VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Siracide 27, 5-8 (NV) [gr. 27, 4-7]

 Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti. I vasi del ceramista li mette a prova la fornace, così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo. Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela i pensieri del cuore. Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini. 

Il testo dei Siracide, ricco di saggezza umana ci aiuta a riflettere su come conoscere gli uomini e come valutare i loro comportamenti e la loro condotta di vita, senza escludere la conoscenza di se stessi. L’uomo, infatti, manifesta la sua vera identità attraverso il suo agire e il suo parlare. II brano biblico, di stile gnomico, ci offre cosi dei criteri molto validi su questo punto attraverso immagini simboliche cariche di significato: quella del vaglio, quella del forno e quella dell’albero fruttuoso.

Come il vaglio separa il grano dalla pula cosi la bontà e la cattiveria degli uomini si manifestano nelle loro riflessioni e nei le loro parole. Come le imperfezioni e le scorie di oggetti e vasi si possono controllare nel momento in cui sono in lavorazione nel forno, così le intenzioni segrete e le passioni umane si rivelano nella discussione appassionata. Infine, come la qualità degli alberi si riconosce dai loro frutti, così i pensieri nascosti e gli orientamenti di vita dell’uomo sono messi in luce dalle parole e dalle azioni. In conclusione, per conoscere bene l’uomo bisogna prima valutare il suo parlare, il suo modo di pensare e il suo agire, senza mai escludere una giusta dose di prudenza, perché la vita intima e segreta di ciascuno solo Dio la conosce a perfezione.

Seconda lettura: 1 Corinzi 15, 54-58

   Fratelli, quando questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!  Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.   

Dopo aver approfondito con vari argomenti il tema della risurrezione di Cristo e quello della nostra risurrezione, Paolo ci riconduce al centro della sua riflessione: la vittoria di Cristo sulla morte e sul peccato. Sappiamo che Gesù è già risorto, ma è ancora in lotta con il peccato del mondo e con la morte. È certo però che, alla fine, le potenze del male e della morte saranno sconfitte e il Cristo potrà così consegnare il suo regno al Padre. È questa una visione di grande speranza che coinvolge ogni singolo credente e tutta la chiesa. Cristo risorto, cioè, nel suo trionfo sulla morte non ha voluto rimanere solo, ma ha condiviso il suo ‘segreto’ con la chiesa, invitandola a vincere – solidale con tutta l’umanità – il male sotto ogni forma: l’odio, la paura e la morte.

L’Apostolo per questo esorta ogni credente a rimanere saldi e irremovibili, prodigandosi sempre nell’opera del Signore» (v. 58), perché è fortemente convinto che ogni fatica umana in questo campo non è vana e la speranza della risurrezione è un caposaldo della nostra fede cristiana. La lotta che il cristiano deve ingaggiare con il male a volte potrà recare perdite dolorose ma la certezza della vittoria finale sulla morte e sul peccato è una realtà per noi certa e già ora anticipata nella persona di Cristo.

Vangelo: Dal Vangelo secondo Luca 6, 39-45

  In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:  «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmiauva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».       

Esegesi

Il testo evangelico mette in luce, facendolo in parabole, la condotta di chi si pone a guida dei propri fratelli. L’insegnamento dì Gesù verte su forti contrasti e si rivolge ai suoi uditori per metterli in guardia contro il pericolo della presunzione che conduce alla rovina, proprio sull’esempio dei farisei che, in fatto di presunzione, non conoscevano rivali. Queste sue parole Gesù le rivolge ai discepoli: si tratta di una parabola – scrive Luca – la quale non ha certo bisogno di spiegazioni perché smantella chiaramente un possibile atteggiamento interiore in chi si trova a esercitare un ministero di guida verso i suoi fratelli. In controluce emerge un forte invito di Gesù all’umiltà, quella vera, per la quale chi è guida non si pone come giudice dei fratelli, ma semmai si espone volentieri alla reciproca correzione fraterna.

Dal discorso parabolico Gesù passa gradualmente a un discorso propositivo: «Il discepolo non è da più del maestro», e a un discorso provocatorio: «Perché guardi la pagliuzza… Come puoi dire al tuo fratello… Ipocrita!» (vv. 41s.), illuminato, infine, dal contrasto tra «l’albero buono» e l’«albero cattivo» (v. 43). L’intendimento di Gesù è quello di suscitare atteggiamenti di vita comunitaria in coloro ai quali egli affida il suo vangelo, cioè la sua proposta di vita nuova. Non si dà vera spiritualità cristiana se non nella pratica dei comandamenti e, ancor più, nell’adesione totale alla novità evangelica.

L’insegnamento di Gesù va dunque dal cuore agli atti esterni e da questi all’intimo del cuore, cioè la condotta esteriore deve coincidere con l’intenzione interiore, che procede da un cuore rinnovato e buono.

Prima di ascoltare questa pagina di Vangelo, l’Acclamazione al Vangelo, ci ha messo sulle labbra una breve preghiera: «Apri, Signore, il nostro cuore e comprenderemo le parole del Figlio tuo». Premessa necessaria! Abbiamo ascoltato alcune parole del Signore apparentemente molto chiare: un cieco non può guidare un altro cieco; perché guardi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello? Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi. Mai come oggi il Vangelo ci sembra tanto comprensibile e ovvio. Ma la comprensione che la liturgia ci ha fatto invocare è un’altra: non è tanto a livello di intelligenza, quanto di cuore; non è tanto un capire quanto un comprendere, cioè un abbracciare con tutto il nostro essere, un fare nostre le parole.

Siamo in quella parte del Vangelo di Luca che si apre con le beatitudini e abbraccia i grandi discorsi sulla legge nuova; non se ne può prendere solo un frammento, come facciamo noi durante la Messa, perché è piuttosto dall’insieme che emerge lo spirito di Gesù, la novità evangelica. Al «fu detto», Gesù oppone ora il suo rivoluzionario «ma io vi dico», che compie e trasforma, nello stesso tempo, la legge antica.

«A voi che ascoltate, io dico…»: così cominciò a parlare quel giorno Gesù (cf. Lc 6, 27) e così dice adesso anche a noi. Che cosa ci dice esattamente?

Si tratta di tre temi: primo, un cieco non può guidare un altro cieco; secondo, è zelo sbagliato voler togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello quando si ha addirittura una trave nell’occhio proprio; terzo, ogni albero si riconosce dai frutti, cioè ogni uomo si riconosce per quello che è veramente, non dalle parole che dice ma dalle opere che compie. Cosa singolare: Gesù mostra di rivolgere, qui, ai suoi discepoli una serie di ammonimenti che, altrove, aveva rivolto, sotto forma di rimprovero, ai farisei. È contro i farisei che aveva esclamato: Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso! (Mt. 15, 14); è ai farisei, soprattutto, che, a più riprese, Gesù aveva gridato il suo «Ipocriti!». Ed ecco che oggi questa terribile esclamazione «Ipocrita!» la ritroviamo in un discorso rivolto ai suoi discepoli e, quindi, anche a noi: Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.

Intorno a questa parola dobbiamo organizzare oggi coraggiosamente un nostro esame di coscienza e lasciarci giudicare dal Vangelo. Forse per la prima volta, saremo costretti ad ammettere, per quanto ci dispiaccia, che siamo tutti degli ipocriti.

Come quasi tutti i discorsi di Cristo, anche questo sull’ipocrisia può avere due applicazioni: una all’intera comunità cristiana e una al singolo credente. Non sono pochi oggi quelli che si sentono chiamati a denunciare la ipocrisia della Chiesa, specie della Chiesa istituzionale, noi sacerdoti compresi. La Chiesa — si afferma — dice e non fa; si scandalizza di certi mali e ne tace altri; denuncia i peccati della società civile, come quelli dell’ingiustizia sociale, senza avere, essa stessa, le mani del tutto pulite; si preoccupa di salvare la vita non nata, ma non fa altrettanto per salvare la vita e la sopravvivenza di chi è già nato.

Quando questa critica non è pura polemica astiosa e interessata, ma viene da gruppi e da istanze profetiche che vogliono sinceramente migliorare la Chiesa, noi dobbiamo prenderle sul serio e lasciarcene interpellare. Attraverso queste cose, è Cristo stesso che chiama la Chiesa a purificarsi sempre più per adeguarsi alla sua parola. Uno dei motivi che indusse Gesù a gridare ai capi del giudaismo del suo tempo il suo terribile «Ipocriti!» fu che essi non sapevano, o non volevano, riconoscere i segni dei tempi (cf. Lc 12, 54ss.). «La Chiesa — si legge in un testo del Vaticano II — confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano e la perseguitano» (GS 44).

Noi cristiani però non faremmo che perpetuare l’errore di voler togliere la pagliuzza dall’occhio altrui, senza rimuovere la trave dal nostro, se ci limitassimo a fare un discorso sull’ipocrisia della società o della Chiesa, senza scendere mai a noi stessi e alla nostra multiforme ipocrisia: una società ipocrita è il risultato di individui ipocriti, come un lago inquinato è il prodotto di tante gocce d’acqua sporche. Il Siracide, nella prima lettura, ci ha esortati oggi proprio a questa autocritica personalissima: Quando si agita un vaglio, restano i rifiuti; così quando un uomo riflette, gli appaiono i suoi difetti. Scorriamo, dunque, un po’ il Vangelo per vedere quali sono, secondo Gesù, le manifestazioni principali dell’ipocrisia e se esse non si riscontrano, per caso, tutte quante, quale più quale meno, nella nostra vita.

Il primo caso è quello ascoltato nel brano odierno: ipocrita è chi trova continuamente da ridire sugli altri, a cominciare forse dall’amico o dall’amica più intimi, e non si pone mai la domanda se ciò che detesta negli altri la vanità, l’egoismo, l’avarizia, l’insincerità, la grettezza — non si trovano, in misura ancora maggiore, in lui stesso. Ipocrita — dice Gesù in un altro contesto — è chi impone agli altri fardelli morali gravissimi, chi pretende che gli altri non si lamentino, non si inquietino mai, che non avanzino mai rivendicazioni, che non dicano mai di essere stanchi, salvo poi a riconoscere, ogni momento, tutti questi diritti a se stessi (c£. Mt. 23, 4). Ipocrita — dice ancora Gesù — è chi paga la decima dei piccoli raccolti, ma non dà alcun peso alle cose veramente importanti della legge: la giustizia verso i poveri, la misericordia e la fedeltà (cf. Mt. 23, 23). Qui davvero ci scopriamo tutti quanti parenti stretti dei farisei. Quanti cristiani credono di essere a posto davanti a Dio, perché pagano la decima della menta e dell’aneto, cioè perché danno un’offerta, magari miserabile, al parroco che passa a benedire la casa, perché accendono ogni tanto una candela a sant’Antonio, perché finanziano un’opera pia, ma non si pongono mai il problema se sono giusti con la famiglia, con i propri dipendenti, se non divorano anch’essi le case delle vedove, imponendo canoni di affitto intollerabili, se esercitano davvero la misericordia con gli uomini e la fedeltà con Dio.

Sugli ipocriti, il Vangelo pronuncia la più terribile delle minacce: Hanno già ricevuto la loro ricompensa! (Mt 6, 2). Come dire: Dio non deve loro più nulla. Quando questo è atteggiamento cosciente e voluto (ma questo avviene raramente), esso è davvero un terribile peccato; è, in pratica, un ateismo, perché significa credere in un Dio che ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non sente; è un dimenticare che il Dio biblico è un Dio vivente e santo che scruta i cuori e legge i pensieri prima che si formino nella mente.

La parola di Dio ci ha condotto attraverso una salutare autocritica; da essa deve sbocciare in noi un desiderio intenso di essere davvero «onesti con Dio», di camminare davanti a lui «in azzimi di sincerità e di verità» (cf. 1 Cor 5, 8). Quando, alla fine del «Padre nostro», diciamo oggi: «Liberaci dal male», è da questo male che dobbiamo chiedere la liberazione: dal male dell’ipocrisia.

Ma non è da noi che possiamo ottenere questo: Gesù è l’azzimo per eccellenza di sincerità e di verità: venendo in noi egli può renderci trasparenti nelle intenzioni e puri nel cuore; può fare di noi una nuova pasta; per questo, infatti, Cristo nostra Pasqua è stato immolato (1 Cor 5, 7).

Meditazione

      Il paragone dell’albero e dei suoi frutti è un filo conduttore che attraversa le letture d’oggi, compreso il salmo responsoriale. E pure presente molte altre volte nella Bibbia, a cominciare dall’albero della vita e della morte (Gen 2,16s.; 3,1-24). In realtà, in esse è il cuore dell’uomo quello che trasforma l’albero «della conoscenza del bene e del male», di per sé fonte di vita, in un albero di morte. Nel vangelo d’oggi Gesù intreccia i due temi, per farci capire che solo chi ha un cuore buono può essere l’albero buono che produce frutti buoni.

È notevole l’insistenza di Gesù sul bisogno di puntare sull’interiorità dell’uomo, ossia sul suo cuore, e di superare il mero esteriorismo, tipico dei farisei, che egli spesso denuncia (Mt 5,20; 12,2-7; 15,1-20; 23,2-8 ecc.). Nel cuore, infatti, inteso biblicamente, si giocano, secondo lui, le decisioni più profonde dell’uomo, quelle che determinano l’orientamento radicale della vita. Se esso è profondamente radicato in Dio e nella sua parola, non può produrle che frutti buoni. Il cuore si converte così nella sorgente dalla quale sgorgano gli atteggiamenti, le parole e le azioni veramente ‘buoni’. Sant’Agostino aveva capito bene quest’orientamento evangelico quando scriveva: «Ama e fa’ ciò che vuoi». Da un cuore che ama sul serio, che vuole cioè veramente il bene, non può scaturire effettivamente che il bene.

«Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore», gridò ai quattro venti Gesù nel suo discorso della montagna (Mt 6,21). Il suo cuore era certamente in Dio e nel suo gran de progetto d’amore a favore degli uomini. Perciò egli fu l’albero buono per eccellenza, che produsse i migliori frutti di vita per sé e per l’umanità intera. C’è da domandarci se anche il nostro cuore è dove era il suo e non altrove, nelle mille esteriorità della vita. Se facciamo nostro il suo stesso tesoro, certamente la nostra fatica non sarà vana, secondo l’augurio di Paolo (1 Cor 15,58), per ché produrremo gli stessi frutti che egli produsse.

Don Bosco commenta il Vangelo

VIII domenica del tempo ordinario

La Chiesa è un grande albero 

Gesù disse loro anche una parabola: “Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo” (Lc 6,43-44).

Nel 1853 don Bosco pubblicò Il cattolico istruito nella sua religione che contiene diversi “Trattenimenti di un padre coi suoi figliuoli secondo i bisogni del tempo”.

Nel Trattenimento 19 prende l’immagine dell’albero per parlare della Chiesa e dei rami che se ne staccano. Comincia il padre al quale risponderà il figlio:

P. – Quando in una tempesta si rompe un ramoscello da un grande albero, si dirà che il ramoscello si è staccato dall’albero, o l’albero dal ramoscello? […] Separato il ramoscello, può essere che esso diventi albero, e che il grande albero cessi di essere tale per la sola perdita di uno degli innumerevoli suoi ramoscelli?

F. – Nemmeno questo: l’albero sarà sempre albero, e non cesserà di essere tale per la perdita di uno dei suoi ramoscelli.

P. – Comprendete che cosa sia questo grande albero, e questo piccolo ramoscello?

F. – Sì, sì, capisco: questo grande albero, ce lo avete già detto, questo grande albero è la Chiesa Cattolica; il ramoscello sono [quelli] che si separarono dal vero albero della vita che è Gesù Cristo.

P. – Appunto così. La Chiesa Romana, sola ed unica vera Chiesa di Gesù Cristo, è quel grande albero contro di cui sollevaronsi in ogni tempo le più furiose tempeste: ella tutto soffrì, e sempre si sostenne immobile senza variare. Sono ormai diciannove secoli che ella mostrasi visibile a tutti gli uomini del mondo (OE4 401).

Nell’opuscolo uscito nel 1866 con il titolo Chi è D. Ambrogio?! don Bosco presenta un vivace dialogo tra un teologo e un barbiere, in cui il teologo spiega al barbiere l’errore di don Ambrogio, un “prete disgraziato” che non può portare buoni frutti. A un certo momento il teologo risponde al barbiere che non capisce bene:

Teol. – Mi spiegherò con una similitudine: prendiamo a modo di esempio un albero. Esso ha, 1° la radice, 2° il fusto, 3° i branchi maggiori, 4° i branchi minori, 5° i ramoscelli: cosi è di S. Chiesa; essa ha 1° la radice che è Gesù Cristo capo invisibile, 2° il fusto che è il Papa, 3° i branchi maggiori attaccati al fusto, cioè i vescovi uniti al Papa, 4° i branchi minori, cioè i sacerdoti e specialmente i parroci, 5° i ramoscelli cioè i fedeli cristiani.

     Barb. – Benissimo mi piace questo esempio, ma che cosa vuoi tu da ciò dedurre?

     Teol. – Voglio dedurre che se tu o l’aria, od altra causa stacca un ramo dall’ albero, questo ramo non gode più il sugo dell’albero, non vive più della vita di esso, e non fa più i suoi frutti.

     Barb. – Ciò è vero.

     Teol. – E così è se un fedele od un sacerdote si stacca dalla dipendenza e dall’essere unito all’albero di S. Chiesa, esso non può più godere del sugo di santa Chiesa che vien da Gesù Cristo radice e capo invisibile, non può più viverne la vita, e fare i suoi frutti (OE17 252s).

Nel 1869, alla vigilia del concilio Vaticano I, don Bosco pubblicò La Chiesa Cattolica e la sua Gerarchia in cui racconta i meravigliosi esiti della predicazione degli apostoli che produsse nel tempo il magnifico albero della Chiesa cattolica:

Fondarono numerose chiese sulla faccia della terra; crearono vescovi, sacerdoti e altri sacri ministri, e considerando queste chiese come altrettante piante del giardino del Signore, non si contentarono di bagnarle e farle crescere col loro sudore, ma bensì col proprio sangue. Dopo la loro morte le chiese da loro fondate si accrebbero, si dilatarono, e così vennero unite nella medesima fede formando quel magnifico e grandiosissimo albero della chiesa cattolica, il quale avendo le sue radici in Roma s’innalza sublime e frondoso al Cielo, si stende sopra tutta la terra, raccogliendo sotto i suoi rami, sotto l’ombra sua benefica tutti i popoli della terra (OE21 249s). 

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Murales a Sarria (Lugo-Spagna)   –   Cammino di Santiago 2018  

AMA LA VITA

Ama la vita così com’è…
Ma non amare mai senza amore.
Non vivere mai senza vita!

(Madre Teresa di Calcutta)

Casella di testo: Siracide 27, 5-8 (NV) [gr. 27, 4-7]
1 Corinzi 15, 54-58
 Luca 6, 39-45

Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi. La morale evangelica è un’etica della fecondità, di frutti buoni, di sterilità vinta e non di perfezione. Dio non cerca alberi senza difetti, con nessun ramo spezzato dalla bufera o contorto di fatica o bucato dal picchio o dall’insetto. L’albero ultimato, giunto a perfezione, non è quello senza difetti, ma quello piegato dal peso di tanti frutti gonfi di sole e di succhi buoni. Così, nell’ultimo giorno, quello della verità di ogni cuore (Mt 25), lo sguardo del Signore non si poserà sul male ma sul bene; non sulle mani pulite o no, ma sui frutti di cui saranno cariche, spighe e pane, grappoli, sorrisi, lacrime asciugate. La legge della vita è dare. È scritto negli alberi: non crescono tra terra e cielo per decine d’anni per se stessi, semplicemente per riprodursi: alla quercia e al castagno basterebbe una ghianda, un riccio ogni 30 anni.

Invece ad ogni autunno offrono lo spettacolo di uno scialo di frutti, uno spreco di semi, un eccesso di raccolto, ben più che riprodursi. È vita a servizio della vita, degli uccelli del cielo, degli insetti affamati, dei figli dell’uomo, di madre terra. Le leggi della realtà fisica e quelle dello spirito coincidono. Anche la persona, per star bene, deve dare, è la legge della vita: deve farlo il figlio, il marito, la moglie, la mamma con il suo bambino, l’anziano con i suoi ricordi. Ogni uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore. Noi tutti abbiamo un tesoro, è il cuore: da coltivare come un Eden; da spendere come un pane, da custodire con ogni cura perché è la fonte della vita (Proverbi, 4, 23). Allora, non essere avaro del tuo cuore: donalo.
(Ermes Ronchi)

Preghiere e racconti

Assemblea nella falegnameria

Raccontano che nella falegnameria si ebbe una volta una strana assemblea. Fu una riunione di utensili (attrezzi) per risolvere le loro differenze. Il martello esercitò la presidenza, ma l’assemblea gli notificò che doveva rinunciare. La causa? Faceva troppo rumore! E, inoltre, passava il tempo battendo. – Il martello accettò la sua colpa, ma chiese che fosse anche espulsa la vite; disse che era necessario dare molti giri perché servisse per qualche cosa. – Davanti a questo attacco, la vite accettò anche, ma a sua volta chiese l’espulsione della lima. Fece vedere che era molto aspra e aveva sempre frizioni con gli altri. – E la lima fu d’accordo, a condizione che fosse espulso il metro che passava il tempo misurando gli altri come se lui fosse l’unico perfetto.

Stando così le cose entrò il falegname, si mise il grembiale e iniziò il suo lavoro. Utilizzò il martello, la lima, il metro e la vite. Finalmente, l’aspro legno iniziale diventò un bellissimo mobile.

Quando la falegnameria restò di nuovo vuota, l’assemblea riprese la deliberazione. Fu allora che prese la parola la sega e disse: “Signori, è rimasto chiaro che abbiamo difetti, ma il falegname lavora con le nostre qualità. È questo che ci fa preziosi. Dunque non dobbiamo pensare ai nostri punti cattivi e concentriamoci nell’utilità dei nostri punti buoni.”

L’assemblea trovò allora che il martello era forte, la vite univa e dava forza, la lima era speciale per affinare e limare le asprezze e osservarono che il metro era preciso ed esatto. Si sentirono tutti un’equipe capace di produrre mobili di qualità. Si sentirono orgogliosi delle loro fortezze e di lavorare insieme.

Correzione con amore

Il padre di Mardocheo – il futuro celebre rabbi di Lechowitz – si lamentava della pigrizia del figlio nello studio. In città giunse un santo rabbino. Il padre gli condusse Mardocheo perché lo correggesse. Il rabbino volle rimanere solo col ragazzo, lo strinse al cuore e se lo tenne a lungo affettuosamente vicino. Quando il padre ritornò, il rabbino gli disse: «Ho fatto a Mardocheo un po’ di morale; d’ora in poi la costanza non gli mancherà». Quando, ormai adulto e famoso, Mardocheo, divenuto rabbi di Lechowitz, raccontava questo episodio, diceva: «Ho imparato allora come si convertono gli uomini».

(Racconto ebraico)

Chi è carico di colpe non deve ergersi a giudice severo degli altri

Come si può constatare, Gesù non vieta in senso assoluto di giudicare: ci ordina però di togliere prima la trave dal nostro occhio, poi di correggere gli sbagli del nostro fratello. È evidente, infatti, che ognuno di noi conosce meglio le sue condizioni che quelle degli altri: è certo, inoltre, che ognuno di noi vede meglio le cose più grandi che quelle più piccole e ama più se stesso che il prossimo. Se per sollecitudine tu fai questo, abbi cura di te stesso, là dove è più visibile e più grande il peccato. Se invece tu trascuri te stesso, è evidente che tu giudichi tuo fratello non tanto perché egli ti stia a cuore, ma perché hai avversione per lui e vuoi disonorarlo.

Non solo non togli la trave che è nel tuo occhio, ma neppure riesci a vederla; mentre non solo vedi la pagliuzza nell’occhio del fratello, ma l’esamini e pretendi di togliergliela.

II Signore ordina insomma, con questo precetto, che chi è carico di colpe non deve ergersi a giudice severo degli altri, soprattutto quando le colpe di costoro sono trascurabili. Non è che vieti genericamente di giudicare e di correggere, ma ci proibisce di trascurare le nostre colpe e di balzar su ad accusare con rigore gli altri. Agire così non può che aumentare la nostra malvagità, rendendoci doppiamente colpevoli. Chi per abitudine trascura le proprie colpe, benché siano grandi, e si preoccupa, invece, di ricercare e di sindacare con asprezza quelle degli altri, anche se sono piccole e lievi, si danneggia in due modi: prima perché trascura e minimizza i propri peccati, poi perché attira inimicizia e odio su tutti con i suoi giudizi insolenti, e ogni giorno diventa sempre più disumano e crudele.

(Giovanni Crisostomo, Omelie sul vangelo di Matteo XXIII, 2ss.).

Con grande misericordia e discrezione

Quelli cui è stata affidata la guida di molti con la loro mediazione devono far progredire i più deboli nel cammino di assimilazione a Cristo, come dice il beato Paolo: «Fatevi miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo» (1 Cor 1,1). Conviene dunque che essi per primi diventino un esempio perfetto praticando quella misura di umiltà che ci è stata consegnata dal Signore nostro Gesù Cristo. Egli dice infatti: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La mitezza nell’agire e l’umiltà di cuore siano quindi i caratteri propri di chi presiede la comunità. Se infatti il Signore non si è vergognato di servire i suoi servi, ma ha acconsentito a farsi servo della terra e del fango, che egli stesso ha plasmato e cui ha dato forma umana – dice infatti: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27) – che cosa non dovremo fare noi per i nostri simili prima di crederci giunti a imitarlo? Questa è dunque la prima qualità che deve possedere in così grande misura chi presiede. Sia inoltre misericordioso e sopporti pazientemente quelli che mancano al loro dovere per inesperienza, non passi sotto silenzio i peccati ma sopporti con mitezza chi si comporta come un bambino e gli offra le sue cure con grande misericordia e discrezione. Dev’essere infatti capace di trovare il modo appropriato per curare ogni passione, senza rimproverare con arroganza, ma ammonendo e correggendo con mitezza, come sta scritto (cfr. 2Tm 2,25); sia attento all’oggi, previdente per il domani, capace di lottare con i forti e di portare le infermità dei deboli, di fare e dire ogni cosa per guidare alla perfezione quanti vivono con lui.

(BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse 43,1-2, in ID., Le regole, Bose, 1993, pp. 192-193).

Un perdonato in mezzo ad altri perdonati

Il Signore è luce, e questo sarà per noi un mezzo impareggiabile per un più intimo incontro con lui. Una cosa è sicura ed è che l’amore di Dio mette il nostro cuore a dura prova. Perché il nostro cuore diventi capace di questo amore, è necessario che sia incessantemente convertito da Cristo. Durante tale conversione, forse fino al temine della nostra vita, dovremo soffrire ora per grettezze, ora per parzialità, ora per errori del nostro amore.

E tenero è il cuore capace di misericordia per tutti gli uomini, compresi noi stessi. La tenerezza ‘battezzata’ resta tenerezza e diventa misericordia. Gesù è interamente questa tenerezza: è la tenerezza per tutto ciò che è bello e buono, perché creazione di Dio; ma, ai tempi stesso, è misericordia, un cuore cioè che conosce la miseria degli splendori creati…, malati di peccato, devastati dal male. Bisogna che non si abbia mai da rimproverare a sé una fermezza che non sia come ‘raddoppiata da un vero calore del cuore e da un’esigente carità. Amiamoci gli uni gli altri nella nostra povertà, nei nostri limiti: essi sono il segno visibile delle misericordie di Dio su di noi. Questa è la fede in spirito e verità. Pensiamo che noi siamo tutti dei poveri e che il Signore ama i poveri, e che noi amiamo proprio lui nei poveri. Per essere vera, questa sensazione interiore della nostra miseria e della misericordia onnipotente, deve essere accompagnata dalla disposizione esteriore di persone che sono largamente perdonate, anche se, un giorno o l’altro, è loro chiesto di essere un pochettino dei ‘perdonanti’. È assumere davanti agli altri l’atteggiamento che assumiamo davanti a Dio. E ciò semplicemente perché noi non siamo altro tra di noi che un peccatore davanti ad altri peccatori, un perdonato in mezzo ad altri perdonati.

(M. Delbrél, Indivisibile amore, Casale Monferrato, 1994,100-102).

Correzione fraterna

Ciascuno deve rispondere del fratello, ciascuno è custode del fratello. Un’espressione tipica di questa corresponsabilità è data appunto dalla correzione fraterna. A proposito della quale sarà opportuno fare alcune precisazioni fondamentali:

1. Essere custode non significa comportarsi da spia o poliziotto dell’altro.

2. “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te…”. Bisogna accertare la colpa, prima di tutto. E vedere di che colpa si tratta. Il fratello non pecca contro di te se non ha le tue stesse idee, non condivide le tue simpatie o antipatie, non si arruola per le tue cause. Il fratello non va ripreso per la colpa di non essere a tua immagine e somiglianza, a portare in giro la “sua” faccia, che non coincide con la tua.

Attenti, perciò, a non confondere il peccato con il diverso. A non definire “male” ciò che semplicemente non rientra nei nostri gusti e nei nostri schemi. Attenti, soprattutto, a non intervenire continuamente per delle sciocchezze, per delle cose assolutamente marginali. Certe persone religiose pare possiedano l’arte di “asfissiare”, più che liberare, aiutare, promuovere.

3. La procedura indicata da Matteo (Mt 18,15-20) non va confusa con un processo. Si tratta piuttosto di una mano tesa ostinatamente ma con delicatezza estrema verso l’altro che minaccia di allontanarsi, di separarsi. E non è detto che le fasi debbano essere rigidamente tre. Possono e devono essere molte di più, con tutte le iniziative suggerite dalla fantasia e dal cuore che non si arrende mai, malgrado i ripetuti insuccessi.

4. Prima ancora di far capire al fratello che ha sbagliato, occorre dimostrargli e convincerlo che è amato, nonostante tutto. La carità, la pazienza, la misericordia, la sensibilità, sono la luce indispensabile attraverso la quale il deviante può scoprire il proprio errore di rotta. Più che richiamano all’ordine, occorre richiamarlo a lasciarsi amare.

5. La correzione fraterna implica, oltre che la carità, anche l’umiltà. Umiltà che si traduce nell’abbandono di qualsiasi atteggiamento di superiorità. Il peccatore deve comprendere che chi lo ammonisce è peccatore quanto e più di lui, uno che condivide la sua stessa fragilità e miseria. Non: «Guarda che cosa hai fatto!», ma: «Guarda che cosa siamo capaci di fare…».

6. Il metodo più efficace per far capire l’errore, non è l’impiego delle parole e delle dimostrazioni teoriche o le citazioni di un codice, ma l’illustrazione pratica, personale, della virtù dimenticata, del valore disatteso, dell’ideale calpestato. Meglio sempre gli “annunci” che le “denunce”. Anche perché le denunce possono essere sospette per il fatto stesso che non costano niente. Sovente parliamo e gridiamo troppo, perché la nostra condotta non è abbastanza eloquente. Siamo predicatori implacabili e moralisti insopportabili perché la santità della nostra vita non è tale da costituire una silenziosa condanna di certi difetti e deviazioni. Si può insegnare in maniera efficace anche col silenzio. Sempre che la vita parli, naturalmente.

7. I ruoli non sono mai definiti, ma risultano intercambiabili. Per cui non ti è consentito rivendicare il dovere di criticare l’altro, se non gli concedi il diritto di criticare, a sua volta, i tuoi comportamenti poco corretti.

8. La scomunica e l’esclusione, più che un elemento punitivo, devono costituire un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Devono avere una funzione pedagogica, non vendicativa. Non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello, peccatore ostinato, che si pone automaticamente, e pervicacemente, in stato di separazione, fuori dalla comunione. E lui che si scomunica. La comunità non fa altro che prendere atto, dolorosamente. Si tratta, perciò, di «aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di separazione, perché possa, di conseguenza, ravvedersi. Lo scopo è quello di creare nel peccatore uno stato di disagio, perché è proprio in una situazione di disagio che spesso Dio si inserisce e spinge al ritorno» (B. Maggioni). Illuminante, a questo proposito, risulta la cosiddetta “parabola del figliol prodigo”. Comunque, la comunità non deve mai alzare il ponte levatoio. Deve sempre tenere la porta aperta, la luce accesa. Una comunità si rivela cristiana quando non si rassegna alla perdita definitiva di un membro, ma si dimostra sempre pronta ad accogliere, perdonare, riconciliare. E fa tutti i passi possibili e impossibili perché avvenga il ritorno atteso. E ci dovrebbe sempre essere aria di festa, non musi lunghi, quando il fratello, lo sbandato, ricompare all’orizzonte. Teniamo pronta la musica, la tavola imbandita, non i rimbrotti, le accuse.

Tutti siamo al sicuro soltanto quando nessuno è fuori.

9. …E anche quando l’altro si pone fuori dalla comunità, si autoesclude, non per questo hai esaurito il tuo compito. Gli “devi” ancora più amore.

(A. Pronzato, “Tu solo hai parole. Incontri con Gesù nei vangeli”, vol. III, Torino, Gribaudi, 264-269). 

Correzione fraterna: la correzione evangelica        

Quando vuoi ammonire qualcuno alle cose belle, prima da’ ristoro al suo corpo e onoralo con una parola colma di amore. Non c’è nulla che renda modesto un uomo e lo persuada a convertirsi dalle cose cattive a quelle buone, come il bene corporale e l’onore dimostratogli da qualcuno.

Un secondo strumento di persuasione è lo sforzo di un uomo a essere lui stesso uno spettacolo lodevole. Colui che ha ottenuto di possedere se stesso per mezzo della preghiera e della vigilanza, potrà facilmente avvicinare il suo compagno alla vita, anche senza la fatica delle parole o l’ammonizione esplicita. Colui che prende le difese dell’oppresso, trova un difensore nel suo Creatore. Colui che presta il suo braccio per aiutare il suo prossimo, riceve il braccio di Dio per lui. Colui che accusa suo fratello per i suoi mali, troverà Dio come suo accusatore. Colui che raddrizza suo fratello nel segreto di una stanza, cura il suo male; ma colui che lo accusa nell’assemblea, rinsalda le sue ferite.

Colui che cura suo fratello in privato, rivela la forza del suo amore; ma colui che lo espone all’occhio dei suoi compagni, fa conoscere la forza della sua propria invidia. L’amico che cura nel segreto, è un medico sapiente; ma colui che cura all’occhio di molti, in verità è uno che ingiuria. Il segno della misericordia è il perdono di qualsiasi offesa, e il segno di una cattiva intelligenza è che si mutino le parole rivolte al peccatore. Colui che accosta la medicina alla correzione, corregge con amore, ma colui che cerca la vendetta è vuoto di amore. Dio corregge nell’amore e non per amore di vendetta. Non sia mai! Perché egli cerca di guarire la sua immagine e non conserva la sua collera. Se sei adirato contro qualcuno, o ardi di zelo a motivo della fede o a motivo delle sue opere cattive, o lo accusi o lo ammonisci, vigila sulla tua anima, perché tutti abbiamo nei cieli un giudice giusto.

Se infatti tu hai pietà e cerchi di convertirlo alla verità, soffrirai sofferenza a causa sua. Con lacrime e con amore gli dirai una o due parole, senza ardere d’ira contro di lui, allontanando da te i segni dell’inimicizia.

L’amore non sa adirarsi, non si irrita, non rimprovera con passione. Il segno dell’amore e della conoscenza è una profonda umiltà che proviene dall’intelligenza dell’intimo. Guarda di non essere dominato dalla passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini. Questa è una dura passione …

In verità, è meglio per te trovarti a cadere nella lussuria, piuttosto che in questa malattia.

(ISACCO DI NINIVE, Un umile speranza, Magnano, Qiqajon, 1999, 198 -200).

L’uomo semplice e retto, timorato di Dio

C’è un genere di semplicità che meglio sarebbe chiamare ignoranza. Essa consiste nel non sapere neppure che cosa sia rettitudine. Molti abbandonano l’innocenza della vera semplicità, proprio perché non sanno elevarsi alla virtù e all’onestà. Poiché sono privi della vera prudenza che consiste nella vita buona, la loro semplicità non sarà mai sinonimo di innocenza. 
Perciò Paolo ammonisce i discepoli: «Voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male» (Rm 10, 19). E soggiunge: «Non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia (1 Cor 14, 20).

Per questo anche la stessa Verità ingiunge ai discepoli: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10, 16). Ha unito necessariamente l’una e l’altra cosa nel suo ammonimento, in modo che l’astuzia del serpente ammaestri la semplicità della colomba, e la semplicità della colomba moderi l’astuzia del serpente.

Per questo lo Spirito Santo ha manifestato la sua presenza agli uomini sotto forma non soltanto di colomba, ma anche di fuoco. Nella colomba viene indicata la semplicità, nel fuoco l’entusiasmo per il bene. Si mostra nella forma di colomba e nel fuoco perché quanti sono ricolmi di lui, praticano una forma tale di mitezza e di semplicità da infiammarsi d’entusiasmo per le cose sante e belle e di odio per il male.

«Uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male» (Gb 1, 1). Chiunque tende alla patria eterna vive indubbiamente con semplicità e rettitudine: è semplice cioè nell’operare, retto nella fede; semplice nel bene materiale che compie, retto nei beni spirituali che percepisce nel suo intimo. Vi sono infatti certuni che non sono semplici nel bene che fanno, poiché ricercano in esso non la ricompensa all’interno, ma il plauso all’esterno. Perciò ha detto bene un sapiente: «Guai al peccatore che cammina su due strade!» (Sir 2,12). Ora il peccatore cammina su due strade, quando compie quello che è di Dio, ma desidera e cerca quello che è del mondo.

Bene anche è detto: «Temeva Dio ed era alieno dal male»; perché la santa Chiesa degli eletti intraprende nel timore le strade della sua semplicità e rettitudine, ma le conduce a termine nella carità. Uno si allontana completamente dal male, quando per amore di Dio comincia a non voler più peccare. Se invece fa ancora il bene per timore, non si è del tutto allontanato dal male; e pecca per questo, perché sarebbe disposto a peccare, se lo potesse fare impunemente.

Perciò quando si dice che Giobbe teme Dio, giustamente è detto anche che si teneva lontano dal male, poiché mentre la carità sostituisce il timore, la colpa che viene abbandonata dalla coscienza, viene pure calpestata dal proposito della volontà.

(Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa: Lib. 1, 2. 36; PL 75, 529-530. 543-544).

Preghiera

Grande è il tuo amore, o Dio!

Tu vuoi aver bisogno di uomini

per farti conoscere agli uomini,

e così leghi la tua azione e la tua parola divine

all’agire e al parlare di persone

né perfette né migliori degli altri.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Non hai timore della nostra fragilità

e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo,

perché fosse nostra la tua vita

che guarisce ogni male.

Grande è il tuo amore, o Dio!

Ancora rinnovi la tua alleanza

grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita,

a chi pronuncia le parole del perdono,

a chi fa risuonare annunci di vangelo,

a chi si fa servo dei fratelli,

testimoni del tuo amore infinito

che rendono visibile il Regno.

Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone

non vengano mai meno!

La Settimana con don Bosco

23 febbraio – 2 marzo

23. (S. Policarpo) – “Discepolo dell’apostolo san Giovanni e vescovo di Smirne, fu condannato ad essere bruciato vivo, rendendo così una gloriosa testimonianza alla divinità di Gesù Cristo” (OE1 221).

24. Durante la quaresima bisogna “far digiunare la lingua, con proibirle ogni parola che possa dare scandalo, astenendovi sempre dal dire motti pungenti contro qualche compagno, rifuggendo dal parlare male di chicchessia” (MB12 143).

25. (SS. LUIGI VERSIGLIA E CALLISTO CARAVARIO) – Martiri vuol dire “testimoni, perché davano la loro vita per testificare in mezzo ai tormenti la divinità della religione di Gesù Cristo” (OE7 111).

26. “Non contentatevi di amare i vostri compagni colle sole parole; aiutateli con ogni sorta di servizi quanto potete. È carità ancora il condiscendere alle oneste domande dei fratelli; ma il miglior atto di carità è l’aver zelo del bene spirituale del prossimo” (OE29 234).

27. (S. Gregorio di Narek) – “Fedeli alle disposizioni del Cielo [gli Apostoli] andarono a portar la luce del Vangelo alle regioni da tanti secoli immerse nelle tenebre della cieca idolatria. […] San Bartolomeo [annunziò Gesù Cristo] nella grand’Armenia” (OE1 204s).

28. “Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Un’orchestra, una musica strumentale e vocale mi invitavano a cantar messa. Nell’interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea” (MO 135).

29. “Siccome la manna ogni giorno servì di cibo corporale agli ebrei in tutto il tempo che vissero nel deserto, finché furono con-dotti nella terra promessa, così la santa comunione dovrebbe essere il nostro conforto, il cibo quotidiano nei pericoli di questo mondo per guidarci alla vera terra pro-messa del paradiso” (OE13 20).

 Marzo

 1. “Prete nel secolo, prete nella religione, prete nelle missioni estere sono i tre campi in cui gli evangelici operai sono chiamati a lavorare ed a promuovere la gloria di Dio” (E6 394s).

2. “Andai alle catacombe, andai al Colosseo santificato dal sangue di tanti martiri, e non mi ricordo di aver altra volta pianto con tanta consolazione del mio cuore. Sì, ho proprio pianto!” (OE18 318).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

VII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: 1 Samuele 26,2.7-9.12-13.22s.

  In quei giorni, Saul si mosse e scese nel deserto di Zif, conducendo con sé tremila uomini scelti d’Israele, per ricercare Davide nel deserto di Zif.
Davide e Abisài scesero tra quella gente di notte ed ecco, Saul dormiva profondamente tra i carriaggi e la sua lancia era infissa a terra presso il suo capo, mentre Abner con la truppa dormiva all’intorno. Abisài disse a Davide: «Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo». Ma Davide disse ad Abisài: «Non ucciderlo! Chi mai ha messo la mano sul consacrato del Signore ed è rimasto impunito?».
Davide portò via la lancia e la brocca dell’acqua che era presso il capo di Saul e tutti e due se ne andarono; nessuno vide, nessuno se ne accorse, nessuno si svegliò: tutti dormivano, perché era venuto su di loro un torpore mandato dal Signore.
Davide passò dall’altro lato e si fermò lontano sulla cima del monte; vi era una grande distanza tra loro. Davide gridò: «Ecco la lancia del re: passi qui uno dei servitori e la prenda! Il Signore renderà a ciascuno secondo la sua giustizia e la sua fedeltà, dal momento che oggi il Signore ti aveva messo nelle mie mani e non ho voluto stendere la mano sul consacrato del Signore».

Gesù porta a piena fioritura il comandamento dell’amore dei nemici, offrendo anche il suo incomparabile esempio. Il testo della prima lettura mostra un antecedente veterotestamentario: Davide, risparmiando la vita di Saul che lo sta perseguitando, anticipa la nobiltà del perdono. Di più, mostra che esso è possibile, anche se oltremodo impegnativo.

     Il cap. 26 è forse un doppione del cap. 24 che ripropone un analogo episodio di magnanimità di Davide verso il suo nemico. I fatti in breve: l’astro nascente di Davide che ha già dato prova di sé vincendo numerosi nemici, tra cui il gigante Golia, ha scatenato l’incontenibile gelosia di Saul che non tralascia occasione per tentare di eliminare colui che ora considera un minaccioso rivale. La loro amicizia di un tempo si è frantumata, miserevolmente annientata da quella specie di schiacciasassi che si chiama invidia e gelosia. Davide è costretto a fuggire e a vivere di espedienti, diventando un capobanda.

L’episodio del brano odierno, ambientato nel deserto di Zif (una specie del deserto di Giuda), offre a Davide l’occasione di sbarazzarsi del suo persecutore. Il testo liturgico ha abbreviato il racconto selezionando i passi principali: ambientazione (v. 2), occasione propizia che mette Saul nelle mani di Davide; al suggerimento di uccidere il re, Davide oppone una motivazione religiosa (vv. 7-9), furto di lancia e brocca che si trovavano presso Saul, segno che Davide poteva eliminare il re (vv. 12-13), dichiarazione di Davide della sua volontà di non uccidere (vv. 22-23).

     Il racconto presenta un gesto di rara magnanimità, ai limiti dell’eroismo. Davide costretto a vivere da fuggiasco, perseguitato politico e praticamente condannato a morte. Un’occasione propizia lo mette in condizione di eliminare il suo persecutore e tale è il suggerimento di Abisai, suo compagno d’armi: «oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo» (v. 8). Per Abisai la situazione è ‘provvidenziale’, voluta da Dio; lo documenterebbe anche il sonno che grava su tutti nell’accampamento (l’ebraico tardemah è lo stesso termine usato in Gn 2,21 per designare il sonno mandato da Dio su Adamo).

     Davide da una lettura diversa: Saul non è nemico, anche se gli è ostile, e soprattutto resta il «consacrato del Signore», cioè colui che Dio ha unto (‘ungere’ e ‘consacrare’ sono lo stesso verbo e da qui viene anche il termine ‘messia’) con l’unzione della preferenza, scegliendolo tra molti altri, la motivazione teologica lo trattiene dal compiere un atto che, secondo il codice militare, rientrava nel lecito. Asportando la lancia (fino a poco tempo fa, presso i nomadi la lancia piantata indicava la presenza del capo) e la brocca d’acqua che si trovavano presso la testa di Saul, Davide documenta che il re era nelle sue mani e poteva ucciderlo. Le sue parole ribadiscono ed ampliano il concetto già espresso ad Abisai: egli rimette tutto nelle mani di Dio che renderà a ciascuno secondo le sue opere.

     Davide rifugge da una giustizia sommaria o da un rischioso ‘fai da te’: è giustizia non attentare al consacrato di Dio, è lealtà rispettare il sovrano. Un bell’esempio di ‘amore per i nemici’, una rara perla nel mondo dell’AT tanto ricco di truculenta vendetta, una confortante assicurazione che, in nome di Dio e con il suo aiuto, è possibile orientarsi verso la strada impervia, ma redditizia, del perdono.

Seconda lettura: 1 Corinzi 15,45-49

  Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.
Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.
Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti.
E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste.

Concluso con le due domeniche precedenti la questione sulla realtà della risurrezione, si inizia oggi ad affrontare il secondo problema, quello del modo della risurrezione. L’inizio, fuori dal testo liturgico, aveva adotto l’esempio del seme che non lascia presagire ciò che verrà; se esiste una continuità tra il seme e il suo frutto, esiste altresì una sostanziosa differenza (cf. vv.. 35-37). Paolo insite di più sull’alterità che sulla continuità.

     Tale insistenza si riflette anche nel nostro brano che mette a confronto, in una sorta di giustapposizione, il primo e l’ultimo Adamo e, di conseguenza, il corpo animale e quello spirituale (prima parte: vv. 45-47). Poi il confronto passa ai discendenti, quelli della terra e quelli celesti (seconda parte: vv. 48-49).

     Quello animale (gr. psychikós) è quello animato dallo Spirito vivificatore. L’idea di corpo richiama la continuità con la realtà precedente, ma l’essere spirituale denota una sorprendente novità, consistente nell’essere risorti e quindi nell’essere partecipi della potenza dello Spirito di Dio e di Cristo (cf. Ez 37,1-14; Rm 1,4; 8,11).

     Con un gigantesco arco capace di inglobare tutta la storia della salvezza, vengono ora messi a confronto Adamo, il primo uomo, con Cristo, uomo nuovo e novello Adamo. Pur restando nello stupendo miracolo della vita, la sproporzione balza evidente: mentre «il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente» (v.45a) «ultimo Adamo divenne spirito datore di vita» (v. 45b). Dall’ultima frase emergono due note cristologiche interessanti: la prima riguarda Cristo come «ultimo Adamo», quasi a dire che con lui la storia ha raggiunto il suo punto massimo; la seconda definisce, unico caso, Gesù come «spirito datore di vita». Il titolo è originalissimo. La definizione vale per Gesù a partire dalla sua risurrezione e significa, più che una semplice identificazione dinamica con lo Spirito Santo, una sua partecipazione alla più caratteristica funzione dello Spirito che è quella appunto di suscitare la vita, come attestato in numerosi passi (cf. Sal 104,30; Ez 37; Rm 1,4; 2Cor 3,6). Per questo lo Spirito non è più solo di Dio, ma anche di Cristo (cf. Gal 4,6; Rm 8,9). La capacità di donare lo Spirito denota la sua origine divina, diversa da quella puramente umana.

     È Gesù risorto, uomo nuovo perché celeste, a ripristinare quell’immagine divina che il peccato aveva fatto sbiadire lasciando solo l’immagine dell’uomo della terra. La nostra vocazione e il nostro luminoso destino consistono nel conformarci alla «immagine dell’uomo celeste» (v. 49). Risuona il concetto di deificazione, tanto cara ai Padri della Chiesa: «se dunque l’uomo è divenuto immortale, sarà anche dio. Se nell’acqua e nello Spirito Santo diviene dio attraverso la rigenerazione del battesimo, dopo la risurrezione dai morti viene a trovarsi coerede di Cristo» (Discorso sull’Epifania, attribuito a s. Ippolito).

     Nel contesto delle letture odierne, il brano indica che la capacità di amare i nemici e di perdonare attinge solo alla sorgente celeste dell’uomo nuovo, quello risorto, che, a imitazione di Cristo, diventa «datore di vita».

Vangelo: Luca 6,27-38

  In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
 

Esegesi

     Il cristiano che segue regolarmente il ciclo liturgico si accorge che il testo evangelico odierno continua la scia tracciata domenica scorsa: siamo nel contesto del discorso della pianura, omologo al discorso del monte di Matteo. Lo stralcio di oggi si potrebbe rappresentare come un’ellisse con due fuochi: «amate i vostri nemici» e «siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro». Sono due imperativi che, segnando le due partenze, smembrano e articolano il testo odierno (vv. 27-35 e vv. 36-38). Le due parti rispondono rispettivamente alle domande: che cosa? perché?

     Alla domanda sul «che cosa»? risponde il primo imperativo: «amate i nemici»; esso inaugura una serie di frizzanti imperativi che alleggeriscono la vita cristiana, nel senso che le tolgono quel fardello che la rende tante volte invivibile. Il principio minimale «ciò che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (v. 31) è un principio etico comune, di tipo ‘razionale’ che non fa una grinza. Gesù lo accoglie per dilatarlo all’infinito, per riempirlo di contenuto così originale da renderlo un principio nuovo. È solo Luca, rispetto a Mt 5,44, ad aggiungere: «fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono» (vv. 27-28). Il cristiano amplia enormemente il suo orizzonte, fino a comprendere la zona off limits dei nemici.

     La formula «amare i nemici» può essere sostituita dal verbo «perdonare». Un fremito attraversa il nostro corpo quando sentiamo questo verbo. Un campo immenso si spalanca davanti agli occhi. Per aiutare la retta comprensione, ricordiamo che perdonare non è semplice rimozione, né dimenticanza, né ignoranza di quanto è accaduto, né falsa etichetta appiccicata alle cose. Il perdono è capace di guardare in faccia la realtà, anche quella più cruda e ripugnante. Molto di più, l’amore/perdono opera sul versante positivo e il brano evangelico elenca concretamente una serie di interventi possibili: «fate del bene», «benedite», «pregate» (vv. 27-28).

     Sorge immediatamente la domanda che rispecchia una comune e abituale difficoltà: non è istintivo amare i nemici. Perdonare è innaturale, bisogna riconoscerlo. Se uno mi ha fatto un torto o mi ha offeso, nasce in me l’antipatia, la rottura, l’allontanamento. E tutto viene naturalmente, senza il minimo sforzo. Il rancore e l’antipatia salgono dalle radici del nostro essere e sono alimentate dalla linfa maligna della nostra cattiveria. Senza essere pessimisti, sappiamo che il peccato ha lasciato tracce profonde nella nostra vita. Esistono poi ragioni psicologiche e sociali per non perdonare: «che figura ci faccio?», «che cosa diranno gli altri»…

     Gesù richiede che si vada oltre il sentire comune, psicologico e sociale; di più, richiede che si vada oltre ‘il buon senso’, almeno quello comune della gente. Seguire Gesù richiede che siamo un po’ diversi dagli altri, da quelli che non conoscono e che non praticano il Vangelo. Non vogliamo distinguerci ad ogni costo. Dobbiamo tuttavia riconoscere con sincerità e con chiarezza che sul perdono si gioca uno dei tratti più tipici della nostra identità di cristiani. Il perdono è l’amore senza frontiere, il rischio di mettersi nelle mani dell’altro.

La seconda domanda è conseguenza immediata della prima: «Perché devo perdonare?». Abbiamo visto che le ragioni umane scarseggiano e addirittura sciamano. Occorre attingere a una fonte diversa che Gesù addita nel Padre celeste. Il motivo che adduce è squisitamente teologico: «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (v. 36). La ragione ultima e profonda, praticamente l’unica accettabile, consiste nell’imitazione del Padre che perdona sempre e comunque, senza ‘ma’ e senza ‘se’.

     L’invito poi a non giudicare riguarda non l’attività giudiziaria e forense, ma la critica al prossimo e la sua condanna, come lascia intendere il v. 37. È l’invito a compiere quella sottile ma necessaria distinzione tra peccato e peccatore: il primo è da denunciare e da condannare, il secondo da accogliere, senza diventare però conniventi. Suggerisce saggiamente un testo conciliare: «il rispetto e l’amore deve estendersi pure a coloro che pensano e operano diversamente da noi […]. Certamente tale amore e amabilità non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene» (Gaudium et spes, 28). L’invito al perdono è invito alla magnanimità, al dono senza riserve, all’imitazione della generosità divina.

     L’abbondanza e la generosità del perdono sono fissate nella icona del v. 38. Esso ricorre ad un’immagine che si capisce nel mondo orientale: il vestito, molto largo e chiuso in vita dalla cintura, diventa un comodo ricettacolo di «cose». Ancora oggi in oriente mettono ogni sorta di oggetti nel seno; da qui la raccomandazione: «Date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, poiché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (v. 38). Il perdono è la misura traboccante dell’amore e non dobbiamo temere a riversarla a piene mani sugli altri.

     Non neghiamo la difficoltà di attuazione. Il perdono totale e irreversibile è solo di Dio. Invece l’uomo, anche quando riesce a perdonare conserva una specie di ruggine, o almeno, il ricordo negativo. Tante volte si sente dire: «non ci riesco, è più forte di me». Effettivamente il perdono non è istintivo e quando lo pratichiamo dobbiamo esercitare una non piccola violenza su di noi, o meglio, su una parte di noi stessi. Esistono meccanismi che rendono difficile il perdono: l’aggressività che c’è nell’uomo sembra frustata dal perdono, l’istinto di dominio non più gratificato, l’immagine positiva di noi stessi offuscata. Insomma, perdonando ci sembra di perdere qualcosa di noi stessi.

     Pur con tutte queste difficoltà che non sono certo da sottovalutare, ribadiamo l’urgenza, la necessità e la bellezza del perdono. Il vero perdono è rinascita, liberazione, salvezza. Perdonare significa perdere qualcosa che ci è dovuto, dare parte di noi stessi agli altri, fare qualcosa non di superfluo, ma di necessario.

Dobbiamo sottoporci ad una vera e propria rieducazione all’amore, accettare di vivere una ‘illogica logica del perdono’. Saremo degni figli di quel Padre, prodigo di amore.

Meditazione

     La liturgia odierna è molto esigente, dal momento che ci mette di fronte a questioni radicali, dal rispondere alle quali noi ci esimeremmo volentieri.

     Il Vangelo affronta due problemi: perché amare? Come amare? Amare perché si è figli del Padre misericordioso («Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro») e si diventa veramente figli attraverso il cammino dell’amore. Tale amore non si dirige solo verso la cerchia ristretta di coloro che ci corrispondono, ma si dilata fino a raggiungere i nemici. Non possiamo pretendere che un altro smetta di essere nostro nemico, ma possiamo noi imparare a considerarlo con occhi diversi. Così facendo si spezza la spirale della violenza e dell’odio che tende a riprodursi in maniera simmetrica e si inserisce un elemento nuovo che è il riferimento alla fraternità misericordiosa di Dio che chiama tutti all’unità dell’amore. Oltre a essere così universale da abbracciare tutti, compresi i nemici, l’amore è presentato come assolutamente gratuito («Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete?»). Si sente in questa frase un’eco della cosiddetta legge del taglione, che suggerisce una sorta di proporzione tra il male che si riceve e quello che si restituisce all’altro di conseguenza. Analogamente si potrebbe supporre l’esistenza di una sorta di proporzione tra il bene ricevuto e quello che si restituisce. E invece no: il criterio dell’amore non è dare per ricevere, ma dare in maniera totalmente gratuita. Occorre ricordare che questa morale del Regno non si presenta prima di tutto come un imperativo, ma come un indicativo. Non è un imperativo categorico, ma prima di tutto Buona Novella, Vangelo, dono gratuito contenuto nel dono del Figlio.

            La prima lettura ci insegna che un modo concreto per amare i nemici è quello di non diventare a nostra volta nemici di quelli che ci sono ostili. Come si diceva, non posso cambiare l’altro, ma posso lavorare su di me, sulle mie emozioni, sui miei sentimenti e risentimenti, per non incattivirmi, magari a ragione, nei confronti dell’altro. Davide, nel racconto tratto dal primo libro di Samuele, è vittima di un odio che Saul nutre senza motivo nei suoi confronti, quindi avrebbe esercitato il suo diritto se avesse reagito almeno in modo proporzionato. E invece Davide fa prevalere in sé la fede, cioè la relazione con Dio, e, di conseguenza, il rispetto e addirittura l’amore per il consacrato del Signore che lo sta cercando per ucciderlo. Paolo nella seconda lettura esprime a sua volta un concetto analogo parlando dello Spirito vivificante che ci permette di diventare in pienezza immagine e somiglianza di Dio.


Don Bosco commenta il Vangelo

Settima domenica del tempo ordinario

Don Bosco chiede l’elemosina  

Don Bosco ha citato molto spesso le parole di Gesù: “Date e vi sarà dato”, applicando il dare di solito all’aspetto economico. Nel suo Mese di maggio in cui una delle “considerazioni” è dedicata all’elemosina, chiamata “un mezzo per assicurarsi il Paradiso”, don Bosco non manca di sottolineare anche la ricompensa sul piano materiale:

Il dare qualche cosa ai poveri nella vita presente è un moltiplicare […] anche nella vita presente, riserbandoci poi Iddio la piena ricompensa nell’altra vita. Ecco la ragione per cui si vedono tante famiglie dare copiose limosine in tutte parti, e crescere sempre di ricchezze in ricchezze e di prosperità in prosperità. La ragione la dice Iddio: Date ai poveri, e ne sarà dato a voi. Date, et dabitur vobis (OE10 461s).

Nel romanzo storico intitolato Severino ovvero avventure di un giovane alpigiano, don Bosco riferisce le parole di questo giovane che fa l’elogio della generosità di suo padre che ha praticato una grande generosità verso il prossimo:

Niun mendico bussava alla porta di nostra casa senza che ottenesse, se non danaro, almeno minestra o pane. Presso di lui lo stanco trovava riposo, il debole era ristorato, il cencioso veniva vestito, il pellegrino bene accolto. Che più? Giunse talvolta a dare ricetto in casa sua a poveri ammalati che faceva assistere e curare a proprie spese. Non parlo delle sollecitudini che si dava per soccorrere famiglie indigenti, specialmente quelle in cui si trovassero infermi. La limosina, soleva dire, non fa diventar povero; i miei affari cominciarono ad andar bene quando ho cominciato a largheggiare in limosine. Il Salvatore disse: Date ai poveri, e Dio ne darà a voi (OE20 10s).

L’espressione lucana è solitamente usata da don Bosco per stimolare la carità dei benefattori. Con una punta di ironia e anche con una certa audacia don Bosco scriveva ad una ricca marchesa belga:

Io accetto l’offerta promessa di 25000 franchi. Però bisogna osservare attentamente che il Vangelo dice chiaro “date e vi sarà dato”, e non già “promettete e vi sarà dato”. Io credo quindi che sarebbe ottima cosa cominciar a dare qualche somma in anticipo (E7 421).

Le parole di Gesù meritano una profonda riflessione. Don Bosco lo ricorda nella circolare ai cooperatori salesiani: “Mentre mettiamo confidenza illimitata nella bontà del Signore, non ricusiamo la nostra cooperazione. Ciascuno rifletta un momento sul precetto del Salvatore quando disse: Date e vi sarà ricambiato con abbondante misura” (E7 250).

La ricompensa per la generosità del dono sarà soprattutto nella vita eterna. A un signore che aveva promesso di dare per i poveri ragazzi precisa che “Dio darà largamente in questa vita e nell’altra ci darà il gran premio, il vero premio nella vita eterna” (E9 385). A una benefattrice scrive: “Io raccomando i nostri poveri giovanetti alla generosa carità della Signoria Vostra e prego Nostro Signore che disse: Date e vi sarà dato” (E7 353). A un benefattore che aveva già mandato un’offerta risponde:

Ho ricevuto la generosa offerta che V. S. e la caritatevole sua zia fanno per continuare i lavori della chiesa e dell’ospizio del Sacro Cuore a Roma. Sia benedetto Iddio che loro ispirò opera così bella! Egli dice nel Vangelo: Date et dabitur vobis […]. Ma la Vostra Signoria ha già donato, dunque ora tocca a Dio dare a Lei ed alla signora zia larga ricompensa” (E8 276).

Non si stanca di “far osservare che Dio disse più volte: Date e vi sarà dato” (E9 150). Alla superiora del Carmelo di Parigi non esita a chiedere di “far costatare con una felice esperienza la verità di questa divina parola” (E9 167). A un generoso canonico e alla sua zia don Bosco ricorda che “il Signore è fedele alle sue promesse. Egli ha detto: Date e vi sarà dato, e perciò ho fermissima fiducia che Maria Ausiliatrice ne impetrerà per Vostra Signoria e per la carissima signora De Camilli grazie specialissime che spanderà copiose su di loro e su tutti i loro cari” (E9 81).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Ermita de la Virgen de Hornuez (Moral de Hornuez-Segovia)    –    2024  

«Pace interiore è quando ciò che dici, ciò che pensi, ciò che fai, sono in perfetta armonia».

(Mahatma Gandhi)

Casella di testo: 1 Samuele 26,2.7-9.12-13.22s.
1 Corinzi 15,45-49
Luca 6,27-38

Gesù ha appena proiettato nel cielo della pianura umana il sogno e la rivolta del Vangelo. Ora pronuncia il primo dei suoi “amate”. Amate i vostri nemici. Gesù contesta la sapienza umana: amatevi altrimenti vi distruggerete. Avvicinatevi ai vostri nemici, e capovolge la paura in custodia amorosa, perché la paura non libera dal male.

E indica otto gradini dell’amore, attraverso l’incalzare di verbi concreti: quattro rivolti a tutti: amate, fate, benedite, pregate; e quattro indirizzati al singolo, a me: offri, non rifiutare, da’, non chiedere indietro. Amore fattivo quello di Gesù, amore di mani, di tuniche, di prestiti, di verbi concreti, perché amore vero non c’è senza un fare. 

Offri l’altra guancia, abbassa le difese, sii disarmato, non incutere paura, mostra che non hai nulla da difendere, neppure te stesso, e l’altro capirà l’assurdo di esserti nemico. Offri l’altra guancia altrimenti a vincere sarà sempre il più forte, il più armato, e violento, e crudele. Fallo, non per passività morbosa, ma prendendo tu l’iniziativa, riallacciando la relazione, facendo tu il primo passo, perdonando, ricominciando, creando fiducia.

«A chi ti strappa la veste non rifiutare neanche la tunica», incalza il maestro, rivolgendosi a chi, magari, non possiede altro che quello. Come a dire: da’ tutto quello che hai. La salvezza viene dal basso! Chi si fa povero salverà il mondo con Gesù (R. Virgili). 

Ecco il regalo di questo Vangelo: come volete che gli uomini facciano a voi così anche voi fate a loro. 
(E. Ronchi)

Preghiere e racconti

Dimenticare è perdonare

     «Abele e Caino si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano. Sedettero in terra, accesero il fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Alla luce della fiamma, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra, e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.

     Abele rispose: Tu mi hai ucciso, io ho ucciso te? Non ricordo più. Stiamo qui insieme come prima. “Ora so che mi hai perdonato davvero, disse Caino, perché dimenticare è perdonare”. Abele disse lentamente: “E’ così, finché dura il rimorso dura la colpa”».

Pregare per i nostri nemici

     I cristiani si ricordano a vicenda nelle preghiere (Rm 1,9; 2; Cor 1,11; Ef 6,8; Col 4,3) e così facendo danno aiuto e forse salvezza a coloro per i quali pregano (Rm 15,30; Fil 1,19). Ma il testo decisivo sulla preghiera di compassione va al di là delle preghiere per i propri fratelli cristiani, per i membri della comunità, per gli amici e i parenti. Gesù dice senza possibilità di equivoci: «Io vi dico: amate vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,44); e nel profondo della sua agonia sulla croce, prega per coloro che lo stanno uccidendo: «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 25,54). Qui viene reso visibile il vero significato della disciplina della preghiera. Pregare ci fa portare al centro del nostro cuore non solo coloro che ci amano, ma anche quelli che ci odiano. Questo è possibile unicamente se siamo disposti a fare dei nostri nemici parte di noi stessi, convertendoli in tal modo innanzitutto nel nostro cuore. La prima cosa che siamo chiamati a fare quando pensiamo agli altri come a dei nemici, è pregare per loro. Non è davvero cosa facile.

     Ci vuole disciplina per far entrare nel profondo del nostro cuore coloro che ci odiano o coloro verso i quali nutriamo sentimenti di ostilità. Le persone che ci rendono la vita difficile e ci causano frustrazione, dolore e anche danno, sono le ultime ad avere una probabilità di trovare posto nel nostro cuore. Eppure ogni volta che superiamo l’intolleranza nei confronti dei nostri antagonisti e siamo disposti ad ascoltare il grido di coloro che ci perseguitano, riconosciamo anche in loro dei fratelli e delle sorelle.

     Pregare per i nostri nemici è, dunque, un evento concreto, l’evento della riconciliazione. È impossibile innalzare i nostri nemici alla presenza di Dio e contemporaneamente continuare a odiarli. Visti nel contesto della preghiera, anche il dittatore senza scrupoli e il torturatore perverso cessano di apparire come oggetto di paura, di odio e di vendetta, perché quando preghiamo siamo al centro del grande mistero della divina compassione. La preghiera trasforma il nemico in amico e per questo è l’inizio di una nuova relazione. Probabilmente non c’è preghiera tanto potente quanto quella per i nostri nemici. Ma è anche la preghiera più difficile, perché è la più contraria ai nostri moti naturali.

     Questo spiega perché alcuni santi ritengono la preghiera per i nemici il principale criterio di santità.

(J.M. Nouwen, Compassione, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 41).

“Io non ce la faccio”

     «Per me Dio esisteva perché gli altri me lo dicevano: io Lo conoscevo con la ragione, ma non con il cuore, e infatti dopo l’uccisione di due miei fratelli ho sperimentato la morte dell’essere. Per anni ho vissuto con l’odio nel cuore e so di avere ucciso molti con l’odio e il rancore. Non credevo che Dio è amore: perché, se Dio è buono, permette questi fatti? Sono arrivata al punto di odiare pure la Chiesa, perché da essa volevo risposte; e proprio qui le ho trovate, durante una predicazione in cui mi si diceva che il Signore poteva darmi un cuore capace di amare i nemici. Ricordo in particolare una celebrazione penitenziale in cui il presbitero dal quale andai per confessare un malessere che in quel giorno avevo, perché avevo visto uno degli assassini dei miei fratelli, mi disse una frase che fu ed è un memoriale per me: “Sorella, la salvezza di quei fratelli dipende da te”. E alla mia risposta: “Io non ce la faccio”, rispose: “Non sei tu che andrai, ma Cristo”. Così è stato: il Signore ha mutato davvero il mio cuore e mi ha dato la gioia di poter stringere quelle mani e di stare anche a tavola con qualcuno di questi fratelli».

(Luigi ACCATTOLI, Cerco fatti di Vangelo, SEI, Torino 1995, 60).

Il vento del perdono

     Racconta una storia che due amici camminavano nel deserto. In qualche momento del viaggio cominciarono a discutere, ed un amico diede uno schiaffo all’altro. Addolorato, ma senza dire nulla, scrisse nella sabbia: «Il mio migliore amico mi ha dato uno schiaffo». Continuarono a camminare, finché trovarono un’oasi, dove decisero di fare un bagno. L’amico che era stato schiaffeggiato rischiò di affogare, ma il suo amico lo salvò. Dopo che si è ripreso, scrisse in una pietra: «Il mio migliore amico oggi mi ha salvato la vita». L’amico che aveva dato lo schiaffo e aveva salvato il suo migliore amico domandò: Quando ti ho ferito hai scritto nella sabbia, e adesso lo fai in una pietra. Perché? L’altro amico rispose: quando qualcuno ci ferisce dobbiamo scriverlo nella sabbia, dove i venti del perdono possano cancellarlo. Ma quando qualcuno fa qualcosa di buono per noi, dobbiamo inciderlo nella pietra, dove nessun vento possa cancellarlo.

     Impara a scrivere le tue ferite nella sabbia ed a incidere in pietra le tue gioie!

Le parole più radicali del Vangelo

     «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano…» (Lc 6, 27). Queste parole esprimono non solo l’essenza della resistenza non violenta, ma anche il cuore della predicazione di Gesù. Se qualcuno vi chiede quali sono le parole più radicali del Vangelo, dovete rispondere senza esitare: «Amate i vostri nemici». Esse ci rivelano con la massima chiarezza il tipo di amore proclamato da Gesù. In esse abbiamo la più chiara espressione di ciò che significa essere discepoli suoi. L’amore per i propri nemici è la pietra di paragone del cristiano».

(J.M. Nouwen, Lettere a un giovane, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 42).

Amore del nemico

     «Amare gli amici lo fanno tutti, i nemici li amano soltanto i cristiani.» Queste parole di Tertulliano (Ad Scapulam 1,3), che vogliono esprimere la differenza cristiana, vertono significativamente sull’amore per i nemici.

     Questo appare come vera e propria sintesi del Vangelo: se tutta la Legge si sintetizza nel comando dell’amore di Dio e del prossimo (Marco 12,28-33; Romani 13,8-10;Giacomo 2,8), la vita secondo il Vangelo trova il suo compimento nelle parole e nei gesti di Gesù che indicano nell’amore del nemico l’orizzonte della prassi cristiana. Dice infatti Gesù: «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Luca 6,27; cfr. Luca 6,28-29.35; Matteo 5,43-48) e tutta la sua vita – fino al momento della lavanda dei piedi anche a Giuda, colui che si era fatto suo nemico; fino alla croce, luogo del suo amore «fino alla fine» per i suoi (Giovanni 13,1); fino alla preghiera per i suoi carnefici mentre lo crocifiggevano (Luca 23,33-34) – attesta questo amore incondizionato rivolto anche al nemico. Il cristiano, chiamato ad assumere il sentire, il pensare, il volere di Cristo stesso (cfr. Filippesi 2,5), si trova dunque sempre confrontato con questa esigenza.

     Ma occorre chiedersi: è realmente possibile amare il nemico, e amarlo mentre manifesta la sua ostilità e inimicizia, il suo odio e la sua avversione? È umanamente possibile tale scandalosa simultaneità? L’esperienza infatti ci rivela che il fascino per l’assolutezza dell’amore del nemico svanisce in assoluta dimenticanza e diviene incapacità di dargli consistenza esistenziale di fronte alle precise e concrete situazioni di inimicizia. E forse già questo rappresenta un primissimo, e umanamente fondamentale, momento del cammino verso l’amore del nemico. Inoltre il cristiano è portato dal Vangelo a vedere in se stesso il nemico amato da Dio e per cui Cristo è morto: questa è l’esperienza di fede basilare da cui soltanto potrà nascere l’itinerario spirituale che conduce all’amore per il nemico! Scrive Paolo: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatori e nemici, Cristo è morto per noi» (cfr. Romani 5,8-10). Su questa esperienza di fede occorre innestare la progressività di una maturazione umana che conduce ad acquisire il senso positivo dell’alterità, la capacità dell’incontro, della relazione e quindi dell’amore. Già l’Antico Testamento, quando invita l’israelita ad amare il prossimo come se stesso, propone una sorta di itinerario: «Io sono il Signore, non coverai odio verso tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Levitico 19,17-18). Anzitutto è richiesta l’adesione di fede a colui che è il Signore, quindi l’israelita è chiamato a impedirsi sentimenti di odio (atteggiamento negativo), poi a correggere colui che fa il male (atteggiamento positivo) proibendosi di farsi vendetta da sé (atteggiamento negativo) e amando così il suo prossimo come se stesso (atteggiamento positivo). All’amore si arriva attraverso un cammino, un esercizio.

     L’amore non è spontaneo: esso richiede disciplina, ascesi, lotta contro l’istinto della collera e contro la tentazione dell’odio. Così si perverrà alla responsabilità di chi ha il coraggio di esercitare una correzione fraterna denunciando «costruttivamente» il male commesso da altri. L’amore del nemico non va confuso con la complicità con il peccatore! Anzi, proprio la libertà di chi sa correggere e ammonire chi compie il male nasce dalla profondità della fede e da un amore per il Signore che sono la necessaria premessa per l’amore del nemico.

     Chi non serba rancore e non si vendica, ma corregge il fratello, è infatti anche in grado di perdonare: e il perdono è la misteriosa maturità di fede e di amore per cui l’offeso sceglie liberamente di rinunciare al proprio diritto nei confronti di chi ha già calpestato i suoi giusti diritti. Chi perdona sacrifica un rapporto giuridico in favore di un rapporto di grazia! Anche Gesù, quando chiede di amare il nemico, immette il credente in una tensione, in un cammino. Dallo sforzo per superare sempre di nuovo la legge del taglione, cioè la tentazione di rendere il male che si è ricevuto, il credente deve pervenire a non opporsi al malvagio, a contrapporre al male l’attivissima passività della non violenza, fidando nel Dio unico Signore e Giudice dei cuori e delle azioni degli uomini. Anzi, mossi dalla convinzione che il nemico è il nostro più grande maestro, colui che può veramente svelare ciò che abita il nostro cuore e che non emerge quando siamo in buoni rapporti con gli altri, i credenti possono obbedire alle parole del loro Signore che invitano a porgere l’altra guancia, a devolvere anche la tunica a chi vuole toglierci il mantello…

     Ma perché tutto questo sia possibile è indispensabile ciò che sempre è ricordato dai Vangeli accanto al comando di amare i nemici, e cioè la preghiera per i persecutori, l’intercessione per gli avversari: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Matteo 5,44). Se non si assume l’altro – e in particolare l’altro che si è fatto nostro nemico, che ci contraddice, che ci osteggia, che ci calunnia – nella preghiera, imparando così a vederlo con gli occhi di Dio, nel mistero della sua persona e della sua vocazione, non si potrà mai arrivare ad amarlo! Ma deve essere chiaro che l’amore del nemico è questione di profondità di fede, di «intelligenza del cuore», di ricchezza interiore, di amore per il Signore, e non semplicemente di buona volontà!

(E. BIANCHI, Parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore, Milano, Rizzoli, 21999, 169-172).

La più grande sapienza

     Guardate per quale via Dio va verso gli uomini, verso i suoi nemici. È la via che la Scrittura stessa chiama stoltezza, la via dell’amore sino alla croce. Riconoscere la croce di Gesù Cristo come l’invincibile amore di Dio verso tutti gli uomini, verso di noi come verso i nostri nemici: questa è la più grande sapienza. O crediamo che Dio ami noi più di quanto ama i nostri nemici? Crediamo forse di essere i beniamini di Dio? La croce non è proprietà privata di nessuno: essa appartiene a tutti gli uomini, ha valore per tutti. Dio ama i nostri nemici – ecco quel che ci dice la croce – per loro egli soffre, per loro conosce la miseria e il dolore, per loro ha dato il suo Figlio amato. Per questo è di capitale importanza che dinanzi a ogni nemico che incontriamo, subito pensiamo: Dio lo ama, per lui Dio ha dato tutto. Anche tu, ora, dagli ciò che hai: pane, se ha fame; acqua, se ha sete; aiuto, se è debole; benedizione, misericordia, amore. Ma lo merita? Sì. Chi infatti merita di essere amato, chi è bisognoso del nostro amore più di colui che odia? Chi è più povero di lui? Chi più bisognoso di aiuto, chi più bisognoso di amore del tuo nemico?

     Hai mai provato a considerare il tuo nemico come qualcuno che, in fondo, ti sta dinanzi nella sua estrema povertà, e ti prega, senza poter dar voce alla sua preghiera: «Aiutami, donami quell’unica cosa che mi può ancora essere di aiuto a liberarmi dal mio odio, donami l’amore, l’amore di Dio, l’amore del Salvatore crocifisso»? Tutte le minacce, tutti i pugni protesi sono in definitiva un mendicare l’amore di Dio, la pace, la fraternità. Tu respingi il più povero dei poveri, lo metti alla porta, quando respingi il tuo nemico […]. Il carbone ardente brucia e fa male, quando ci tocca. Anche l’amore può bruciare e far male. Ci insegna a riconoscere quanto miseri siamo. È il dolore bruciante del pentimento quello che si fa sentire in colui che, nonostante l’odio e le minacce, trova solo amore, nient’altro che amore Dio ci ha fatto conoscere questo dolore. Quando lo abbiamo sperimentalo, ecco, è scoccata l’ora della conversione.

(D. BONHOEFFER, Memoria e fedeltà, Magnano, Quiqajon, 1979, 117.123).

Preghiera

O Signore, volgi il tuo sguardo benigno

su di noi, tuo popolo,

e comunicaci il tuo amore:

non come un’idea o un concetto,

ma come un’esperienza vissuta.

Noi possiamo amarci gli uni gli altri

solo perché tu ci hai amati per primo.

Facci conoscere questo primo amore

così che possiamo vedere ogni amore umano

come un riflesso di un più grande amore,

un amore senza condizioni e senza limiti.

Amen.

La Settimana con don Bosco

(16-22 febbraio 2025)

16. “Questo Oratorio è posto sotto la protezione di san Francesco di Sales, perché coloro che intendono dedicarsi a questo genere di occupazione devono proporsi questo Santo per modello nella carità, nelle buone maniere, che sono le fonti da cui derivano i frutti che si sperano dall’Opera degli Oratori” (OE29 34).

17. (Ss. Sette Fondatori dell’Ordine dei Servi della b. Vergine Maria)Mentre don Bosco ha dovuto formare da solo i suoi futuri religiosi, “i fondatori di tutti gli altri ordini religiosi avevano trovati, tra coloro che per i primi si aggregarono alla loro società, uomini maturi per virtù, scienza, esperienza di cose di mondo e di spirito” (MB3 548).

18. “Pensiamo di diminuire qualche spesa domestica per darla ai poveri, specialmente in questi tempi in cui si rende tanto grave il bisogno di soccorrere persone bisognose di ogni età e di ogni condizione” (OE3 480).

19. “Oggi vorrei aver una penna valentissima per iscrivere tutto quello che mi suggerisce il cuore” (OE18 313).

20. “Non tutti possono digiunare, intraprendere lunghi viaggi per la gloria di Dio, non tutti fare ricche elemosine, ma tutti possono amare Dio” (MB5 556).

21. (S. Pier Damiani) Maria, “al dir di san Pier Damiani, non si lascia vincere mai in larghezza ed amore dai suoi figliuoli” (OE18 472).

22. (Cattedra di S. Pietro) Per sede o cattedra di san Pietro “s’intende l’esercizio di quell’autorità conferitagli da Gesù Cristo di pascolare il gregge universale dei fedeli, sostenere e conservare gli altri pastori nell’unità di fede e di dottrina” (OE18 152).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 6,1-2.3-8


        
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».  
  • Vocazione e mandato, ovvero affidamento di un compito da svolgere, nell’Antico Testamento sono sempre strettamente congiunti. Talvolta tuttavia la chiamata è semplicemente supposta ed è indicato solo il mandato di Dio all’uomo: è questo ciò che accade ad Abramo (Gn 12,1). Nel caso di Mosè, la chiamata e il mandato vengono ampiamente e di-stintamente descritti, nella lunga e drammatica cornice di una teofania (Es 3,2-4,17). Altre volte la vocazione non è affatto descritta, ma è soltanto ricordata dall’interessato (Amos 7,14-15) oppure dallo stesso Dio, p. es., nella scena che descrive ampiamente il mandato affidato al profeta Geremia (1,4-5: «La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto…»).

     La chiamata di Isaia al ministero profetico richiama in qualche modo la chiamata e il mandato di Mosè descritti nel libro dell’Esodo, ma con un ritmo e un linguaggio molto più concentrati ed essenziali. Nell’uno e nell’altro caso, tutto comincia con una teofania, che sorprende gli interessati. Essi si dichiarano profondamente turbati dalla manifestazione di Dio e consapevoli della loro personale indegnità. Da questo punto in poi, le due situazioni hanno però un diverso sviluppo: Mosè continua a protestare la sua incapacità di assolvere il mandato, mentre Isaia, purificato dai carboni ardenti dell’altare, si offre con slancio come

inviato del Signore. Diverso anche, nei due casi, è il contenuto del mandato: in quello di Mosè sta in primo piano l’annunzio della vicina liberazione dalla schiavitù, in quello di Isaia sta in primo piano un annunzio di sventura, mentre è solo appena intravista la fine della sventura medesima.

     Nel v. 1, il profeta ci dice che il suo ministero profetico ebbe inizio «Nell’anno in cui morì il re Ozìa (nelle traduzioni dato talvolta come Uzzia e nel libro dei Re è chiamato Azaria), cioè probabilmente tra il 740-739. Subito dopo è descritta la teofania, fino al v. 4. Emerge in questa descrizione la santità di Dio, cioè la sua trascendenza, sperimentata come incommensurabilità (i lembi del suo manto riempivano il tempio), maestà reale (seduto su un trono) e santità proclamata a cori alterni dai misteriosi serafini. Il termine «santità», oltre l’idea della trascendenza, include anche l’idea della suprema rettitudine. Ciò è indicato esplicitamente dal v. 5, nel quale è descritta la reazione del profeta, il quale dalla stessa visione di Dio è indotto a riconoscere la sua indegnità di peccatore, partecipe dei peccati del suo popolo.

     Se la teofania si chiudesse con la confessione del peccato, suo effetto sarebbe la disperazione. Essa invece prosegue, nei vv. 5-7, con la descrizione di una purificazione, che è anche una santificazione aperta alla speranza.

     Nel v. 8, è detto come è bastato al profeta purificato sentire che Dio cercava qualcuno da inviare come suo portavoce, perché egli si offrisse con slancio per quel compito.

     Non sono poche le analogie tra questo testo del profeta Isaia e la nostra lettura evangelica.

Seconda lettura: 1Corinzi 15,1-11

    Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.          
  • Il brano della prima lettera ai Corinzi che costituisce la nostra seconda lettura contiene l’inizio della risposta di Paolo a quello che probabilmente era l’ultimo quesito postogli da quella comunità, riguardante il problema della risurrezione dei morti.

     Nei vv. 1-2 c’è un moderato elogio dei Corinzi, per avere essi accolto il vangelo che egli stesso aveva loro presentato e per avere resistito a quelli che avrebbero voluto corromperlo o deformarlo. Essi hanno anche sperimentato la forza salvifica che c’è in quel vangelo.

     Nei vv. 3-7, l’apostolo riassume l’insegnamento centrale del Vangelo, che egli predica, in piena concordia con la predicazione della Chiesa: che Gesù Cristo è morto per la remissione dei peccati, che fu sepolto e fu risuscitato, conformemente alle affermazioni delle Scritture, che finalmente è apparso a quelli che poi hanno testimoniato quella risurrezione: rispettando l’ordine gerarchico, vengono nominati Cefa, i Dodici, più di cinquecento fratelli e Giacomo (rappresentante dei «fratelli del Signore»). Per questo condensato del kèrigma primitivo, sono adoperati i termini tecnici ricevere e trasmettere. A questo patrimonio comune, nei vv. 8-10, Paolo aggiunge la sua personale testimonianza: anch’egli, ultimo (quasi un aborto, avendo egli prima perseguitato la Chiesa), ha visto il Signore risorto e questa apparizione ha radicalmente cambiato la sua vita, facendolo diventare un apostolo infaticabile.

     La conclusione del brano, nel v. 11, è brevissima e solenne: questa e non altra è la fede di tutta la Chiesa, la fede che ha reso cristiani i destinatari della lettera di Paolo. Solo partendo da questa fede egli potrà affrontare e discutere il problema della risurrezione dei morti.

Vangelo: Luca 5,1-11

         In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.           

Esegesi

     Questo testo di Luca utilizza certamente il racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che si trova in Mc 16-20 e Mt 18-22, ma non è semplicemente lo stesso racconto con qualche variazione. Direttamente, il tema del nostro brano è preannunzio del ministero apostolico di Pietro, che egli avrebbe poi svolto insieme agli altri apostoli, qui rappresentati da Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. In tal modo, il terzo vangelo ci assicura che il ministero apostolico, guidato dal gruppo dei dodici, è stato voluto e preordinato da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica e non è scaturito solo dall’entusiasmo del tempo post-pasquale. Si può pensare che sia questo il motivo per cui nel terzo vangelo non si trova il mandato con cui il Signore risorto affida agli undici la diffusione del vangelo nel mondo (Mt 28,19-20; cf. Mc 16,15) e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,21-23).                                                          

     Le parole con cui Gesù esprime la sua volontà e preannunzia il ministero apostolico di Pietro e dei suoi collaboratori sono preparate da una scena d’insegnamento dello stesso Gesù e dal racconto di un miracolo.

     Nella scena di insegnamento (vv. 1-3), Gesù è presentato circondato dalla folla, che vuole ascoltare da lui «la parola di Dio». Perché a tutti più facilmente arrivi quella «parola», Gesù chiede a Simone di poter utilizzare la sua barca.

     Nei vv. 4-7 è raccontato il miracolo di una pesca straordinaria ottenuta su indicazione di Gesù. Il fatto appare come prodigioso, perché avvenuto su semplice segnalazione di Gesù, in condizioni normalmente sfavorevoli, cioè in pieno giorno (mentre di solito la pesca si fa di notte) e in quantità del tutto inusuale: in tal modo Gesù dimostra di avere autorità sul mare e sui pesci. Non pare che l’evangelista abbia voluto dare un valore simbolico all’avvenimento della pesca, quasi per assicurare in anticipo la fecondità dell’attività apostolica della Chiesa. Il prodigio sembra avere soltanto lo scopo di dare autorevolezza a Gesù e alle parole che egli, subito dopo, dice a Pietro. Nei vv. 8-10a, è descritto l’effetto che il prodigio produce su Pietro e i suoi collaboratori: tutti avvertono in Gesù il potere misterioso di Dio e prendono coscienza della loro fragilità peccatrice.

     Nel v. l0b il racconto evangelico tocca il suo culmine, nelle parole di Gesù: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Qui propriamente non è espresso un comando o una chiamata: piuttosto, è pronunziata una profezia. È detto però che essa comincia già a realizzarsi subito, a partire da quel preciso momento. La chiamata appare così inclusa nella profezia, estendendosi anche ai collaboratori di Pietro. Si può anche notare che il termine greco adoperato per pescatore è zogròn, a cui talvolta viene dato il senso di salvare dalla morte: ciò vorrebbe dire che la profezia annunzia per Pietro e i suoi compagni una attività misteriosa al servizio della vita degli uomini.

     Il v. 11 col minimo di parole, descrive l’effetto delle parole sovrane di Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Non si può evitare di confrontare questo testo di Luca con il racconto della apparizione di Gesù risorto presso il lago di Tiberiade, con relativa pesca prodigiosa e conclusivo mandato pastorale affidato a Pietro, che si trova nel c. 21 di Giovanni. Sono tali e tanti gli elementi di somiglianza tra i due racconti, che si è costretti a pensare di avere davanti due trasmissioni indipendenti dello stesso avvenimento. Pur con persistenti esitazioni, si può pensare che il testo di Giovanni conservi la formulazione più antica del fatto e che sia stato Luca a spostarlo dai racconti di apparizione all’inizio del ministero pubblico di Gesù. Per l’appunto nel testo di Giovanni, alla fine, appare assai chiaramente che il culmine della storia sta nel mandato affidato a Pietro di pascere, cioè curare e custodire i credenti in Cristo.

Meditazione

     Sempre nella storia Dio ha chiamato uomini fragili e peccatori per affidar loro la sua parola da annunciare e per renderli partecipi del suo progetto sull’umanità. I contesti di una chiamata possono essere molto differenti e, in un certo senso, anche le modalità con cui Dio chiama sanno adattarsi all’uomo. Tuttavia nella dinamica di una vocazione ci sono delle costanti e nel narrare una chiamata la Scrittura sembra quasi seguire uno schema. C’è sempre un’esperienza di Dio da parte del chiamato che passa attraverso l’incontro con il suo volto e la sua parola. Questa esperienza, questo ‘contatto’ con Dio coinvolge totalmente colui che è chiamato, il quale sente la sua radicale lontananza da Colui che è il ‘totalmente altro’. Ma Dio quando chiama ha la potenza di cambiare radicalmente il cammino e la vita di una persona: ogni vocazione è sempre una conversione. E questo cambiamento è in vista di una missione. Possiamo scorgere questi elementi, che caratterizzano, secondo la Scrittura, la dinamica di una chiamata, nei due testi che la liturgia della Parola di questa domenica accosta e che ci fa leggere in parallelo. Si tratta del testo di Is 6,1-8, la vocazione profetica di Isaia e il suo invio al popolo di Israele, e del racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, secondo la narrazione di Lc 5,1-11. In due contesti molto diversi, la stessa parola di Dio entra nella vita dell’uomo, con essa inizia un dialogo che si trasforma in chiamata e in missione. Isaia vede qualcosa allo stesso tempo affascinate e tremendo: «vidi il Signore seduto su un trono alto… i lembi del suo manto riempivano il tempio… Santo, santo, santo il Signore degli eserciti…» (Is 6,1-3). Gesù, tra la folla che «fa ressa attorno a lui per ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,l), vede due barche e dei pescatori. Isaia sperimenta smarrimento e lontananza da questo Dio così al di là di ogni possibilità umana: «io sono perduto, perché uomo dalle labbra impure» (Is 6,5). Di fronte alla potenza della parola di Gesù, in Pietro avviene una presa di coscienza della propria povertà, del peccato che abita in lui: «Signore, allontanati da me perché sono un peccatore» (Lc 5,8). L’incontro con Dio cambia in profondità Isaia: è chiamato ad essere profeta e le sue labbra vengono purificate per una missione che Dio stesso gli affida (cfr. 6,6-8). Proprio Pietro, il peccatore, e i suoi compagni sono chiamati a diventare discepoli di Gesù e annunciatori del Regno in mezzo agli uomini: da pescatori di pesci diventano «pescatori di uomini» (Lc 5,10). Di fronte alla potenza e alla gratuità di Dio, Isaia si arrende: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). I quattro pescatori «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e seguirono Gesù» (Lc 5,11). Tenendo con-to di questa lettura parallela, ci soffermiamo ora su alcuni elementi del racconto di Luca. Luca inquadra la scena focalizzando l’attenzione su Gesù che insegna, che annuncia la parola di Dio, mentre molta folla si accalca attorno a lui per ascoltarlo. Due barche sulla riva, accanto alle quali ci sono quattro pescatori, attirano l’attenzione di Gesù: possono diventare il mezzo per rendergli più agevole la predicazione. E così sale su una barca e invita il proprietario, Simone, a scostarsi un po’ dalla riva (cfr. Lc 5,1-3). In questa descrizione emergono alcuni elementi che inquadrano la successiva scena, e soprattutto orientano la dinamica della chiamata. Tutto sembra occasionale, ma lo sguardo di Gesù guida invece ogni momento. È lui che vede le barche e i quattro pescatori. Così in mezzo a questa folla anonima, grazie allo sguardo di Gesù emergono quattro volti che entrano in relazione più diretta con lui. E tra questi volti, uno in particolare sembra catturare l’attenzione di Gesù: quello di Simon Pietro. Ma fin da questa prima scena c’è un altro elemento che farà poi da legame a vari momenti dell’episodio: è la parola di Gesù. Gesù infatti sta annunciando la parola di Dio (cfr. v. 1); è sulla parola di Gesù che Simon Pietro getterà le reti al largo (cfr. v. 5); e infine, ancora sulla parola di Gesù i quattro pescatori lasceranno tutto per seguirlo (cfr. vv. 10-11).

     L’incontro diretto di Gesù con questi pescatori è caratterizzato da un ordine perentorio e apparentemente assurdo: «Prendete il largo e gettate le vostre reti per la pesca… Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (vv. 4-5). Sembra quasi che Gesù voglia fare sperimentare a questi uomini un paradosso, il quale può diventare esperienza e incontro con Dio: ciò che all’uomo è impossibile è invece possibile a Dio. Per entrare in questo ‘paradosso’, all’uomo è richiesta fede radicale e obbedienza. Infatti ciò che viene richiesto a Simon Pietro può avvenire solo sulla parola di Gesù. E il pescatore accetta questa sfida: «sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci» (v. 5-6).

     Questo passaggio dall’impossibile al possibile e, più concretamente, da una pesca senza risultati alla vista di una pesca così abbondante e impensata, provoca una reazione in Simon Pietro: la presa di coscienza della distanza tra lui, peccatore, e Gesù. È il timore di fronte alla santità e alla potenza di Dio che costringe Simone a inginocchiarsi di fronte a Gesù e a riconoscere una sorta di impossibilità a stargli vicino: «si gettò alle ginocchia… allontanati da me; perché sono un peccatore» (v. 8).

     Ma proprio una nuova parola di Gesù supera questa distanza, altrimenti incolmabile per l’uomo. Gesù non solo non si allontana da Simon Pietro, ma si avvicina e con la sua parola lo chiama a stare con lui: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). La parola di Gesù opera una conversione di Simon Pietro e dei suoi compagni, cambiandone l’identità (‘pescatori di uomini’) e il cammino (‘d’ora in poi sarai’). Anche qui a Pietro e agli altri viene richiesta obbedienza e fede (‘non temere…’) che passano attraverso un radicale distacco da ogni certezza, da un passato conosciuto, per camminare dietro a Gesù fidandosi solo di lui e della sua parola: «e, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Ma forse uno dei cambiamenti più paradossali sta proprio nella missione che Gesù affida a questi pescatori: «d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). Simon Pietro e gli altri restano ancora pescatori; ma non cattureranno più pesci ma «prenderanno uomini per la vita» (questo è il significato letterale dell’espressione usata da Luca). Come Gesù e con Gesù, saranno chiamati a incontrare uomini e a comunicare loro la vita mediante l’annuncio dell’evangelo. «A voi infatti ho trasmesso – dirà Paolo ai Corinzi – quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che è apparso a Cefa e quindi ai dodici» (1Cor 15,3-5).

     Questi ‘pescatori di uomini’ dovranno andare sempre di più al largo (e Luca narra questo straordinario viaggio al largo nel libro degli Atti) e continuare a gettare le reti ‘sulla parola di Gesù’. In questo simbolico viaggio in mare aperto, tanti altri uomini e donne si uniranno a questo piccolo gruppo. E questa comunità senza confini non è altro che la Chiesa di ogni tempo che continua a prendere nelle reti della parola l’umanità per consegnarla alla vita.

Don Bosco commenta il Vangelo

Quinta domenica del tempo ordinario

Don Bosco ci parla di Pietro

Gesù sceglie la barca di Pietro per parlare alle folle, nota don Bosco con compiacenza: “Gesù vide due barche accostate alla sponda. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca”. Nella sua Vita di san Pietro, don Bosco racconta che “per dare a Pietro un novello attestato della stima che aveva per la sua persona scelse la barca di lui e non quella di Zebedeo” (OE8 308). Poi continua ricordando che “i santi Padri nella nave di Pietro ravvisano la Chiesa di cui è capo Gesù Cristo, in luogo del quale Pietro doveva essere il primo a farne le veci, e dopo lui tutti i papi suoi successori” (OE8 311).

Spetta al solo Pietro di condurre la nave in alto mare. Infatti, dopo aver insegnato alle folle dalla barca, Gesù disse a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Gesù si rivolge prima a Pietro e poi a tutti. Su questa distinzione si basa questo piccolo commento offerto da don Bosco sempre nella sua Vita di san Pietro:

Le parole dette a Pietro “conduci la nave in alto mare”, e le altre dette a lui e a tutta la comitiva “spiegate le vostre reti per prendere pesci”, contengono pure un nobile significato. A tutti gli apostoli, dice sant’Ambrogio, comanda di gettare nelle onde le reti, perciocché tutti gli apostoli e tutti i pastori sono tenuti a predicare la divina parola, e a custodire nella nave, ovvero nella Chiesa, quelle anime che avrebbero guadagnato colla loro predicazione. Al solo Pietro poi si ordina di condurre la nave in alto mare, perché egli solo a preferenza di tutti vien fatto partecipe della profondità dei divini misteri; solo riceve da Cristo l’autorità di sciogliere le difficoltà che possono insorgere in cose di fede. Onde è che nella venuta degli altri pescatori alla nave di lui viene riconosciuto il concorso degli altri pastori, i quali unendosi a Pietro lo aiutano a propagare e conservare la fede nel mondo, e guadagnare anime a Cristo (OE8 311s).

Pietro ebbe fiducia nella parola di Gesù, rileva don Bosco nel capitolo secondo della Vita di san Pietro prima di raccontare la storia della pesca miracolosa:

Dopo la predica ordinò a Pietro di condurre la nave in alto mare, di gettare la rete e pescare. Pietro aveva passata tutta la notte precedente a pescare in quel medesimo luogo, e non aveva preso niente, e quasi pieno di stupore voltosi a Gesù: “Maestro, gli disse, noi ci siamo affaticati tutta la notte pescando e non abbiamo preso neppure un pesce; contuttociò sulla vostra parola getterò in mare la rete”. Così egli fece, e contro ad ogni aspettazione la pesca fu tanto copiosa e la rete così piena di grossi pesci che tentando di trarla fuori dalle acque stava per lacerarsi. Tanto è vero che coloro i quali confidano in Dio non sono mai confusi (OE8 308s).

La pesca miracolosa fatta da Pietro è diventata uno dei simboli della Chiesa. Nel primo capitolo della Vita de sommi pontefici S. Lino, S. Cleto, S. Clemente intitolato “Della Chiesa e dei suoi vari nomi”, don Bosco cita infatti “la pesca copiosa che il Salvatore fece fare ai suoi apostoli”, per significare “la grande estensione della Chiesa, la sua unità, la moltitudine e la differenza dei membri che la compongono, cioè i buoni ed i cattivi” (OE9 343).

In seguito alla reazione di Pietro dopo la pesca miracolosa, don Bosco sottolinea le qualità di quest’uomo apprezzate da Gesù stesso:

Gesù gradì la semplicità di Pietro e l’umiltà dei suoi sentimenti, e volendo che egli aprisse il cuore a più grandi speranze, per confortarlo gli disse: “Deponi ogni timore, da qui innanzi non sarai più pescatore di pesci, ma sarai pescatore di uomini”. A questo parlare Pietro riprese animo e quasi cambiato in un altro uomo condusse la nave al lido, abbandonò ogni cosa, e si pose perfettamente alla sequela del Redentore (OE8 310).

A ciascuno di noi don Bosco sembra voler dire di imitare i sentimenti di Pietro, di seguire Gesù come lui e di aver fiducia nei suoi successori a capo della Chiesa. 

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

PARCO DELLE VALLI (CONCA D’ORO-ROMA)     –   2021  

«Amami quando meno lo merito, perché sarà quando ne avrò più bisogno».

(Gaio Valerio Catullo)

Casella di testo: Isaia 6,1-2.3-8
1Corinzi 15,1-11
Luca 5,1-11

L’odierna pagina evangelica ci presenta l’incontro di Gesù con alcuni uomini che diverranno suoi discepoli: tra questi Pietro e i due fratelli Giacomo e Giovanni. Non è un racconto di vocazione (sebbene il titolo editoriale di questo episodio nella Bibbia di Gerusalemme parli di “Chiamata dei primi quattro discepoli”). Qui Gesù non dice a nessuno: “Vieni e seguimi”. Siamo invece di fronte a un incontro. Spesso anche per noi la “vocazione” passa attraverso incontri. E l’incontro tra Gesù e Pietro porta quest’ultimo a scoprire dimensioni profonde di sé e a cogliersi davanti al Signore: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). L’incontro con il Signore è al tempo stesso conoscenza di Lui e di sé stessi.

La profondità di questo incontro risalta anche dal fatto che Simone ha già conosciuto Gesù. Nel capitolo precedente, Luca ha mostrato Gesù che parla con autorevolezza nella sinagoga di Nazaret (4,16-30), che insegna, scaccia demoni e compie guarigioni mostrando così la sua potenza di profeta e di inviato escatologico di Dio (4,31-44). Tra le guarigioni che compie vi è anche quella della suocera di Simone, nella cui casa Gesù è entrato (4,38-39). Dunque Simone ha già una conoscenza di Gesù, della potenza della sua parola e della sua azione taumaturgica, e ha confidenza con lui tanto da farlo entrare in casa sua. Eppure non l’ha ancora conosciuto a sufficienza e, soprattutto, non ha ancora conosciuto se stesso alla luce del Signore. Sì, la conoscenza del Signore è un cammino, è in divenire: è il percorso di una vita. È così anche per noi: si è alla sequela di Gesù, magari da tempo, eppure può avvenire che non si conosca ancora a fondo chi è il Signore e che non si sia andati abbastanza in profondità nella conoscenza di sé davanti a Lui.
(Luciano Manicardi)

Preghiere e racconti

Chiamati a qualcosa di più

L’insuccesso mostra all’uomo lo scarto tra l’infinità dei suoi desideri e la possibilità di realizzarli. La pesca infruttuosa suscita nei discepoli l’amara sensazione che non basta dire di andare a pescare per riuscire a pescare. C’è uno scarto tra la potenza dei desideri e la loro realizzazione effettiva. Quanti sogni di gioventù restano castelli in aria proprio per lo scarto tra ciò che noi vorremmo essere nella vita e ciò che poi si realizza! Vorremmo essere come il tale o il tal’altro, il nostro “io ideale” si proietta e alla fine vediamo che c’è una differenza enorme; l’insuccesso mostra la distanza tra l’infinità dei desideri e la possibilità di realizzarli.

La pesca infruttuosa diventa il simbolo di questo scarto, ed è una delusione salutare perché ci permette di riappropriarci con ordine dei nostri desideri. Ma può essere anche molto pericolosa: scatena reazioni negative e drammatiche.

Ricordo il caso di un uomo molto per bene che non riuscì ad accettare l’umiliazione di essere retrocesso nella carriera e per questo giunse a uccidere. L’insuccesso aveva provocato in lui lo scatenamento di desideri, che c’erano ma che prima riusciva a dominare perfettamente. È un’immagine di ciò che l’insuccesso provoca, per la violenza delle forze che si agitano dentro di noi, e che gli antichi chiamavano le passioni dell’uomo. Le passioni non sono soltanto la sensualità; sono anche l’invidia, l’ambizione, l’orgoglio e i risentimenti più forti; come pure sono passioni l’amore, la fedeltà, l’impegno, il coraggio, l’entusiasmo e la perseveranza. Queste sono le forze dell’uomo che dobbiamo imparare a conoscere e a dominare.

Anche se non arriviamo a casi drammatici, dobbiamo però dire che la pesca infruttuosa si ripete spesso nella nostra vita. Viene ad esempio, magari in giovanissima età, una malattia che immobilizza ed ecco tutta una serie di sogni che crollano. E uno passa due, tre, quattro anni prima di riuscire, se riesce, a ricomporre la profondità dei suoi desideri con la realtà che sta vivendo. Conosco situazioni in cui da questa ricomposizione è venuta fuori una forza speculare formidabile. Ma quanta fatica per arrivare a questa ricomposizione! Anche un’amicizia che sfuma è spesso fonte di grande delusione; un posto non ottenuto, un posto di lavoro sul quale avevamo puntato, soprattutto in situazioni in cui c’è una carriera quasi obbligata. È la notte sul lago di Tiberiade. E il Vangelo non dice tutto; ma quando cominciavano a tirar su la rete vuota, sarà cominciata la litania delle colpe: «È colpa tua, quanto mai siamo venuti, chi ci ha fatto uscire, chi ha avuto questa idea». Cioè vengono fuori tutti i sentimenti negativi.

Dobbiamo riflettere per capire, come gli apostoli, che in fondo l’importante non è “andare a pescare”, che si è chiamati a qualcosa di più grande e che il Signore può farci conoscere quel “qualcosa di più” attraverso l’insuccesso.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 42-43).

Da peccatore a pescatore (Lc 5,1-11)

Quando finisce di parlare, Gesù da un ordine a Simone: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca » (Lc 5, 4). E Simone risponde: «Signore, avendo faticato tutta la notte nulla abbiamo preso» (Lc 5,5): il verbo usato da Luca è kopiasantes (part. aor. di kopiao), che in Atti si riferisce alla fatica apostolica, la fatica di annunciare il Vangelo. È la fatica di chi, pur avendo speso molte energie, pur avendo messo in opera tutte le proprie forze, non ottiene alcun risultato. E Simone decide di rischiare ancora una volta, di ignorare la fatica che lo opprime, di rischiare il ridicolo: «ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5). È l’immagine dell’Apostolo che supera la prova di fiducia, che non cade nella delusione e nella disperazione, ma trova la forza di provarci ancora una volta… «sulla tua parola».

Simone diventa immagine dell’uomo che rischia se stesso anche in situazioni piccole ma che esigono decisione e coraggio. Santo è colui che sa rischiare, che si butta fuori, che non agisce in base a ragionamenti soltanto di convenienza. Non  sarà la sola fatica umana, neanche il calcolo o gli interessi ma l’amore che permetterà a Pietro di buttarsi, di andare fuori, di saper rischiare con e per Gesù. E Gesù ripaga la fatica di Simone: «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano» (Lc 5,6).

Giunti a riva, Simone davanti a tutta la folla «si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”» (Lc 5,8). La potenza della parola di Gesù gli ha aperto gli occhi sulla propria condizione di peccatore. Posto dinanzi alla potenza di Gesù, Simone riconosce la propria fragilità e trova la sua autorealizzazione. E Gesù, accogliendo il peccatore, lo trasfigura in… pescatore di uomini!

La chiamata dei primi discepoli

Nella liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca presenta il racconto della chiamata dei primi discepoli, con una versione originale rispetto agli altri due Sinottici, Matteo e Marco (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20). La chiamata, infatti, è preceduta dall’insegnamento di Gesù alla folla e da una pesca miracolosa, compiuta per volontà del Signore (Lc 5,1-6). Mentre infatti la folla si accalca sulla riva del lago di Gennèsaret per ascoltare Gesù, Egli vede Simone sfiduciato per non aver pescato nulla tutta la notte. Dapprima gli chiede di poter salire sulla sua barca per predicare alla gente stando a poca distanza dalla riva; poi, finita la predicazione, gli comanda di uscire al largo con i suoi compagni e di gettare le reti (cfr v. 5). Simone obbedisce, ed essi pescano una quantità incredibile di pesci. In questo modo, l’evangelista fa vedere come i primi discepoli seguirono Gesù fidandosi di Lui, fondandosi sulla sua Parola, accompagnata anche da segni prodigiosi. Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo «Maestro» (v. 5), mentre dopo lo chiama «Signore» (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (v. 5).

L’immagine della pesca rimanda alla missione della Chiesa. Commenta al riguardo sant’Agostino: «Due volte i discepoli si misero a pescare dietro comando del Signore: una volta prima della passione e un’altra dopo la risurrezione. Nelle due pesche è raffigurata l’intera Chiesa: la Chiesa come è adesso e come sarà dopo la risurrezione dei morti. Adesso accoglie una moltitudine impossibile a enumerarsi, comprendente i buoni e i cattivi; dopo la risurrezione comprenderà solo i buoni» (Discorso 248,1). L’esperienza di Pietro, certamente singolare, è anche rappresentativa della chiamata di ogni apostolo del Vangelo, che non deve mai scoraggiarsi nell’annunciare Cristo a tutti gli uomini, fino ai confini del mondo. Tuttavia, il testo odierno fa riflettere sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Essa è opera di Dio. L’uomo non è autore della propria vocazione, ma dà risposta alla proposta divina; e la debolezza umana non deve far paura se Dio chiama. Bisogna avere fiducia nella sua forza che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova.

Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto. Confidiamo anche nell’intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli. Alla chiamata del Signore, Ella, ben consapevole della sua piccolezza, rispose con totale affidamento: «Eccomi». Col suo materno aiuto, rinnoviamo la nostra disponibilità a seguire Gesù, Maestro e Signore.

(Benedetto XVI, Prima dell’Angelus,10.02.2013).

Come Pietro i cristiani credono nell’amore del Signore

Un gruppetto di pescatori delusi da una notte intera di inutile fatica, ma proprio da là dove si erano fermati il Signore li fa ripartire. E così fa con ogni vita: propone a ciascuno una vocazione, con delicatezza e sapienza, come nelle tre parole a Simone:

– lo pregò di scostarsi da riva: Gesù prega Simone, chiede un favore, lui non si impone mai;- non temere: Dio viene come coraggio di vita; libera dalla paura che paralizza il cuore;- tu sarai: lo sguardo di Gesù si dirige subito al futuro, intuisce in me fioriture di domani; per lui nessun uomo coincide con i suoi limiti ma con le sue potenzialità.

Sono parole con le quali Gesù, maestro di umanità, rimette in moto la vita ed è per questo che è legittimato a proporsi all’uomo, perché parla il linguaggio della tenerezza, del coraggio, del futuro. Simone è stanco dopo una notte di inutile fatica, forse vorrebbe solo ritornare a riva e riposare, ma qualcosa gli fa dire: Va bene, sulla tua parola getterò le reti.

Che cosa spinge Pietro a fidarsi? Non ci sono discorsi sulla barca, solo sguardi. Per Gesù guardare una persona e amarla erano la stessa cosa. Pietro in quegli occhi ha visto l’amore per lui. Si è sentito amato, sente che la sua vita è al sicuro accanto a Gesù, che il suo nome è al sicuro su quelle labbra. I cristiani sono quelli che, come Simone, credono nell’amore di Dio (1Gv 4,16). E le reti si riempiono. Simone davanti al prodigio si sente stordito, inadeguato: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore.

Gesù risponde con una reazione bellissima, una meraviglia che m’incanta. Trasporta Simone su di un piano totalmente diverso, sovranamente indifferente al suo passato e ai suoi peccati, lui non si lascia impressionare dai difetti di nessuno, pronuncia e crea futuro: Non temere. Sarai pescatore di uomini. Li raccoglierai da quel fondo dove credono di vivere e non vivono; mostrerai loro che sono fatti per un altro respiro, un altro cielo, un’altra vita! Li raccoglierai per la vita.

Quando si pescano dei pesci è per la morte. Ma per gli uomini no: pescare significa catturare vivi, è il verbo usato nella Bibbia per indicare coloro che in una battaglia sono salvati dalla morte e lasciati in vita (Gs 2,13; 6,25; 2Sam 8,2… ). Nella battaglia per la vita l’uomo sarà salvato, protetto dall’abisso dove rischia di cadere, portato alla luce.

E abbandonate le barche cariche del loro piccolo tesoro, proprio nel momento in cui avrebbe senso restare, seguono il Maestro verso un altro mare. Senza neppure chiedersi dove li condurrà. Sono i «futuri di cuore». Vanno dietro a lui e vanno verso l’uomo, quella doppia direzione che sola conduce al cuore della vita.

(Ermes Ronchi)

“Duc in altum!”

Siamo sempre agli inizi della predicazione e dell’attività di Gesù e anche Luca colloca in questo esordio del ministero pubblico del profeta di Galilea la chiamata dei primi discepoli. Rispetto però al vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,16-20), ripreso negli stessi termini da Matteo (cf. Mt 4,18-22), Luca dà una lettura più teologica della vocazione. Il racconto si arricchisce di particolari, è espresso con un’ottica diversa, sicché già qui vi è un messaggio che riguarda la teologia della chiesa.

Gesù svolgeva il suo ministero soprattutto nelle città e nelle campagne attorno al lago di Tiberiade (o di Gennesaret), quale profeta continuava a dispensare la parola di Dio ad ascoltatori che aumentavano ogni giorno, fino a diventare una vera e propria folla che faceva ressa, premendo per stargli vicino e raccogliere le sue parole. In quella calca, Gesù vede due barche ormeggiate sulla spiaggia, perché i pescatori erano scesi e stavano pulendo le reti dai detriti risaliti dalle acque del lago insieme ai pesci.

Pensa allora di salire su una delle due barche, quella appartenente a Simone, e lo prega di allontanare un po’ la barca da riva, così da farne una sorta di ambone da cui proclamare la parola di Dio. La scena è di per sé eloquente: Gesù “parla la Parola” e come seme la getta verso terra (la spiaggia) nel cuore degli ascoltatori lì radunati (cf. Lc 8,4-15); ciò che nella sinagoga è un ambone solenne, una cattedra, qui è la barca di Simone…

Non appena ha terminato quell’omelia, quell’insegnamento, Gesù passa dalle parole all’evento: chiede a Simone di “prendere il largo” (“Duc in altum!”, nella Vulgata) – cioè di abbandonare con coraggio e speranza le acque quiete dell’insenatura per inoltrarsi in mare aperto – e di gettare le reti in mare. Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha tentato la pesca senza ottenere risultati.

Tuttavia quel Gesù che ha parlato lo ha impressionato per la sua exousía; è un uomo affidabile – pensa –, che merita obbedienza, dunque gli risponde: “Maestro, … sulla tua parola getterò le reti”. Eccolo dunque avanzare verso le acque profonde, verso l’abisso (eis tò báthos), senza timore, munito solo della fiducia nella parola di quel profeta.

Il risultato è immediato, sbalorditivo: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”. Da dove viene questo successo, se per tutta la notte questi uomini hanno faticato invano? Dalla fede-fiducia nella parola di Gesù!

C’è qui una profezia per ogni “uscita”, per ogni missione della chiesa: deve essere sempre fatta su indicazione di Gesù, va eseguita con fede piena nelle sua parola, altrimenti risulterà sterile e inutile. Non era bastata la loro competenza di pescatori, non era risultata feconda la loro fatica, ma tutto muta se è Gesù a chiedere, a guidare, ad accompagnare la missione.

Questo segno stupisce Simone, che subito cade ai piedi di Gesù in atto di adorazione; nello stesso tempo, percependosi nella condizione di uomo peccatore, chiede a Gesù di stare lontano da lui. Accade cioè nel cuore di Pietro la rivelazione che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Kýrios, il Signore, mentre egli è solo un misero, un peccatore, indegno di tale relazione con Gesù.

È la stessa reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” (cf. Is 6,1) e si sente costretto a gridare: “Guai a me, uomo dalle labbra impure!” (Is 6,8; Is 6,1-2a.3-8 è la prima lettura di questa domenica); è la reazione di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso.

Qui c’è Gesù, un uomo, un profeta su una barca, eppure Pietro ha compreso la sua identità: Gesù è “il Santo di Dio” – come Pietro stesso confessa esplicitamente altrove (Gv 6,69) –, mentre egli è un peccatore e dovrà sentirsi tale per tutta la vita, in tante occasioni. E quando dimenticherà di essere peccatore, il canto del gallo glielo ricorderà: il gallo canterà tre volte, così come lui tre volte aveva gravemente peccato, dicendo di non avere mai conosciuto né avuto rapporti con l’uomo (cf. Lc 22,54-62) di cui qui riconosce la santità e che più tardi confesserà “Messia di Dio” (Lc 9,20).

Stupore e tremore per Pietro, dunque, ma anche per i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Si intravede già quel gruppetto di tre che saranno i più vicini a Gesù: erano discepoli amati, non prediletti, non amati più degli altri, perché l’amore, quando è vivo ed è in azione, non è mai uguale nel manifestarsi.

Certo, amati da Gesù come gli altri, ma partecipi all’intimità della sua vita in modo diverso, poiché muniti di doni diversi rispetto agli altri: non a caso saranno scelti da Gesù quali testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,51-55), testimoni della gloriosa trasfigurazione dell’aspetto di Gesù sull’altro monte (cf. Lc 9,28-29), testimone della sua de-figurante passione nel giardino degli Ulivi (secondo Mc 14,33 e Mt 26,37).

Saranno coinvolti con Gesù nella sua gloria e nella sua miseria, dunque sempre in ansia, sempre chiamati alla vigilanza, di cui non sono capaci (cf. Lc 22,45-46 e par.), sempre chiamati a una fedeltà che però viene meno, a causa del rinnegamento (cf. Lc 22,54-62) o della fuga (cf. Mc 14,50; Mt 26,56).

Secondo Luca qui Gesù consegna a Pietro la vocazione: “Non temere, d’ora in poi tu prenderai, catturerai vivi degli uomini”. Ovvero, “d’ora in poi è tuo compito andare negli abissi, al largo, per salvare uomini preda del male, per salvarli da abissi infernali, da strade perdute. I pesci muoiono, gli uomini sono invece destinati alla vita eterna!”.

Non si pensi subito alla missione come a un causare la conversione, ma a un annuncio di salvezza, quello che Gesù aveva illustrato di sé nella sinagoga di Nazaret, leggendo un brano del profeta Isaia e dichiarando realizzata quella profezia: liberare i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, redimere gli oppressi, annunciare ai poveri la buna notizia del Vangelo (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2).

La chiesa, quando va in missione, non va innanzitutto per fare cristiani, per aumentare il numero dei suoi membri, per battezzare, ma in primis per un’azione di liberazione dei bisognosi. Se fa questo, annuncerà il Signore Gesù e, se Dio vorrà, ci saranno conversioni e partecipazione ecclesiale. Attenzione però a non capovolgere la realtà determinata dal Signore, cercando risultati, opere visibili delle nostre mani. Ecco allora avvenire il mutamento decisivo:

“Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

Ormai non sono più addetti alla barca, alla pesca, al loro mestiere, ma tutte queste cose sono abbandonate per sempre sulla riva del lago. Ora è avvenuto il “sì”, l’“amen” al profeta Gesù, affidabile e dunque autorevole: vale la pena seguirlo e fondare la propria vita sulla sua parola. Luca ha utilizzato la metafora della pesca – come accade altre volte nei vangeli – per dirci una cosa semplice: quando Gesù chiama, trasforma quello che facciamo, e questa trasformazione richiede un abbandono di ciò che eravamo e una novità di vita, di forma di vita, nel futuro che si apre davanti a noi.

(Enzo Bianchi)

Sono pronta a partire

«Sono pronta a partire,

e il mio desiderio con vele spiegate aspetta il vento.

Solo un altro respiro respirerò in quest’aria calma,

solo un altro sguardo d’amore

volgerò all’indietro,

e poi sarò tra voi, un navigante tra naviganti.

E tu vasto mare, madre insonne,

unica pace e libertà per fiumi e rivi

solo un’altra svolta farà questa corrente,

solo un altro mormorio in questa radura,

e poi io verrò da te,

una goccia sconfinata in uno sconfinato oceano»

Tuffati profondo!

La perla di gran prezzo

giace nascosta giù nel profondo.

Come un pescatore di perle,

anima mia, tuffati,

tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo e cerca!

Può darsi che non trovi nulla

la prima volta,

Come un pescatore di perle, anima mia,

senza stancarti, persisti e persisti ancora,

tuffati profondo, sempre più profondo,

e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

si prenderanno gioco di te

e tu ne sarai rattristata.

Ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di gran prezzo

è proprio nascosta là

nascosta proprio in fondo.

E’ la tua fede

che ti aiuterà a trovare il tesoro,

è essa che permetterà

che ciò che era nascosto

sia finalmente rivelato.

Tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.

(Swami Parmánanda).

«Amore»

Il Signore ha bisbigliato una parola all’orecchio di un fiore e questo si è aperto in tanti petali colorati.

Il Signore ha bisbigliato una parola ad una pietra, e questa ha assunto i colori iridescenti e le sfumature del diamante.

Il Signore ha bisbigliato una parola al ruscello, ed esso è sgorgato con la freschezza di una sorgente d’acqua viva e perenne.

Il Signore, alla fine, si è chinato all’orecchio dell’uomo e gli ha sussurrato dolcemente una sola parola: amore.

(Gilal Ed-Din Rumi, monaco sufita del XIII secolo).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                             

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

Preghiera

Signore Gesù,                                           

Tu ci chiami a seguirTi,                                    

nel Tuo cammino di croce;                                      

Tu sconvolgi i nostri sogni                                           

e i nostri progetti:                                                   

eppure, Tu sei la nostra pace…                                       

Accettaci con le nostre paure

e le esitazioni del cuore;

accogli il nostro umile amore,

capace di darTi soltanto

il poco che siamo.

ConvertiTi a noi, Signore,

e noi ci convertiremo a Te,

lasciandoci condurre

dove forse non avremmo voluto,

ma dove Tu ci precedi

e ci attendi,

perforo delle povere storie

della nostra vita

e del nostro dolore

la Tua storia con noi.

Amen. Alleluia.

(Bruno Forte)

La Settimana con don Bosco

2. (Presentazione del Signore) La festa della Candelara “si celebra il due febbraio in onore della presentazione di Gesù Cristo al tempio; così detta dalle candele che in quel giorno si benedicono e si portano in processione” (OE24 396).

3. (S. Ansgario) (S. Biagio) “Pregate san Biagio che vi liberi da tutti i mali di gola materiali e spirituali” (MB8 32). 

4. “Recitiamo cinque Pater alle piaghe di Gesù Cristo, affine di ottenere che niuno di quelli che muoiono in questo giorno vada all’inferno” (OE3 467).

5. (S. Agata) Questa santa vergine “confessò con gran coraggio la fede di Gesù Cristo, e protestò di non conoscere nobiltà più gloriosa, né libertà più vera di quella di essere serva di Gesù Cristo” (OE12 25).

6. (S. Paolo Miki e comp.) “Sarà sempre caro alla memoria dei fedeli il giorno 8 giugno 1862, nel quale 26 eroi della fede, martirizzati nel Giappone, furono innalzati agli onori degli altari” (OE24 358).

7. (B. Pio IX) “Oh Pio IX! Sublime e cara figura di Pontefice! Chi è di noi che dopo essere stato rapito per lo spazio di quasi trentadue anni allo splendore di tue angeliche virtù, possa ora ripetere il venerato tuo nome senza sentirsi tutto commosso nel più profondo del cuore?” (OE30 434).

8. (S. Giuseppina Bakhita) (S. Girolamo Emiliani) “Chi fu che cominciasse a radunare fanciulli poveri ed abbandonati, a dar loro col pane del corpo il pane dell’intelligenza e dell’anima se non un prete cattolico, san Gerolamo Emiliani?” (OE15 450). 

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO

CHIESA, DOVE VAI?

Recensione a cura di don Cesare Bissoli


Greshake Gisbert, Chiesa dove vai? Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica, Queriniana, Brescia 2023, pp. 301, euro 34.

CHIESA, DOVE VAI? È questo titolodi un recente libro del noto teologo tedesco cattolico, Gilbert Greshake che merita un breve approfondimento per capire l’originalità dell’opera. L’Autore ha costantemente mostrato nella sua visione e riflessione teologica una sensibilità pastorale squisita. Le sue opere, tradotte anche in italiano, hanno ricevuto unanime consenso. Tra le più note ricordiamo: il Dio unitrino (2000); La vita più forte della morte. La speranza cristiana (2009); Maria è la Chiesa (2020).

Nel presente volume Greshake riflette sulla Chiesa nell’ attuale situazione allarmante bene espressa dall’interrogativo del titolo Chiesa, dove vai? Badando al resto del titolo, è possibile cogliere anche il taglio originale della risposta espressa nel sottotitolo: Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica.

Il volume ne tratta in quattro parti, ciascuna articolata in diversi punti.

Nell prima parte intitolata Prolegomeni, l’A. presenta la sua visuale globale sintetizzabile così: la Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione. Invece, è necessario chiedersi di ricominciare da capo, guidati da una “real-utopia” ecclesiale in cui la riforma sia orientata “non a preservare il passato tramandatoci, ma immaginare il futuro promesso”. In quest’ottica, l’A. sviluppa un’analisi non superficiale, ma approfondita e aperta alla speranza.

            La seconda parte espone I fattori determinanti l’odierna situazione della Chiesa. Sono proposte tre ragioni a loro volta bene articolate. La prima ragione viene espressa come La fine della cosiddetta “chiesa di popolo”, soffocata tra l’altro da una invadente “clericalizzazione”. Come si può notare, si segnala, come dato negativo, una concezione agli antipodi della “chiesa di popolo” di Papa Francesco. La seconda ragione deprimente è vista nelle Sfide della società secolare e post-secolare che spinge alla dittatura del relativismo circa la verità e i valori della vita. Dall’insieme scaturisce la terza pericolosa ragione affermata come Una concezione ristretta della fede, carente di fondazione biblica ed esposta a “processi di riduzione”. Un breve riepilogo esprime con chiarezza i motivi che fanno pensare al problematico e negativo futuro della Chiesa.

Nella terza parte sono proposte Le linee fondamentali di una forma di chiesa futura. Non sono poche né automaticamente realizzabili. Possiamo parlare di una visione di speranza motivata da una serie di riforme anche radicali (in prospettiva real-utopistica). È interessante conoscere i cinque punti della riforma che l’A. propone come i lineamenti-base della Chiesa del futuro. Eccoli in breve, secondo le parole dell’A.:

– “Essere sacramento” sarà il centro permanente della chiesa futura.

– La Chiesa del futuro sarà una piccola minoranza in rappresentanza di tutte le altre.

– La Chiesa del futuro assumerà un aspetto più “spirituale”, non come “gruppo industriale”, connotando così meglio il futuro della vita consacrata.

– La Chiesa del futuro sarà una chiesa dei laici, riconoscendo il sacerdozio comune di tutti i battezzati e la specificità del ministero sacerdotale.

– La Chiesa del futuro assumerà un’altra forma sociale, con nuove forme comunitarie e parrocchiali e con una diversa incidenza nelle nomine vescovili.

Fa da conclusione una citazione biblica presa dall’ avvenimento dell’esodo: Levate l’accampamento e dirigetevi (Dt 1,19s.). Si vuole così esprimere il “futuro della Chiesa” in una visuale per nulla facile, automatica, ma certamente positiva. Merita, infatti, notare che la parte dedicata alla Chiesa del futuro è due volte tanto la parte precedente dedicata all’odierna situazione della chiesa. Non è un caso che l’A. non usi mai la parola “crisi”, semmai fa risuonare la parola “speranza”. Appare così adombrata la figura del cammino sinodale oggi proposto, che esprime bene il desiderio non tanto nascosto dell’Autore.


Collana: Giornale di teologia 456
ISBN: 978-88-399-3456-7 
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 312
Titolo originale: Kirche wohin? Ein real-utopischer Blick in die Zukunft
© 2023

In breve

«Qui non mi occupo di “leggere il futuro nei fondi di caffè”, di indovinare le condizioni e prevedere la forma ventura della chiesa, di fanstasticare su come essa dovrebbe apparire. L’oggetto a cui mirano le mie riflessioni è, in fondo, il presente della chiesa».

Descrizione

La Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione.
Greshake chiede, invece, di ricominciare da capo, attuando un rinnovamento assolutamente più profondo, radicale, sostanziale. Il teologo tedesco rivendica con fermezza una «real-utopia» ecclesiale, in cui l’agire sia orientato non a preservare il passato tramandatoci, ma a immaginare il futuro promessoci. Egli scopre e fa emergere quelle tendenze che già oggi sono proiettate sul domani, prefigurandolo, ed elabora alcune linee guida di una Chiesa a venire che sia capace di reinventarsi. È la visione di una Chiesa che, in quanto minoranza, prende di nuovo coscienza del suo mandato e della sua forma vitale, una Chiesa dei laici, una Chiesa spirituale con una mutata forma sociale.
Proposte pertinenti, coraggiose, efficaci per affrontare la crisi odierna, senza cedere al pessimismo, ma adottando sempre uno sguardo positivo.

PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Malachia 3,1-4

          Così dice il Signore Dio: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia. Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani».         
  • Malachia, che in ebraico significa «messaggero del Signore», è il profeta che annuncia «il giorno del Signore» (cioè della sua venuta e del suo giudizio di salvezza o di condanna) e che ravviva la speranza messia­nica. Il Messia va atteso con le migliori disposizioni. Il suo avvento e l’incontro con lui vanno preparati. Malachia esprime tutto ciò attraverso le immagini del «preparare la via», del «fuoco» che purifica e «dell’oro e dell’argento affinati».

«Preparare la via» è un tema caro ai profeti. Il secondo Isaia (cc. 40-55) esorta il popolo biblico ad avere fiducia in JHWH, perché egli aprirà a Israele una strada nel deserto per facilitarne il ritorno nella terra promessa dopo l’esilio babilonese. E anche un tema caro ai Vangeli sinottici, che vedono nel Battista colui che «prepara» (con la sua predi­cazione e il suo severo stile di vita) la strada al Messia che viene. Il messaggio di questa immagine è chiaro: per incontrare il Messia occorre convertirsi, cambiare stile di vita, assumere comportamenti e atteggia­menti ispirati alla Parola del Signore, che orienta tutta la vita del cre­dente.

L’immagine del «fuoco» esprime un duplice significato: da una parte esso è il simbolo della presenza di Dio, che illumina e riscalda l’uomo e il suo mondo; dall’altra esprime, con la forza intensa del suo calore, l’incapacità dell’uomo di stare davanti a Dio, quasi venisse respinto dal suo fulgore a motivo della propria indegnità («Chi resisterà al suo ap­parire?»).

L’affinamento dell’oro e dell’argento indica, nel suo simbolismo, il processo di purificazione e di conversione che la Parola di Dio sa operare nel cuore dell’uomo. I peccati, i vizi, le incorrispondenze, le chiusure dell’uomo sono tanti, ma la Parola di Dio come ha la forza di denunciarli, così sa anche eliminarli e annientare come scorie, per far apparire la luminosità dell’uomo che sa vivere secondo Dio.

Il brano si conclude con il richiamo all’«oblazione secondo giusti­zia». Questo è un richiamo frequente nei Profeti. L’uomo che si converte, che prepara la via al Signore, che accoglie il programma di vita a lui offerto dalla Parola di Dio, che agisce per amore e respinge ogni egoismo è veramente in grado di offrire un culto e una preghiera graditi a Dio.

Seconda lettura: Ebrei 2,14-18

      Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.      
  • La lettera agli Ebrei è una intensa omelia che intende rafforzare nei credenti la fiducia verso il Signore Gesù che, nella sua umanità, è stato in tutto solidale con noi, e, nella sua divinità, ha il potere di vincere tutto il male e tutte le angosce del credente. Secondo l’autore di questo scritto il culmine della solidarietà con la condizione dell’uomo si ha nell’accet­tazione, da parte di Gesù, della morte stessa. Ciò lo ha reso «in tutto simile ai fratelli». È con la sua morte, infatti, che Gesù libera anche noi dalla paura della morte, dalla schiavitù di dover morire, perché con la Pasqua essa non è più un non senso o un qualcosa di fatale e ineludibile, ma è superata e trasformata dalla risurrezione.

Secondo l’autore, inoltre, Gesù incarna l’ideale del «sommo sacer­dote». Questa figura, centrale in Israele, trova la sua pienezza in Gesù, perché la sua morte ha espiato il peccato del mondo definitivamente (mentre in Israele l’espiazione con il sangue degli animali e con i loro sacrifici non era in grado di espiare definitivamente) e perché nella sua sola persona di Sacerdote-Crocifisso-Risorto avviene il vero culto gradito a Dio.

I credenti, perciò, devono dare piena fiducia a Cristo Gesù: egli è in tutto solidale con loro e, solamente sapendosi inserire nella sua persona glorificata, è possibile rendere a Dio il culto più gradito e perfetto.

Vangelo: Luca 2,22-40    

         Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
 

Esegesi

Nel suo contesto storico il brano evangelico è da collocare nella tradizione religiosa della famiglia ebraica. Come tutte le madri, anche Maria obbedisce alla prescrizione biblica che imponeva un rito di puri­ficazione, dopo 40 giorni dal parto. Infatti si legge in Lv 12,2-5: «Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà im­monda per sette giorni. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatrè giorni a purificarsi del suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma se partorisce una femmina sarà immonda due settimane… resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue».

Questo rito è da collegare alla mentalità degli antichi, i quali vede­vano nel parto qualcosa che produceva un impedimento (non morale, ma rituale) al culto.

Al rito della purificazione seguiva il riscatto del primogenito. Se­condo la fede biblica il figlio primogenito era ritenuto proprietà di Dio; i genitori lo «riscattavano» con un sacrificio di un agnello o con l’offerta di una coppia di tortore o giovani colombi, se poveri (Lv 12,6.8: «Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote, all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacri­ficio di espiazione. Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espia­torio»). Così potevano considerare il figlio come loro proprietà (Es 13,12- 13: «Tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore… Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i suoi figli»).

Applicato a Gesù il termine «primogenito» (protòtokos in greco; mentre Giovanni usa l’inequivocabile monoghenés, «unigenito») non deve far pensare che Maria abbia avuto altri figli, ma rimanda alla grande considerazione che la tradizione ebraica ha per il figlio che avrebbe continuato il nome dei genitori e garantito l’inserimento della famiglia nella linea delle promesse e delle benedizioni messianiche.

Nel contesto del Vangelo di Luca, questo brano è da leggere alla luce di alcuni temi che caratterizzano il terzo evangelista.

Innanzitutto il tempio. Gesù viene offerto da piccolo nel tempio, anticipando così la sua continua offerta al Padre, compiendone sempre la volontà. Poi Gerusalemme, intesa non tanto come luogo geografico, ma come «luogo» della salvezza definitiva, punto di arrivo del nuovo esodo compiuto da Gesù. Vi è inoltre il tema dello Spirito Santo che, nel Vangelo di Luca e negli Atti, è la guida della storia della salvezza e il vero protagonista dei momenti che più la caratterizzano (come i gesti e le parole di Simeone e Anna). E infine il tema della croce. Il Bambino che entra nel tempio è già il Crocifisso e il Risorto, che addita ai discepoli e a Maria per prima la via della croce, del sacrificio e della rinuncia, per entrare nella vita che nasce dalla Pasqua.

Meditazione

La prima lettura dà uno spunto molto importante per leggere in profondità il mistero della Presentazione al tempio di Gerusalemme del Bambino Gesù, da parte di Maria e Giuseppe, in ossequio ai canoni della Legge di Mosè. Il testo, preso dal libro di Malachia, dice: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate». Dall’insieme dei Vangeli, noi sappiamo bene chi è il Precursore che Dio ha inviato davanti a Sé per preparare la via: è san Giovanni Battista, del quale sappiamo anche che nacque sei mesi prima di Gesù. Mettendo insieme questi dati evangelici, noi comprendiamo le parole di Malachia in questo modo: il Signore Dio preannuncia che verrà tra noi e che, prima di ciò, manderà un Precursore che gli prepari la via. Siccome tra la nascita di Giovanni e di Gesù trascorrono solo sei mesi, è chiaro che nell’oracolo profetico si dica che subito dopo il Precursore, verrà il Signore stesso. Così, subito dopo la venuta del Battista, Dio è entrato nel suo tempio. Ecco quanto è avvenuto nel giorno della Presentazione al tempio di Gesù. Il Dio fatto uomo entra nel tempio, si rende disponibile a coloro che proprio in quel tempio lo cercavano.

Il Vangelo del giorno ci mette davanti diversi personaggi ed avvenimenti e, con ciò stesso, fornisce numerosi insegnamenti e propone temi per l’ulteriore riflessione. Innanzitutto appaiono Maria e Giuseppe, che rispettano i doveri legali prescritti da Mosè. Il loro sacrificio è quello previsto per i poveri: due tortore o due colombi.

Appaiono anche Simeone ed Anna, due venerandi anziani, dediti alla preghiera ed al digiuno, i quali proprio per questo loro spirito fortemente religioso sono capaci di riconoscere il Messia. In questo senso, possiamo vedere nella Presentazione di Gesù al tempio quasi un prolungamento della Giornata pro orantibus, che si celebra nel giorno della Presentazione di Maria (21 novembre), Giornata in cui la Chiesa manifesta la propria gratitudine a tutti coloro che nella Comunità si dedicano in maniera privilegiata al ministero della preghiera, con particolare distinzione per le vocazioni religiose e di vita contemplativa. Anche la Presentazione di Gesù al tempio ci ricorda, nelle figure dei due pii vegliardi, che la preghiera e la contemplazione non sono affatto una perdita di tempo, un ostacolo alla carità. Al contrario, non c’è tempo speso meglio di quello trascorso in preghiera, come non c’è una vera carità cristiana che non sia conseguenza di una solida vita interiore. Solo chi prega e fa penitenza, come Simeone ed Anna, è aperto al soffio dello Spirito: sa riconoscere perciò il Signore in qualunque circostanza Egli si manifesti, perché possiede un più ampio sguardo interiore e impara ad amare con il cuore di Colui il cui nome è Carità!

Infine, il Vangelo valorizza la profezia di Simeone sulla sofferenza di Maria. San Giovanni Paolo II insegna a questo proposito che «quello di Simeone appare come un secondo annuncio a Maria, poiché le indica la concreta dimensione storica nella quale il Figlio compirà la sua missione, cioè nell’incomprensione e nel dolore» (Redemptoris Mater, n. 16). L’annuncio dell’arcangelo era stato fonte di indicibile gioia, perché riguardava la regalità messianica di Gesù e il carattere sovrannaturale del suo concepimento verginale. L’annuncio dell’anziano nel tempio, invece, parla dell’opera della redenzione, che il Signore compirà associando a Sé, nel suo dolore come già nella sua nascita umana, la Madre sua. La dimensione mariana di questa festa è dunque molto forte, motivo per cui nel calendario liturgico della «forma straordinaria» del Rito Romano essa viene indicata come Purificazione della Beata Vergine Maria, dicitura che mette in evidenza l’altro aspetto della Presentazione, consistente nella purificazione rituale delle donne ebree dopo il parto. Nel caso di Maria, tale purificazione, per Lei non necessaria, indica il rinnovamento della sua offerta totale al piano di Dio.

Simeone, nel suo oracolo profetico, annuncia anche che Cristo sarà segno di contraddizione. In una sua omelia (cf. PG 77, 1044-1049), san Cirillo di Alessandria interpreta le parole del santo anziano in questo modo: «Per “segno di contraddizione” intende la nobile croce, come scrive il sapientissimo Paolo: “Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23) […] Ed è segno di contraddizione nel senso che in quelli che si perdono appare come follia, mentre in quelli che riconoscono la sua potenza si rivela salvezza e vita».

La festa della Presentazione nella liturgia attuale

Secondo le indicazioni del Vangelo, allo scadere del quarantesimo giorno dopo Natale, la Chiesa celebra oggi la Festa della Presentazione di Gesù al Tempio. Per molti secoli essa era dedicata alla Purificazione di Maria. Ma la riforma liturgica l’ha ricondotta al suo significato origina­rio, sottolineando l’aspetto cristologico.

Luca racconta: «Quando furono compiuti i giorni della loro purifica­zione, portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore» (Lc 2,22). La legge prescriveva, insieme, la purificazione della donna, che aveva dato alla luce un bambino, e l’offerta del bambino, introducendolo nel Tempio del Signore. Quando si trattava del primogenito, era pre­scritto anche un riscatto, con il versamento di cinque sicli d’argento. In tale circostanza era d’obbligo anche un sacrificio a Dio con l’offerta di un agnello di un anno e di una colomba o una tortora, ovvero, per i più poveri, di due colombe, come fece Maria.

La legge non prescriveva la presenza del Bambino. Nel racconto di Luca, invece, Gesù e sua Madre appaiono strettamente congiunti. Egli unisce ambedue nel rito. Tuttavia, invece di descrivere il rito della puri­ficazione, Luca parla della Presentazione del Bambino Gesù e del gesto compiuto per il suo riscatto.

Questa Presentazione ha un significato liturgico e comporta una offerta sacrificale, che aveva il significato di una consacrazione attraverso uno spogliamento. Dunque con il rito del riscatto e dell’offerta per il sacrificio, Maria presenta Gesù al Tempio in quanto lo offre e lo consacra a Dio, spogliandosi dei suoi diritti di proprietà materna sul Figlio (Thu­rian).

Perciò la purificazione, di cui parla Luca e che interessava non solo Maria, ma anche il Figlio, voleva esprimere non tanto la purificazione da una impurità — di cui Maria non aveva bisogno — ma la donazione a Dio, che assumeva l’aspetto di una offerta sacrificale di Gesù tramite la Madre, e coinvolgeva anche Lei.

Il significato profetico svelato nell’incontro con Simeone

Gli incontri, che Luca descrive in questa circostanza all’interno del Tempio, vogliono proiettare una luce su tutto l’evento. I personaggi intro­dotti nella scena sono Simeone, giusto e timorato ad Dio, a Anna fedele nella sua lunga vedovanza alla memoria del marito e dedita alla pre­ghiera e al digiuno.

Questi due spiriti eletti sono in attesa della «consolazione di Israele e della «redenzione di Gerusalemme», cioè del Messia Salvatore. L’attesa o appuntamento era nel Tempio del Signore. Di lui, infatti, Malachia aveva presagito l’ingresso nel Tempio per purificare i sacrifici dei sacer­doti e rendere gradite le loro offerte «secondo giustizia» (cf. Mal 3,1-4; I Lett.). Simeone ed Anna, benché carichi d’anni, sono anime intatte nella fede e colme di speranza.

Simeone aveva avuto assicurazione «che non avrebbe varcato la morte senza prima avere visto li Messia del Signore». Essi erano dotati del carisma profetico, cioè possedevano lo Spirito in sovrabbondanza, quasi a coronamento di una esistenza intensa e sovrabbondante di pietà.

Proprio nel momento in cui Maria e Giuseppe presentano il Bam­bino Gesù nel Tempio, lo Spirito Santo muoveva loro incontro nella persona del santo Simeone. Egli prende in braccio il Bambino e, grato al Signore, esprime i suoi sentimenti in un breve Cantico per dare un sereno addio alla vita, nella esultanza della meta raggiunta.

Saluta il Sole che sorge all’orizzonte del mondo, pago di vederlo spuntare. Questo Sole era Gesù. Il Bambino, che stringe tra le braccia, è la luce di tutti i popoli e la gloria di Israele che gli ha dato i natali. Egli delinea l’identità di quel Bambino e fa intravvedere la sua missione. Le sue parole sono rivelative di un mistero nascosto. Perciò Maria e Giu­seppe restano impressionati e stupiti.

La meraviglia cresce quando Simeone si rivolge in particolare alla Madre per predirgli la sorte del Figlio. Dice: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).

Gesù è pietra di contraddizione, al cui urto «i pensieri di molti cuori saranno rivelati». Dinanzi a Cristo, cioè, gli uomini dovranno prendere posizione, con Lui o contro di Lui: per chi lo respinge, diventa pietra di inciampo e di rovinosa caduta; per chi lo accoglie, diventa sostegno e principio di salvezza e di vita.

Le parole del profeta, a questo punto, diventano significative e am­monitrici anche per noi. La presenza di Cristo impegna l’uomo in ma­niera decisiva. Non si può rimanere indifferenti o neutrali. Il dono viene offerto, ma non imposto. Ognuno deve decidersi, andando incontro alle inevitabili conseguenze di tale accoglienza o rifiuto. Gesù è segno di contraddizione in quanto oggetto di contraddizione, cioè infinitamente amato, ovvero infinitamente odiato. Simeone annuncia profeticamente un futuro di opposizione e quindi di sofferenza e di morte. In ciò è coinvolta anche la Madre «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35).

Così, fin dagli inizi della sua esistenza, è delineato il dramma salvi­fico del futuro doloroso e glorioso di Cristo. Maria è presente e ne partecipa.

Il nostro coinvolgimento al dramma salvifico di Cristo

La festa odierna si pone tra il Natale e la Pasqua, e vuole farci comprendere il senso della sua venuta tra noi. Egli viene ed è ricono­sciuto e accolto. A riconoscerlo sono Simeone e Anna, e i loro cuori esultano di gioia. In questi due personaggi ci siamo tutti noi e la gioia di tutta la Chiesa. Ma l’incontro con Cristo non è ancora definitivo. La vita del cristiano è un itinerario salvifico in cui si operano continuamente altri incontri. Essi avvengono nella nostra storia e vicenda umana, nella quale la presenza del peccato non è mai completamente superata. Perciò la venuta del Signore fa esplodere le contraddizioni della nostra esistenza cristiana.

Il Signore è luce e rivela in profondità le nostre situazioni, facendo emergere le nostre concessioni al male e svelando i nostri continui com­promessi e ambiguità. Perciò le contraddizioni si nascondono nella nostra vita e noi rimaniamo delusi e spesso irritati. Le cose non vanno come noi ci attendiamo e gli uomini ci deludono. Siamo, quindi, portati a formu­lare giudizi di condanna contro la vita; diciamo che essa non è giusta e ci rammarichiamo di tutto. Questo giudizio coinvolge Dio, la religione, la fede, Cristo. Vi proiettiamo le contraddizioni e le incoerenze nella vita cristiana di cui facciamo esperienza.

Difronte alla confusione, alle difficoltà e alle ambiguità del nostro esistere, si svelano allora i nostri segreti pensieri. In effetti, se noi ci lasciassimo portare da Cristo, la fede rimarrebbe una forza che ci con­sentirebbe di accettare e di sperare oltre le nostre vedute umane. Ci accorgeremmo, allora, che il torto risiede in noi; e questo perché siamo miopi, interessati, egoisti … Ci manca lo Spirito del Signore e la decisione necessaria per dire un sì totale a Cristo e consegnarci a Lui nell’atteggia­mento di fiducia incondizionata che salva e rinnova.

La giornata delle anime consacrate

La festa della Presentazione è la giornata delle anime consacrate, cioè di coloro che hanno avuta una vocazione particolare nella sequela del Signore. Affascinate dalla sua luce, sono andate incontro a Lui tenendo in mano la fiaccola vibrante della fede, e hanno varcato la soglia del Tempio, accompagnando Gesù a distanza ravvicinata per vivere identifi­cati a Lui, in un totale e irrevocabile consacrazione. Esse si sono impe­gnate, in maniera originale, a donarsi al suo amore e all’amore dei fra­telli.

Don Bosco commenta il Vangelo

Presentazione di Gesù al tempio

Don Bosco raccomanda di offrire i figli a Dio

Nel quarto mistero gaudioso del rosario, insegna il Giovane provveduto, “si contempla come la Vergine Santa presentò Cristo Nostro Signore nel tempio nelle braccia del vecchio Simeone” (OE2 289). Con più dettagli e spiegazioni l’evento della Presentazione viene narrato nella Vita di S. Giuseppe:

Avvicinavasi il quarantesimo giorno dalla nascita del Santo Bambino. La legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito venisse portato al tempio per essere offerto a Dio e quindi consacrato, e per essere purificata la madre. Giuseppe in compagnia di Gesù e di Maria moveva verso Gerusalemme per compiere la prescritta cerimonia. Offrì due tortorelle in sacrificio e pagò cinque sicli d’argento (OE17 324s).

Accettando di consegnare il Bambino nelle braccia di Simeone, Maria manifesta la sua intenzione di offrirlo a Colui a cui il Bambino appartiene. È quella l’interpretazione che don Bosco suggerisce quando scrive nella Storia ecclesiastica: “Toccando Gesù i quaranta giorni, fu da Maria presentato nel tempio fra le braccia del vecchio Simeone” (OE1 181). Simeone lo accolse e benedisse Dio.

Nella Storia sacra, don Bosco mette in evidenza l’immensa gioia di Simeone nel ricevere Gesù tra le braccia: “Come lo ebbe tra le braccia provò tale piena di gioia che esclamò: Ora lascia, o Signore, che il tuo servo se ne muora in pace, poiché i miei occhi hanno veduto il Salvatore da te inviato” (OE3 161).

Giuseppe e Maria sono un modello per i genitori che vogliono offrire i loro figli a Dio. Nel Cattolico provveduto troviamo questa “preghiera di un padre e di una madre pei loro figlioli”:

Io vi ringrazio, Dio mio, di avermi concesso dei figliuoli, affinché siano l’appoggio e la consolazione della mia vecchiaia. Santificate, o Signore, l’amore che loro io porto, concedendomi la grazia di non amarli che in Voi e per Voi, cioè unicamente in riguardo all’eterna loro salute.

Io ve li presento adunque e ve li offro come la santa Vergine già offrì nel tempio il suo amatissimo Figlio Gesù, sottomettendosi interamente alla vostra volontà adorabile a riguardo di lui.

Come lei sottometto io pure il cuor mio a tutti gli ordini della divina Provvidenza sopra di loro, pregandovi di benedirli, di versare sopra del loro capo ogni più squisito favore.

Disponeteli, o Signore, secondo lo stato, a cui nella vostra sapienza e misericordia infinita li avete destinati per la loro salute. Voi siete il loro primo principio, voi l’ultimo loro fine; ordinate di loro come vi piace.

Io mi sottopongo ad ogni sacrificio, a qualsiasi pena, purché si procacci il loro bene. Io non vi domando per essi grandi beni di fortuna; solamente se osassi chiedervi qualche cosa per loro vita temporale, vi domanderei ad esempio di Salomone una modesta facoltà, che li preservasse dai pericoli della ricchezza, e da quelli della miseria.

Quello poi che per essi specialmente vi chiedo, o Dio mio, è il vostro regno, la vostra giustizia.

Conservate la loro anima in tutta la bellezza di cui l’avete adorna nel santo battesimo; vegliate sopra di essi a fine di preservarli dai pericoli, ai quali viene esposta la loro innocenza; proteggeteli contro i funesti esempi e massime del mondo; conservateli sempre nella vostra grazia, nella vostra amicizia.

Non permettete, o mio Signore, che le mie azioni smentiscano questa mia preghiera (OE19 623s).

Anche Margherita, la madre di Giovanni Bosco, ha compiuto un gesto simile. Prima della sua partenza per il seminario fece al figlio un “memorando discorso” nel quale disse al figlio: “Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine” (MO 103).

Dopo aver raccontato il sogno che aveva avuto verso le nove anni, Margherita sembrava aver già intuito il futuro del figlio che aveva consacrato alla nascita. Infatti, mentre gli altri membri della famiglia davano la loro interpretazione, ella disse quasi con tono profetico: “Chi sa che non abbi a diventar prete” (MO 63). Per don Bosco, essere sacerdote voleva dire essere al servizio di Dio e della Chiesa, nuovo tempio di Dio.

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

Immagine della domenica

COLONNATO DI SAN PIETRO (ROMA)    –    2020   

«Dobbiamo stare disinteressatamente tra gli uomini,

per poter accendere per essi una luce.

Dobbiamo diventare ancora molto più silenziosi

in mezzo al frastuono generale, per poter scoprire

coloro che sono disposti ad ascoltare».

(J. Wanke, Communio un Missio, 23)


Casella di testo: Malachia 3,1-4
Ebrei 2,14-18
Luca 2,22-40   

Nel Vangelo l’evangelista Luca descrive un duplice atteggiamento: atteggiamento di movimento e atteggiamento di stupore.
Il primo atteggiamento è il movimento. Maria e Giuseppe si incamminano verso Gerusalemme; da parte sua, Simeone, mosso dallo Spirito, si reca al tempio, mentre Anna serve Dio giorno e notte senza sosta. In questo modo i quattro protagonisti del brano evangelico ci mostrano che la vita cristiana richiede dinamismo e richiede disponibilità a camminare, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo. L’immobilismo non si addice alla testimonianza cristiana e alla missione della Chiesa. Il mondo ha bisogno di cristiani che si lasciano smuovere, che non si stancano di camminare per le strade della vita, per recare a tutti la consolante parola di Gesù. 

Il secondo atteggiamento con cui San Luca presenta i quattro personaggi del racconto è lo stupore. Maria e Giuseppe «si stupivano delle cose che si dicevano di lui [di Gesù]» (v. 33). Lo stupore è una reazione esplicita anche del vecchio Simeone, che nel Bambino Gesù vede con i suoi occhi la salvezza operata da Dio in favore del suo popolo: quella salvezza che lui aspettava da anni. E la stessa cosa vale per Anna, che «si mise anche lei a lodare Dio» (v. 38) e ad andare ad indicare alla gente Gesù. Questa è una santa chiacchierona, chiacchierava bene, chiacchierava di cose buone, non cose brutte. Diceva, annunciava: una santa che andava da una all’altra donna facendo loro vedere Gesù. Queste figure di credenti sono avvolte dallo stupore, perché si sono lasciate catturare e coinvolgere dagli avvenimenti che accadevano sotto i loro occhi. La capacità di stupirsi delle cose che ci circondano favorisce l’esperienza religiosa e rende fecondo l’incontro con il Signore. Al contrario, l’incapacità di stupirci rende indifferenti e allarga le distanze tra il cammino di fede e la vita di ogni giorno. Fratelli e sorelle, in movimento sempre e lasciandoci aperti allo stupore!
(Papa Francesco)

Preghiere e racconti

La Presentazione del Signore e la Giornata mondiale della vita consacrata

Teniamo davanti agli occhi della mente l’icona della Madre Maria che cammina col Bambino Gesù in braccio. Lo introduce nel tempio, lo introduce nel popolo, lo porta ad incontrare il suo popolo. Le braccia della Madre sono come la “scala” sulla quale il Figlio di Dio scende verso di noi, la scala dell’accondiscendenza di Dio. Lo abbiamo ascoltato nella prima Lettura, dalla Lettera agli Ebrei: Cristo si è reso «in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (2,17). E’ la duplice via di Gesù: Egli è sceso, si è fatto come noi, per ascendere al Padre insieme con noi, facendoci come Lui.

Possiamo contemplare nel cuore questo movimento immaginando la scena evangelica di Maria che entra nel tempio con il Bambino in braccio. La Madonna cammina, ma è il Figlio che cammina prima di Lei. Lei lo porta, ma è Lui che porta Lei in questo cammino di Dio che viene a noi affinché noi possiamo andare a Lui.

Gesù ha fatto la nostra stessa strada per indicare a noi il cammino nuovo, cioè la “via nuova e vivente” (cfr Eb 10,20) che è Lui stesso. E per noi, consacrati, questa è l’unica strada che, in concreto e senza alternative, dobbiamo percorrere con gioia e perseveranza.

Il Vangelo insiste ben cinque volte sull’obbedienza di Maria e Giuseppe alla “Legge del Signore” (cfr Lc 2,22. 23. 24. 27. 39). Gesù non è venuto a fare la sua volontà, ma la volontà del Padre; e questo – ha detto – era il suo “cibo” (cfr Gv 4, 34). Così chi segue Gesù si mette nella via dell’obbedienza, imitando l’“accondiscendenza” del Signore; abbassandosi e facendo propria la volontà del Padre, anche fino all’annientamento e all’umiliazione di sé stesso (cfr Fil 2,7-8). Per un religioso, progredire significa abbassarsi nel servizio, cioè fare lo stesso cammino di Gesù, che «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2,6). Abbassarsi facendosi servo per servire.

E questa via prende la forma della regola, improntata al carisma del fondatore, senza dimenticare che la regola insostituibile, per tutti, è sempre il Vangelo. Lo Spirito Santo, poi, nella sua creatività infinita, lo traduce anche nelle diverse regole di vita consacrata che nascono tutte dalla sequela Christi, e cioè da questo cammino di abbassarsi servendo.

Attraverso questa “legge” i consacrati possono raggiungere la sapienza, che non è un’attitudine astratta ma è opera e dono dello Spirito Santo. E segno evidente di tale sapienza è la gioia. Sì, la letizia evangelica del religioso è conseguenza del cammino di abbassamento con Gesù… E, quando siamo tristi, ci farà bene domandarci: “Come stiamo vivendo questa dimensione kenotica?”.

Nel racconto della Presentazione di Gesù al Tempio la sapienza è rappresentata dai due anziani, Simeone e Anna: persone docili allo Spirito Santo (lo si nomina 3 volte), guidati da Lui, animati da Lui. Il Signore ha dato loro la sapienza attraverso un lungo cammino nella via dell’obbedienza alla sua legge. Obbedienza che, da una parte, umilia e annienta, però, dall’altra accende e custodisce la speranza, facendoli creativi, perché erano pieni di Spirito Santo. Essi celebrano anche una sorta di liturgia attorno al Bambino che entra nel Tempio: Simeone loda il Signore e Anna “predica” la salvezza (cfr Lc 2,28-32.38).

Come nel caso di Maria, anche l’anziano Simeone prende il bambino tra le sue braccia, ma, in realtà, è il bambino che lo afferra e lo conduce. La liturgia dei primi Vespri della Festa odierna lo esprime in modo chiaro e bello: «senex puerum portabat, puer autem senem regebat». Tanto Maria, giovane madre, quanto Simeone, anziano “nonno”, portano il bambino in braccio, ma è il bambino stesso che li conduce entrambi.

È curioso notare che in questa vicenda i creativi non sono i giovani, ma gli anziani. I giovani, come Maria e Giuseppe, seguono la legge del Signore sulla via dell’obbedienza; gli anziani, come Simeone e Anna, vedono nel bambino il compimento della Legge e delle promesse di Dio. E sono capaci di fare festa: sono creativi nella gioia, nella saggezza. Tuttavia, il Signore trasforma l’obbedienza in sapienza, con l’azione del suo Santo Spirito.

A volte Dio può elargire il dono della sapienza anche a un giovane inesperto, basta che sia disponibile a percorrere la via dell’obbedienza e della docilità allo Spirito. Questa obbedienza e questa docilità non sono un fatto teorico, ma sottostanno alla logica dell’incarnazione del Verbo: docilità e obbedienza a un fondatore, docilità e obbedienza a una regola concreta, docilità e obbedienza a un superiore, docilità e obbedienza alla Chiesa. Si tratta di docilità e obbedienza concrete.

Attraverso il cammino perseverante nell’obbedienza, matura la sapienza personale e comunitaria, e così diventa possibile anche rapportare le regole ai tempi: il vero “aggiornamento”, infatti, è opera della sapienza, forgiata nella docilità e obbedienza. Il rinvigorimento e il rinnovamento della vita consacrata avvengono attraverso un amore grande alla regola, e anche attraverso la capacità di contemplare e ascoltare gli anziani della Congregazione. Così il “deposito”, il carisma di ogni famiglia religiosa viene custodito insieme dall’obbedienza e dalla saggezza.

E, attraverso questo cammino, siamo preservati dal vivere la nostra consacrazione in maniera light, in maniera disincarnata, come fosse una gnosi, che ridurrebbe la vita religiosa ad una “caricatura”, una caricatura nella quale si attua una sequela senza rinuncia, una preghiera senza incontro, una vita fraterna senza comunione, un’obbedienza senza fiducia e una carità senza trascendenza.

Anche noi, oggi, come Maria e come Simeone, vogliamo prendere in braccio Gesù perché Egli incontri il suo popolo, e certamente lo otterremo soltanto se ci lasciamo afferrare dal mistero di Cristo. Guidiamo il popolo a Gesù lasciandoci a nostra volta guidare da Lui. Questo è ciò che dobbiamo essere: guide guidate.

Il Signore, per intercessione di Maria nostra Madre, di San Giuseppe e dei Santi Simeone e Anna, ci conceda quanto gli abbiamo domandato nell’Orazione di Colletta: di «essere presentati [a Lui] pienamente rinnovati nello spirito». Così sia.

(Papa Francesco, Omelia, 2015).

Presentazione del Signore

Quaranta giorni dopo Natale celebriamo il Signore che, entrando nel tempio, va incontro al suo popolo. Nell’Oriente cristiano questa festa è detta proprio “Festa dell’incontro”: è l’incontro tra il Dio bambino, che porta novità, e l’umanità in attesa, rappresentata dagli anziani nel tempio. Nel tempio avviene anche un altro incontro, quello tra due coppie: da una parte i giovani Maria e Giuseppe, dall’altra gli anziani Simeone e Anna.

Gli anziani ricevono dai giovani, i giovani attingono dagli anziani. Maria e Giuseppe trovano infatti nel tempio le radici del popolo, ed è importante, perché la promessa di Dio non si realizza individualmente e in un colpo solo, ma insieme e lungo la storia. E trovano pure le radici della fede, perché la fede non è una nozione da imparare su un libro, ma l’arte di vivere con Dio, che si apprende dall’esperienza di chi ci ha preceduto nel cammino.

Così i due giovani, incontrando gli anziani, trovano sé stessi. E i due anziani, verso la fine dei loro giorni, ricevono Gesù, senso della loro vita. Questo episodio compie così la profezia di Gioele: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). In quell’incontro i giovani vedono la loro missione e gli anziani realizzano i loro sogni. Tutto questo perché al centro dell’incontro c’è Gesù.

Guardiamo a noi, cari fratelli e sorelle consacrati. Tutto è cominciato dall’incontro col Signore. Da un incontro e da una chiamata è nato il cammino di consacrazione. Bisogna farne memoria. E se faremo bene memoria vedremo che in quell’incontro non eravamo soli con Gesù: c’era anche il popolo di Dio, la Chiesa, giovani e anziani, come nel Vangelo.

Lì c’è un particolare interessante: mentre i giovani Maria e Giuseppe osservano fedelmente le prescrizioni della Legge – il Vangelo lo dice quattro volte – e non parlano mai, gli anziani Simeone e Anna accorrono e profetizzano. Sembrerebbe dover essere il contrario: in genere sono i giovani a parlare con slancio del futuro, mentre gli anziani custodiscono il passato.

Nel Vangelo accade l’inverso, perché quando ci si incontra nel Signore arrivano puntuali le sorprese di Dio. Per lasciare che accadano nella vita consacrata è bene ricordare che non si può rinnovare l’incontro col Signore senza l’altro: mai lasciare indietro, mai fare scarti generazionali, ma accompagnarsi ogni giorno, col Signore al centro. Perché se i giovani sono chiamati ad aprire nuove porte, gli anziani hanno le chiavi.

E la giovinezza di un istituto sta nell’andare alle radici, ascoltando gli anziani. Non c’è avvenire senza questo incontro tra anziani e giovani; non c’è crescita senza radici e non c’è fioritura senza germogli nuovi. Mai profezia senza memoria, mai memoria senza profezia; e sempre incontrarsi. La vita frenetica di oggi induce a chiudere tante porte all’incontro, spesso per paura dell’altro – sempre aperte rimangono le porte dei centri commerciali e le connessioni di rete –; ma nella vita consacrata non sia così: il fratello e la sorella che Dio mi dà sono parte della mia storia, sono doni da custodire.

Non accada di guardare lo schermo del cellulare più degli occhi del fratello, o di fissarci sui nostri programmi più che nel Signore. Perché quando si mettono al centro i progetti, le tecniche e le strutture, la vita consacrata smette di attrarre e non comunica più; non fiorisce perché dimentica “quello che ha di sotterrato”, cioè le radici.

La vita consacrata nasce e rinasce dall’incontro con Gesù così com’è: povero, casto e obbediente. C’è un doppio binario su cui viaggia: da una parte l’iniziativa d’amore di Dio, da cui tutto parte e a cui dobbiamo sempre tornare; dall’altra la nostra risposta, che è di vero amore quando è senza se e senza ma, quando imita Gesù povero, casto e obbediente. Così, mentre la vita del mondo cerca di accaparrare, la vita consacrata lascia le ricchezze che passano per abbracciare Colui che resta.

La vita del mondo insegue i piaceri e le voglie dell’io, la vita consacrata libera l’affetto da ogni possesso per amare pienamente Dio e gli altri. La vita del mondo s’impunta per fare ciò che vuole, la vita consacrata sceglie l’obbedienza umile come libertà più grande. E mentre la vita del mondo lascia presto vuote le mani e il cuore, la vita secondo Gesù riempie di pace fino alla fine, come nel Vangelo, dove gli anziani arrivano felici al tramonto della vita, con il Signore tra le mani e la gioia nel cuore.

Quanto ci fa bene, come Simeone, tenere il Signore «tra le braccia» (Lc 2,28)! Non solo nella testa e nel cuore, ma tra le mani, in ogni cosa che facciamo: nella preghiera, al lavoro, a tavola, al telefono, a scuola, coi poveri, ovunque. Avere il Signore tra le mani è l’antidoto al misticismo isolato e all’attivismo sfrenato, perché l’incontro reale con Gesù raddrizza sia i sentimentalisti devoti che i faccendieri frenetici.

Vivere l’incontro con Gesù è anche il rimedio alla paralisi della normalità, è aprirsi al quotidiano scompiglio della grazia. Lasciarsi incontrare da Gesù, far incontrare Gesù: è il segreto per mantenere viva la fiamma della vita spirituale. È il modo per non farsi risucchiare in una vita asfittica, dove le lamentele, l’amarezza e le inevitabili delusioni hanno la meglio.

Incontrarsi in Gesù come fratelli e sorelle, giovani e anziani, per superare la sterile retorica dei “bei tempi passati” – quella nostalgia che uccide l’anima –, per mettere a tacere il “qui non va più bene niente”. Se si incontrano ogni giorno Gesù e i fratelli, il cuore non si polarizza verso il passato o verso il futuro, ma vive l’oggi di Dio in pace con tutti.

Alla fine dei Vangeli c’è un altro incontro con Gesù che può ispirare la vita consacrata: quello delle donne al sepolcro. Erano andate a incontrare un morto, il loro cammino sembrava inutile. Anche voi andate nel mondo controcorrente: la vita del mondo facilmente rigetta la povertà, la castità e l’obbedienza. Ma, come quelle donne, andate avanti, nonostante le preoccupazioni per le pesanti pietre da rimuovere (cfr Mc 16,3).

E come quelle donne, per primi incontrate il Signore risorto e vivo, lo stringete a voi (cfr Mt 28,9) e lo annunciate subito ai fratelli, con gli occhi che brillano di gioia grande (cfr v. 8). Siete così l’alba perenne della Chiesa: voi, consacrati e consacrate, siete l’alba perenne della Chiesa! Vi auguro di ravvivare oggi stesso l’incontro con Gesù, camminando insieme verso di Lui: e questo darà luce ai vostri occhi e vigore ai vostri passi.

(Omelia di Papa Francesco per la Festa della presentazione del signore nella XXII Giornata mondiale della vita consacrata, tenutasi presso la Basilica Vaticana, venerdì 2 febbraio 2018).

«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace»

Spiegando il senso della presentazione del Signore al tempio, S. Am­brogio (t 397) intende mettere in risalto il coinvolgimento universale del­l’umanità agli eventi dell’infanzia, per affermare che nessuno è escluso dai disegni salvifici di Dio. La figura dell’anziano Simeone e le parole che egli dice esprimono, per Ambrogio, il carattere decisivo che assume, per ogni uomo, il suo incontro col Cristo.

«La nascita del Signore non è attestata soltanto dagli angeli e dai profeti, dai pastori e dai familiari, ma anche dagli anziani e dai giusti. Tutte le età, tutt’e due i sessi, e i prodigi avvenuti ne fanno fede: una vergine diventa feconda, una sterile partorisce, un muto si mette a par­lare, Elisabetta profetizza, i magi si prostrano in adorazione, un bimbo esulta benché chiuso nel grembo, una vedova loda Dio, un giusto attende. A ragione è chiamato giusto, perché desiderava non la propria, bensì la salvezza del popolo, e, pur anelando di esser liberato dai vincoli del suo fragile corpo, aspettava di vedere il Promesso; sapeva infatti che beati sarebbero stati gli occhi, che l’avrebbero visto.

Ed esclama: «Ora lascia pure andare il tuo servo» (Lc 2,29).

Guarda questo giusto, che vedendosi rinchiuso nel carcere della terrena gravezza, desidera di partire per cominciare a essere con Cristo; «è assai meglio», infatti, «partire e essere con Cristo» (Fil 1,23). Ma chi desidera di essere lasciato andare, venga al tempio, venga in Gerusa­lemme, attenda l’Unto del Signore, prenda tra le sue mani il Verbo di Dio, lo stringa con le braccia della sua fede. Allora sarà lasciato andare, affinché, avendo veduto la vita, non veda mai più la morte.

Osserva che alla nascita del Signore si diffonde una grazia copiosa su ogni persona, mentre il dono della profezia è negato non ai giusti, ma solo a chi non ha fede. E anche Simeone profetizza che il Signore Gesù Cristo è venuto a caduta e a risurrezione di molti (cf. Lc 2,34), per vagliare i meriti dei giusti e degli iniqui, e, in qualità di giudice giusto verace, decretate la punizione o il premio, a seconda delle nostre azioni».

(Expositio in Lucam, L. II, 58-60; trad. it. di G. COPPA, Opere di Sant’Ambrogio, «Classici delle Religioni», Torino, Utet, 1969, 469-70).

La presentazione al Tempio

Certo le porte al vostro incedere

si sono aperte vibrando da sole

e strana luce si accese sugli archi:

il tempio stesso pareva più grande!

Quando si mise a cantare il vegliardo,

a salutare felice la vita,

la lunga vita che ardeva in attesa;

e anche la donna più annosa cantava!

Erano l’anima stessa di Sion

del giusto Israele mai stanco di attendere.

E lui beato che ha visto la luce

se pure in lotta già contro le tenebre.

Oh, le parole che disse, o Madre,

solo a te il profeta le disse!

Così ti chiese il cielo impaziente

pure la gioia di essergli madre.

Nemmeno tu puoi svelare, Maria,

cosa portavi nel puro tuo grembo:

or la Scrittura comincia a svelarsi

e a prender forma la storia del mondo.

(David Maria Turoldo)

La presentazione di Gesù al tempio di Giovanni Bellini

 La presentazione di Gesù al tempio dove il volto della Vergine, ritratto nella pena del primo distacco dal figlio, è semplicemente sublime.

Il veneziano Giambellino, come lo chiamavano, nato intorno al 1438 e morto nel 1516, era notissimo già al tempo suo come il “pittore delle Madonne”. Tante ne dipinse, su ispirazione o su committenza, e in tutte colpisce l’intreccio delle mani di Maria con le manine del bambino, l’eterno gioco tra madre e figlio.

Ma nella Presentazione il gioco non c’è più, il bambino sta stretto dentro le fasce come una piccola mummia, spunta solo una parte della manina che non riesce più a muoversi in cerca della madre. Maria lo stringe a sé come se non volesse lasciarlo, mentre altre mani lo stanno prendendo e sono quelle del barbuto Simeone, tra gli sguardi muti delle figure sullo sfondo.

La scena sconvolge per la sacralità e il presagio della passione. La si osserva commossi, ci si allontana a guardare altri quadri, poi si torna indietro cercando di capirla meglio e ammirarla una volta di più. Di ritorno a casa, si va a rileggere il passo del Vangelo (Lc 2,22-35) che l’ha ispirata.

L’evangelista Luca racconta che Maria e Giuseppe si recarono al tempio di Gerusalemme per l’offerta del neonato e la purificazione della madre, secondo la legge di Mosè: «Ora, c’era in Gerusalemme un uomo chiamato Simeone: era un uomo giusto e pio… Anzi, dallo Spirito Santo gli era stato rivelato che non sarebbe morto prima d’aver visto il Cristo del Signore. Andò dunque al tempio, mosso dallo Spirito; e mentre i genitori portavano il bambino Gesù, egli lo prese tra le braccia e benedì Dio dicendo:

“Ora, o Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”…».

Il vecchio Simeone riconosce in Gesù il Salvatore. Poi unisce nella stessa profezia il figlio e la madre, dicendo a Maria: «Ecco, egli è posto come segno di contraddizione, sicché una spada trapasserà la tua anima».

Molti grandi pittori hanno raffigurato l’episodio della presentazione al tempio. Nell’affresco di Giotto, Simeone ha già in braccio il bambino, mentre la madre tende le mani come per riprenderselo, timorosa di affidare ad altri la sua creatura. Andrea Mantegna, che era il cognato di Giovanni Bellini, aveva dipinto le stesse figure centrali, ma diversi i personaggi che osservano. Nell’arte di Bellini, una luce gentile accarezza i volti, la timidezza pensosa dei gesti esprime il dialogo tra la terra e il cielo. Ma la scena è illuminata soprattutto dalla bellezza di Maria, capolavoro assoluto del “pittore delle Madonne”. Ha scritto Paolo VI: «Con Maria, ci viene aperta una duplice via: la via della verità che riguarda la sua collocazione nei misteri di Cristo e della Chiesa. E una via più accessibile, anche agli umili. La definiamo la via della bellezza». 

Franca Zambonini, Il pittore delle madonne e la bellezza di Maria, in «Famiglia cristiana» (2008) 52, 130.

La Settimana con don Bosco

26 gennaio-1º febbraio

26. (Ss. Timoteo e Tito) – Timoteo fu il “ca-ro discepolo” di san Paolo (OE21 198). – Tito divenne “un modello di virtù, fedele seguace e coadiutore del nostro santo Apostolo” (OE9 201).

27. (S. Angela Merici) – Don Bosco “volle che il primo Oratorio festivo, aperto nel 1876 in Torino dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, fosse intitolato a sant’Angela Merici” (MB10 589).

28. (S. Tommaso d’Aquino) – “Sapeva sì ben nascondere l’ingegno, che il suo silenzio passava per istolidezza, e dai suoi condiscepoli egli veniva nominato il bue muto” (OE24 238s).

29. “La fede senza opere vale a niente; fac-ciamo dunque opere di fede” (OE3 340s).

30. (B. Bronislao Markiewicz) – “Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la nostra Società” (MB10 102).

31. (S. GIOVANNI BOSCO) – “Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate gio-vani perché io vi ami assai” (OE2 187).

Febbraio

 1. (Commemorazione di tutti i Confratelli salesiani defunti) – “Ogni anno il giorno dopo la festa di san Francesco di Sales tutti i sacerdoti celebreranno una Messa pei soci defunti” (OE27 89).

(Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sussidio per il Giubileo

Per la Domenica della Parola di Dio, che si celebra il 26 gennaio, l’Ufficio Catechistico, tramite il Servizio dell’Apostolato Biblico, l’Ufficio Liturgico, l’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro e l’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto hanno preparato un Sussidio per aiutare le comunità diocesane e parrocchiali a celebrare, riflettere e pregare su un tema che solo apparentemente riguarda il passato: il Giubileo.
L’obiettivo, sottolinea nella presentazione Mons. Giuseppe Baturi, Arcivescovo di Cagliari e Segretario Generale della CEI, è “riscoprire nella meditazione della Parola di Dio il senso della libertà biblica e il fondamento solido della speranza che non delude”. “La parola d’ordine, che emerge anche dai testi di questo Sussidio, è libertà”, aggiunge Mons. Baturi evidenziando che “vari sono i soggetti che devono beneficiare di una rinnovata e forse insperata libertà nel tempo giubilare”. “Anzitutto – spiega – le persone: se qualcuno per varie ragioni è caduto in disgrazia ed è diventato schiavo, non deve restare tale per sempre. Viene il tempo in cui recuperare lo status di persona libera. Nessun errore o sciagura del passato sono da considerarsi definitivi. Ma anche la terra deve essere affrancata da ogni potenziale sfruttamento intensivo: astenersi periodicamente dalla semina significa allora ricordare ai proprietari terrieri che la terra è un dono di Dio e come tale va trattata”. Ecco allora che il Giubileo può essere “un tempo speciale, in cui porre gesti concreti di speranza per un futuro nuovo, rispettoso della dignità di tutte le creature di Dio, affrancato dalla schiavitù delle cose materiali e aperto al trascendente”.
Il Sussidio si compone di uno schema per l’animazione liturgica della Domenica della Parola, della proposta di testi biblici e di documenti magisteriali a cui si aggiungono testi teologici e opere d’arte che possono sostenere la riflessione e l’approfondimento.

21 Gennaio 2025

2025: A.I. confini della comunicazione

“2025: A.I. confini della comunicazione” è il titolo del Convegno organizzato dall’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, che si terrà dal 23 al 26 gennaio a Roma.

L’evento si aprirà con due sessioni tematiche specifiche per poi intersecarsi con il programma ufficiale del Giubileo del mondo della comunicazione. Si inizia giovedì alle 15.30 con il saluto di mons. Domenico Pompili, presidente della Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, e l’introduzione di Vincenzo Corrado, Direttore dell’Ufficio. Alle 16 è prevista la riflessione di Maria Chiara Carrozza, presidente del CNR, su “Intelligenza artificiale, informazione e comunicazione”, mentre alle 18 sarà Mariagrazia Fanchi, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore a soffermarsi su “Le sfide della comunicazione oggi”.
Venerdì 24 gennaio, alle 9.30 Alessandro Gisotti, vicedirettore della Direzione Editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, offrirà ai partecipanti una lettura del Magistero pontificio legato ai temi della comunicazione. Alle 10, Antonio Preziosi, direttore del Tg2, interverrà su “Il senso del limite”, mentre alle 10.30 Marco Ferrando, direttore delle testate del Master in giornalismo dell’Università di Torino, e Celeste Satta, del medesimo Ateneo, rifletteranno su “meno prodotti, più processi”. Alle 11.45 è in programma un dialogo con Marco Girardo, direttore di Avvenire, Vincenzo Morgante, direttore di Tv2000-inBlu2000, e Amerigo Vecchiarelli, direttore dell’Agenzia Sir.
Nel pomeriggio l’appuntamento è nella Basilica di San Giovanni in Laterano per la Messa internazionale in occasione della festa di San Francesco di Sales. La giornata di sabato 25 è dedicata al Pellegrinaggio alla Porta Santa di San Pietro e all’incontro culturale in Aula Paolo VI con Maria Ressa e Colum McCann (moderato da Mario Calabresi), seguito dall’esibizione del Maestro Uto Ughi. Alle 12.30, gli operatori della comunicazione arrivati da tutto il mondo saranno ricevuti in udienza da Papa Francesco, sempre in Aula Paolo VI.
Alle 15, nell’ambito dei “Dialoghi con la città” organizzati per il Giubileo, il Card. Matteo Zuppi, Presidente della CEI, dialogherà con Ferruccio De Bortoli, giornalista e saggista, sul tema: “Comunicare speranza e pace” (Basilica di Santa Maria in Trastevere). Il tutto si concluderà il 26 gennaio con la Messa della Domenica della Parola presieduta dal Papa nella Basilica di San Pietro.


“Nel sentire comune, i confini vengono solitamente intesi come linee di delimitazione di un territorio, di una proprietà oppure della sovranità di uno Stato. Eppure, la radice etimologica della parola indica ben altre sfumature: cum e finis. Cioè, cum, che rimanda alla condivisione. E, poi, finis, che significa limite ma anche culmine di un’azione”, sottolinea Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali ricordando che “il rapporto con i confini si gioca proprio sul livello della relazione”. “È un punto di incontro, tra il vecchio e il nuovo. Ai (il riferimento è ai sistemi di intelligenza artificiale) confini ci si incontra per dirigersi verso il cuore della comunicazione. Questo percorso, certamente faticoso, restituisce il fascino dell’incontro, dell’ascolto e della parola. A noi – conclude – l’impegno di coglierne il messaggio e tradurlo in realtà”.

Insegnamento della religione cattolica: Messaggio della Presidenza CEI

Cari studenti e cari genitori,

è vicino il momento in cui dovranno essere effettuate le iscrizioni al primo anno dei diversi ordini e gradi di scuola, un appuntamento che comprende anche la scelta di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica (Irc). Cogliamo l’occasione per invitarvi ad accogliere questa possibilità, grazie alla quale nel percorso formativo entrano importanti elementi etici e culturali, insieme alle domande di senso che accompagnano la crescita individuale e la vita del mondo. Il tutto, in un clima di rispetto e di libertà, di approfondimento e di dialogo costruttivo.
Mentre vi scriviamo, muove i primi passi il Giubileo del 2025, che Papa Francesco ha voluto dedicare al tema “Pellegrini di speranza”. Si tratta di un evento dai forti significati non solo religiosi, ma anche culturali e sociali, a conferma di come il messaggio cristiano parli all’uomo di oggi non meno di quanto abbia inciso in passato nella storia e nella cultura nazionale e mondiale. Il Giubileo, infatti, è tra le altre cose sinonimo di riconciliazione, di pace, di dignità umana, di giustizia, di salvaguardia del creato, beni essenziali di cui sentiamo un urgente bisogno.
Il tema della speranza provoca in modo speciale il mondo dell’educazione e della scuola, luoghi in cui prendono forma le coscienze e gli orientamenti di vita e si pongono le basi delle future responsabilità. Quale speranza dà senso all’esistenza? Dove è possibile riconoscere e trovare ragioni di vita e di speranza? E ancora, prendendo a prestito le parole di Papa Francesco, come sostenere la necessità di «un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine» (Spes non confundit, 9)? Sono domande a cui la scuola non può essere estranea e alle quali dà spazio l’insegnamento della religione cattolica.
Testimoni di speranza sono infatti i docenti di religione, che uniscono alla competenza professionale l’attenzione ai singoli alunni e alle loro domande più profonde. Siamo molto grati a tutti gli insegnanti che, mentre offrono le ragioni della speranza che li muove, accompagnano coloro che stanno crescendo a scoprire la bellezza e il senso della vita, senza cedere alle tentazioni dell’individualismo e della rassegnazione, che soffocano il cuore e spengono i sogni.
Il cammino dei prossimi mesi – anche grazie all’Irc – ci aiuti a ritrovare la fiducia e il coraggio di aprire le famiglie, le scuole e tutte le comunità a nuovi orizzonti di collaborazione e di speranza.

13 Gennaio 2025

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 62,1-5


      
 Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.  
  • La prima lettura è stata scelta per gli evidenti richiami al vangelo, anche qui siamo in un contesto di nozze: è celebrata Gerusalemme come sposa del Signore. Verso la fine del suo libro profetico, ad una comunità scompaginata e delusa, Isaia rivolge un messaggio di sicura consolazione. La città si presenta sfavillante nel suo splendore, dono dello sposo, vincitore sui nemici. Nel poema si sovrappongono e si fondono l’immagine solare e quella del re vittorioso nel giorno delle sue nozze. Egli prende la città-sposa come sua corona e diadema regale, secondo l’espressione di Pr 12,4: «La donna perfetta è la corona del marito».

    II re vincitore ‘trasforma’ la sua sposa, la cui nuova situazione è iscritta nel «nome nuovo». Per i semiti il nome è l’essenza stessa dell’essere, quindi Gerusalemme che riceve un nome nuovo è posta nella condizione di assumere una nuova identità. Da «devastata» e «abbandonata» si trova ad essere «mia gioia» e «sposata». Il compiacimento dello sposo denota che ora si rispecchia pienamente nella sua sposa, che egli ha creato e modellato secondo il suo gusto. La città che ritorna ad essere ‘vergine’ è stata totalmente rifatta dal suo Creatore: la situazione attuale è frutto di un amore che riabilita e rinnova nel profondo. È la novità del bello e del buono, proprio come il vino assaggiato dal maestro di tavola.

Seconda lettura: 1Corinzi 12,4-11

       Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.        
  • Nel quadro dell’odierna liturgia, la lettura paolina aiuta a ritrovare il valore della diversità dei ruoli nell’unità di intenti. Essa prima di tutto stigmatizza un modo di pensare che in un recente passato poneva in tensione dialettica e quasi in opposizione carismi e ministeri, come se il carisma fosse una particolare grazia, frutto dell’imprevedibile libertà dello Spirito e da giocare in libertà e il ministero invece qualcosa di permanente ed in connessione con gli aspetti istituzionali della Chiesa. Tale distinzione convogliava tutte le simpatie sui carismi ed ingenerava nei confronti dei ministeri un atteggiamento più o meno sottile di diffidenza. Il Concilio Vaticano II ha rimesso le cose a posto: anche nei ministeri si libera la presenza e l’azione feconda dello Spirito. Del resto Paolo, sotto la categoria dei ‘doni spirituali’ colloca un po’ tutte le grazie, sia quelle che potremmo chiamare — con termine non appropriato — estemporanee e provvisorie, sia quelle che si incarnano in un ruolo permanente.

    La riflessione sulla natura e sul ruolo dei carismi riceve una lunga e sistematica trattazione nei capp. 12-14 della prima lettera ai Corinti. Evinciamo, senza troppa difficoltà, che numerose idee distorte o confuse ottenebravano il pensiero teologico della comunità. Paolo cerca di far chiarezza e di correggere: privilegiando la dimensione appariscente dell’azione dello Spirito, vengono incrementati l’orgoglio e l’ansia di accaparramento; considerando i doni dello Spirito in chiave prevalentemente individualistica, viene lacerata la comunità; ritenendo che la pienezza della vita cristiana dipenda dal possesso di doni spettacolari, viene scardinata la scala assiologica.

    Precisato ciò, Paolo da preziose direttive:

    1. Lo fa usando tre termini — «carismi» (greco karismata), «ministeri» (greco diakoniai), «attività» (greco energeis) — per indicare non tre specie diverse dei doni dello Spirito, ma tre aspetti differenti della stessa azione: carisma indica la gratuità, ministero la destinazione comunitaria e attività la forza per costruire il regno di Dio. Si da una diversità che, nello Spirito e per lo Spirito, concorre all’unità (v. 4 e v. 11). 

    2. Tutti sono portatori di ‘carismi’ che, al v. 7, ricevono una specie di definizione. Perché vi sia carisma occorrono tre condizioni: che sia dono dello Spirito, dato all’individuo, per il bene comune. Già questo dovrebbe privare il carisma di ogni pretesa meritocratica e di ogni accaparramento egoistico.

    3. Viene proposta una lista di carismi, a puro titolo indicativo (vv. 8-10), per mostrare una varietà che alla fine va ricondotta alla libera e fantasiosa azione dello Spirito (cf. v. 11).

    Il discorso sui carismi deve essere completato anche se la lettura si interrompe a questo punto. Bisogna relativizzare il valore dei doni dello Spirito: al primo posto, in assoluto, sta l’amore. L’uomo è salvato dall’amore ed è chiamato all’amore. È questo il primo e più alto dono che Dio fa al credente che si vede trasformato in creatura nuova. È l’amore l’anima della vita cristiana e, in quanto tale, non avrà mai fine (cf. 13,1-13).

Vangelo: Giovanni 2,1-12

        In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.      

Esegesi

    Giovanni si rivela consumato narratore e raffinato teologo, capace di calibrare la presentazione di Gesù. Di lui offre una inequivocabile carta d’identità che lo situa tra cielo e terra, divina Parola eterna e uomo in mezzo agli uomini (cf. 1,1-18). Poi fa echeggiare la vibrante testimonianza del Battista che lo indica Messia e, più ancora, «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (1,29). Conclusa la fase di presentazione, inizia quella di autopresentazione. Gesù invita alla sua sequela chiamando alcuni uomini con un «venite e vedrete» che li stabilizza al suo seguito in una comunione di vita. Poi vengono esibite le credenziali, fatte di lunghi discorsi e di 7 miracoli che l’evangelista chiama sistematicamente ‘segni’ perché devono indirizzare alla comprensione della persona di Gesù. Il brano evangelico riporta il primo di questi segni, quantitativamente ridotti rispetto ai vangeli sinottici, ma scelti con cura e racchiusi nella cifra che indica una pienezza.

    Troviamo dapprima il quadro di una festa di nozze, la presenza di Maria e Gesù accompagnato dai discepoli e quindi la situazione incresciosa della mancanza di vino (vv. l-3a). Ad un certo momento Maria se ne accorge e ne rende partecipe Gesù (vv. 3b-5); questi reagisce verbalmente quasi a schermirsi, quindi compie il suo intervento prodigioso (vv. 6-8), fino a rendere il vino di ottima qualità: viene così confermato l’avvenuto miracolo (vv. 9-10). La conclusione sancisce l’avvio dell’attività taumaturgica di Gesù, richiamando i temi della gloria e della fede (v. 11). Il v. 12 apparentemente insignificante, perché sembra una semplice informazione, conferisce una valenza ‘ecclesiale’ al miracolo e mostra la presenza di molteplici persone attorno a Gesù, richiamo alle diverse funzioni nella Chiesa. 

    1. Ora e gloria di Gesù. Risulta scontato dire che il brano profuma di cristologia. Una semplice osservazione statistica rivela che il nome Gesù ritorna 6 volte e per altre 7 un aggettivo o pronome si riferisce a lui. Al di là della quantità, appare la qualità. Giovanni ha voluto rivestire di sostanziosa teologia il primo miracolo: troviamo per la prima volta il tema dell’«ora» (cf. v. 4) che rimanda al momento culminante della morte e glorificazione; non per nulla quel concetto è correlato con quello della «gloria» che chiude il brano (cf. v. 11) ed è connesso con la fede dei discepoli che credono in lui, anticipo profetico di quella promessa: «Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). La vera «ora» sarà quella della morte che disvela appieno la sua gloria, la sua vicinanza con il Padre, la capacità di offrire la vita in un atto di amore infinito. In attesa di quella manifestazione piena e definitiva, ecco alcuni disvelamenti parziali che sono i miracoli, preziose indicazioni che interrogano sulla identità più profonda di Gesù, quella che sfugge allo sguardo frettoloso e distratto. Perciò Giovanni ama chiamare i miracoli ‘segni’ perché sono come preziosi cartelli indicatori che orientano verso la comprensione piena di Gesù.

    2. Dimensione mariologica. I discepoli, per credere, hanno bisogno di vedere la sua gloria riflessa nel miracolo. Maria no. In lei la fede nel Figlio è granitica fin dall’inizio. Il suo comando ai servi «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» non fa una grinza. Maria è il secondo personaggio della pericope perché citata 4 volte e sempre come «madre» (vv. 1.3.5.12). Non si sostiene una solida mariologia se non in intimo legame con la cristologia. Ogni discorso su Maria comprende e rimanda a Cristo. È la prima volta che Giovanni cita la madre; lo farà ancora e solo una volta, al momento della crocifissione: anche in quel caso ella sarà la «madre», madre di Gesù e madre del discepolo prediletto, figura di tutta la Chiesa (cf. 19,25-27). La madre appare nel IV Vangelo all’inizio e alla fine, sempre nel contesto dell’ora, perché ella prima e più di tutti partecipa alla passione/glorificazione del Figlio. Esiste tra i due una comunione che non è priva di ‘fatica’. Anche per Maria credere è una conquista progressiva, un allinearsi non certo istintivo alla suprema volontà divina. La risposta di Gesù: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» denota un distacco che non è separazione, ma autonomia e rispetto dei ruoli. La frase, certamente forte, esprime una divergenza tra interlocutori (cf. Gdc 11,12; 2Sam 16,10), non necessariamente opposizione. La madre intercede ma non interferisce; suggerisce ma non comanda, perché Gesù agisce per decisione propria e sovrana. La sua volontà deve essere conforme solo a quella del Padre, suo criterio ultimo e decisivo di azione (cf. 4,34: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»). Nessun altro deve guidare la sua mano (anche nel caso della malattia di Lazzaro: Gesù non si reca dall’amico alla notizia della sua grave malattia, ma quando lo decide lui, cf. Gv 11,7). Maria non è risentita per quel taglio netto che ella, anzi, bene accoglie e di cui è pienamente convinta. Per questo suggella le sue parole rivolgendosi ai servi chiedendo loro di sottomettersi, come lei, in tutto e per tutto a quello che Gesù vuole.

    3. Valore del matrimonio. Il primo miracolo di Gesù avviene nel contesto di uno sposalizio: non solo Gesù vi è invitato e vi partecipa, ma pure raddrizza una festa che stava ‘deragliando’ per la mancanza di vino. È un modo insolito, certamente originale, di apprezzare e valorizzare il matrimonio. Gesù che interviene a vantaggio dei due ignari sposini intende alludere ad un’altra festa che celebra le nozze tra Dio e l’uomo, tra cielo e terra, in una rinnovata alleanza, dopo che il peccato aveva distrutto il patto tra i due, rendendo l’uomo un ‘estraneo’ di Dio, sua sbiadita e irriconoscibile immagine. Il significato del vino è ripetutamente richiamato, sia nella quantità (una stima approssimativa lo quantifica in circa 500 litri: due o tre barili — in greco: metrete, del valore di circa 40 litri l’una — in ognuna delle sei anfore, cioè almeno litri 40x2x6=480), sia nella qualità (lo riconosce il maestro di tavola che doveva essere un intenditore). Il vino era parte integrante del banchetto e questo a sua volta alludeva ad una situazione di intimità e di comunione che i profeti individuavano come caratteristica dei tempi finali, quelli della armonia di Dio con tutti gli uomini: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6).

Meditazione

    L’antica tradizione liturgica poneva l’accento sull’unità della manifestazione – ‘epifania’ – del Signore nei tre eventi dell’adorazione dei Magi, del Battesimo (o Teofania) presso il Giordano, del segno di Cana, dove l’acqua viene tramutata in vino. Canta ad esempio un’antifona della solennità dell’Epifania del Signore:

Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo:

oggi la stella ha guidato i magi al presepio,

oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze,

oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano

per la nostra salvezza, alleluia.

    C’è un unico oggi in cui il Signore manifesta la sua salvezza. Ce ne vengono così narrati alcuni tratti essenziali: la salvezza è per tutte le genti (l’adorazione dei Magi); consiste nel renderci partecipi della figliolanza divina nel suo Figlio Unigenito, della cui Pasqua siamo resi partecipi in virtù del battesimo (la Teofania presso il Giordano); compie definitivamente l’alleanza che già la letteratura profetica aveva più volte annunciato con il simbolo delle nozze, come ricorda la prima lettura della liturgia odierna: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4).

    Questa antica e sapiente tradizione liturgica sopravvive nel ciclo C del lezionario domenicale, che propone il segno di Cana come vangelo della II Domenica del Tempo ordinario, in continuità con la solennità dell’Epifania e con la Domenica del Battesimo. Il Tempo ordinario si salda così in modo forte con il Tempo natalizio, per mostrare come la salvezza di Dio, che in Gesù di Nazaret si è incarnata nella nostra storia, si dilati e riempia di sé le pieghe ordinarie e quotidiane della nostra vita.

    Lo stesso evangelista Giovanni, nel raccontare l’episodio apparentemente molto familiare di Cana, insiste nell’affermare che si tratta dell’inizio dei segni compiuti da Gesù, attraverso il quale egli «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (v. 11). È l’inizio non semplicemente perché è il primo segno di una lunga serie; piuttosto è il segno archetipo (in greco ‘inizio’ è detto con arké), tale da costituire una sorta di stampo originario che imprime la sua forma su tutti gli altri segni che seguiranno, fino alla Pasqua. Non a caso è un segno che avviene proprio a Cana, piccolo villaggio della Galilea; il significato simbolico del suo nome non sfugge però all’evangelista, che sa bene che cana in ebraico significa ‘fondare’, ‘creare’. Ciò che Gesù opera a Cana è come una nuova fondazione, che porta a compimento la creazione di Dio, riscattandola dal male che il peccato ha introdotto nella storia, e fonda davvero la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora le nozze si compiono, Dio sposa l’umanità!

    Il ricco simbolismo di questa pagina giovannea evoca infatti il tema dell’alleanza. Tutto accade non in un giorno qualsiasi, ma «il terzo giorno» (v. 1 ), espressione che ci orienta in avanti, facendoci immediatamente pensare al terzo giorno della Risurrezione. Nello stesso tempo l’evangelista ci invita a guardare indietro, al terzo giorno del Sinai, quando Dio dona a Mosè le Dieci Parole dell’Alleanza che stipula con Israele: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore» (Es 19,16: così viene introdotta la Teofania che culmina, al capitolo 20, con il Decalogo). E l’alleanza, lo abbiamo già ricordato, è spesso descritta con la metafora delle nozze tra Dio e il suo popolo. Il vino stesso, che certo non può mancare a un banchetto nuziale, raccoglie in sé e simboleggia tutti i beni elargiti da Dio alla sua Sposa, in particolare il dono della Torah e della Rivelazione.

    Qui a Cana, al terzo giorno, Gesù compie definitivamente l’alleanza. Ciò che era prefigurato nella Prima Alleanza diventa definitivo nella Nuova Alleanza. Le sei giare (sei è cifra simbolica di una imperfezione che però tende verso la pienezza del numero sette) colme di acqua fino all’orlo vengono trasformate in vino. Erano giare di pietra che contenevano l’acqua per la purificazione rituale dei Giudei (v. 6). Giare di pietra come spesso può essere di pietra il cuore dell’uomo, soprattutto quando lascia le parole di Dio scritte su tavole di pietra, anziché lasciarsele imprimere nel proprio cuore. Ma per quanto l’acqua riempia queste giare fino all’orlo, non basta a purificare il cuore di pietra e a trasformarlo in cuore di carne. È necessario un vino nuovo, un vino migliore, quello che solo Gesù può donare, trasfigurando la prima alleanza nella nuova e definitiva alleanza. Nel terzo giorno della Pasqua, nella sua Ora che già qui a Cana viene annunciata come imminente (cfr. v. 4), diventerà chiaro che questo vino nuovo e migliore Gesù lo dona nel suo stesso sangue versato per tutti.

    Solo lui lo può donare. «Colui che dirigeva il banchetto… non sapeva da dove venisse» (v. 9). Nessuno può saperlo, perché questo da dove allude al mistero di Gesù, e più ancora al mistero del Padre, il solo che può donare il proprio Figlio e nel Figlio il vino migliore dell’Alleanza nuova, il vino delle nozze definitive con il suo popolo. Da dove (pothen in greco) ricorre spesso nel vangelo di Giovanni e sempre con un forte significato cristologico. Gesù è colui che non sappiamo da dove viene e verso dove va (cfr. Gv 8,14). Comprendere che viene da Dio e a lui ritorna è la condizione che ci permette di conoscere davvero il suo mistero personale e di accogliere la sua rivelazione. Proprio perché allude a Gesù, il da dove ci parla anche dei doni che egli offre alla nostra esistenza per colmare il suo bisogno di vita, e di vita piena, di vita eterna. Qui a Cana il capo-tavola non sa da dove viene il vino. In Samaria la donna chiede ironicamente a Gesù: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?» (4,11). Al capitolo sesto sarà Gesù stesso a domandare a Filippo: «da dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (6,5). Il vino di Cana, l’acqua di Samaria, il pane della Galilea, vengono tutti da quel da dove che è il mistero di Dio e alludono a quel dono per eccellenza che è Gesù, lui che sa da dove viene e dove va. È lui il vero vino, la vera acqua, il vero pane di cui la nostra vita ha assolutamente bisogno per compiersi in pienezza. È lui lo Sposo, o meglio è in lui che si compiono in modo definitivo le nozze tra Dio e il suo popolo.  

    A Cana è presente la madre di Gesù, definita qui, come ai piedi della croce, ‘donna’ (cfr. Gv 19,25-27). È simbolo della figlia di Sion, chiamata però anche ‘madre Sion’ nei testi profetici; in lei è rappresentato il resto di Israele che attende l’ora del Messia, il suo giorno, perché scopre in sé una mancanza che ha bisogno di essere colmata: «non hanno vino» (v. 3). Insieme alla donna/madre ci sono con Gesù i discepoli, come ai piedi della croce ci sarà il Discepolo amato. Là la donna sarà consegnata al discepolo e il discepolo alla donna. La nuova Alleanza si compie, direbbe san Paolo, abbattendo ogni separazione e facendo dei due uno solo (cfr. Ef 2,14-18). La figlia di Sion – Israele – e i discepoli di Gesù – la Chiesa – sono consegnati reciprocamente gli uni agli altri. A Cana, nasce, viene fondata e ricreata, un’umanità nuova, l’umanità dei figli di Dio, chiamati ad abbattere ogni separazione, a superare ogni divisione, a vincere ogni logica perversa di inimicizia.

    Ascoltando questo brano anche noi continuiamo a contemplare la gloria del Padre pienamente manifestatasi in Gesù: la gloria di un amore che continua a donarci in ogni Eucaristia il vino dell’Alleanza nuova, il vino migliore per la nostra gioia.

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco si sofferma sull’intervento di Maria a Cana

Il primo miracolo di Gesù fu ottenuto grazie all’intercessione di Maria, ricorda don Bosco nell’Associazione dei devoti di Maria Ausiliatrice, affermando esplicitamente che “a richiesta di lei Gesù operò il primo dei suoi miracoli in Cana di Galilea” (OE21 346). E il suo intervento fu un atto di “limosina”, cioè di misericordia, scrive don Bosco per il giorno ventinovesimo del suo Mese di maggio:

Imitiamo anche Maria nel fare limosina. […] Ella fu invitata a nozze nella città di Cana nella Galilea. Alla metà del pranzo mancò il vino. Non potendolo ella stessa provvedere invitò suo figlio Gesù, che a richiesta di lei cangiò l’acqua in vino. Immaginiamoci quante grazie e quante benedizioni Maria non otterrà nel cielo dal suo amato Gesù a favore di quelli, che coi loro consigli, colle loro opere, preghiere, limosine o in qualche altra maniera esercitano atti di misericordia verso il prossimo? (OE10 462s).

Soprattutto, secondo quanto scrive don Bosco nelle Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, l’intervento della madre di Gesù è “un fatto che dimostra chiaramente la potenza e lo zelo di Maria nell’accorrere in nostro aiuto” (OE20 223).

Sul modo di intervenire di Maria, don Bosco continua dicendo: “Ella non fa una prolissa preghiera a Gesù come Signore, né gli comanda come a figlio; non fa che annunziargli il bisogno, la mancanza del vino”. E quello che fece Maria per gli invitati alle nozze, lo farà anche per noi:

Voleva provvedere alla necessità di questi ospiti e perciò dice il Vangelo: Mancando il vino, lo disse la madre di Gesù a lui. Onde ci anima san Bernardo a ricorrere a Maria perché se ebbe tanta compassione della vergogna di quella povera gente e loro provvide, quantunque non pregata, quanto più avrà pietà di noi se la invochiamo con fiducia? (OE20 225s).

Dopo la risposta di Gesù, che pareva dura, Maria non si scoraggia. Siamo invitati anche noi a non disperare mai della risposta di Gesù alle nostre preghiere nonostante le apparenze contrarie:

La bontà di Maria verso di noi dimostrata in questo fatto splende maggiormente nella condotta che tenne dopo la risposta del suo divin figliuolo. Alle parole di Gesù un’anima meno confidente, meno coraggiosa di Maria, avrebbe desistito dallo sperare più in là. Maria invece per nulla conturbata si rivolge ai servi della mensa e dice loro: Fate quello che egli vi dirà. Quodcumque dixerit vobis, facite. Come se dicesse: Sebbene sembra che neghi di fare, tuttavia farà (OE20 227).

Nelle poche parole di Maria risplendono poi tante virtù che don Bosco raccomanda anche a noi: la fiducia in Gesù nonostante la dura risposta, la speranza nella sua misericordia, l’amore per Dio perché manifesti la sua gloria, l’obbedienza in tutto raccomandata ai servi, la modestia mentre non approfitta di questa occasione per gloriarsi d’essere madre d’un tanto figlio, la riverenza verso Dio col non pronunziare il santo nome di Gesù. la prontezza nel fare la volontà di Dio, la prudenza e la misericordia nel “prevenire che altri cada nel male” (OE20 227ss).

A Cana, spiega don Bosco anche nel primo dei Nove giorni consacrati allaugusta madre del Salvatore sotto al titolo di Maria Ausiliatrice, Maria “si assunse tosto, come riflette san Bernardino da Siena, l’uffizio di pia ausiliatrice” (OE22 261). A Cana il Signore ha concesso una grazia temporale. Anche oggi il Signore si rivela un Padre pronto a consolarci “nei bisogni temporali come alle nozze di Cana” (OE20 344). In realtà, lo scopo principale di Gesù moltiplicando il vino delle nozze era il bene spirituale delle persone invitate.

Come dovrebbe comportarsi il cristiano di cui don Bosco traccia il ritratto nella Chiave del paradiso? Ecco la risposta: “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea […], cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui, e più occupato del nutrimento spirituale che delle pietanze di cui nutrisce il suo corpo” (OE8 22).

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

È ridicolo, dice l’orgoglio;

è avventato, dice la prudenza;

è impossibile, dice l’esperienza.

È quel che è, dice l’amore.

(Erich Fried)

Casella di testo: Isaia 62,1-5
1Corinzi 12,4-11
Giovanni 2,1-12

Gesù vuole trasmettere a Cana il principio decisivo della relazione che unisce Dio e l'umanità. Tra uomo e Dio corre un rapporto nuziale, con tutta la sua tavolozza di emozioni forti e buone: amore, festa, dono, eccesso, gioia. Un legame sponsale, non un rapporto giudiziario o penitenziale, lega Dio e noi, un vino di festa. A Cana Gesù partecipando a una festa di nozze proclama il suo atto di fede nell'amore umano. Lui crede nell'amore, lo benedice, lo rilancia con il suo primo prodigio, lo collega a Dio. Perché l'amore è il primo segnale indicatore da seguire sulle strade del mondo, un evento sempre decretato dal cielo.  
Gesù prende l'amore umano e lo fa simbolo e messaggio del nostro rapporto con Dio. Anche credere in Dio è una festa, anche l'incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta. A lungo abbiamo pensato che Dio fosse amico del sacrificio e della gravità, e così abbiamo ricoperto il vangelo con un velo di tristezza. Invece no, a Cana ci sorprende un Dio che gode della gioia degli uomini e se ne prende cura. «Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente nella nostra vita e nel bene che ci dà. Trovarlo e ringraziarlo nella nostra felicità terrena» (Bonhoeffer).
(Ermes Ronchi)

Preghiere e racconti

Il vino della festa

Sì, il vino: è lui, non l’uva, il vero “frutto” della vigna. E come la vigna è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici. Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata… Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere. Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore: bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sì alla vita.

Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri -, è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella Bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza. Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante. […] non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.

(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 50-51).

E giunse la sua ora

Quale doveva essere, dunque, la sua ora? Forse aveva scelto di cominciare davanti a una piaga o al capezzale di un infermo; o magari in un attimo qualunque, all’aria aperta, a un segno delle rondini, a un impercettibile turbamento del sangue. Non questa, in ogni caso: un banchetto di nozze. La sua ora è un’altra. Quando? Egli la tiene nascosta come uno stratega che si riserva l’ora precisa in cui scenderà in campo; è segreto anche per sua madre. E il dialogo che con lei si accende qui alla tavola di Cana è una corta battaglia di volontà.

«Non hanno più vino. Io e te soli lo sappiamo, io e te soli possiamo provvedere. Senza vino una festa di nozze può diventare incredibilmente triste. Non lasciar cominciare con un’umiliazione i giorni di questa sposa. Per noi donne non ci sono cose piccole e trascurabili, ed è così facile sciupare le nostre gioie più attese. L’armonia di questa mensa nuziale vale un miracolo».

«Che importa a te e a me? Le loro ore di gioia e di pena sono già tutte contate. Troppe altre volte, nel domani che li aspetta, rimarranno senza vino e io non sarò fra loro. Lasciami, mamma, in quest’ultima pigrizia della vigilia: che io indugi ancora al di qua del confine, in questo mondo in cui il vino finisce e l’acqua resta acqua. Lasciami un altro po’ nella casa, non c’è niente di più dolce che questo: avere una madre, un angolo di silenzio e un letto dove posare la testa. Tu devi pur sapere che cosa comincia per me se mi riconoscono e dove mi porterà questa pietà della povera gente».

«Lo so. Ma essi non hanno più vino».

«Allora addio, se lo vuoi tu. Sai cosa devi ordinare ai servi, perché io ti accontenterò senza che nessuno se ne accorga. Ci separeremo qui, accanto a quest’anfora piena d’acqua. Fra poco sarà vino. Un giorno cambierò anche quel vino, e sarà il mio ultimo miracolo».

Maria ha vinto – mai aveva vinto e non vincerà più. È felice. Non sa che così tutto è anticipato. La macchina dei miracoli gira, è stata lei a scegliere l’ora.

(Luigi Santucci)

La fonte divina dell’amore

Di questa fonte inesauribile parla Giovanni nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12). Il nostro vino, il nostro tentativo di amare, vede molto presto la fine. Non possiamo dare nessuna garanzia delle nostre emozioni. Prima o poi i nostri sentimenti di amore si volatilizzano e allora crediamo di non riuscire più ad amare l’altro. Questo capita a molti coniugi che assistano stupiti all’esaurirsi del loro amore. Questo capita anche alla coppia che celebra le nozze a Cana. Viene a mancare il vino, il loro amore viene a mancare, già il terzo giorno essi non hanno più né vino, né amore. Allora Gesù trasforma in vino sei otri d’acqua, in modo che il vino non abbia più a finire.

Sei è il numero dell’imperfezione e gli otri di pietra rimandano a quanto di duro e di impietrito vi è in noi. Nella loro incapacità di amare veramente, nelle loro durezze e nei loro blocchi, Gesù mostra agli sposi un’altra fonte d’amore, la fonte divina, che mai smette di sgorgare. Gesù pronuncia la sua parola d’amore in quanto in noi è divenuto sciapo e senza sentimento, in quanto in noi è imperfetto e indurito. Se noi ci fidiamo di questa parola, anche in noi tutto può mutarsi in amore.

D’improvviso noi possiamo amare con le nostre forze e le nostre debolezze, con le nostre imperfezioni e i nostri errori, con le nostre contrazioni e i nostri indurimenti. Tutto in noi può irradiare l’amore divino, così che intorno a noi possa svolgersi la festa della vita.

(A. GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 67-68).

Riempi d’acqua il tuo otre vuoto

Adesso sono un otre vuoto!

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per accorgersi che non era vino buono.

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per desiderare, finalmente, il vino di Gesù.

Madre della compassione,

Madre che ti accorgi da sempre,

anche per me, dici a Gesù:

“non ha più gioia!”.

Non ho più gioia.

Otre vuoto io sono,

anche di speranza.

E tu, sicura come chi ha già ottenuto,

con gli occhi che tradiscono una gioia più grande di quella che sarà la mia, supplichi:

“fa tutto quello che Lui ti dirà!”.

E Lui: “riempi d’acqua il tuo otre!”.

Da dove attingere, Signore, per colmare fino all’orlo?

Dalla mia mente deserta?

Dal mio cuore inaridito?

Dalla mia innocenza consumata?

Fammi, Signore, il dono delle lacrime:

siano esse l’acqua che con abbondanza tu trasformi,

e mentre bevo a piene mani, sento che Le dici:

“Donna, ecco tuo figlio!”.

«Non hanno più vino»

Il vino è la gioia di vivere che non può essere comprata ne fabbricata ed è difficile starne senza. È Gesù, questo vino, di cui gli sposi hanno bisogno, ma che non potrebbero mai darsi, questo vino Gesù lo ‘crea’ dall’acqua, perché si tratta di un vino nuovo.

Giovanni vuole dirci che il vino nuovo e buono, mai gustato prima, è Gesù stesso. Il vino è significativo come dono di Gesù:  esso è alla fine; è buono; è abbondante. È segno del tempo della salvezza. Il vino è così il «sangue versato» da Cristo per noi, è il segno della carità, del dono di sé, così importante per poter vivere da cristiani. Il vino delle nozze di Cana, questo buon vino atteso, è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza. Le feste degli uomini hanno la conclusione ben descritta dal maestro di tavola: la tristezza del lunedì. Gesù, invece, è «il sabato senza sera», come diceva sant’Agostino: quando si pensa che la festa finisca – «Non hanno più vino» -, salta fuori il vino buono, conservato fino allora, il vino nuovo mai gustato prima

(Cf. A.S. BESSONE, Prediche della domenica, Anno C, Biella, 1992, 185-190).

Maria, donna del vino nuovo

Nel vangelo c’è un episodio, quello delle nozze di Cana che gli ultimi approfondimenti biblici ci obbligano decisamente a rivedere, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo di Maria.

Chi sa quante volte ci siamo commossi pure noi dinanzi alla sensibilità della Madre di Gesù che con finezza tutta femminile, ha intuito il disappunto degli sposi, a corto di vino, e ha forzato la mano del figlio, troncando sul nascere l’evidente imbarazzo che ormai serpeggiava dietro le quinte.

Pare certo, però, che l’intenzione dell’evangelista non fosse tanto quella di mettere in evidenza la sollecitudine di Maria a favore degli uomini, o la potenza della sua intercessione presso il figlio. Quanto, quella di presentarla come colei che percepisce a volo il dissolversi del piccolo mondo antico e, anticipando l’«ora» di Gesù, introduce sul banchetto della storia non solo i boccali della festa, ma anche i primi fermenti della novità.

Festa e novità, quindi, irrompono nella sala su espresso richiamo di lei.

A darcene conferma c’è nella pagina di Giovanni un particolare tutt’altro che accidentale, che anzi, a ben considerarlo, esplode con la prepotenza di un invadente protagonismo. È costituito dalle sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei.

Oscene nella loro immobilità. Ingombranti nella loro ampiezza prevaricatrice. Gelide come cadaveri, perché di pietra. Inutili, perché vuote, agli effetti di una purificazione che sono ormai incapaci di dare.

Sei, e non sette che è il numero perfetto. Simbolo malinconico, quindi, di ciò che non giungerà mai a completezza, che non toccherà più i confini della maturazione, che resterà sempre al di sotto di ogni legittima attesa e di ogni bisogno del cuore.

Ebbene, di fronte a questo scenario di paresi irreversibile rappresentato dalle giare (di pietra, come le tavole di Mosè), Maria non solo avverte che la vecchia alleanza è ormai logora e che l’antica economia di salvezza fondata sulle prescrizioni della Legge ha chiuso da tempo la sua contabilità, ma sollecita coraggiosamente la transizione.

Vede raggiunti i livelli di guardia da un mondo che boccheggia nella tristezza, e invoca da suo figlio non tanto uno strappo alla legge della natura, quanto uno strappo alla natura della legge. Questa non contiene ormai nulla, non è in grado di purificare nessuno, e non rallegra più il cuore dell’uomo.

Interviene, perciò, d’anticipo, e chiede a Gesù un acconto sul vino della nuova alleanza che, lei presente, sgorgherà inesauribile nell’ora della croce.

«Non hanno più vino». Non è il tratto di una provvidenziale gentilezza che sopraggiunge a evitare la mortificazione di due sposi. E un grido d’allarme che sopraggiunge per evitare la morte del mondo.

Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali!

È il vino della festa che vien meno.

Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.

Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite.

Non abbiamo più vino. Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo. Le vecchie cantine non fermentano più. E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.

Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose. Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi. E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.

Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.

Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.

Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili. Dalle piccole conversioni sottocosto. Dai rattoppi di comodo. Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.

Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori. Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.

Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi. E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.

Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.

E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.

(Tonino BELLO, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000,66-68).

La grande festa

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati. Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: “Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”. Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “Un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!”. Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.

Preghiera

Padre, che hai voluto fare del tuo Figlio l’Uomo nuovo, ricolmo del tuo Spirito, e per mezzo suo lo effondi nei cuori degli uomini rinnovandoli radicalmente, ti chiediamo con fiducia e insistenza, come egli stesso ci ha insegnato a farlo, di voler riempire i nostri cuori della sua presenza e della sua forza. Se tu ce lo doni, noi potremo uscire dalla condizione di uomini vecchi, mossi dall’egoismo che ci rinchiude in noi stessi, e potremo diventare davvero uomini nuovi. Saremo capaci di amare te come figli e gli altri uomini e donne come fratelli e sorelle.

E la gioia profonda della nostra nuova condizione riempirà ogni momento della nostra giornata.

Non lasciare che altri spiriti entrino nei nostri cuori: lo spirito dell’orgoglio, della vanità, dell’invidia, dell’avidità… Essi sono spiriti del mondo vecchio che portano alla morte e noi vogliamo vivere. Tu, che sei «amante della vita», strappa da noi tali spiriti perché possa occupare tutto il nostro spazio interiore lo Spirito vivificante che viene da te attraverso il tuo Figlio diletto.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

Dejad que los niños escuchen mi voz. Subsidios para la familia

Miguel Angel moreno Nuño

La casa editrice PPC ha pubblicato di recente il quarto e ultimo volume della serie Dejad que los niños escuchen mi voz (Lasciate che i bambini ascoltino la mia voce), del salesiano Miguel Ángel Moreno Nuño, docente della Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche presso l’UPS. Risorse per la famiglia si presenta come il complemento che ancora mancava nel progetto iniziale della serie per portare la Messa domenicale nella vita quotidiana. Con queste dispense, i genitori, senz’altro i nonni e molto probabilmente anche un fratello riluttante, possono sedersi con il più piccolo della famiglia e, a casa, dopo aver celebrato l’Eucaristia domenicale, prepararsi a giocare e a rinfrescare ciò che hanno ascoltato nella liturgia della Parola, secondo la rinnovata proposta di «lezionario» per le Messe con i fanciulli offerta dall’autore. Si chiude così il cerchio iniziato con la Proposta di letture (volumi 1 e 2) e proseguito con le Risorse per la celebrazione (volume 3).

Infatti, il progetto Dejad que los niños escuchen mi voz è offerto a sacerdoti, catechisti ed educatori alla fede come una proposta sistematica di letture bibliche e sussidi per le Messe con i fanciulli. Organizzato secondo un doppio approccio liturgico e kerigmatico, raccoglie e aggiorna il meglio del Lezionario IX (pubblicato dalla Conferenza Episcopale Spagnola nel 1984) e anche di quello pubblicato ad experimentum dai vescovi italiani nel 1976. In questo modo, vuole essere una risposta rispettosa ai processi intrapresi a partire dagli anni del rinnovamento liturgico conciliare, nutrita dai suggerimenti emersi da una solida ricerca catechetica e liturgica e adattata alle circostanze attuali dei bambini e delle loro famiglie.

I quattro volumi sono stati pubblicati da PPC e sono in vendita onlinehttps://www.ppc-editorial.com/autores/miguel-angel-moreno-nuno

Resumen

Como «fuente y culmen de la vida cristiana» definió el Concilio Vaticano II la eucaristía. Lo que pasa es que «la vida cristiana» se desarrolla de domingo a domingo, desde que nos levantamos hasta que nos acostamos: sin compartimentos estancos, sin paréntesis. Sin hacer que la misa sea una más entre las miles de actividades (colegio, comedor, extraescolares, merienda, deberes, cena) que se
suceden en la apretada, ¡y estresada!, agenda de cualquiera de nuestros niños.
El cuarto y último volumen de DEJAD QUE LOS NIÑOS ESCUCHEN MI VOZ está pensado, pues, como complemento necesario para llevar la misa dominical a la vida diaria. El volumen recoge una colección de actividades, juegos, crucigramas y jeroglíficos para realizar en casa. No faltan los vídeos de dibujos animados y las canciones religiosas. ¡Y más de una agradable sorpresa! La propuesta está pensada para que los padres, muy posiblemente también los abuelos #y, a buen seguro, incluso algún hermano reticente#, se sienten con el más pequeño de la familia y, en casa, tras haber celebrado la eucaristía dominical, se dispongan a jugar y a refrescar lo escuchado en la liturgia de la Palabra del domingo. Así se cierra el círculo empezado en la propuesta de lecturas (volúmenes 1 y 2 de esta serie) y continuado por los recursos para la celebración (volumen 3).

Características

Autor

Miguel Ángel Moreno Nuño

Ppc editorial Fecha de lanzamiento

13/11/2024 EAN

9788428841214 ISBN