la dottrina sociale si collega al compito che “il Creatore affida ad Adamo, reso dal verbo ‘shamar’, che significa custodire”. In quest’ottica la Chiesa deve, dunque, “raggiungere l’uomo là dove nasce, studia, lavora, soffre, si ristora, per aiutare tutti gli uomini a scoprire la fecondità del Vangelo per la vita quotidiana, personale e sociale”. Secondo Asolan “è da rifiutare la concezione della Chiesa come agenzia fornitrice di servizi sociali sul territorio” perché “la fede cristiana non si limita ad alcune preziose forme di aiuto, ma tende a promuovere con impegno una autentica cultura di solidarietà. Non si rinchiude nel ruolo assistenziale, a cui la società comunemente la chiama, ma sviluppa un apporto originale e decisivo attraverso la sua Dottrina sociale”. 

Imparare a formare. Una proposta di metodo per le scuole di formazione politica è stata presentata da Leonardo Bechetti, docente di economia politica all’Università di Tor Vergata, per il quale “l’avvizzimento della capacità di fiducia spiega la crisi delle nazione”. Tra le cause che ostacolano la formazione politica, il “riduzionismo antropologico”, che riduce l’uomo alla sua “soddisfazione materiale”, quello organizzativo, che si avvale di un “modello d’impresa che mortifica la diversità organizzativa”, e quello “nella misura del valore”, che non tiene conto del fatto che la ricchezza delle nazioni “non coincide col flusso di beni e servizi economici creati ma con lo stock di beni spirituali, culturali, relazioni, naturali ed economici di una comunità”. Se ciò che serve è “un effettivo cambiamento di mentalità per cercare il vero, il bello e il buono”, occorre “sollecitare le istituzioni a cambiare, costruire indicatori, identificare vie di partecipazione economica e politica attraverso i quali tutti i cittadini possono essere protagonisti del cambiamento verso il bene comune” mediante, ad esempio, bilanci partecipati e gruppi di acquisto solidale. Tra le altre proposte, “identificare nelle esperienze delle amministrazioni locali le migliori pratiche organizzative e riflettere sulla nostra visione di Europa e di regole a livello internazionale per il bene comune”.

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Crociata: la fede abbracci tutte le dimensioni

«Dobbiamo riflettere attentamente sui limiti di una presenza sociale e politica dei cattolici oggi da più parti stigmatizzata». Così oggi si è espresso il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, in occasione della seconda giornata del convegno «Educare alla cittadinanza responsabile 2» che coinvolge le scuole di formazione sociopolitica.  

Parole che invitano a porsi alcuni interrogativi, soprattutto nel passaggio che richiama al centro del dibattito politico e sociale il ruolo dei cattolici nella società. «Non può essere il vortice disordinato delle opinioni, più o meno interessate e indirizzate a bella posta – ha proseguito il presule -, a dettare l’agenda e i criteri dei nostri giudizi sulla rilevanza sociale e politica del cattolicesimo nel momento attuale; ma è certo che il deficit di incidenza diventa un indice anch’esso significativo quando è carente la capacità di mobilitazione, l’elaborazione di un progetto ispirato, l’assenza di strumenti socialmente e politicamente significativi per testimoniare e trasmettere il senso cristiano della vita sociale nelle sue varie articolazioni». 

Un altro delicato passaggio, e al tempo stesso incisivo, il vescovo Crociata lo ha ricordato stamani, nell’omelia della Messa celebrata alla Domus Mariae a Roma, richiamando all’importanza della testimonianza della fede. «La franchezza e la fede, che ne è la premessa e il fondamento – ha osservato il presule – hanno qualcosa da dire a noi credenti di oggi, soprattutto perché ci invitano a non avere paura di mettere a nudo la nostra poca fede e il nostro scarso coraggio». 

«Sommersi da una cultura dai molti feticci, come quello della privacy – così verbosamente sbandierato e altrettanto prontamente mortificato nei fatti – dobbiamo rompere l’incantesimo di una perfino teorizzata dissociazione tra coscienza privata e vita sociale, tra comportamenti personali e ruolo pubblico», ha continuato Crociata. «Dallo sforzo verso una coerenza a tutto tondo deve scaturire un percorso che progressivamente superi l’emarginazione nel privato delle ispirazioni ideali – ha aggiunto – e attesti con coraggio le motivazioni che conducono a scelte e comportamenti dal palese rilievo sociale e pubblico». 

Per il vescovo, infine, «non bisogna lasciarsi intimorire da momenti di appannamento; ci sono fasi oscure da attraversare; ma non dobbiamo lasciarci sopraffare dalle difficoltà momentanee. Questo è il tempo opportuno del lavorio nascosto ma fecondo della formazione e della maturazione di persone e di comunità dotate di franchezza e della capacità di portare una fede motivata e solida dentro l’intreccio, talora perfino caotico, dell’intera comunità civile». 

Il saluto nella giornata di apertura del convegno. Dopo l’esortazione a «tenere vivo e coordinare l’impegno di formazione sociale e politica portato avanti in varie forme nelle nostre Chiese d’Italia» e l’impartizione della «benedizione su di voi e sui vostri lavori», il vescovo Mariano Crociato, segretario generale della Conferenza episcopale italiana ha salutato nella giornata inaugurale del convegno della scuole di formazione sociopolitica, con alcune riflessioni sulla «stagione che viviamo noi cattolici», che «rispecchia la grande difficoltà di delineare e lasciare intravedere, e tanto meno attuare adeguatamente, progetti ispirati alla nostra visione della persona e della società. Ma la molla che ci spinge non è armata da ingegnosa inventiva o da circostanze di favore, bensì predisposta innanzitutto dalla Parola che dice: gettate le reti e troverete». 

«La vostra presenza qui è il segno che avete accolto l’invito del Signore e continuerete a farlo» ha proseguito il vescovo Crociata. 

«Mentre ci rendiamo conto che ogni proposta di formazione si deve innestare in un più vasto percorso di educazione umana e di maturazione nella fede, ci rafforziamo nella convinzione che l’azione pastorale della Chiesa è destinata a rimanere incompiuta se non sarà capace di integrare la dimensione sociale e politica. Ciò corrisponde a una integrità di fede che, abbracciando tutte le dimensioni dell’umano, in esse è chiamata a esplicarsi e fare frutto». 

Nel finale dell’intervento di ieri, l’invito rivolto dal segretario generale della Cei a tutti i presenti al convegno dal titolo «Educare alla cittadinanza responsabile 2», a portare avanti quest’impegno con la grazia di Dio e il sostegno della Chiesa «che vi sente parte preziosa chiamata ad animare di senso cristiano il tempo che ci è stato donato di vivere».

Ilaria Solaini da Avvenire del 6/04/13

Oratorio come laboratorio di talenti

La Nota pastorale della Cei, dal titolo ”Il laboratorio dei talenti”, si muove nell’ottica della ”pastorale integrata” e come antidoto al ”relativismo pervasivo” dei processi educativi. Grande spazio è riservato alla relazione educativa e al ruolo dei sacerdoti. Infine non manca l’apertura al digitale

 

Nel linguaggio comune, la parola oratorio “richiama un’esperienza di vita buona legata ai tempi della giovinezza”. Oggi, forti di 450 anni di esperienza educativa, gli oratori sono una realtà cui guardano con crescente attenzione non solo la comunità ecclesiale, ma anche le istituzioni civili, come dimostrano diversi interventi legislativi. Parte da questa “fotografia” la Nota pastorale della Cei sugli oratori, dal titolo “Il laboratorio dei talenti”. Il documento, elaborato dalla Commissione episcopale per la famiglia e la vita e dalla Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, si propone di “riconoscere e sostenere il peculiare valore dell’oratorio nell’accompagnamento della crescita umana e spirituale delle nuove generazioni” e di “proporre alle comunità parrocchiali, e in modo particolare agli educatori e animatori, alcuni orientamenti”. L’ottica scelta è quella della “pastorale integrata”, come antidoto al “relativismo pervasivo” dei processi educativi. La “sfida” è “far diventare gli oratori spazi di accoglienza e di dialogo, dei veri ponti tra l’istituzionale e l’informale, tra la ricerca emotiva di Dio e la proposta di un incontro concreto con Lui, tra la realtà locale e le sfide planetarie, tra il virtuale e il reale, tra il tempo della spensieratezza e quello dell’assunzione di responsabilità”. 

Ponti tra la chiesa e la strada. Gli oratori non nascono come progetti “fatti a tavolino” ma dalla capacità di “lasciarsi provocare e mettere in discussione dalle urgenze e dai bisogni del proprio tempo”, con la stessa passione dei grandi “maestri dell’educazione”: san Filippo Neri, san Giovanni Bosco, san Carlo Borromeo… Gli oratori non solo limitati “al recupero, all’istruzione o all’assistenza”, ma sanno “valorizzare e abitare la qualità etica dei linguaggi e delle sensibilità giovanili”, coniugando “prevenzione sociale, accompagnamento familiare e avviamento al lavoro”. In quest’ottica, oggi gli oratori “devono essere rilanciati anche per diventare sempre più ponti tra la Chiesa e la strada”, come li definiva Giovanni Paolo II. 

Cittadini responsabili. Se la “prossimità” è lo stile dell’oratorio, uno dei suoi obiettivi primari è contribuire “alla crescita di cittadini responsabili”. Di qui l’importanza di “valorizzare il ruolo delle famiglie e sostenerlo, sviluppando un dialogo aperto e costruttivo” e facendo dell’oratorio un “ambiente di condivisione e di aggregazione giovanile, dove i genitori trovano un fecondo supporto per la crescita integrale e il discernimento vocazionale dei propri figli”. Rispetto agli altri luoghi formativi, l’oratorio “si caratterizza per la specifica identità cristiana”, ed “attraverso i linguaggi del mondo giovanile promuove il primato della persona e la sua dignità, favorendo un atteggiamento di accoglienza e di attenzione, soprattutto verso i più bisognosi”, ma anche verso giovani appartenenti ad altre culture e religioni. 

Un laboratorio anche “digitale”. “Un variegato e permanente laboratorio di interazione tra fede e vita”: questa la definizione di oratorio presente nel testo, in cui si raccomanda di offrire ai giovani “percorsi differenziati” che sappiano attingere a tutti i linguaggi e gli ambienti giovanili, compreso il web e i “new media”, con un occhio speciale ai “nativi digitali”. Soprattutto a loro, l’oratorio “garantisce uno spazio reale di confronto con il virtuale per capirne profondamente potenzialità e limiti”. 

Il primato della relazione. Ma l’oratorio “educa ed evangelizza” soprattutto “attraverso relazioni personali autentiche e significative”, che sono la sua “vera forza”, perché “nessuna attività può sostituire il primato della relazione personale”. “Anche laddove i social network sembrano semplicemente prolungare e rafforzare rapporti di amicizia – si raccomanda nel documento – appare necessario aiutare i giovani che abitano il mondo della rete a scendere in profondità coltivando relazioni vere e sincere”, in un tempo “segnato dalla consumazione immediata del presente e dal continuo cambiamento, dalla frammentazione delle esperienze”. Servono “relazioni autorevoli”, per “aiutare i ragazzi a fare sintesi”, e l’oratorio può diventare “il luogo unificante del vissuto”, aiutando chi lo frequenta “a superare il rischio, oggi tutt’altro che ipotetico, della frammentazione e della dispersione”. 

Accoglienza e “restituzione”. L’”accoglienza” è la cifra dell’oratorio, il suo “potere di attrazione”, ma “non può mai comportare disimpegno o svendita dei valori educativi”. La prospettiva adottata è quella della “restituzione”: “tutti, in modi e situazioni diverse, hanno ricevuto del bene da qualcuno. Tutti, quindi, ognuno secondo le proprie possibilità e capacità, sono chiamati a restituire tale bene diventando dono per gli altri”. Famiglia, scuola, sport sono i luoghi principali attorno a cui costruire “alleanze educative”, anche per fare dell’oratorio un “laboratorio di cultura” e “partecipare al dibattito pubblico sui temi e compiti educativi della società civile e della comunità ecclesiale”. 

Non solo sport. Per creare quel tipico “clima di famiglia” che ne ha accompagnato l’evoluzione, i sacerdoti – e non solo quelli giovani, perché “l’efficacia educativa non coincide con la vicinanza generazionale fra educatori e ragazzi” – devono “stare” in oratorio, per “offrire un accompagnamento umano e spirituale ai ragazzi e agli educatori”. Servono inoltre “figure stabili di riferimento”, come “laici preparati”. Tra le proposte più consolidate dell’oratorio, c’è l’attività sportiva, che nel nostro territorio si avvale anche della “presenza capillare” del Centro sportivo italiano, ma non mancano attività come musica, teatro, danza… Fin dalle origini, inoltre, l’oratorio “ha posto attenzione alle necessità e alle povertà delle nuove generazioni”: un ruolo di “prevenzione”, più che di contrasto del “disagio sociale”, nel quale gli oratori sono sollecitati a perseverare, grazie alla loro capacità di “stare anche sulla strada”.

 
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Un documento «tra memoria e profezia». Per tornare a focalizzare l’attenzione su una realtà che «in termini di servizi e di opportunità» offrono «alla società civile» un contributo che è quantificabile in 210 milioni di euro. Una realtà in cui «con poco si fa tanto» e dove i giovani possono trovare «ricreazione e formazione». 

Si parla della nota “Il laboratorio dei talenti” che, elaborata dalla Commissione per la cultura e le comunicazioni sociali e dalla Commissione per la famiglia e la vita della Conferenza episcopale italiana, rilancia funzioni e progettualità degli oratori, una realtà attorno alla quale, negli ultimi anni, è tornata a focalizzarsi l’attenzione delle famiglie. Una realtà articolata in circa seimila “luoghi” in tutto il Paese, e che oggi, come ha sottolineato il sottosegretario della Cei monsignor Domenico Pompili, presentando ieri il testo a Roma con i vescovi Claudio Giuliodori ed Enrico Solmi, presidenti delle due Commissioni, vanno «sostenuti» per «ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città».

È stato Pompili a ricordare, citando il libro di Giuseppe Rusconi L’impegno, il “valore” in termini economici del servizio offerto dagli oratori, osservando inoltre come «dietro la ripresa dell’interesse intorno agli oratori non c’è semplicemente un’emergenza, ma la sfida di sempre è quella di offrire un contesto che sia promettente per la relazione interpersonale, in una stagione a forte impatto digitale e quindi debilitata sotto il profilo della fisicità». In questo senso, oggi l’oratorio va oltre la «nostalgia di una esperienza fatta di polverosi campi di calcio, teatro e musica, amicizie ed escursioni al mare o in montagna», legata all’adolescenza. Al contrario, sulla linea tracciata dagli orientamenti pastorali per il decennio in corso, centrati sull’emergenza educativa, può essere «un territorio fisico che insieme alla casa e al quartiere sia un luogo di radicamento, a partire dal quale proiettarsi in un mondo più ampio senza perdere il senso del legame, delle radici, della gratitudine e senza dissolvere l’identità coltivandola grazie alle nuove aperture tecnologiche». 

Non è allora un caso, come sottolineato da Giuliodori, se oggi «la domanda delle famiglie è fortissima». Dagli anni Settanta, e fino agli inizi dei Novanta, «c’è stata una stagione – ha ricordato il vescovo – in cui lo sviluppo sociale ha fatto nascere tante attività, ma molto parcellizzate, costringendo i genitori a correre per portare i loro ragazzi a far sport, musica, a imparare le lingue. Tante proposte – ha aggiunto – che sono competenze offerte ai ragazzi, ma quello che mancava era l’apporto di una educazione integrale». Oggi, invece, «i genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere». Di qui il rilancio dell’attenzione all’oratorio, dove «ci sono attività strutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona e alla sua libera espressività», come risposta all’esigenza «di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi». Opportunità, insomma, e insieme sfida; tanto più esaltante, nel porre per la prima volta a confronto una realtà “antica” come l’oratorio con la generazione dei nativi digitali, cosa che impone, per Giuliodori, un’attenta formazione dei formatori che «possa partire anche dai seminari». In tutto questo, gli oratori restano «un luogo libero di accoglienza e gratuità – ha osservato Solmi – dove i ragazzi possono andare senza spendere, dove trovano mamme e insegnanti disponibili, dove possono giocare in modo libero e non griffato, con quello che hanno addosso». Per il presule il «punto di forza» degli oratori è «la relazione che nasce dai talenti che ognuno mette in campo», a partire da «un progetto molto preciso della comunità, che ha alle spalle una lunga tradizione e che va giocato per l’oggi». «Se l’oratorio funziona, ci vuole la rete, ma funziona anche se manca la rete», ha rilevato Solmi, riferendosi «sia alla rete del campo di calcio che alla “rete massmediale”», elemento da «intercettare per stare al passo con i “nativi digitali”».

Salvatore Mazza

in: Avvenire del 6/04/13

 

Una risorsa nella crisi

Il vescovo Giuliodori: “I genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere”. C’è “l’esigenza di uno spazio” per “una crescita integrale dei ragazzi”. Il vescovo Solmi: “L’oratorio è un luogo dove con poco si fa tanto”, e nonostante la “contrazione” dei contributi resta “un luogo libero di accoglienza e gratuità”. Monsignor Pompili: “Sostenere gli oratori per ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città”

In tempi di crisi, non solo economica e finanziaria, la “domanda” delle famiglie verso gli oratori “è fortissima”. Sembrerebbe un dato in controtendenza, e invece molti genitori italiani si sono stancati di correre sempre dietro ai figli per fare loro da “tassisti” per le molteplici attività – gli sport, la musica, le lingue – e preferiscono affidarli a chi sa dare “lezioni di vita” attraverso un’idea di educazione a 360°, che parte dalla persona e si nutre degli ideali del Vangelo. Senza paura, nello stesso tempo, di cimentarsi nelle nuove tecnologie per parlare “faccia a faccia” con i nativi digitali, e di svolgere perfino un buon “servizio pubblico”, visto il notevole contributo offerto, attraverso una gamma molto variegata di attività, alla società civile. È la “fotografia” dei 6 mila oratori italiani, scattata durante la conferenza stampa di presentazione della Nota Cei “Il laboratorio dei talenti”. Dei seimila oratori italiani, circa tremila si trovano in Lombardia. D’estate, al loro interno attività come il “Grest” (acronimo che sta per gruppo estivo) fanno registrare il tutto esaurito, accogliendo a giugno e luglio circa un milione e mezzo tra bambini e adolescenti. Oltre al Centro sportivo italiano, gli oratori italiani – la cui “colonna portante” sono gli operatori volontari – si avvolgono della collaborazione di associazioni come Anspi, “Noi associazione”, Foi. Senza contare l’Azione Cattolica, che promuove nelle parrocchie attività di animazione che si ispirano al modello dell’oratorio, e i numerosissimi religiose e religiose.

“Sinergia” tra Chiesa e società civile. Ammonta a circa 210 milioni di euro il contributo che gli oratori, “in termini di servizi e di opportunità”, offrono alla “società civile”. A ricordarlo – citando il libro “L’impegno” di Giuseppe Rusconi – è stato monsignor Domenico Pompili, sottosegretario della Cei, introducendo la conferenza stampa di presentazione della Nota sugli oratori dal titolo “Il laboratorio dei talenti”, elaborata dalla Commissione per la cultura e le comunicazioni sociali e dalla Commissione per la famiglia e la vita. “Sostenere” gli oratori per “ridare visibilità e sostenibilità ai nostri ambienti di periferia e di città”, l’invito del sottosegretario della Cei, secondo il quale “dietro la ripresa dell’interesse intorno agli oratori non c’è semplicemente un’emergenza. La sfida di sempre è quella di offrire un contesto che sia promettente per la relazione interpersonale, in una stagione a forte impatto digitale e quindi debilitata sotto il profilo della fisicità”. L’oratorio, oggi, va oltre la “nostalgia di un’esperienza fatta di polverosi campi di calcio, teatro e musica, amicizie ed escursioni al mare o in montagna”, legata all’adolescenza: può essere, invece, “un territorio fisico che insieme alla casa e al quartiere sia un luogo di radicamento, a partire dal quale proiettarsi in un mondo più ampio senza perdere il senso del legame, delle radici, della gratitudine e senza dissolvere l’identità coltivandola grazie alle nuove aperture tecnologiche”.

L’oratorio “non è un’attività economica”, e dunque “non risente direttamente della crisi”, ma è pur vero che in questi tempi di crisi “la domanda delle famiglie è fortissima”. Lo ha detto monsignor Claudio Giuliodori, presidente della Commissione Cei per la cultura e le comunicazioni sociali, rispondendo alle domande dei giornalisti. “C’è stata una stagione, negli anni Settanta, Ottanta e anche inizio Novanta – ha ricordato il vescovo – in cui lo sviluppo sociale ha fatto nascere tante attività, ma molto parcellizzate, costringendo i giovani a correre per portare i loro ragazzi a far sport, musica, a imparare le lingue. Tante proposte che sono competenze offerte ai ragazzi, ma quello che mancava era l’apporto di un’educazione integrale”. Oggi, invece, “i genitori si sono accorti che i propri figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere”. Di qui il rilancio dell’attenzione all’oratorio, dove “ci sono attività strutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona e alla sua libera espressività”. Cresce, insomma, nelle famiglie “l’esigenza di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi”. 

La “rete” e l’intercultura. Tra le “novità” della Nota Cei, monsignor Giuliodori ha citato l’attenzione al mondo digitale, come “ambiente” in cui i nostri ragazzi sono immersi e con il quale vanno educati ad “interagire positivamente, senza esserne soggiogati, ma imparando ad essere protagonisti della nuova cultura dei media”, e l’approccio interculturale e interreligioso. “Il 10 per cento dei ragazzi che frequentano i nostri oratori – ha detto il vescovo – sono immigrati, e in molti casi rappresentano la maggioranza della popolazione oratoriale”. Un dato, questo, che “va tenuto presente” nella proposta dell’oratorio, che “non può perdere la sua identità, ma deve essere aperta a tutti nel rispetto delle diverse culture e sensibilità”. Sulla necessità, per l’oratorio, di “farsi prossimo” ai ragazzi, “senza invasione di capo, ma nella certezza che rimanda alle competenze educative della Chiesa”, si è soffermato monsignor Mario Lusek, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale del tempo libero, del turismo e dello sport. Della tendenza degli oratori a “diffondersi anche al Sud”, magari con tipologie che si ispirano ad essi, ha parlato don Mimmo Beneventi, vice responsabile del Servizio Cei per la pastorale giovanile, 

Tanto con poco. L’oratorio è “un luogo dove con poco si fa tanto”, e nonostante la “contrazione” dei contributi in loro favore restano “un luogo libero di accoglienza e gratuità, dove i ragazzi possono andare senza spendere, dove trovano mamme e insegnanti disponibili, dove possono giocare in modo libero e non griffato, con quello che hanno addosso”. È la descrizione dei 6mila oratori italiani, dove domina “tutto un mondo di volontari silenziosi”, fatta da monsignor Enrico Solmi, presidente della Commissione Cei per la famiglia e la vita. Il loro punto di forza: “la relazione che nasce dai talenti che ognuno mette in campo”, a partire da “un progetto molto preciso della comunità, che ha alle spalle una lunga tradizione e che va giocato per l’oggi”. “Se l’oratorio funziona, ci vuole la rete, ma funziona anche se manca la rete”, ha affermato il vescovo riferendosi sia alla rete del campo di calcio che alla “rete massmediale”, elemento da intercettare per stare al passo con i “nativi digitali”. In oratorio, è la tesi di monsignor Solmi, “le cose funzionano quando vediamo che con poco si fa tanto”. Indispensabile, per il relatore, l’”alleanza educativa” con la famiglia: “Gli oratori sono i luoghi dove sono accolti i figli di tutti, anche quelli che hanno un disagio magari proprio in famiglia, e che nell’oratorio trovano un luogo per uscire da un clima pesante che li rimbalza da un genitore all’altro”.

Sir del 5/04/13

Proposte forti per tempi fragili

In ogni angolo d’Italia, l’oratorio è uno dei capisaldi dell’azione educativa e formativa cristiana. Alcune esperienze significative a Bergamo, Pesaro e a Olivarella, frazione di San Filippo del Mela (Messina

Dal Nord al Sud, l’oratorio è davvero “il laboratorio dei talenti”, come lo definisce – nel titolo – la nota pastorale Cei diffusa oggi. Innumerevoli gli esempi che rispondono a quei “criteri di discernimento” indicati nel documento, rispetto a formazione e responsabilità degli educatori, rapporto con la pastorale giovanile, catechesi, alleanze educative, impegno delle aggregazioni ecclesiali, sfida dell’integrazione sociale e culturale, animazione, avendo chiara l’identità dell’oratorio.

Lo stile dell’accoglienza. “È una questione di stile”, sintetizza al Sir don Cristiano Re, che a Bergamo è responsabile dell’oratorio nella parrocchia di Santa Caterina vergine e martire. Lo stile proposto al migliaio di bambini, ragazzi, giovani e adulti che lo frequentano è innanzitutto quello “dell’accoglienza”, perseguito attraverso una “diversificazione delle proposte per le diverse età”. E l’identità cristiana? È ben presente, sottolinea il sacerdote, in quel “raccordo tra la fede e la vita che si fa testimonianza: proprio in quanto cristiani c’impegniamo a incontrare tutti con gratuità e accoglienza, secondo lo stile evangelico, in modo gioioso e sereno”. Grazie a quest’annuncio trasmesso con le opere “negli anni diversi ragazzi e adulti hanno deciso d’intraprendere un percorso di fede più serio oppure hanno chiesto i sacramenti dell’iniziazione cristiana”. Da non dimenticare, evidenzia, il “legame strettissimo con la società sportiva parrocchiale”, a riprova che – come ricorda la nota Cei – lo sport “costituisce una delle più grandi risorse educative”; infine, il “lavoro di rete condotto con le diverse agenzie formative del territorio”, che trova concretezza in un centro polivalente realizzato in spazi del Comune “per l’età evolutiva e le famiglie”.

Una stanza della casa. Rivolto ai giovani, coinvolge “tutte le età” pure l’oratorio della parrocchia di Santa Maria di Loreto a Pesaro, come spiega il parroco, don Giuseppe Fabbrini, che è pure referente diocesano per i 24 oratori attualmente presenti nel territorio pesarese. “L’oratorio – precisa – è per i giovani, gli stessi che hanno cominciato a frequentarlo da piccoli e ora s’impegnano con il loro ‘ministero di fatto’ di animatori ed educatori”. Per definire questo cammino che vede proprio nell’oratorio un “luogo di educazione alla fede e alla vita”, al parroco piace usare l’immagine della “spiritualità dell’educatore”, laddove “il vero educatore è colui che ha una speranza affidabile, vive un cammino di fede personale e comunitario”. Attivo da una decina d’anni, l’oratorio parrocchiale viene presentato alla comunità come “una stanza in più della casa”, ed è così che bambini, ragazzi, giovani e adulti vengono invitati a sentirsi a casa tra le sue pareti. In inverno la proposta è di “momenti d’incontro, laboratori, corsi formativi per gli animatori e svago”, mentre a giugno si trasforma in un grande centro estivo che apre le porte a circa 500 bambini dai 5 anni in su. Pensando agli adolescenti e ai giovani, don Fabbrini è convinto che “l’oratorio nasca dall’iniziazione cristiana e ne sia un necessario e degno prolungamento” per crescere “integrando vita e fede”.

Per i giochi e la formazione cristiana. È opinione comune che la realtà dell’oratorio sia più sviluppata al Nord che al Sud. Eppure anche nel meridione si trovano esperienze “d’eccellenza”, come a Olivarella, frazione di San Filippo del Mela, nel Messinese. Qui, dal 2006, opera l’oratorio “Giovanni Paolo II”, di cui parla al Sir don Dario Mostaccio, che è pure responsabile diocesano della pastorale giovanile nella diocesi di Messina. “Ogni giorno siamo aperti e, complessivamente, dall’oratorio passano circa 300 persone”. Interessante la convivenza tra i più piccoli e “un gruppo di anziani – racconta don Mostaccio – che quotidianamente hanno qui un punto di ritrovo”. Costoro, tra una chiacchiera e una partita a carte, costituiscono una presenza importante, che “può dare un consiglio o, se serve, un rimprovero”, garantendo al tempo stesso la sorveglianza dei locali, affiancando nel loro impegno i catechisti e gli animatori. “Negli anni – prosegue il sacerdote – l’oratorio ha acquisito rilievo come interlocutore importante per l’amministrazione locale e le scuole”, mentre a ricordare l’identità dell’iniziativa e del progetto educativo vi è lo stretto legame con la parrocchia, così che “le attività di catechesi, il sabato, si svolgono nell’oratorio: negli stessi ambienti che durante la settimana bambini e ragazzi usano per i loro giochi, il sabato si fa formazione cristiana”. Da ultimo, don Mostaccio segnala il progetto “Insieme oggi per costruire il domani… al ‘GP2’”, realizzato grazie a un bando della Regione Sicilia e che “prevede varie attività: scuola di canto e chitarra, realizzazione di un musical, scuola di ‘calcio a 5’, laboratori artistici”. Un contributo per la socializzazione e la crescita dei più giovani, avendo presente l’importanza – ribadita nel documento Cei – di “relazioni personali autentiche e significative”, e al tempo stesso di una proposta educativa forte, in un tempo di legami fragili.

Sir del 5/04/13

La ricerca a servizio dell’educazione

Si avvicina ormai la data del convegno La ricerca a servizio dell’educazione”. Il contributo dell’Università Pontificia Salesiana e dei Centri Associati”, che avrà luogo il 13 marzo prossimo, un’intera Giornata in cui verrà presentata la ricerca completata o in atto sulle problematiche dell’educazione dei giovani, con inizio alle ore 9.00 e chiusura alle 19.00.

Si continua intanto a raccogliere le adesioni di quanti, studenti ed esterni, vogliono prenderne parte.

Quella educativa è ormai diventata secondo quanto ha affermato in varie occasioni Papa Benedetto XVI, una emergenza urgente. L’Università Pontificia Salesiana, il cui specifico è l’educazione, si pone come da carisma che gli è proprio, sul solco dell’impegno educativo. In questo secondo anno di preparazione al Bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco, fondatore dei salesiani e radice da cui è scaturita la Famiglia Salesiana e il Movimento di persone che hanno a cuore l’educazione integrale della gioventù, l’Università Salesiana ha accolto questa urgenza che ha reso concreta organizzando il Convegno sul tema dell’educazione.

La giornata si struttura attorno a cinque aree di ricerca in cui altrettanti studiosi e specialisti dell’ambito, docenti dell’Università Salesiana, presenteranno il loro lavoro di ricerca. A ciascuna delle cinque relazioni reagirà un discussant che riproporrà gli elementi più significativi e aprire il dibattito in sala che chiude ognuno dei momenti.

Apre la presentazione delle cinque aree di ricerca il Rettore dell’UPS, prof. Carlo Nanni, con un intervento introduttivo. La prima area di ricerca, Educazione ed evangelizzazione, si caratterizza per la interdisciplinarietà.

Il prof. Francis Vincent Anthony, docente della Facoltà di Teologia e coordinatore del CIR presenta una ricerca dal titolo “Evangelizzatori dei Giovani Oggi”;

farà seguito l’intervento del prof. Antonino Romano, docente dell’Istituto Teologico San Tommaso di Messina e docente invitato all’UPS, per introdurre il dibattito in sala.

La seconda area di ricerca è nell’ambito della Educazione Interculturale. Il prof. Vito Orlando, della facoltà di Scienze dell’Educazione, espone i risultati della ricerca da lui condotta con il titolo “Attenzione ai migranti e prospettive per la missione salesiana nella società multiculturale d’Europa”;

al prof. Luca Pandolfi, docente dell’Università Pontificia Urbaniana e dell’UPS, è affidata la sintesi analitica della ricerca che apre al dibattito in sala.

Dopo la pausa del pranzo, il Convegno riprende con la presentazione dei risultati della terza area di ricerca, Adolescenza e relazioni interpersonali, con un intervento del prof. Antonio Dellagiulia, docente della Facoltà di Scienze dell’Educazione, dal titolo “Il tessitore instancabile: l’adolescente e le sue relazioni significative alla luce della teoria dell’attaccamento”,

a cui farà risonanza l’intervento della prof. Susanna Bianchini dell’IFREP/UPS, che avvia il terzo momento di interventi nel dibattito tra i presenti in sala. La quarta area di ricerca riguarda le relazioni tra Adolescenti e Famiglia.

Titolo della ricerca, presentata dal prof. Paolo Gambini, decano della Facoltà di Scienze dell’Educazione, è “Famiglia e bullismo in adolescenza”;

il commento sintetico e introduttivo al dibattito che segue è affidato al prof. Zbigniew Formella, docente della stessa Facoltà dell’UPS.

Infine, la quinta e ultima area di ricerca si centra sul tema della Pedagogia Sociale con la presentazione della ricerca Area di ricerca “Capitale sociale, agire educativo e nuovo welfare” condotta dal prof. Lorenzo Biagi, docente dello IUSVE di Venezia-Mestre, di cui sarà discussant il prof. Vincenzo Salerno, docente della stessa Istituzione Universitaria associata all’UPS.

Fa seguito la serie di interventi liberi in sala. Al prof. Michele Pellerey, docente emerito dell’UPS e suo antico Rettore, è affidata la sintesi della giornata con il suo intervento conclusivo.

Il Convegno è aperto agli studenti dell’Università e a quanti vogliono liberamente partecipare a vario titolo.

L’iscrizione è gratuita ma obbligatoria e va effettuata attraverso la cedolina che si trova nel materiale raccolto dal link pubblicato sulla pagina-web dell’Università Salesiana www.unisal.it.

Attraverso la stessa cedola, è possibile prenotare il pernottamento e il pranzo presso la struttura dell’Università sino a esaurimento delle disponibilità. La cedola regolarmente compilata va spedita o consegnata secondo le modalità indicate dal pieghevole o dalle informazioni che si trovano disponibili sul link su indicato.

Lo stesso link sarà arricchito di informazioni e documenti che si renderanno pubblici durante il tempo che intercorre sino alla celebrazione del Convegno il 13 marzo 2013.

L’iscrizione va fatta comunque anche senza le suddette prenotazioni consegnando a mano la cedola agli addetti alla reception.

Per ulteriori informazioni visitate il sito-web unisal.it, o chiamate al numero 06.872901 chiedendo del responsabile dell’Ufficio stampa; o scrivendo a ufficiostampaups@unisal.it; Fax. 06.87290318.

Messaggio del Rettor Maggiore alla famiglia Salesiana

MESSAGGIO DEL RETTOR MAGGIORE DON PASCUAL CHAVEZ VILLANUEVA, SDB ALLA CONGREGAZIONE E A TUTTA LA FAMIGLIA SALESIANA

Carissimi fratelli, sorelle, membri tutti della Famiglia Salesiana, Amici di Don Bosco

Oggi la sede di Pietro è rimasta vuota, a motivo della rinuncia di Papa Benedetto XVI a proseguire nell’esercizio del ministero petrino, a lui affidato otto anni fa.

Noi, Famiglia di Don Bosco sparsa nel mondo, rimaniamo profondamente riconoscenti, anche per questo coraggioso atto di servizio del nostro carissimo Santo Padre, e lo accompagniamo con la nostra sincera simpatia e devozione e, come Egli stesso ci ha chiesto, con la nostra costante preghiera.

Papa Benedetto XVI, che ha manifestato tanti gesti di benevolenza e affetto verso la nostra Famiglia, è stato un vero dono di Dio alla sua Chiesa e al mondo attuale. Egli si è congedato affermando che non si è sentito solo, neppure nei momenti in cui sembrava che Dio dormisse. Vogliamo assicurare a Lui che non sarà mai solo, perché il suo splendido magistero e la sua imponente figura rimarranno nei nostri cuori. La storia farà vedere la sua grandezza umana, il suo vigore intellettuale, la sua profonda vita spirituale, il suo amore indiviso a Cristo, il suo magnifico servizio alla Chiesa e al Mondo.

La Chiesa di Dio non è orfana. Il Signore Gesù, suo Capo, e lo Spirito di Dio, suo Avvocato, la presiedono e la guidano continuamente.

Di cuore vi chiedo di unirvi a me nella preghiera ardente, insieme con Maria che condivide vita e preghiera con gli Apostoli, mentre aspettiamo con fiducia e serenità che Dio ci dia un nuovo pastore secondo il suo Cuore.

La conversione alla quale ci chiama la Parola di Dio in questo tempo quaresimale sia la migliore forma di impetrare a Dio questa grazia.

Con affetto e un ricordo nella Eucaristia.

Don Pascual Chávez V., SDB

Rettor Maggiore

 

Benedetto XVI: “la barca della chiesa il Signore non la lascia affondare”

Nella sua ultima Udienza Generale, Benedetto XVI trae un bilancio del suo pontificato su un piano spirituale

“Vedo la Chiesa viva!”. Con queste parole e ringraziando “commosso” le migliaia di fedeli presenti a piazza San Pietro per l’ultima Udienza Generale del suo pontificato, papa Benedetto XVI ha tratto un bilancio di natura essenzialmente spirituale, di questi otto anni trascorsi come successore di Pietro.

“In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi, che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita”, ha detto il Papa, ponendo fiducia nel Vangelo che “purifica e rinnova”, portando frutto ovunque i credenti lo accolgano. “Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia”, ha sottolineato il Santo Padre.

Tornando a quel 19 aprile 2005, in cui accettò di “assumere il ministro petrino”, Benedetto XVI ha espresso la “certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio”, che lo ha sempre accompagnato in quasi otto anni di pontificato.

“In quel momento – ha proseguito – come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze”.

Sono seguiti otto anni in cui il Papa ha “potuto percepire quotidianamente” la presenza del Signore, in un cammino “che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili”.

Benedetto XVI ha paragonato la sua esperienza a quella del suo primo predecessore, San Pietro, che, impegnato con gli altri Apostoli sul mare della Galilea, riceve in dono dal Signore “tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante”, così come “momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire”.

La barca della Chiesa, tuttavia, “non è mia, non è nostra, ma è sua”, ha osservato il Pontefice, e “il Signore non la lascia affondare”. Per questo il Papa ha ringraziato Dio “perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua consolazione, la sua luce, il suo amore”.

Il Santo Padre ha quindi accennato all’Anno della Fede, da lui istituito, “per rafforzare proprio la nostra fede in Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano”.

Si tratta di un’occasione, ha spiegato, per “affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica”, e perché ognuno si senta “amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini”.

Sono seguiti i ringraziamenti ai rappresentanti della Chiesa che, in questi otto anni, a tutti i livelli, sono stati vicini al Santo Padre: i “Fratelli Cardinali”, i “Collaboratori” più stretti, a partire dal “Segretario di Stato”, la “Segretaria di Stato e l’intera Curia Romana, come pure tutti coloro che, nei vari settori, prestano il loro servizio alla Santa Sede: sono tanti volti che non emergono, rimangono nell’ombra, ma proprio nel silenzio, nella dedizione quotidiana, con spirito di fede e umiltà sono stati per me un sostegno sicuro e affidabile”.

Il Papa ha poi ricordato la “Chiesa di Roma, la mia Diocesi”, oltre ai “Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero Popolo di Dio”.

Parlando delle lettere ricevute nelle ultime settimane, Benedetto XVI ha detto di aver percepito “il senso di un legame familiare molto affettuoso”, toccando con mano che cosa sia la Chiesa, ovvero “non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti”. Sperimentare tal sensazione, in un momento in cui tutti parlano del “declino” della Chiesa, “è motivo di gioia”, ha aggiunto.

Tornando sulla sua recente sofferta decisione, il Papa ha affermato: “ho chiesto a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere la decisione più giusta non per il mio bene, ma per il bene della Chiesa”. Di qui la scelta della rinuncia, compiuta “nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo”.

Amare la Chiesa, ha aggiunto il Papa, “significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre davanti il bene della Chiesa e non se stessi”.

La decisione presa è stata grave, ha proseguito il Pontefice, anche perché “da quel momento in poi ero impegnato sempre e per sempre dal Signore”. E chi assume il ministero petrino “non ha più alcuna privacy”, poiché sceglie di appartenere “sempre e totalmente a tutti, a tutta la Chiesa”.

Ritirandosi, Benedetto XVI non intende “ritornare nel privato”, né “a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze”. “Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”, ha spiegato il Papa che, in questo modo, rinuncia alla “potestà dell’officio per il governo della Chiesa”, continuando però a servirla, nella preghiera, rimanendo “nel recinto di san Pietro”.

Congedandosi e ringraziando nuovamente, Benedetto XVI ha raccomandato i fedeli di pregare per lui “e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito”.

Senza libertà non c’è vera Fede

Nec religionis est cogere religionem.  Lapidario è Tertulliano, con questo motto del suo scritto A Scapola (II, 2), nel riconoscere che nel cuore stesso della fede, ove pure impera la grazia divina, pulsa anche la libertà umana per cui «non è proprio della religione costringere alla religione». 
Un principio, purtroppo, non sempre rispettato dalle varie confessioni religiose, compreso il cristianesimo all’interno della sua storia secolare, ed è significativo che Giovanni Paolo II abbia anche di queste prevaricazioni chiesto perdono nel Giubileo del 2000. In un itinerario (che non è teologico ma di taglio culturale generale) all’interno dell’orizzonte della fede, oltre a celebrare il primato della grazia divina, non possiamo ignorare il necessario contrappunto armonico della libertà umana. Necessario perché la libertà è strutturale all’antropologia biblica e non solo alla concezione classica e moderna della persona. 

Non possiamo ora sviluppare questo tema inseguendo la trama dei testi biblici. Ci basti evocare due passi. Da un lato, la scena d’esordio delle Scritture: l’uomo e la donna sono collocati nei capitoli 2-3 della Genesi all’ombra «dell’albero della conoscenza del bene e del male», un evidente simbolo della morale nei cui confronti la creatura si trova libera se accettarne il valore oppure, strappandone il frutto, decidere in proprio ciò che è bene e male. D’altro lato, citiamo un passo emblematico della sapienza d’Israele: «Da principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se tu vuoi, puoi osservare i comandamenti, l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà. 

Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua: là dove vuoi tendi la tua mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,14-17). La grazia divina, pur nella sua efficacia, scende non all’interno di un oggetto inerte ma in un essere libero che può accogliere o rifiutare quel dono, può aprire o lasciare chiusa la porta della sua anima a cui bussa il Signore che passa, per usare la celebre metafora dell’Apocalisse (3,20). Esprime bene questo intreccio delicato e fondamentale – sul quale si sono accaniti per secoli i teologi cercando di definirne l’equilibrio – padre David M. Turoldo quando scrive: «Sono certo che Dio ha scoperto me, ma non sono certo se io ho scoperto Dio. La fede è un dono, ma è allo stesso tempo una conquista». L’epifania divina ha mille forme in cui manifestarsi e non è sempre sfolgorante come sulla via di Damasco. Tuttavia non è mai così cogente da condurre a un assenso forzato e obbligato. L’adesione dev’essere personale, libera, anche faticosa.

Siamo, infatti, consapevoli che l’esercizio della libertà è tutt’altro che semplice. Essere liberi non è una pura e semplice reazione istintiva e “libertina”, né soltanto un sottrarsi a un’oppressione o a un’imposizione, ma è una scelta coerente e cosciente tra opzioni differenti per una meta da raggiungere. 

Per questo il drammaturgo tedesco Georg Büchner nella Morte di Danton (1834) affermava che la statua della libertà è sempre in fusione ed è facile scottarsi le dita. Vivere nella libertà autentica, come ricorda spesso anche san Paolo, è un atto impegnativo perché comporta un’esistenza rigorosamente cosciente, ed è sempre in agguato il rischio del ricadere in schiavitù. Come accade ai cani a cui si lancia un ramo secco e te lo riportano subito, così per molti la libertà è un elemento inutile che riportano subito nelle mani del potere. 

Questa è un’immagine di Dostoevskij e dal grande romanziere desumiamo una suggestiva riflessione sul nesso tra fede e libertà. Scriveva: «Tu non discendesti dalla croce quando ti si gridava: Discendi dalla croce e crederemo che sei Tu! Perché una volta di più non volesti asservire l’uomo… Avevi bisogno di un amore libero e non di servili entusiasmi, avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio». Lo scrittore rievoca la scena del Golgota col Cristo morente sbeffeggiato dai passanti: «È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo!» (Mt 27,39-42). Come durante la sua esistenza aveva evitato gesti taumaturgici spettacolari, preoccupandosi solo di sanare le sofferenze umane, spesso in disparte dalla folla e imponendo il silenzio ai miracolati, così in quel momento estremo Gesù affida la sua rivelazione non al prodigio ma allo scandalo della croce. Egli non cerca adesioni interessate, ma invita a una fede libera e guidata dall’amore che è per eccellenza un atto di libertà.

Senza questa dimensione la fede diventa parodia, come si intuisce dalla ricostruzione che Simone de Beauvoir, la scrittrice francese compagna del filosofo Sartre, morta nel 1986, fa della sua crisi giovanile che le fece abbandonare la fede. Nelle sue Memorie di una ragazza perbene rievoca il momento in cui in collegio, ascoltando una predica del cappellano padre Martin sull’obbedienza, si era fatta in strada in lei la necessità di liberarsi dall’incubo della religione, proprio perché essa – secondo quella visione che in realtà era una deformazione dell’autentica fede – comportava la cancellazione della libertà. 

Raccontava: «Mentre l’abate parlava, una mano sciocca si era abbattuta sulla mia nuca, mi faceva chinare la testa, mi incollava la faccia al suolo, per tutta la vita mi avrebbe obbligata a trascinarmi carponi, accecata dal fango e dalla tenebra; bisognava dire addio per sempre alla verità, alla libertà, a qualsiasi gioia». Per questo è importante un annuncio corretto della fede che, senza concedere nulla a un accomodamento troppo facile, a un compromesso generico e comodo, non deformi però la vera anima della fede, introducendo un volto sfigurato di Dio, quella che Lutero chiamava la simia Dei, cioè la «scimmiottatura di Dio». 

Il credere genuino non è schiavitù ma libertà, non è imposizione ma ricerca, non è obbligo ma adesione, non è cecità ma luce, non è tristezza ma serenità, non è negazione ma scelta positiva, non è incubo minaccioso ma pace. Come affermava in un suo saggio, Vivere come se Dio esistesse, il teologo tedesco Heinz Zahrnt, «Dio abita soltanto là dove lo si lascia entrare». Questa scelta comporta – come in ogni opzione libera – un aspetto di rischio. Entra, così, in azione un lineamento ulteriore che è la fiducia. È la famosa fides qua dei teologi, ossia la fede «con la quale» si aderisce confidando in Dio e che fa accogliere la fides quae, cioè i contenuti della rivelazione divina che il credere ci manifesta. 

Abramo, che «per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità e partì senza sapere dove andava» (Ebr 13,8), ne è l’esempio archetipico biblico. Mi affido ai versi di una scrittrice con la quale personalmente ebbi un dialogo intenso negli ultimi anni della sua vita, Lalla Romano, scomparsa nel 2001: «Fede non è sapere/ che l’altro esiste/ è vivere/ dentro di lui/ calore/ nelle sue vene/ sogno/ nei suoi pensieri./ Qui aggirarsi/ dormendo/ in lui destarsi» (da Giovane è il tempo del 1974). 

Come pregava un’altra poetessa, segnata però esplicitamente dalla fede, Ada Negri: «Tu mi cammini a fianco, o Signore, orma non lascia in terra il tuo passo. Non vedo te: ma sento e respiro la tua presenza in ogni filo d’erba, in ogni atomo d’aria che mi nutre». La fiducia ha il suo vaglio di autenticità nel tempo oscuro della prova, quando il volto di Dio scompare, la sua parola tace, la sua presenza si tramuta in assenza. Giobbe coinvolto in pieno nella tenebra, non cessa di credere e di aver fiducia: «Quand’anche egli mi ucciderà, non me ne lamenterò» (13,15).

La tradizione giudaica mette in scena in una parabola un ebreo sfuggito all’Inquisizione spagnola con moglie e figlio che, durante una tempesta, approda in un’isola. Lì, però, un fulmine uccide la moglie e un’onda trascina in mare il ragazzo. Solo, nudo, flagellato dalla tempesta, atterrito, errabondo su quell’isola rocciosa, leva la sua voce al cielo: «Dio d’Israele, sono finito! Proprio ora, però, non ti posso servire se non liberamente. Tu hai fatto di tutto perché io non creda più in te. Bene, te lo dico, Dio mio e dei miei padri, tu non ci riuscirai: io crederò sempre in te, ti amerò sempre, tuo malgrado!». 

Evidente è il paradosso, ma in questa ripresa del dramma di Giobbe, brillano la totale libertà e l’assoluta fiducia in Dio. Una fiducia che è esaltata anche nella tradizione musulmana con accenti altissimi (muslim significa appunto «chi ha fiducia e si abbandona a Dio»), anche se però non di rado a danno della libertà umana. Significativa è una pagina delMemoriale dei santi del grande scrittore mistico persiano del XII secolo Farid ed din ’Attar che ha per protagonista «un adoratore del fuoco», cioè uno zoroastriano, quindi un pagano agli occhi del musulmano. Farid vede che egli getta miglio sulla distesa di neve che circonda la sua abitazione e spiega che lo fa per gli uccelli del cielo, «sperando che l’Altissimo avrà misericordia di me». 

Ma Farid obiettò: «Tu sei un infedele e il grano seminato da un infedele non germoglia!». Quell’uomo replicò: «Pazienza! Se Dio non accetta la mia offerta, posso almeno sperare che veda il piccolo gesto di amore che io faccio». Mesi dopo ’Attar ripassa e ritrova l’uomo: «L’Altissimo ha fatto germogliare quei semi. Grazie, o Dio, che regali il paradiso per un pugno di grano! Il cuore di Dio si commuove sempre di fronte a un gesto d’amore!». Amore, fiducia, fede si uniscono tra loro e donano serenità. È ancora un musulmano, il poeta nazionale del Pakistan Muhammad Iqbal, morto nel 1938, a scrivere: «Ti dirò il segno del credente:/ quando a lui giunge la morte,/ sulle sue labbra sboccia un sorriso». 

Vivere la fede genera una fiducia che fa fiorire, anche nella crudezza dell’agonia, un sorriso. Concludiamo, allora, con una delle Quattordici preghiere che compose Robert L. Stevenson, il geniale autore ottocentesco inglese dell’Isola del tesoro e dello Strano caso del dottor Jekyll e del Signor Hyde, un vero canto di fiducia nel Dio che non abbandona mai le sue creature coi suoi piccoli e grandi doni: «Ti ringraziamo, Signore, per questo luogo nel quale dimoriamo, per l’amore che ci tiene insieme, per la pace che oggi ci è accordata, per la speranza con la quale aspettiamo il domani, per la salute, il lavoro, il cibo, il cielo chiaro che riempiono la nostra vita di fiducia e di serenità».

 
Gianfranco Ravasi

Percorsi didattici alternativi: “I bambini sono spugne!”

Crescente complessità della vita alla quale concorre anche la tecnologia? Sempre più ampie e trasversali competenze richieste per entrare nel mondo del lavoro? Anche l’universo scuola non può rimanere incolume a tutto questo. Così le classiche ore divise per materie stanno cadendo nel dimenticatoio, i programmi finiscono necessariamente per integrarsi fra loro e l’interdisciplinarietà diventa la nuova parola d’ordine. Ma tutto questo, evidentemente, nel passaggio dal teorico al pratico non è per nulla semplice. Lo sforzo richiesto agli insegnanti è cresciuto e cresce in modo esponenziale. Alcuni, alquanto pioneristicamente, propongono idee nuove e risposte concrete: per un vero e proprio nitido segnale di aggiornamento. Fra questi il Prof. Nicola Rosetti propone un percorso a dir poco particolare: “la catechesi della bellezza”. Se è vero che sin dall’albore dei tempi l’arte e la bellezza hanno tradotto in immagini l’idea della fede, in una qualche forma di trascendenza divina, questo connubio può tentare di spiegare la religione o quantomeno renderla un po’ più accessibile ai nostri ragazzi. Lo abbiamo intervistato.

Prof. Nicola Rosetti, quanto è difficile insegnare religione ai ragazzi? Quale è la sfida/reticenza più grande che questo insegnamento incontra nelle nostre scuole oggi?

Io non parlerei di una difficoltà specifica dell’insegnamento della religione, perché il discorso religioso, la curiosità tipica di ogni uomo e in particolare dei più giovani e non ultimo il fascino proprio della figura di Gesù continua ad attrarre gli alunni. L’insegnamento religioso patisce gli stessi problemi delle altre discipline su un doppio versante: dalla parte di chi insegna e dalla parte di chi riceve l’insegnamento. Per  i primi, cioè per gli insegnanti, il grande problema è quello della riduzione a piccoli burocrati del sapere. Una burocrazia sempre più opprimente li impegna e li distoglie, ovviamente contro la loro volontà, da quello che dovrebbero e vorrebbero fare e cioè formare i ragazzi. Dall’altra parte, gli alunni ricevono molti stimoli e per loro la scuola è diventato sempre più un impegno fra i tanti e non quello principale. Contrariamente a quello che comunemente si pensa, la crisi non è di risorse (che comunque sicuramente potrebbero essere maggiori!) ma culturale. Questa dunque è a mio avviso la vera sfida del momento: far tornare la scuola alla sua vocazione originaria.

Ci può spiegare come organizza una “catechesi della bellezza” in teoria e in pratica?

Il termine “catechesi” non deve trarre in errore i lettori! Il compito dell’insegnante di religione nella scuola non è quello di iniziare alla fede, questo è compito appunto della catechesi. Ho voluto tuttavia chiamare questo modo di impostare le lezioni “catechesi della bellezza” perché sono convinto che solo attraverso la conoscenza dei contenuti della fede si può apprezzare fino in fondo un’opera d’arte di carattere religioso. Allo stesso tempo, un quadro che rappresenta una scena sacra, attraverso l’immagine, riesce a spiegare la fede meglio di un discorso: temi come quelli della grazia e del libero arbitrio sarebbero pesanti e di difficile comprensione anche per un adulto, ma ecco che se magari si mostra ai bambini “La vocazione di San Matteo” di Caravaggio, tutto è più semplice! La luce che proviene dal Cristo rappresenta il suo amore per ogni uomo (grazia) e infatti tutti i personaggi seduti al tavolo sono illuminati, ma solo uno, Matteo, risponde attivamente alla chiamata (libero arbitrio). Una volta osservata l’immagine e spiegato il significato, si può chiedere ai bambini di disporsi nello stesso modo in cui sono disposti i personaggi nel dipinto, oppure si può chiedere loro di adattare il quadro secondo un’altra visione religiosa, come ad esempio quella luterana.

Da dove arriva o deriva la sua idea di utilizzare il connubio tra bello artistico e fede?

Lavorando con i bambini della scuola primaria, comunemente detta elementare, ho sempre dovuto ricercare un linguaggio semplice, accessibile e diretto e nulla è così comunicativo come un’immagine. Direi che quindi tutto è nato per praticità. Durante la mia esperienza lavorativa a Roma, mi sono accorto che i bambini non conoscono per nulla la città in cui vivono. Pertanto nelle mie lezioni cerco di usare il più possibile opere d’arte che poi posso fare ammirare ai miei alunni dal vivo. Si tratta di fare un raccordo fra fede, arte e le ricchezze che il territorio offre. Nel mio lavoro cerco di ispirarmi ad un dipinto di El Greco che nella sua semplicità mi ha sempre affascinato. Si tratta di un “ritratto” dell’evangelista Luca che mostra all’osservatore il vangelo aperto; sulla pagina di sinistra si vede un passo del vangelo, mentre su quella di destra è dipinta una Madonna che regge in braccio Gesù Bambino. Ho scelto questa immagine come sintesi del mio lavoro perché non faccio altro che abbinare a ogni passo biblico che propongo ai miei alunni un’immagine artistica che lo visualizzi e lo spieghi. In tutta onestà posso dire che di mio c’è ben poco! Il mio è soprattutto un lavoro di “collage”!

Che tipi di riscontri (commenti, pensieri, idee … ) incontra presso i ragazzi e/o presso i loro genitori usando questo suo metodo? Ci racconti un episodio che le è rimasto impresso.

Non bisogna sottovalutare l’intelligenza, la curiosità e il desiderio di conoscere dei bambini, anzi forse noi adulti, spesso stanchi e annoiati da tutto, dovremmo prendere esempio da loro! Non bisogna avere paura di proporre agli alunni molti contenuti perché i bambini sono “spugne”! Io per esempio non mi faccio nessun problema a portare classi di alunni di terza elementare in visita ai Musei Vaticani! Propongo questa attività didattica al termine dell’anno scolastico, come coronamento di un percorso che abbiamo svolto durante tutto l’anno. I bambini sono sempre molto entusiasti perché finalmente, dopo un anno di intenso lavoro, possono vedere dal vivo quello che hanno studiato in classe! Quando ci troviamo ai Musei Vaticani non prendiamo una guida, ma ogni bambino fa da guida agli altri! Diciamo che è una vera e propria interrogazione sul posto: io faccio le domande sui dipinti che vediamo e un bambino alla volta risponde, in modo tale che tutti  siano coinvolti. A questo tipo di uscite partecipano anche i genitori che si possono rendere conto del tipo di attività che abbiamo svolto in classe durante l’anno. I genitori partecipano sempre molto volentieri, anche perché per molti di loro è la prima occasione per ammirare le meraviglie di Roma. Quest’anno mi ha colpito la visita a Santa Maria Maggiore. Il custode mi ha chiesto se i bambini potessero essere interessati a vedere dei paramenti liturgici cinquecenteschi. Ero molto scettico sulla cosa perché la ritenevo più adatta per un gruppo di sacerdoti o di religiosi piuttosto che per dei bambini, e più per non rispondere con un  “no” che per altro ho acconsentito. Con mio grande stupore, quando il custode ha aperto gli armadi dove erano contenuti i paramenti, dai bambini si è levato un grosso “OHHH” di meraviglia. Quegli abiti finemente decorati, insoliti, di foggia preconciliare li ha enormemente colpiti. Questo per dire che non bisogna avere paura nel proporre contenuti che a prima vista potrebbero sembrare “pesanti”.

Chiudiamo con una domanda personale. Cos’è quindi “la bellezza” secondo la sua esperienza? È più un modo, per noi uomini, per avvicinarci a capire un poco Dio o più un modo di Dio per scendere al nostro livello, parlando una lingua che noi conosciamo, e farsi capire?

Credo che si possa parlare di due vie complementari. Dio è bellezza, l’uomo è bellezza, l’arte è il ponte che li lega. È impressionante come l’uomo, volendo catturare in immagini la gloria di Dio finisce anche per glorificare se stesso attraverso il talento artistico. Mi permetta di terminare con le parole del grande scrittore inglese G.K. Chesterton che, in polemica con la bruttezza di certe produzioni artistiche moderne ha descritto a mio avviso in modo magistrale cosa deve essere una vera opera d’arte: “Non basta che un monumento popolare sia artistico, come uno schizzo a carboncino. Deve sorprendere, deve essere sensazionale nel senso più alto della parola, deve rappresentare l’umanità, deve parlare per noi alle stelle, deve proclamare al cospetto del cielo che, una volta stilato il catalogo più lungo e più nero di tutti i nostri crimini e di tutte le nostre follie, restano ancora alcune cose di cui gli uomini non devono vergognarsi”.

(Intervista tratta dal sito Mediapolitika)

Giovani, università e comunicazione della fede

In questi ultimi anni, numerosi sono stati i messaggi provenienti dal Santo Padre Benedetto XVI e dagli organi della Chiesa che si rivolgono con sempre maggiore attenzione ai giovani. Basti pensare, tra i molti, al messaggio di Papa Benedetto per la Giornata Mondiale della Pace del 2012 dal titolo: “Educare i giovani alla giustizia e alla pace”, oppure alla recente plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura del 2013 dal tema: “Culture giovanili emergenti”. Per comprendere i cristiani di domani, in sintesi, è importante conoscere e sostenere i giovani di oggi.

Abbiamo chiesto alcune considerazioni in merito al vescovo titolare di Eraclea, Enrico dal Covolo, Rettore della Pontificia Università Lateranense che in questi giorni si trova Iran. È, infatti, in visita ufficiale presso l’Università islamica di Teheran. 

è  stata da poco celebrata la Giornata della Vocazione e della Vita Consacrata. Lei prima di tutto è sacerdote, salesiano e poi rettore dell’Università del Papa. Cosa significa la sua vocazione di salesiano al servizio della Lateranense? 

Mons. Enrico dal Covolo: Ritengo di essere stato inviato in questa università soprattutto per essere al servizio dei giovani e per la promozione della cultura accademica, sempre orientata alla crescita dei giovani, degli studenti e di conseguenza anche dei professori di questa università. Ritengo, però, che i giovani siano la mia patria determinante. Molte volte dico che l’università se c’è, se esiste, è per i giovani e per gli studenti, non è di per sé per i professori. E’ finalizzata alla crescita dei giovani e per questo mi ritrovo come a casa perché questa è la via che ho scelto come salesiano: fare di loro, secondo il progetto di Don Bosco, degli onesti cittadini e dei buoni cristiani, lavorando secondo il sistema che Don Bosco ci ha consegnato, basato sulla ragione, sulla religione e sull’amorevolezza. 

Nel discorso d’inizio anno accademico 2012/2013, Lei ha sottolineato l’importanza della pastorale universitaria durante il percorso formativo degli studenti. Quali sono i compiti principali di tale attività affinché i giovani possano essere aiutati a capire la loro vocazione? 

Mons. Enrico dal Covolo: La pastorale universitaria è soprattutto un accompagnamento. “You to you”, a “tu per tu” coi giovani affinché, in questa esperienza accademica, siano facilitati a scoprire il disegno globale, il progetto di vita che il Signore indica a loro. Non è un cammino facile, si tratta di procedere con il discernimento e si tratta di rendere capaci i giovani di porsi la domanda giusta, la sola domanda: “Signore, che cosa vuoi che io faccia con la mia vita?”. Io spesso raccomando ai giovani che i loro progetti personali siano sovrastati, siano guidati da questa domanda: “Signore, che cosa vuoi che io faccia con la mia vita?”. Proprio per questo, durante l’anno accademico, abbiamo avviato un’esperienza senza dubbio molto interessante di pastorale universitaria: la nuova convivenza di casa Zaccheo. Una casa al centro di Roma dove dodici nostri giovani, ragazzi e ragazze dell’università, si sono messi insieme per un progetto di vita comunitaria all’insegna precisamente di questa domanda centrale: “Signore che cosa vuoi che io faccia con la mia vita? ”. 

Il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, ha dedicato quest’anno alla Fede. In questo contesto Lei ha stabilito che il corrente anno accademico fosse dedicato alla comunicazione della fede. Cosa si intende per comunicazione della Fede nei tempi odierni?

Mons. Enrico dal Covolo: Qui devo fare delle precisazioni. Il progetto del quadriennio del mio rettorato è segnato da quattro parole chiavi: la prima è l’“emergenza educativa”, e questo ha contraddistinto l’anno accademico 2010/2011. La seconda parola è la “formazione dei formatori” come risposta appunto alla emergenza educativa; questo impegno ha sottolineato in modo speciale l’anno accademico 2011/2012. Poi ci sono altre due vie che io ritengo prioritarie, due mezzi particolarmente efficaci per raggiungere l’obiettivo che ci siamo proposti, che è appunto la formazione dei formatori come risposta all’emergenza educativa. E queste due vie, questi due mezzi privilegiati, sono “la pastorale universitaria”, di cui abbiamo già parlato ed a cui dedicheremo il prossimo anno accademico 2013/2014, e “la comunicazione”, di cui ci stiamo occupando in modo speciale in quest’anno 2012/2013. Ma questo è anche l’Anno della Fede, e così abbiamo pensato di intitolare questo anno accademico 2012/2013 proprio come l’anno della comunicazione della Fede. Così facendo, abbiamo anche inteso superare un possibile equivoco. 

Trasmettere la Fede certamente è importante e decisivo, ma noi non vorremmo che con il termine “trasmettere la Fede” si alludesse soltanto e semplicemente a un problema di contenuti da trasmettere, cioè all’aspetto oggettivo della fede. Noi siamo convinti, secondo la grande lezione dei Padri, che esiste anche un aspetto soggettivo, che va testimoniato, accanto a quello oggettivo, che va trasmesso. Quindi, le due cose insieme, trasmettere e testimoniare, ci hanno fatto scegliere questa espressione “comunicare la Fede”, comunicarla nella sua interezza sia per quanto riguarda gli aspetti oggettivi, cioè il catechismo, sia per quanto riguarda gli aspetti soggettivi, cioè la testimonianza personale della Fede cristiana.  

Com’è il rapporto della Chiesa con i nuovi mezzi di comunicazione? 

Mons. Enrico dal Covolo: Il rapporto è di grande apertura. Basti leggere i messaggi come l’ultimo del Papa per la giornata mondiale delle comunicazioni. Sono messaggi di ampio respiro. Dall’altra parte però devo ammettere che siamo ancora all’inizio. Bisogna che dedichiamo più tempo ed energie a questo ambito. E’ proprio per questo che noi, il 14 di febbraio, avvieremo un’altra iniziativa. Inaugureremo un master di “Digital Journalism”, frequentato da circa trenta corsisti che verranno istruiti dai migliori esperti della comunicazione digitale. Questo master durerà fino al mese di dicembre dell’anno in corso, a cavallo tra i due anni accademici. E’ un programma molto ambizioso. Noi lo proponiamo al servizio della società e della cultura, ma anche per una motivazione ecclesiale.

Abbiamo avvertito un’urgenza: molte riviste, bollettini parrocchiali o riviste diocesane ormai sono in difficoltà con il supporto cartaceo ed è sempre meno possibile, anche per i costi che la cosa comporta, andare avanti in questa direzione. Sempre più si avverte l’urgenza di passare al digitale. Noi vorremmo abilitare questa trentina di persone in modo che possano anche offrire un competente servizio nella gestione di questa particolare emergenza che si è creata all’interno della Chiesa.  

I nuovi modi di comunicare la Fede come incidono sulla vocazione dei giovani e sulla loro percezione di essa? (Ovvero, come è cambiato, se è cambiato, il modo di vivere la vocazione?)

Mons. Enrico dal Covolo: Bisogna ricordare ciò che molto giustamente ha detto il Papa nel messaggio per la pace nel 2012. In quel messaggio si evocava il legame strettissimo che esiste tra educazione e comunicazione. Diceva il Papa che l’educazione è comunicazione, quindi ci sono ampie zone di interferenza diretta ed esplicita. La stessa cosa può essere detta riguardo alla vocazione e alla comunicazione: cioè l’esistenza di ampie aree di interferenza reciproca. Quando pongo la domanda giusta, ovvero: “Signore che cosa vuoi che io faccia?”, è chiaro che invito il giovane ad aprirsi generosamente alla comunicazione, ad aprirsi all’altro. Certo, all’altro con la “A” maiuscola, ma anche agli altri che sono il nostro prossimo.  

Lei, ha compiuto recentemente un viaggio in Medio Oriente presso gli istituti che sono affiliati alla Lateranense. Ha avuto modo di incontrare i giovani e di parlare con loro?

Mons. Enrico dal Covolo: Naturalmente, perché una delle istanze previste era proprio il colloquio diretto con gli studenti. Così li ho radunati insieme, e ho avuto anche delle occasioni di colloquio a “tu per tu” con molti di loro. Mi sono accorto con grande soddisfazione e con grande speranza durante questo viaggio in Medio Oriente che i giovani dei nostri centri affiliati studiano bene e con un obiettivo ben chiaro, cioè quello di essere capaci di incidere per edificare una società, una civiltà migliore. E quando dico migliore intendo dire soprattutto sul versante della pace, del dialogo culturale e interreligioso, al fine di costruire un tessuto sociale meno sofferente, meno conflittuale. Credo che in questo momento tra i valori più sentiti dai giovani in Medio Oriente, ci sia, in assoluto, il valore della pace. Certamente con tutto quello che lo circonda come l’educarsi ad essere efficaci promotori di pace; da qui anche lo studio appassionato della dottrina sociale della Chiesa che si va compiendo in questi centri. Fondamentale è anche il dialogo interreligioso perché c’è la convinzione in questi giovani, che io ritengo giusta, che il dialogo migliore e più efficace sia quello che si può costruire proprio su basi culturali solide: è proprio qui che si gioca la possibilità dell’incontro rispettoso e tollerante. Purtroppo con le frange estremiste o fondamentaliste questo non è possibile.

Quindi sono questi i valori principali con cui si identificano i giovani cristiani in Terra Santa?

Mons. Enrico dal Covolo: Soprattutto il valore della pace! Ma ci sono intorno anche molti altri valori per il conseguimento di questa. Una capacità di servizio e di dono di sé. Mi colpisce molto e mi entusiasma il fatto che questi giovani non studino tanto per se stessi, cioè non si chiudano nella torre d’avorio di una cultura asettica, ma cerchino al contrario di mettere le nozioni, lo studio che fanno, al servizio di questo progetto sociale di convivenza migliore.

In Medio Oriente è particolarmente importante – come ha accennato anche Lei – il dialogo interreligioso nel nuovo processo di evangelizzazione. Questo è naturalmente un precipuo compito anche dei giovani cristiani. Come affrontano tale tema questi istituti affiliati alla Lateranense?

Mons. Enrico dal Covolo: Lo affrontano in base alle caratteristiche proprie del Centro accademico a cui ci riferiamo. Comunque, un’istanza condivisa e comune è quella di una conoscenza reciproca maggiore, cioè conoscere meglio per esempio i testi di riferimento delle religioni di cui si parla, conoscere meglio le tradizioni di queste religioni, cercare di capire di più per capirsi di più. Noi abbiamo dei Centri che si occupano maggiormente del dialogo con l’una o con l’altra religione: per esempio nella Domus Galilaeae, presso la quale abbiamo un Istituto affiliato di studi teologici, il Seminario Redemptoris Mater, ci si è specializzati in modo particolare, su indicazione del Papa Beato Giovanni Paolo II, sul dialogo ebraico-cristiano. In tale contesto, quindi, viene portato specificamente avanti il filone di questo tipo di dialogo. Invece, come ulteriore esempio, nella Università Saint-Joseph di Beirut ho visto che si coltiva maggiormente il dialogo con la religione islamica. Queste sono le caratteristiche proprie di ogni Centro. Però possiamo dire che c’è una costante, un minimo denominatore comune ben condiviso che è questo: una conoscenza maggiore, un rispetto reciproco, il desiderio di capirsi di più.

Cosa si sente di augurare ai giovani che stanno cercando la loro vocazione?

Mons. Enrico dal Covolo: Quello che dico sempre! Non aver paura di accettare ciò che il Signore indica come la tua strada, anche se a prima vista questo potrebbe comportare grossi sacrifici, ma si deve partire dalla consapevolezza che la propria felicità più grande può realizzarsi solo in questa direzione, cioè che la nostra felicità più grande si realizza nell’obbedienza al progetto che Dio ha sopra di noi. Qualunque altra strada non conduce alla felicità piena. Anche quando il Signore fa delle proposte impegnative. Possiamo pensare alle vocazioni consacrate, alle vocazioni missionarie, alle vocazioni di speciale servizio nella Chiesa e nel popolo di Dio: certamente questo comporta tanti sacrifici, però – se una persona è chiamata a questa strada – questa è l’unica via per raggiungere la vera felicità, che io auguro sempre ai giovani. La vera felicità coincide con la santità: cioè essere felici di qua e di là.

Il 31 gennaio è stato celebrato San Giovanni Bosco. I salesiani come hanno festeggiato il loro fondatore che è stato un vero protettore dei giovani?

Mons. Enrico dal Covolo: Certamente in base alle proprie culture locali. Ho visto, seguendo i vari servizi dell’Agenzia notizie salesiane, c’è un tripudio di festeggiamenti in onore di Don Bosco direi molto ben marcati dalla situazione locale in cui avvengono tali festeggiamenti. C’è però una sorta di elemento comune che lega i festeggiamenti quest’anno, ovvero la preparazione a marce sempre più robuste verso il 2015, per i 200 anni di nascita del nostro Fondatore. Il rettore maggiore ha indicato questi anni, questo triennio che ci avvicina al 2015, come anni di preparazione specifica guidati da un programma. Ogni anno viene proposto un certo aspetto della spiritualità di Don Bosco e della sua santità, del suo carisma, da approfondire. E così il festeggiamento di quest’anno è orientato a sottolineare la caratteristica fondamentale della missione di Don Bosco: la pedagogia salesiana basata sul sistema preventivo.