Mons. Ablondi

Il vescovo dell’ecumenismo e del dialogo religioso.
Ma anche il punto di riferimento pastorale, per più di trent’anni, di un’intera città.
Ed un ecclesiastico capace di svestire i panni “istituzionali” per mettersi in ascolto della sua comunità.
Malato di Parkinson, costretto da tempo in carrozzella, mons.
Alberto Ablondi è morto il 21 agosto scorso, nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Livorno.
A dicembre avrebbe compiuto 86 anni.
Livorno città aperta.
Al dialogo Nato a Milano da una famiglia di umili origini (il nonno, lo zio e il padre avevano esercitato la professione di cuoco), si era laureato in Lettere con indirizzo archeologico nel 1947, lo stesso anno in cui fu ordinato sacerdote.
Nel 1950 prese una seconda laurea, in Filosofia; e nel 1955 la terza, in Giurisprudenza.
Alla dimensione intellettuale, Ablondi univa però in quegli anni una forte carica pastorale: fu parroco, insegnante di religione, assistente della Fuci e dei Laureati Cattolici.
Dopo il Concilio Vaticano II ricevette (1966) l’incarico di vescovo ausiliare di Livorno (a fianco di mons.
Emilio Guano, altro esponente di spicco del rinnovamento ecclesiale) ed amministratore apostolico di Massa Marittima.
Il 26 settembre 1970 divenne vescovo della città portuale.
Lo rimase per 30 anni, fino al 2000: anni durante i quali Ablondi divenne, all’interno dell’episcopato italiano, una delle punte più avanzate del dialogo ecumenico ed interreligioso.
E del dialogo con il mondo laico e con la sinistra.
Del resto, la cattedra di Livorno si prestava bene allo slancio umano e pastorale di Ablondi: città di forti tradizioni operaie e comuniste, a Livorno convivono da secoli diverse confessioni cristiane (ortodossi, cattolici di rito bizantino, armeno, maronita) e altre comunità religiose (numerosa quella ebraica, ma nutrita anche la presenza musulmana), all’interno di una cittadinanza cosmopolita, che porta tracce evidenti dell’integrazione avvenuta, nei secoli, tra diversi gruppi etnici (olandesi, inglesi, greci, francesi, portoghesi, corsi).
E particolarmente significativo ed intenso fu il rapporto di Ablondi con la comunità ebraica, che a Livorno ha una radicata e significativa presenza e dove Ablondi istituì, nel 1989, la Giornata dell’ebraismo – la prima iniziativa del genere, non solo in Italia – da celebrarsi il 17 gennaio di ogni anno all’inizio della Settimana per l’unità dei cristiani.
Simbolo del riavvicinamento tra ebrei e cattolici, uno dei frutti più evidenti della stagione postconciliare, fu la sua amicizia con il rabbino capo di Roma (ma nato e cresciuto a Livorno), Elio Toaff.
Ma Ablondi ebbe anche relazioni fraterne con numerosi esponenti del mondo musulmano.
Nel 1984 fu nominato presidente mondiale della Federazione Universale per l’apostolato Biblico; nel 1988 vicepresidente mondiale delle Società Bibliche.
Il 1984 fu anche un anno chiave per la vita ecclesiale livornese.
Quell’anno infatti, mons.
Ablondi convocò il sinodo diocesano, incentrato, non a caso, sul rapporto Chiesa-mondo e che contribuì al ripensamento del modo di essere Chiesa di altre diocesi italiane.
(valerio gigante) in “Adista” Notizie n.
68 del 18 settembre 2010 Fronte del porto Considerato, insieme a mons.
Luigi Bettazzi e mons.
Clemente Riva, tra i vescovi italiani più aperti e disponibili al confronto “a sinistra”, Ablondi fu una figura molto vicina al mondo del lavoro.
L’ex sindaco Gianfranco Lamberti ha ricordato infatti nei giorni scorsi che quando una fabbrica viveva un periodo di difficoltà “il vescovo era sempre presente”.
Nel 1989, ad esempio, Ablondi volle essere a fianco del leader dei portuali livornesi, Italo Piccini (suo amico personale, scomparso nel marzo di quest’anno), nella protesta contro i “decreti Prandini”, che davano avvio al processo di liberalizzazione del lavoro nei porti.
Anni dopo, nel 2002, ormai in pensione, fece tutto il possibile, per scongiurare la crisi dello storico cantiere navale Luigi Orlando e tutelare le centinaia di operai che vi lavoravano e le loro famiglie.
Intervenne, conducendo con sé il suo successore, mons.
Diego Coletti, al Consiglio Comunale che ebbe luogo, eccezionalmente, all’interno del Cantiere.
Una voce forte, ma isolata Sul fronte pastorale, nel 1993, Ablondi lanciò l’idea di un dialogo con i giovani che non consistesse più nel “fargli la predica” dall’alto, ma nel fare “due passi insieme”, come recitava il titolo della lettera che il vescovo inviò ai giovani della città, con lo scopo di attivare un dialogo aperto e fecondo anche con i più lontani dalla vita ecclesiale, a partire da una domanda essenziale: “Che cosa cercate?”.
Il resoconto dell’intreccio di questa relazione è contenuto in un volume, No, una predica no! Dialogo fra giovani e il vescovo Ablondi (Editrice Borla), che raccoglie le lettere dei giovani e le risposte del vescovo.
Firmati a titolo personale, o come gruppo, gli scritti affrontavano temi scottanti e problematici, come contraccezione, aborto, legame Dc-Chiesa, sessualità.
Nel 1995 Ablondi venne eletto numero due dei vescovi italiani (lo rimmarrà fino al 2000).
La sua presenza ai vertici della Conferenza episcopale rappresentava l’anima più conciliare e aperta dell’episcopato italiano.
Ma la sua restò una voce isolata dentro una Cei ormai egemonizzata dal card.
Camillo Ruini.
Così ad esempio, nel 1997, all’Assemblea ecumenica di Graz, Ablondi non riuscì ad evitare l’astensione della delegazione cattolica sul documento finale, per un dissenso su un passaggio dedicato al ruolo delle donne nella Chiesa, giudicato troppo aperto al tema dei “ministeri ordinati” (v.
Adista n.
53/97).
Non mancarono momenti difficili anche in diocesi, come quando, nel 1997, una donna dichiarò al settimanale Oggi di aver avuto una relazione con lui; o quando, tre anni più tardi, alla guida della sua auto, investì ed uccise una donna.
Dopo il pensionamento (lasciando l’incarico, in una lettera alla città che era una dichiarazione d’amore scrisse: “Resterò uno di voi”), mons.
Ablondi non abbandonò lo slancio pastorale, favorito anche da una successione, quella di mons.
Coletti, che si poneva sulla linea del suo magistero.
A Livorno fondò ed animò il Cedomei, il Centro di Documentazione del Movimento Ecumenico Italiano; continuò a scrivere e ad intervenire nel dibattito pubblico.
Diverso invece il rapporto con l’attuale vescovo, mons.
Simone Giusti, la cui azione, di segno nettamente opposto a quello di Ablondi, lo aveva progressivamente posto ai margini della vita diocesana (non a caso la diocesi non ha finora organizzato alcuna iniziativa per ricordare la figura e l’opera del vescovo scomparso).
Nel 2009 insieme ai suoi collaboratori, Ablondi fece partire, nella semiclandestinità ecclesiale, un progetto di una catechesi nuova, “una catechesi senza catechisti e anche senza catechismi”, fatta di fogli di riflessione da far circolare fra la comunità livornese, di un sito internet (http://nuke.versoildivino.it) e di incontri cui Ablondi partecipava in carrozzina.
Il materiale fu poi raccolto nello stesso anno nel libro A passo d’uomo verso il divino (Morcelliana 2009), un testo di riflessione teologica finito a sorpresa fra i bestseller della città, e che prendeva spunto dalla quotidianità per elaborare riflessioni su questioni anche spinose, come la sessualità, la malattia, la morte.
(valerio gigante) in “Adista” Notizie n.
68 del 18 settembre 2010

San Giuseppe: Il padre nascosto

 Se i vangeli canonici designano Giuseppe come uomo giusto, israelita coerente e perfetto, osservante nei confronti della volontà del Padre, molte notizie provengono dai vangeli dell’Infanzia, dove si insiste sul parto verginale di Maria e sul ruolo di Giuseppe come rappresentante della Madonna e di Gesù dinanzi alla legge (Protovangelo di Giacomo, 9, 13-19).
La fortuna di Giuseppe si sviluppa nel corso del medioevo, per esaltarne la dedizione, la premura e l’affetto nei confronti di Maria e del Bambino, talché Bernardo di Chiaravalle riprende una vecchia giustapposizione patristica tra le due economie testamentarie, che mettono in parallelo Giuseppe l’ebreo (Genesi, 39, 40-41) con il padre putativo, riconoscendo nel matrimonio con Maria, la congiunzione di Cristo con la Chiesa (Sermone, 146).
Tornando alla produzione artistica, dobbiamo rilevare che, fatta eccezione per qualche immagine tanto rara quanto discussa nei sarcofagi dell’intero orbis Christianus antiquus, l’ingresso della figura di Giuseppe nel repertorio figurativo si avvista soltanto nel pieno v secolo e, in particolare, nel maestoso scenario musivo del santuario mariano, commissionato da Papa Sisto iii (432-440), all’indomani di quel concilio di Efeso che, nel 431, sancisce il dogma del parto verginale di Maria.
Ebbene, nel celebre arco trionfale della basilica che si innalza sull’Esquilino, sfilano, in una sequenza continua, gli episodi salienti dell’infantia Salvatoris, ora ispirata ai vangeli canonici, ora agli scritti apocrifi.
Proprio in questo prezioso e monumentale documento iconografico si fa strada una narrazione più dettagliata e meno sintetica, in modo tale che il cono d’ombra, che fino a quel momento aveva oscurato la figura di Giuseppe, si riduce, a cominciare dalla complessa scena dell’annunciazione, ispirata al vangelo dello Pseudo Matteo (ix, 2), che coglie la Vergine nel momento in cui fila la porpora per il Tempio, mentre l’angelo Gabriele vola nell’aria, assieme alla colomba dello Spirito e mentre altri angeli si pongono stanti come guardiani eccellenti e un quarto serve a dare avvio alla scena seguente.
Qui Giuseppe ascolta un’altra persona angelica, con chiaro riferimento a un’annunciazione a lui riservata, secondo quanto è evocato da Matteo (1, 20-21), ma anche dai vangeli apocrifi di Giacomo (ix) e dello Pseudo Matteo (xi).
La lettura in questo senso è stata comprovata dall’analisi delle sinopie del testo musivo, che ha denunciato, tra i pentimenti in corso d’opera, la presenza di un angelo in volo sulla scena, in perfetta coerenza e simmetria con l’annunciazione a Maria.
La correzione figurativa, rispetto ai referenti evangelici e acanonici, che comporta un annuncio de visu a Giuseppe, serve soltanto a diversificare la scena da un’altra relativa al sogno di Giuseppe, situata all’estremità destra del registro, allorquando l’angelo ordina la fuga di Egitto (Matteo, 2, 13; Pseudo Matteo, 17, 2).
Questo secondo sogno prevale per importanza evocativa a livello semantico, per cui ricostruisce l’atmosfera sospesa della visione, mentre l’annuncio a Giuseppe, seppure avvenuto in sogno, si adegua alla struttura iconografica dell’annunciazione adiacente e storica.
Se la figura di Giuseppe appare anche in altre scene del mosaico sistino e, segnatamente, negli episodi della presentazione al tempio e della conversione di Afrodisio, la fortuna iconografica del padre putativo, seppure come figura secondaria e utile a creare un contesto figurativo complesso, interessa anche i monumenti di manifattura orientale, come la sontuosa cattedra eburnea del presule ravennate Massimiano, attivo nella città esarcale al tempo di Giustiniano.
Ebbene, alcune scene scolpite nelle formelle che decorano il prezioso manufatto, recuperano gli episodi dell’infanzia del Salvatore, tanto è vero che in un unico riquadro sono rappresentati simultaneamente l’esortazione alla fuga da parte di un angelo che parla in sogno a Giuseppe adagiato su un giaciglio e la fuga stessa con la Vergine seduta su un asino guidato da un altro angelo, accompagnata dallo sposo.
Se nella cattedra di Massimiano appare anche il raro episodio apocrifo delle acque amare, dal momento bizantino l’immaginario giuseppino si espande e torna anche negli episodi della Natività, dove era stato dimenticato fino a quel tempo.
In queste scene più tarde, che si sviluppano specialmente nei manufatti eburnei, il presepe accoglie anche la figura di Giuseppe, seduto su una roccia, vestito di una tunichetta da lavoro, appoggiato a un arnese, spesso una sega.
Questo schema torna nelle arti minori di diversa tipologia:  dalle gemme alle ampolle metalliche provenienti dalla Terra Santa, dai monili preziosi di manifattura alessandrina agli evangelari miniati, come quello celebre di Rabula, conservato nella Biblioteca Laurenziana.
In questo prezioso documento Maria siede in atteggiamento pensoso, mentre Giuseppe spunta dietro alla culla in estatica contemplazione del Bambino, secondo un’organizzazione estremamente simile a quella riscontrabile in una formella della cattedra di Massimiano, dove spunta anche la rara immagine della levatrice incredula Salome, ricordata dagli scritti apocrifi.
Ormai, nello scorcio della stagione bizantina e nell’avvio dell’altomedioevo, la figura di Giuseppe, per tanti secoli disattesa, tanto da assurgere al ruolo di “padre nascosto”, si innerva nelle rappresentazioni della Sacra Famiglia, mostrando i caratteri del faber lignarius, ma anche del pater familias, umile, colto nell’operosità quotidiana, rivestendo un ruolo ormai stabile di coprotagonista e mai di primo attore, eppure con un suo posto, iconograficamente non trascurabile se in alcuni rari monumenti egli assume quell’atteggiamento pensoso, che raggiunge il livello della tristezza, assai spesso attribuito a Maria.
Non è escluso che questa variante iconografica, forse desunta dal tipo classico dell’Ercole seduto di Lisippo, vuole tradurre in figura la mestizia di Giuseppe in seguito all’avvertimento avuto in sogno, ma anche il turbamento che riempie il semplice animo di pensieri contrastanti, che vuole rendere l’impatto traumatico con il delicato mistero dell’incarnazione.
(©L’Osservatore Romano – 19 marzo 2010) L’arte cristiana dei primi secoli sembra dimenticare la figura di Giuseppe.
Il fenomeno è stato spiegato riconducendo la formazione del più antico repertorio figurativo cristiano a una intenzione significativa di ordine eminentemente cristologico.
Persino le prime scene di Natività pongono al centro della rappresentazione il Bambino, sorretto da Maria, anch’essa attrice coprotagonista e, spesso, ridotta a mera “chiave di lettura” dell’episodio evangelico, assurgendo al ruolo di “seggio” o di “cattedra”, sulle cui ginocchia siede il piccolo re.
Eppure del padre putativo di Gesù, i vangeli (Luca e Matteo) rievocano dettagliatamente la genealogia come per collocare nella storia umana e nella discendenza di Abramo e di Davide la nascita del Cristo.
Altre notizie provengono da Marco (6, 3) e ancora da Matteo (13, 55) che definiscono Giuseppe come tèkton, una professione di larga accezione, che tocca l’attività del carpentiere, del falegname, ma anche del faber o del maniscalco.

Testimoni: Sugero e la luce mirabile

In una famosa lettera a Sugero, san Bernardo parla della abbazia di San Denis come di una “fucina di Vulcano” e di una “sinagoga di Satana”, stigmatizzando la “pompa e il fasto…
un po’ troppo insolenti” che lo stesso Sugero, nominato abate nel 1122, aveva avallato nei primi tempi della sua gestione, prima della radicale riforma varata nel 1127.
Se i rapporti umani tra i due religiosi dopo la riforma divennero persino affettuosi, non si avvicinarono però le loro idee sulla architettura monastica che possono collegarsi con il diversissimo rapporto che ciascuno di essi aveva verso la natura.
Una celebre affermazione di san Bernardo riguarda i boschi “nei quali si può trovare più che nei libri” ma in realtà i cronisti contemporanei lo descrivono, come scrive Panofsky, “semplicemente cieco di fronte al mondo visibile e alla sua bellezza” e narrano di una cavalcata di un giorno intero intorno al lago di Ginevra fatta senza che il suo sguardo si rivolgesse verso il paesaggio.
Sugero al contrario rivela nei suoi scritti una grande ammirazione per la bellezza del creato, le sue luci e i suoi colori.
Questa sensibilità naturale aveva trovato uno straordinario supporto negli scritti di Dionigi l’Areopagita che egli ancora identificava con il Dionigi amico di san Paolo e nello stesso tempo con il primo vescovo di Parigi, apostolo del cristianesimo in Francia, che aveva dato il suo nome all’abbazia in cui era custodito il suo corpo.
Negli scritti di Dionigi e nelle opere di Scoto Eriugena, suo traduttore e divulgatore, Sugero aveva trovato l’antidoto al rigorismo ascetico di san Bernardo e la giustificazione per la sua naturale inclinazione a vedere nelle bellezze del creato e delle materie preziose lo specchio della bellezza divina.
“Ogni creatura – si legge nel commento di Scoto Eriugena alla Gerarchia Celeste – visibile o invisibile, è una luce portata all’essere dal Padre delle luci.
Questa pietra (…) è una luce per me poiché io percepisco che esiste secondo le sue proprie regole, che cerca il suo luogo conforme alla sua specifica gravità.
Allorché in questa pietra percepisco tali e simili cose esse diventano luci per me, in altre parole mi illuminano.
Poiché io comincio a pensare donde la pietra sia investita da tali proprietà (…) e tosto, sotto la guida della ragione sono condotto, attraverso tutte le cose a quella causa di tutto che attribuisce alle cose luogo ed ordine, numero, specie e genere, bontà e bellezza, ed essenza”, universalis huius mundi fabbrica maximum lumen fit, ex multis partibus veluti ex lucernis compactum, dalle mille piccole luci che brillano nel mondo sensibile si deduce il fulgore compatto della luce divina, dal mondo materiale si ascende a quello immateriale delle gerarchie celesti.
Nel testo greco dello PseudoDionigi, conservato nell’abbazia, Sugero poteva leggere che la nostra natura è “incapace di salire immediatamente verso le contemplazioni spirituali e necessita dei graduali passaggi verso l’alto a lei consoni e naturali” e che “avendo anche la materia ricevuto l’esistenza da chi è veramente bello, possiede secondo tutta la sua disposizione alcune tracce della bellezza spirituale; ed è possibile risalire da queste verso gli archetipi immateriali” (Gerarchia Celeste, i, 3 e 4)  Questa visione, tributaria del neo-platonismo enunciata dallo pseudo Dionigi nel V secolo, è ripresa da Ugo di San Vittore, contemporaneo e amico di Sugero che con intensità poetica celebra la luce e il colore.
“Cosa c’è di più bello della luce – si chiede – che pur non avendo in sé colore, nondimeno illuminandole colora le cose di tutti i loro colori? (…) Ecco la terra ornata di fiori, che spettacolo gioioso ci mostra, come diletta la vista, come provoca amore? Vediamo le rosseggianti rose, i candidi gigli, le purpuree viole, delle quali è mirabile  non solo la bellezza ma l’origine stessa (…) E bello sopra ogni cosa per ultimo il verde, in che modo  rapisce  l’animo  del  contemplante,  quando  a  primavera le gemme producono nuova vita ed  erette  in  alto  con  le  loro spighe erompono nella luce, quasi innestate sopra quelle morte come immagini di futura resurrezione”.
Per Ugo la teologia mondana che si serve della natura per accedere alle realtà spirituali deve integrarsi con la teologia più propriamente divina che utilizza il simulacro del verbo e, anche in questo Sugero si dimostra in sintonia per i continui riferimenti alla Sacra Scrittura di cui tutto il suo racconto è intessuto.
L’originalità di Sugero consiste nell’aver tradotto queste riflessioni filosofiche e teologiche in un programma di azione per estendere e rinnovare la chiesa abbaziale, considerata dalla monarchia francese come chiesa madre in quanto ospite delle sepolture reali.
A essa riuscì in pochi anni ad aggiunge il nartece-facciata e un magnifico coro con due deambulatori.
Spazio e luce erano i suoi obiettivi primari:  lo spazio per evitare gli assembramenti nei giorni di festa, la luce per guidare la mente dei riguardanti dall’umano al divino.
“La potenza prodigiosa – così inizia lo Scriptum Consecrationis – di una ragione unica, singolare e suprema, egualizza armonizzandola la disparità tra il divino e l’umano e le cose che sembrano tra loro in contraddizione per l’inferiorità dell’origine e l’opposizione delle loro singole nature, essa sola le unisce per il felice accordo di una armonia misurata unica e suprema”.
Che Sugero abbia utilizzato per realizzare la sua visione un architetto – o due come suppongono alcuni studiosi – non toglie nulla alla funzione determinante che egli ebbe nella scelta delle forme che potevano tradurre le sue idee, con le quali nel suo scritto dimostra di aver avuto stretta confidenza.
D’altra parte, come affermò Filarete nel suo trattato, se l’architetto è la madre della sua opera in quanto l’ha generata, essa non esisterebbe senza l’azione di un padre-committente che l’ha voluta.
La trasformazione della chiesa iniziò con la demolizione del corpo occidentale costruito da Carlo Magno e la costruzione di una nuova facciata concepita come porta urbis e porta Coeli, sul modello delle porte romane fiancheggiate da due torri.
Nel nuovo portico e nella cappella superiore Sugero sperimentò la volta ogivale in progressive forme di leggerezza e nella facciata compresa tra le torri introdusse per la prima volta il motivo glorioso della finestra centrale a forma di rosone che si diffonderà rapidamente in tutta l’Europa.
Ma è nel rinnovamento della zona absidale che l’abate riesce a esprimere compiutamente la sua visione estetica e teologica puntando sulla trasparenza e sul colore.
“Ora che la nuova parte di fondo – commenta nel suo Scriptum – si congiunge a quella anteriore, la chiesa rifulge illuminata nella sua parte mediana.
Viva luce infatti illumina ciò che luminosamente si unisce a ciò che è luminoso, e luminoso è il nuovo edificio che è profuso di luce nuova”.
Il meditato gioco di parole intorno alla claritas fa capire l’importanza che viene attribuita nella costruzione al colloquio delle parti attraverso la luce, mentre l’allusione alla lux nova allude alla carica innovativa del Nuovo Testamento mostrando chiaramente come il suo metodo anagogico – letteralmente, “che conduce in alto” – si basi sulla trasmissione al linguaggio architettonico di alcune caratteristiche del linguaggio poetico, come la similitudine, la metafora e l’allegoria.
La parte certamente costruita da Sugero nella zona absidale della chiesa – completata poi mirabilmente dall’architetto Pierre de Montreuil – è il doppio deambulatorio e la corona di cappelle che lo circonda illuminate ciascuna da finestre che fiancheggiano gli altari:  “Grazie alle quali tutta la chiesa brillerà per la luce ammirevole e continua delle vetrate risplendenti che scrutano la bellezza interiore” (quo tota, clarissimarum vitrearum luce mirabili et continua interiorem perlustrante pulchritudinem eniteret).
Alcuni studiosi hanno voluto vedere nel doppio ambulatorio un riflesso della soluzione absidale di Saint Martin-des-Champs a Parigi, di qualche anno precedente, ma il confronto tra le due opere non fa che sottolineare la profonda differenza tra uno sviluppo meramente funzionalistico – le cappelle comunicanti che si aggiungono deformandosi al deambulatorio – e una idea nuova di fluidità e trasparenza che, proprio perché ispirata da una nuova sensibilità, fa esplodere letteralmente la spazialità compressa della zona absidale secondo il modello irraggiante del flusso luminoso che proviene da un unico punto.
Segno evidente, questa svolta innovatrice, del ruolo lievitante delle idee, indispensabile nutrimento della ricerca architettonica che quando diventa autoreferenziale subito si isterilisce.
La verità è che Sugero conosceva benissimo le chiese della Normandia e della Borgogna che prefiguravano il gotico, ma nella ricchezza della sua memoria  con  essi  convivevano  i  ricordi di Roma, di Montecassino e l’immagine mitica di Santa Sofia, come era stata descritta da Paolo Silenziario.
L’ammirazione per la luce e il colore delle vetrate si estende alle meravigliose decorazioni immaginate dall’abate per le suppellettili liturgiche, la grande croce, il paliotto dell’altare, il tempietto dei reliquiari.
Oro, perle e pietre preziose sono considerati da Sugero materie necessarie in questi oggetti di venerazione per due ordini di ragioni.
La prima è quella di manifestare la gratitudine verso Dio per aver creato materie di suprema bellezza che innalzano il pensiero verso le bellezze spirituali, la seconda è il richiamo alla Scrittura, all’Esodo, ai Salmi, al libro di Ezechiele e all’Apocalisse di san Giovanni (che Sugero non cita ma dimostra di aver ben presente).
Oltre alle perle, le pietre scelte per il paliotto, la grande Croce e i reliquiari sono il sardonico, il topazio, lo jaspide, il crisolito, l’onice, il berillo, lo zaffiro, il carbuncolo e lo smeraldo, le stesse pietre, con poche varianti, del pettorale di Aronne o delle vesti del re di Tiro, ma anche le pietre del basamento della Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse (21, 19-21):  “Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni sorta di pietre preziose:  il primo fondamento è diaspro, il secondo zaffiro, il terzo calcedonio, il quarto smeraldo, il quinto sardonico, il sesto sardo, il settimo crisolito, l’ottavo berillo, il nono topazio, il decimo crisopraso, l’undecimo giacinto, il dodicesimo ametista.
E le dodici porte sono dodici perle”.  La fede profonda che permea di sé ogni azione del monaco costruttore gli fa riconoscere l’amore provvidenziale e miracoloso del Creatore in ogni felice evento della costruzione:  dal rinvenimento di una cava di pietra, a quello delle pietre preziose o degli alberi necessari per ricavarne delle travi, alla resistenza insperata delle strutture incompiute alla furia di una tempesta.
“Ma una notte, rientrato dal mattutino, cominciai a pensare a letto che io stesso avrei dovuto percorrere tutte le foreste di queste zone (…) Mi liberai in fretta da altri impegni e uscii prestissimo; ci dirigemmo rapidamente, portando con noi i nostri carpentieri e le misure delle travi, alla foresta chiamata Iveline (…) radunammo i guardaboschi e tutti quelli che conoscevano le altre foreste e chiedemmo loro sotto giuramento se fosse possibile trovare anche con grandi difficoltà, tronchi di quelle misure.
A questa domanda si misero a ridere, o meglio ci avrebbero riso in faccia se avessero osato farlo; si meravigliarono che ignorassimo che nulla del genere si poteva trovare in tutta la regione (…) Ma noi cominciammo con il coraggio della fede, per così dire, a cercare per i boschi, e dopo un’ora avevamo trovato un tronco rispondente alle misure.
Che dire di più? Dopo otto ore, o forse meno, per macchie, folti, recessi spinosi invalicabili, avevamo già contrassegnato dodici tronchi”.
La certezza di essere amato da Dio e la speranza nella sua misericordia e quindi “il coraggio della fede” accompagna il racconto in ogni riga del suo svolgimento e dà all’indubbio protagonismo del suo autore che volle il suo nome ricordato infinite volte nelle iscrizioni della chiesa, un carattere diverso dal protagonismo individualistico, tipico del nostro tempo.
La bellezza della chiesa, che definisce madre come aveva fatto Agostino, non è fine a se stessa ma si compie nella solenne bellezza del rito in cui la luce, il colore, il suono, il gesto si fondono ma che solo nella parola, nel verbo, raggiunge la pienezza.
Anche quando dirige il coro, fa da duce al gruppo degli artigiani esecutori, l’abate se ne sente parte integrante e solo nella “coralità” del popolo di Dio riconosce il suo ruolo e i suoi meriti.
“Quando – scrive Sugero – l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne, e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, sulla diversità delle sacre virtù, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del Cielo; e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica”.
Quell’incanto delle pietre multicolori, capace di trasportare chi l’osserva in “un altro mondo”, da immagine intima e personale era destinata a tradursi, a partire dal coro di Saint-Denis, passando dalla scala della decorazione a quella dell’architettura, in una inesauribile pluralità di immagini spaziali vibranti di luce e di colore nel percorso, durato cinque secoli, dell’architettura gotica:  una delle massime espressioni artistiche dell’Europa cristiana.
(©L’Osservatore Romano – 19 novembre 2009) Il dilemma se l’architettura sacra debba essere umile e spoglia o debba rispecchiare la ricchezza e lo splendore della creazione, attraversa tutta la storia della Chiesa cattolica ed è ancora oggetto di animate discussioni.
Due grandi personalità del medioevo rappresentano al più alto livello questo conflitto ideale:  san Bernardo da Chiaravalle e l’abate Sugero, il primo, più giovane del secondo di nove anni, sostenitore del rigorismo che aveva ispirato l’architettura cistercense, il secondo considerato il realizzatore di un edificio, la chiesa abbaziale di Saint-Denis, nei pressi di Parigi, che si può definire il manifesto della architettura gotica.
Di umili origini, Sugero, che il padre Elinando volle donare come oblato al convento di Saint-Denis, svolse nella sua vita una quantità di ruoli diversi:  l’abate, il consigliere di due re, il mediatore tra la monarchia e la Chiesa di Roma, il reggente del regno di Francia durante la seconda crociata, l’amministratore, il riformatore della vita monastica, raggiungendo in tutti – in contrasto con la piccolezza del suo corpo – una eccezionale statura.
Il ruolo tuttavia al quale deve maggiormente la sua fama è quella del committente, costruttore e cronista della sua opera, perché l’ampliamento da lui voluto della chiesa di Saint-Denis non è solo un capolavoro ma una delle opere di architettura di cui è meglio nota la genesi ideale in virtù degli scritti che Sugero stesso ci ha lasciato e in modo particolare dello Scriptum consecrationis ecclesiae sancti Dionysii di cui si conserva una copia manoscritta nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Codice Reg.
Lat.
571.
Le citazioni dalle opere di Sugero sono tratte dai due volumi delle edizioni Les Belles Lettres, Paris 2001).

La Chiesa cattolica nella Germania comunista

La divisione della Germania in seguito alla seconda guerra mondiale ha determinato profondi cambiamenti nello scenario ecclesiastico.
Parti delle diocesi di Paderborn, Würzburg, Fulda e Osnabrück sono state separate di colpo dalle loro sedi vescovili – dato che erano situate sul territorio della zona un tempo di occupazione sovietica, in seguito passata alla Deutsche Demokratische Republik (Ddr), la Repubblica democratica tedesca.
In particolare, è apparso eclatante il caso della diocesi di Berlino.
Solo la diocesi di DresdenMeissen era situata interamente nel territorio della Ddr, come pure residui dell’arcidiocesi di Breslavia, da cui in seguito è sorta la diocesi di Görlitz.
Solo a fatica i vescovi con sedi nella Repubblica federale tedesca hanno potuto mantenere rapporti con i loro fedeli nella Ddr.
Come soluzioni d’emergenza era previsto che i vescovi, per le loro comunità situate nella Ddr, nominassero dei rappresentanti dotati di pieni poteri straordinari.
In tal modo era possibile salvaguardare l’azione pastorale e l’unità ecclesiastica, laddove la costituzione di una conferenza di ordinari tedesco-orientale da parte di Pio xii teneva conto delle esigenze pratiche.
Ma lo scioglimento delle strutture ecclesiastiche dal loro vincolo con le diocesi tedesco-occidentali avite, allo scopo di conseguire un’identica copertura di territorio statale e struttura gerarchica, corrispondeva anch’esso alle aspirazioni d’autonomia statale e di riconoscimento internazionale da parte della dirigenza della Ddr.
Mentre le analoghe intenzioni della dirigenza della Ddr nei confronti delle comunità locali protestanti furono coronate da successo e queste si separarono dalla Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd), si opposero energicamente la Conferenza dei vescovi tedeschi e il Governo della Repubblica federale.
A entrambi premeva sottolineare l’unità della Germania, anche sotto l’aspetto ecclesiastico, insistendo sullo status quo.
La Santa Sede venne incontro alle concrete esigenze pastorali, creando nel 1973 per le parti delle diocesi tedesco-occidentali situate nella Ddr i cosiddetti Uffici diocesani di Erfurt-Meiningen, Magdeburgo e Schwerin, e nominando per ciascuno d’essi un amministratore apostolico, mentre la giurisdizione del vescovo occidentale restava sospesa, ma non veniva soppressa.
Nel 1976 fu costituita la “Conferenza dei vescovi di Berlino”, che divenne un necessario forum di comunicazione per gli amministratori apostolici, come pure per i vescovi di Berlino e Dresden-Meissen.
Un’ulteriore iniziativa auspicata dalla diplomazia della Ddr e progettata dall’arcivescovo Casaroli, segretario del Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, ossia quella di innalzare gli Uffici vescovili al rango di Amministrazioni apostoliche, non fu più messa in atto, poiché Paolo VI morì il 6 agosto 1978 e Giovanni Paolo II inaugurò un nuovo corso.
Se Paolo VI era partito dal presupposto d’una durata imprevedibile del sistema sovietico e quindi s’era adoperato per trovare un modus vivendi – o meglio, non moriendi – con Mosca, al fine di garantire la sopravvivenza della Chiesa nel blocco orientale, Giovanni Paolo II s’impegnò invece in un confronto risoluto.
Quindi tramontarono anche le aspirazioni dirette alla costruzione di una struttura gerarchica circoscritta al territorio della Ddr.
Solo dopo la caduta del Muro ha potuto configurarsi un nuovo ordinamento ecclesiastico, senza che fosse connesso a implicazioni politiche.
Nel 1994 furono erette le diocesi di Magdeburgo ed Erfurt, per cui si pose fine all’ordinamento provvisorio in vigore fino a quel momento.
Per quanto riguarda l’organizzazione ecclesiastica, la situazione pastorale, religiosa nella Ddr era determinata dalla circostanza che con la Riforma del XVI secolo erano stati soppressi una quindicina di diocesi e numerosi conventi.
A eccezione di pochi territori – pensiamo all’Eichsfeld, a Oberlausitz, come pure a singoli conventi – fin dalla guerra dei Trent’anni la vita ecclesiastica cattolica nel territorio di quella che sarebbe diventata la Ddr si era estinta.
Una situazione completamente nuova si è profilata solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, a causa della quale circa un milione e mezzo di fuggiaschi o profughi cattolici affluirono nel territorio della futura Ddr.
Alcuni hanno ipotizzato che le potenze vincitrici avessero in programma una mescolanza confessionale connessa a questo processo.
In tal modo ha avuto origine una diaspora cattolica negli odierni nuovi Länder federali.
La situazione dei cattolici era quindi molto difficile, perché questi territori già all’epoca della Repubblica di Weimar, anzi già verso la fine del xix secolo, a causa della propaganda ateistica dei socialisti, erano stati largamente scristianizzati.
Durante gli anni del nazismo l’ideologia del sangue e del suolo, cioè della razza, contribuì alla diffusione della religione neopagana della razza germanica, che accentuò ulteriormente la scristianizzazione.
Quindi l’ateismo connesso al regime della Sed (il partito socialista unitario tedesco) ha avuto gioco facile.
Di conseguenza la fede dei cattolici che vivevano in quest’ambiente è stata sottoposta alle prove più ardue.
La Chiesa cattolica, nella Ddr, si trovava in una duplice situazione di diaspora.
Sul piano confessionale, rispetto alla popolazione di religione evangelica, rappresentava una quantité négligeable.
Protestanti e cattolici, però, cominciarono a considerarsi sempre più, in un certo senso, come piccole oasi in un deserto di ateismo.
Un’esperienza che ha portato a una forma di solidarietà e a una vicinanza ecumenica.
Nelle questioni di attualità, soprattutto quelle legate alla politica ecclesiastica, si trovava un accordo – il rapporto con gli organi dello Stato e del partito era molto diverso.
Un parallelo cattolico rispetto al modello protestante di una “Chiesa nel socialismo” non è esistito in nessuna fase.
Piuttosto il contrasto con l’ideologia dominante era univoco.
La resistenza cattolica si è diretta non tanto contro lo Stato di per sé, ma contro l’ideologia che ne era alla base.
Questa differenza affonda le sue radici fin nell’epoca della Riforma.
Soprattutto nei territori di Prussia-Brandeburgo, in conseguenza della Riforma la sovranità sulla Chiesa era stata rivendicata dai principi dei singoli territori, che si sentivano summi episcopi delle loro Chiese territoriali.
Questo sistema di governo ecclesiastico su base territoriale da parte dei signori ebbe naturalmente come conseguenza una particolare prossimità o dipendenza della Chiesa dallo Stato.
Nel mio luogo d’origine, Ansbach – un principato del Brandeburgo – ancora alla fine del XVIII secolo il ii Senato della Camera della guerra e del demanio svolgeva le funzioni di suprema autorità ecclesiastica.
Questa dipendenza s’è mantenuta oltre la fine della monarchia.
Ben diversa si presentava la situazione dei cattolici, che in particolare in seguito alle leggi bismarckiane connesse al Kulturkampf (dopo il 1870) erano stati sottoposti a una persecuzione più grave che sotto il regime nazista.
Durante questa fase furono scacciati o incarcerati nove dei dodici vescovi prussiani.
Un destino che fu condiviso da centinaia di sacerdoti.
Queste esperienze vissute nel passato hanno segnato in modo duraturo l’atteggiamento dei cattolici nei confronti del potere statale.
A ciò s’è aggiunta l’esperienza del periodo nazista, che “fa capire la strategia difensiva adottata dai vertici della Chiesa cattolica nella Ddr fino agli anni Ottanta, orientata a compartimentare la limitata sfera ecclesiastica interna” (H.
Heineke).
Quindi, da parte cattolica, s’è mantenuta una distanza nei confronti degli organi statali e partitici, senza tuttavia provocarli con una resistenza aperta.
I contatti comunque necessari con queste istanze furono affidati dai vescovi a singoli sacerdoti, che dovevano agire su loro incarico e secondo le loro direttive.
A questo punto è naturale chiedersi se dalle cerchie del clero siano usciti collaboratori o fiancheggiatori della Stasi, i servizi segreti della Ddr.
Per quanto è consentito dire allo stato attuale della ricerca, la rigida regolamentazione di questi contatti era in grado d’impedire una simile collaborazione a livello diffuso.
Se il ministero per la Sicurezza dello Stato ha perseguito l’obiettivo d’esercitare pressioni sulla Chiesa cattolica per pilotarla, attraverso informazioni informali nel senso della politica ecclesiastica condotta dallo Stato-Sed, si è trattato di un tentativo fallito.
Di 183 dirigenti che tra il 1950 e il 1989 hanno lavorato per la Caritas, solo tre hanno avuto contatti cospirativi con la Stasi.
Quattro sacerdoti agivano su disposizioni dei vescovi.
L’altro risvolto di questo modello pastorale della distanza nei confronti dello Stato e di una società plasmata dal materialismo comunista, consisteva nel percepire e criticare la vita ecclesiastica concentrata “intorno al campanile” come un cristianesimo da sacrestia angusto e segregato.
Per un altro verso, per la piccola Chiesa cattolica della diaspora il legame con Roma era stato importante da sempre.
Dopo l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II questo legame s’è rivelato decisivo per una riorganizzazione della vita ecclesiastica.
In questo contesto il Papa non solo ha offerto sostegno ai vescovi, ma li ha invitati ad avviare un rapporto con le cerchie evangeliche impegnate “per la giustizia, la pace e la preservazione della creazione”.
Ma con ciò siamo già alle soglie dell’anno 1989.
Ancora oggi sono vivide le immagini che si sono presentate allo sguardo dello spettatore nella tarda estate del 1989 a Lipsia: erano le famose dimostrazioni del lunedì, la prima delle quali ebbe luogo il 4 settembre.
Meta delle dimostrazioni era la chiesa di San Nicola, nella quale si concludevano con la preghiera della pace.
Lo stesso accadeva in numerose città della Ddr.
Era la comunità evangelica che aveva aperto le sue chiese a questo scopo e aveva appoggiato in vari modi le dimostrazioni.
A questo punto è legittimo interrogarsi sull’eventuale impegno cattolico nel processo di svolta.
In confronto al ruolo svolto dalle comunità evangeliche, esso appare più modesto.
Ma questa circostanza non deve meravigliare, dato che i cattolici rappresentavano solo una esigua minoranza.
La quota di protestanti sulla popolazione complessiva, che ammontava all’85 per cento nel 1950, si era ridotta al 25 per cento nel 1989, quella dei cattolici era passata dal 10 per cento al 5 per cento.
Naturalmente i cattolici non possedevano chiese che avrebbero potuto accogliere una moltitudine di persone per la preghiera della pace – a eccezione delle note enclavi cattoliche di Eichsfeld e Oberlausitz.
Tuttavia, non poche comunità cattoliche si sono impegnate in misura più modesta anche politicamente.
Così molti cattolici si comportavano da oppositori; insieme con i protestanti si impegnavano per l’ambiente e nei movimenti pacifisti e si schieravano nelle dimostrazioni del lunedì.
Il vescovo di Dresda, Reinelt, ha riferito, per esempio, di aver spesso accompagnato coloro che dimostravano contro il regime della Ddr insieme con il vescovo evangelico locale – quest’ultimo a Lipsia, Reinelt a Dresda.
Le singole parrocchie offrivano gli spazi dove i membri democratici della comunità, critici verso il regime, s’incontravano e si scambiavano le loro opinioni.
Inoltre, bisogna aggiungere che i cattolici della Germania Est guardavano indubbiamente con attenzione agli eventi in Polonia, dove dopo la quasi profetica omelia di Pentecoste pronunciata da Giovanni Paolo II a Varsavia, nel 1979, s’era messo in moto un movimento che alla fine avrebbe portato agli avvenimenti del 1989.
Il Papa allora aveva citato il versetto della liturgia di Pentecoste: “Emitte Spiritum tuum…
et renovabis faciem terrae.” Poi aveva battuto al suolo energicamente il suo bastone pastorale e aveva proseguito: “Questa terra qui”.
In polacco “terra” significa anche “Paese”! Consentitemi di citare, per ricapitolare, cosa scrive nel suo nuovo libro Urbi et Gorbi – Christen als Wegbereiter der Wende Joachim Jauer, che è stato per anni corrispondente della Zdf nella Ddr e in Europa orientale: “Sono senz’altro più numerosi i protagonisti evangelici rispetto a quelli cattolici, e questo non stupisce.
Ci troviamo qui, nel paese di Lutero, nell’ex Ddr.
Le piccole comunità cattoliche qui sono sorte solo dopo la seconda guerra mondiale, dagli insediamenti di profughi della Boemia o della Slesia.
Questa è la prima osservazione.
La seconda è che i vescovi cattolici volevano salvaguardare il loro piccolo gregge e hanno quasi innalzato un baluardo difensivo intorno a loro.
Questo ha fatto sì che la piccola Chiesa cattolica, sul territorio della Ddr, abbia potuto preservare i suoi fedeli dalla perdita della fede molto più della grande Chiesa evangelica, dalla quale i capi della Sed…
sono riusciti ad allontanare una quantità, addirittura milioni, di persone.
Questo tra i cattolici non è stato possibile…
Ma queste notizie non arrivavano all’opinione pubblica.
Anche per noi corrispondenti era quasi impossibile aver accesso a queste informazioni…
Non ho mai…
potuto fare un servizio in una chiesa cattolica…
Da questo emerge…
un’immagine distorta, come se i cattolici addirittura non fossero esistiti”.
Ma subito dopo la svolta si è visto che esistevano e non erano rimasti affatto inattivi.
Il teologo evangelico Erhard Neubert, sbalordito ed evidentemente contrariato per il gran numero di cattolici che dopo il 1990 si sono assunti responsabilità politiche nei nuovi Länder federali, scrisse nel 1991: “Abbiamo esautorato la Sed, e ora il potere l’hanno preso i cattolici”.
La tesi della rivoluzione protestante è falsa quanto quella della presa del potere da parte dei cattolici dopo il 1990.
Che i cattolici, in rapporto alla loro quota nella popolazione complessiva, fossero rappresentati politicamente in modo sproporzionato, era dovuto al fatto di essere impegnati prevalentemente nella Christlich Demokratische Union (Cdu).
A questo si aggiungeva che il programma della Cdu si inseriva nella tradizione della dottrina sociale cattolica, che non era affatto ignota ai cattolici impegnati della Ddr.
Inoltre, si è potuto accertare che fin dagli anni Settanta si è verificata nella Ddr un'”ascesa silenziosa” dell’élite cattolica verso posizioni direttive non politiche in ambito accademico, nella sanità e nelle professioni tecniche.
A differenza dei laici attivi durante la svolta, i vescovi si sono espressi e comportati con discrezione in relazione alla politica.
Questo non esclude che, per esempio, il vescovo di Magdeburgo, Braun, già nel settembre 1989, abbia formulato apertamente delle critiche nei confronti del regime della Sed.
Il vescovo Reinelt di Dresda, all’inizio dell’ottobre 1989, ha cercato d’impedire personalmente violenti scontri fra dimostranti e servizi di sicurezza nella piazza della stazione di Dresda; e il 16 ottobre, due giorni dopo l’esautoramento del capo dello Stato della Ddr, Erich Honecker, ha chiamato i cattolici ad impegnarsi nella politica.
Questo appello è stato prontamente raccolto dalle comunità.
Potrebbero essere citati ancora altri esempi.
In ogni caso, si può parlare anche d’una partecipazione dei cattolici alla svolta.
Quando è caduto il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, alcuni vescovi tedeschi – fra i quali quello di Berlino, Sterzinsky, che aveva assunto la sua carica solo in settembre – si trovavano a Roma per incontrare papa Giovanni Paolo II.
Quando i vescovi, sorpresi dagli eventi, si sono accomiatati dal Papa per affrettarsi a tornare in patria, Giovanni Paolo II li ha congedati con queste parole: “Fate di tutto, per unirvi anche voi, seppure come un piccolo gregge, a tutti gli uomini di buona volontà, in particolare ai cristiani evangelici, per rinnovare la faccia della terra nel vostro Paese nella forza dello Spirito divino”.
Un’eco significativa della famosa predica di Pentecoste pronunciata a Varsavia nel 1979.
A questo punto è opportuno chiedersi se questo è accaduto, se la faccia della terra sia stata effettivamente rinnovata nei nuovi Länder federali.
Ora, sul piano organizzativo la risposta può essere affermativa.
In questo arco di tempo nei nuovi Länder federali sono state create le strutture gerarchiche, e le relazioni fra Stato e Chiesa sono state regolate da concordati.
Dal 1989 sono stati fondati 26 conventi maschili, 24 conventi femminili e numerosi movimenti religiosi – come per esempio Comunione e liberazione, Cursillo de Cristiandad, Mariage Encounter, Emmanuel e altri – hanno intrapreso la loro attività apostolica.
A questo si aggiunge la fondazione di 58 nuove scuole cattoliche.
Tutto ciò conferma anche per la Chiesa nella ex Ddr la validità del motto di Montecassino: Succisa virescit.
Sono ormai trascorsi vent’anni dalla svolta, dalla liberazione della Chiesa nella Germania orientale.
A questo punto, si è tentati di chiedersi se a questo processo sia connessa anche una corrispondente influenza sulla società dei nuovi Länder.
Fino a oggi non è possibile dare una risposta positiva a tale proposito, se si considera l’alta percentuale di voti che ha ottenuto nelle elezioni degli ultimi due decenni il partito succeduto alla Sed, la Pds, legata come in precedenza all’ideologia marxista.
Anche lo schieramento estremista di destra ha un seguito tutt’altro che modesto.
Comunque, oggi, non è ancora il momento per interrogarsi su un’eventuale influenza cristiana sulla società della ex Ddr a seguito della svolta.
Circa cento anni di scristianizzazione di questi Länder – prima a causa del materialismo volgare del tardo Ottocento e poi delle ideologie irreligiose del Novecento – hanno contribuito al sorgere, in questi luoghi, di un clima spirituale e sociale che non è affatto favorevole al diffondersi del messaggio cristiano.
Ma questa situazione non deve assolutamente indurre alla rassegnazione, deve piuttosto essere riconosciuta e raccolta dalla Chiesa in Germania come una sfida.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009)

Matteo Ricci: dialogando col Dragone

«Possiamo imparare a essere saggi in tre modi.
Il primo è quello « dell’imparare a riflettere, ed è il migliore.
Il secondo è l’imitazione, ed è il più facile.
Il terzo è affidarsi all’esperienza, ed è il più doloroso».
Non sappiamo se Matteo Ricci conoscesse questo frammento dei Dialoghi (Lün-yü) di K’ung futzu, il “maestro K’ung” che, col nome latinizzato di Confutius, egli aveva considerato come una guida per condurre – attraverso la riflessione, l’esempio e la maturazione umana – anche il cinese verso l’uomo nuovo cristiano.
Certo è che egli studiò e seguì quei percorsi di sapienza per compiere una delle esperienze più alte e intense di dialogo interculturale e interreligioso.
La mostra e i saggi di questo catalogo sono quasi la cristallizzazione simbolica di un simile itinerario che ha reso il gesuita maceratese un precursore e un emblema anche nei secoli successivi.
La sua forte consapevolezza apostolica La sua forte consapevolezza apostolica e missionaria, la poliedrica formazione che spaziava nello stesso orizzonte scientifico (egli, tra l’altro, era contemporaneo di Galileo), la straordinaria capacità di ermeneutica del messaggio profondo sotteso alla tradizione confuciana e alla cultura cinese, la sua acuta disponibilità a riflettere, imitare e vivere la realtà cinese (per usare la trilogia sopra evocata da Confucio) lo rendono un importante testimone di un fenomeno che è capitale anche ai nostri giorni per il cristianesimo, quello dell’inculturazione o acculturazione.
Alcuni considerano i due termini come sinonimi, altri operano tra essi sottili distinzioni, altri poi li oppongono tra loro: ad esempio, nell’Enciclopedia Europea (III, 956) il termine “acculturazione” è inteso nel senso negativo di assorbimento e dissoluzione distruttiva delle diversità etnico-culturali dei vari popoli a causa della globalizzazione imposta dall’Occidente.
È indiscutibile che questo rischio esiste ed è da imputare a un’inculturazione o acculturazione di implicita impronta “coloniale”, impositiva e non propositiva e dialogica, lontana quindi dall’atteggiamento di Ricci.
Noi usiamo ora il più comune termine “inculturazione”, apparso per la prima volta nel linguaggio ecclesiale nel Messaggio al popolo di Dio (n.
5) del Sinodo dei Vescovi del 1977.
In realtà, già nel 1953 il missiologo Pierre Charles intitolava così un articolo apparso sulla «Nouvelle Revue Théologique»: Missiologie et acculturation (optando, però, per l’altro termine, “inculturazione”).
Il Concilio Vaticano II esprimeva la stessa idea ricorrendo a due termini tardo-latini, adaptatio e accommodatio (si veda, ad esempio, Ad gentes n.
22).
In pratica potremmo definire questo approccio missionario-pastorale-culturale come una scelta che riconosce la differenziazione delle culture e sceglie di innestare in esse il seme del Vangelo così che, sulla base di una mutua fecondazione (tra seme e terreno fertile), si compia un’autentica incarnazione e una rigenerazione benefica dello stesso Vangelo nel nuovo contesto.
Questa scelta pastorale, teologica e culturale fu così formalizzata da Giovanni Paolo II in un discorso tenuto in Kenya nel1980: «L’acculturazione o inculturazione sarà realmente un riflesso dell’incarnazione del Verbo, quando una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione, di pensiero cristiano».
Questa impostazione – come sottolineava il Papa – appartiene alla stessa logica dell’Incarnazione.
Non solo perché il messaggio evangelico dev’essere sale, lievito, seme, luce, per usare note metafore bibliche, ma anche perché la stessa Parola di Dio non è un aerolito piombato dal cielo, uno scrigno di teoremi teologici preconfezionati, una fredda pietra preziosa da custodire, bensì un seme che è cresciuto nella terra della sarx, ossia della “carne” della storia e della cultura umana.
Si pensi solo al confronto dinamico che intercorre tra la Rivelazione anticotestamentaria e le varie civiltà, dalla nomadica alla fenicio-cananea, dalla mesopotamica all’egizia, dall’hittita alla persiana e alla greco-ellenistica, mentre il cristianesimo si è vivacemente confrontato e anche affrontato col giudaismo palestinese e della Diaspora, con la cultura greco-romana, con le forme gnostiche e cultuali pagane.
Giovanni Paolo II, nel 1979, affermava davanti alla Pontificia Commissione Biblica che, ancor prima di farsi carne «la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile alle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni storiche».
La scelta dell’inculturazione non è, quindi, di tattica missionaria o al massimo di larga strategia pastorale, ma è strutturale alla stessa fede cristiana.
La Rivelazione biblica è, infatti, frutto del congiungimento tra Logos e sarx, in analogia a quanto accade nel Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’umanità.
Diventano, così, molto meno paradossali certe espressioni dei Padri, come quella della Prima Apologia di s.
Giustino che nel II secolo affermava: «Del Logos divino fu partecipe tutto il genere umano e coloro che vissero secondo il Logos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come, fra i Greci, Socrate ed Eraclito e altri come loro» (46, 2-3).
È naturale che questa imprescindibile inculturazione deve, però, custodire l’autenticità del messaggio, senza deformarlo o stingerlo col rischio di estinguerlo.
In questa luce si comprende quanto sia al tempo stesso necessario, ma anche rischioso e delicato, il processo di evangelizzazione interculturale che ancor oggi è programmatico per la Chiesa e che ha in Matteo Ricci quasi l’alfiere e il testimone più incisivo e significativo.
in “Il Sole-24 Ore” del 25 ottobre 2009

Simeone il Nuovo Teologo

Simeone il Nuovo Teologo nacque nel 949 a Galatai, in Paflagonia (Asia Minore), da una nobile famiglia di provincia.
Ancora giovane, si trasferì a Costantinopoli per intraprendere gli studi ed entrare al servizio dell’imperatore.
Ma si sentì poco attratto dalla carriera civile che gli si prospettava e, sotto l’influsso delle illuminazioni interiori che andava sperimentando, si mise alla ricerca di una persona che lo orientasse nel momento pieno di dubbi e di perplessità che stava vivendo, e che lo aiutasse a progredire nel cammino dell’unione con Dio.
Trovò questa guida spirituale in Simeone il Pio (Eulabes), un semplice monaco del monastero di Studios, a Costantinopoli, che gli diede da leggere il trattato La legge spirituale di Marco il Monaco.
In questo testo Simeone il Nuovo Teologo trovò un insegnamento che lo impressionò molto: “Se cerchi la guarigione spirituale – vi lesse – sii attento alla tua coscienza.
Tutto ciò che essa ti dice fallo e troverai ciò che ti è utile”.
Da quel momento – riferisce egli stesso – mai si coricò senza chiedersi se la coscienza non avesse qualche cosa da rimproverargli.
Simeone entrò nel monastero degli Studiti, dove, però, le sue esperienze mistiche e la sua straordinaria devozione verso il Padre spirituale gli causarono difficoltà.
Si trasferì nel piccolo convento di San Mamas, sempre a Costantinopoli, del quale, dopo tre anni, divenne il capo, l’igumeno.
Lì condusse un’intensa ricerca di unione spirituale con Cristo, che gli conferì grande autorità.
È interessante notare che gli fu dato l’appellativo di “Nuovo Teologo”, nonostante la tradizione riservasse il titolo di “Teologo” a due personalità: all’evangelista Giovanni e a Gregorio di Nazianzo.
Soffrì incomprensioni e l’esilio, ma fu riabilitato dal Patriarca di Costantinopoli, Sergio II.
Simeone il Nuovo Teologo passò l’ultima fase della sua esistenza nel monastero di Santa Marina, dove scrisse gran parte delle sue opere, divenendo sempre più celebre per i suoi insegnamenti e per i suoi miracoli.
Morì il 12 marzo 1022.
Il più noto dei suoi discepoli, Niceta Stetatos, che ha raccolto e ricopiato gli scritti di Simeone, ne curò un’edizione postuma, redigendo in seguito la biografia.
L’opera di Simeone comprende nove volumi, che si dividono in Capitoli teologici, gnostici e pratici, tre volumi di Catechesi indirizzate a monaci, due volumi di Trattati teologici ed etici e un volume di Inni.
Non vanno poi dimenticate le numerose Lettere.
Tutte queste opere hanno trovato un posto di rilievo nella tradizione monastica orientale sino ai nostri giorni.
Simeone concentra la sua riflessione sulla presenza dello Spirito Santo nei battezzati e sulla consapevolezza che essi devono avere di tale realtà spirituale.
La vita cristiana – egli sottolinea – è comunione intima e personale con Dio, la grazia divina illumina il cuore del credente e lo conduce alla visione mistica del Signore.
In questa linea, Simeone il Nuovo Teologo insiste sul fatto che la vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma dall’esperienza spirituale, dalla vita spirituale.
La conoscenza di Dio nasce da un cammino di purificazione interiore, che ha inizio con la conversione del cuore, grazie alla forza della fede e dell’amore; passa attraverso un profondo pentimento e dolore sincero per i propri peccati, per giungere all’unione con Cristo, fonte di gioia e di pace, invasi dalla luce della sua presenza in noi.
Per Simeone tale esperienza della grazia divina non costituisce un dono eccezionale per alcuni mistici, ma è il frutto del Battesimo nell’esistenza di ogni fedele seriamente impegnato.
Un punto su cui riflettere, cari fratelli e sorelle! Questo santo monaco orientale ci richiama tutti ad un’attenzione alla vita spirituale, alla presenza nascosta di Dio in noi, alla sincerità della coscienza e alla purificazione, alla conversione del cuore, così che realmente lo Spirito Santo divenga presente in noi e ci guidi.
Se infatti giustamente ci si preoccupa di curare la nostra crescita fisica, umana ed intellettuale, è ancor più importante non trascurare la crescita interiore, che consiste nella conoscenza di Dio, nella vera conoscenza, non solo appresa dai libri, ma interiore, e nella comunione con Dio, per sperimentare il suo aiuto in ogni momento e in ogni circostanza.
In fondo, è ciò che Simeone descrive quando narra la propria esperienza mistica.
Già da giovane, prima di entrare in monastero, mentre una notte in casa prolungava le sue preghiere, invocando l’aiuto di Dio per lottare contro le tentazioni, aveva visto la stanza piena di luce.
Quando poi entrò in monastero, gli furono offerti libri spirituali per istruirsi, ma la loro lettura non gli procurava la pace che cercava.
Si sentiva – egli racconta – come un povero uccellino senza le ali.
Accettò con umiltà questa situazione, senza ribellarsi, e allora cominciarono a moltiplicarsi di nuovo le visioni di luce.
Volendo assicurarsi della loro autenticità, Simeone chiese direttamente a Cristo: “Signore, sei davvero tu stesso qui?”.
Sentì risuonare nel cuore la risposta affermativa e ne fu sommamente consolato.
“Fu quella, Signore – scriverà in seguito – la prima volta che giudicasti me, figlio prodigo, degno di ascoltare la tua voce”.
Tuttavia, neanche questa rivelazione lo lasciò totalmente quieto.
Si interrogava piuttosto se pure quell’esperienza non fosse da ritenersi un’illusione.
Un giorno, finalmente, accadde un fatto fondamentale per la sua esperienza mistica.
Egli cominciò a sentirsi come “un povero che ama i fratelli” (ptochós philádelphos).
Vedeva intorno a sé tanti nemici che volevano tendergli insidie e fargli del male, ma nonostante ciò avvertì in se stesso un intenso trasporto d’amore per loro.
Come spiegarlo? Evidentemente non poteva venire da lui stesso un tale amore, ma doveva sgorgare da un’altra fonte.
Simeone capì che proveniva da Cristo presente in lui e tutto gli divenne chiaro: ebbe la prova sicura che la fonte dell’amore in lui era la presenza di Cristo e che avere in sé un amore che va oltre le mie personali intenzioni indica che la fonte dell’amore sta in me.
Così, da una parte possiamo dire che senza una certa apertura all’amore Cristo non entra in noi, ma, dall’altra, Cristo diventa fonte di amore e ci trasforma.
Cari amici, questa esperienza resta quanto mai importante per noi, oggi, per trovare i criteri che ci indicano se siamo realmente vicini a Dio, se Dio c’è e vive in noi.
L’amore di Dio cresce in noi se rimaniamo uniti a Lui con la preghiera e con l’ascolto della sua parola, con l’apertura del cuore.
Solamente l’amore divino ci fa aprire il cuore agli altri e ci rende sensibili alle loro necessità, facendoci considerare tutti come fratelli e sorelle e invitandoci a rispondere con l’amore all’odio e con il perdono all’offesa.
Riflettendo su questa figura di Simeone il Nuovo Teologo, possiamo rilevare ancora un ulteriore elemento della sua spiritualità.
Nel cammino di vita ascetica da lui proposto e percorso, la forte attenzione e concentrazione del monaco sull’esperienza interiore conferisce al Padre spirituale del monastero un’importanza essenziale.
Lo stesso giovane Simeone, come s’è detto, aveva trovato un direttore spirituale, che ebbe ad aiutarlo molto e del quale conservò grandissima stima, tanto da riservargli, dopo la morte, una venerazione anche pubblica.
E vorrei dire che rimane valido per tutti – sacerdoti, persone consacrate e laici, e specialmente per i giovani – l’invito a ricorrere ai consigli di un buon padre spirituale, capace di accompagnare ciascuno nella conoscenza profonda di se stesso, e condurlo all’unione con il Signore, affinché la sua esistenza si conformi sempre più al Vangelo.
Per andare verso il Signore abbiamo sempre bisogno di una guida, di un dialogo.
Non possiamo farlo solamente con le nostre riflessioni.
E questo è anche il senso della ecclesialità della nostra fede, di trovare questa guida.
Concludendo, possiamo sintetizzare così l’insegnamento e l’esperienza mistica di Simeone il Nuovo Teologo: nella sua incessante ricerca di Dio, pur nelle difficoltà che incontrò e nelle critiche di cui fu oggetto, egli, in fin dei conti, si lasciò guidare dall’amore.
Seppe vivere lui stesso e insegnare ai suoi monaci che l’essenziale per ogni discepolo di Gesù è crescere nell’amore e così cresciamo nella conoscenza di Cristo stesso, per poter affermare con san Paolo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20).
(©L’Osservatore Romano – 17 settembre 2009)

Giugno

Le idee buddiste sulla morte sono fondate sull’antica dottrina indiana del samsara, variamente tradotto come “reincarnazione”, “trasmigrazione” o più semplicemente “rinascita”, ma che letteralmente significa “errare” da una vita a un’altra.
La religione indiana era giunta a ritenere che la vita fosse ciclica: una persona nasce, cresce, muore e quindi rinasce in un altro corpo per ricominciare il processo da capo.
La rinascita può avvenire come essere umano, divinità, fantasma o animale.
La natura della reincarnazione dipende dal karma o “azione” morale.
Chi accumula merito, o buon Karma, nel corso della vita rinascerà in una condizione più propizia della precedente, persino come un dio.
L’opposto capita se prevale il Karma negativo delle cattive azioni.
I colpevoli peggiori, prima di reincarnarsi in una differente forma, devono sradicare i propri demeriti soffrendo in uno degli strati dell’inferno, disposti in rapporto alla severità della loro punizione.
Il livello più basso è riservato a coloro che hanno ucciso i genitori o il maestro.
Il “risveglio” del Buddha ebbe inizio con la comprensione che tutta la vita è sofferenza.
Rimuovendo l’ignoranza Siddharta fu in grado di porre fine alla sofferenza in quell’esperienza che i buddisti chiamano nirvana, termine che letteralmente significa “estinguere” il fuoco del desiderio che il Buddha percepiva come il combustibile per il samsara e fonte della sofferenza.
Per la cultura tibetana la morte è, prima di tutto, un istante che ha un’importanza estrema: bisogna abbracciare coscientemente la morte perché possa condurre alla liberazione.
Essa rientra nel gruppo di quei momenti singolari della vita dell’uomo che il buddismo chiama bardo e a cui è riconosciuta una dignità particolare.
La morte è come un risveglio per colui che si è convenientemente preparato; costui vi può trovare la liberazione definitiva.
Il Libro tibetano dei Morti, il Bardo Thödol, non solo offre all’uomo la possibilità di farsi in anticipo un’idea di questo viaggio mentale tanto atteso, ma deve aiutarlo a esercitarsi in anticipo sul comportamento adeguato, grazie a determinate meditazioni e a determinati rituali.
L’individuo potrà così, nel momento decisivo, raccogliere il frutto di quegli insegnamenti ed esercizi; così la preparazione alla morte diventerà nello stesso tempo il senso della sua vita.
Introduzione Riprendiamo il discorso sulla vita e la morte nelle religioni iniziato il mese scorso con l’ebraismo e il cristianesimo per estenderlo qui all’islam, all’induismo e al buddismo.
Il tema si presta molto bene per un approccio comparativo delle religioni, così come indicato sia negli O.S.A delle Secondarie di Primo grado che in quelle del Secondo grado.
Qualunque siano le immagini, le rappresentazioni e le esperienze veicolate dalle risposte delle religioni alla questione della morte, colpisce il fatto che esse gettino sempre un ponte sulla questione del senso stesso della vita umana.
Dal momento in cui si parla della mortalità, non è possibile evitare di interrogarsi sul valore, sul senso di tutta una vita: confrontare la vita con la sua fine, vuol dire rimetterla radicalmente in discussione.
Ogni tentativo di elaborazione sulla propria mortalità conduce dunque necessariamente a produrre degli enunciati sul ruolo della vita terrena.
Tutta la filosofia induista è basata sul tentativo di migliorare la vita e, pur prendendo avvio da una visione pessimistica (la vita come sofferenza), giunge a una visione ottimistica della propria salvezza.
Si può così meglio comprendere l’atteggiamento fatalistico dell’uomo indù, la rassegnazione dell’individuo, la passività apparente, il non intervento dell’uno nella vita dell’altro.
L’uomo è il solo artefice del proprio destino: né gli dei né gli uomini possono intervenire a suo favore, è solo lui stesso che con la sua devozione può risvegliare in sé le forze purificatrici del suo destino.
Gli dei non sono che la manifestazione riflessa della natura stessa dell’uomo, dei processi vitali del suo corpo, degli impulsi che animano il mondo materiale, delle sue emozioni.
Essi non sono entità esterne all’uomo, ma sono le medesime potenze di cui è intessuto il suo essere, la qualità e i difetti che traspaiono nella stessa sostanza della sua anima durante il ciclo del karma.
Essere in accordo con la divinità, compiendo i riti e seguendo le leggi, significa essere d’accordo con se stessi e garantirsi una vita migliore prima o dopo la morte.
Ne consegue che l’etica nell’induismo è ben diversa da quella occidentale.
L’individuo deve comportarsi secondo le regole del karma-samsara per la sua salvezza che, in fondo, non è che il ritorno al mare dell’acqua contenuta in un vaso.
La vita dell’induista è rivolta a quattro scopi fondamentali: osservare le leggi universali divine, dharma; pensare al benessere proprio e della società, artha; soddisfare in modo lecito i propri desideri, kama; e infine la liberazione o la salvezza, moksha.
Persino nel perseguire questi quattro scopi vi è una progressiva purificazione.
I primi tre sono rivolti all’uomo coinvolto nel mondo che dovrà osservare attentamente il dharma nell’adempiere i propri doveri e le proprie responsabilità: è la via dell’azione, la via che insegna a compiere l’azione disinteressata, a sviluppare quella rinuncia ai propri egoismi, ad allargare il senso dell’io all’umanità intera.
Questa ricerca della verità pratica (sadhana) inizia dall’infanzia, quando, i genitori prima, e i maestri poi, iniziano il bambino all’ordine universale.
Le stesse preghiere lo abituano alla contemplazione del cosmo, gli fanno aprire la mente al valore dei principi universali.
L’idea dell’armonia del tutto assorbe quella della sua individualità e, come si dissolve la neve al sole, così si dissolve il suo egoismo nella vita universale.
Egli impara a riconoscere il mutuo scambio della vita, impara a usare ciò che ha; sapendo che nulla gli appartiene, ma che riceve in uso da Dio tutto, compresa la sua vita stessa.
Questa è la via del laico, di coloro che vivono nel mondo e nella società, stadio in cui non è chiesto di rinunciare al desiderio, ma di soddisfarlo secondo le leggi divine e s’impara così a utilizzare ciò che si ha per il benessere collettivo.
L’analogia tra il piano materiale e il piano spirituale viene affermata in ogni momento della giornata e anche il modo di vivere del laico conduce in maniera naturale alla spiritualità.
Le diverse sadhana sono altrettante vie che permettono di santificare l’esistenza umana e divinizzarla; ciò che vi è di comune è il metodo perseguito da ciascuna via e che prevede l’orazione, il rituale, la meditazione.
A seconda dei temperamenti dell’uomo, si percorrono tre differenti vie: la via della devozione, quella della conoscenza e quella dell’azione.
Esse non sono mai isolate l’una dall’altra, s’integrano e si completano.
Nessuna via esclude le altre.
Ricerca e purificazione sono mezzi necessari per la vera trasformazione dell’essere, per la realizzazione di uno stato di felicità e pace: quella gioia suprema che porta la conoscenza di Dio.
A seconda del grado di evoluzione di ogni singola persona, la sadhana accompagna il graduale risveglio dell’essere fino alla completa liberazione nella quale il ruolo della rinuncia gioca un aspetto fondamentale.
Nell’induismo, l’insegnamento della rinuncia, riferita alla vita monacale, non viene concesso a tutti ma solo alla persona qualificata.
Donare se stessi è uno dei più alti scopi, come l’atto di Dio che offre se stesso in quell’immenso sacrificio che è la creazione stessa.
Lavora e vivi come un atto d’offerta per ottenere fama immortale e completa soddisfazione di aver vissuto una vita.
Ricordati, tu sei figlio dell’immortalità e tutta la vita non è altro che un’offerta.
Non dimenticare mai che il nettare del fiore della grazia è per quelli che sacrificano e la vita offerta è la vita accettata.
Lascia che la sacra fiamma del fuoco divino brilli splendente nel tuo spirito.
(Atharva Veda 15-17-10) La concezione buddista della vita è racchiusa nelle Quattro Nobili Verità che rappresentano il nucleo della predicazione primitiva e che sono fondamentali per tutte le scuole.
La struttura di queste verità riproduce sostanzialmente lo schema diagnostico dell’antica medicina indiana, in cui si susseguono ordinatamente gli elementi che seguono.
1.
L’accertamento dei sintomi della malattia che provocano sofferenza in un malato sta alla base della comprensione del disagio esistenziale (dukkha) dell’individuo.
La presa di coscienza dell’universalità della sofferenza è fondamentale nell’iter intellettuale e meditativo che conduce al distacco dal mondo: «Tutto è soltanto dukkha per chi sa passare al vaglio l’esperienza», recita un celebre aforisma dei testi Yogasutra.
In tale presa di coscienza sono individuate successivamente delle modalità che conducono a comprendere che la nascita stessa è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza… La prima nobile verità rimanda, a un livello di maggiore profondità: al principio che la sofferenza è immanente all’esperienza, allorché ci si attacca ai cinque elementi (skandha) che la compongono.
2.
Dall’accertamento del morbo si passa alle sue cause: le cause della sofferenza esistenziale degli individui.
Esse sono individuate in quella “sete”, in quel “fuoco” insaziabile che, partendo dagli oggetti, arde i sensi e la mente e che mai potrà trovare appagamento negli oggetti stessi.
La seconda Nobile Verità distingue tre ordini di “oggetti”: a) il desiderio dell’oggetto bramato di tipo essenzialmente amoroso; b) l’esistenza intesa come auto perpetuarsi dell’individuo attraverso il ciclo delle rinascite; c) il desiderio di auto dissoluzione, fine bramato da chi è soggetto a gravi sofferenze.
3.
Così come la curabilità della malattia è data dalla soppressione delle sue cause, allo stesso modo la Terza Nobile Verità invita l’individuo a bloccare la sofferenza mettendo fine alla sete insaziabile.
Tradizionalmente viene qui presentata un’antichissima descrizione del Nirvana, concepito in termini negativi.
4.
La terapia per il malato necessaria alla sua guarigione, dipende dalla natura della malattia che si intende contrastare.
Analogamente la Quarta Nobile Verità introduce le tappe di una pratica ascetica che forma il Nobile Sentiero dalle Otto vie: esso coincide con una vista appropriata, una decisione appropriata, una parola appropriata, un’azione appropriata, dei mezzi di sussistenza appropriati, degli esercizi appropriati, un’attenzione appropriata, una concentrazione appropriata.
La medicina prende in considerazione le cause superficiali delle sofferenze; l’insegnamento buddista indaga sulle cause ultime per garantire un futuro stabile e felice.
Il Sutra del Loto definisce questo mondo come un luogo in cui «gli esseri viventi sono felici e a proprio agio».
Lo scopo della pratica buddista è proprio quello di metterci in grado di godere ogni istante che trascorriamo in questo mondo, fino all’ultimo momento della vita.
La vita nella concezione islamica è un’unità organica: Come potete essere ingrati nei confronti di Dio, quando eravate morti ed Egli vi ha dato 1a vita? Poi vi farà morire e vi riporterà alla vita, e poi a Lui sarete ricondotti.
(Sura, 2,28).
L’uomo ha infatti una consistenza sia fisica che spirituale, è un insieme di materia e di spirito che necessita di particolari cure e attenzioni.
Il sistema di vita islamico ha quindi origine direttamente da Dio che dà all’uomo le indicazioni e le leggi morali per realizzare la giustizia e la felicità già durante la vita terrena.
Lo scopo dell’Islam è quello di realizzare un’umanità sana, che dia importanza sia alla vita temporale che a quella spirituale, senza mortificare nessuna delle due sfere.
Sappiate che questa vita non è altro che gioco e svago, apparenza e reciproca iattanza, vana contesa di beni e progenie.
[Essa è] come una pioggia: la vegetazione che suscita, conforta i seminatori, poi appassisce, la vedi ingiallire e quindi diventa stoppia.
Nell’altra vita c’è un severo castigo, ma anche perdono e compiacimento da parte di Allah.
La vita terrena non è altro che godimento effimero.
(Sura 7,20).
La vita nell’Islam è un impulso verso il bene presente in ogni uomo.
La convinzione forte e radicata dell’esistenza di un Dio a cui dare conto delle proprie azioni fa in modo che per il musulmano sia del tutto naturale sottomettersi a Lui e alle sue leggi, realizzando così quella vita morale a cui l’uomo spontaneamente tende.
La fede è la forza che aiuta all’osservanza della morale.
Il digiuno osservato nel mese di Ramadan, ad esempio, è uno strumento di auto-controllo in una realtà sociale in cui le tentazioni sono molte e i freni morali sono messi alla prova.
Il musulmano praticante deve astenersi dal vizio ed evitare l’invidia che rappresenta un atto di ribellione alla volontà di Dio e al modo in cui Egli ha distribuito i suoi doni tra gli uomini.
La vita è la proprietà di tutti ed è un diritto inviolabile garantito dall’Islam.
I cittadini dello Stato islamico sono quindi sacri e inviolabili, che siano o no musulmani.
L’Islam invita alla comprensione tra i popoli e al superamento di ogni pregiudizio basato sulla diversità: O voi che credete! Siate testimoni sinceri di fronte a Dio secondo giustizia.
Non vi spinga all’iniquità l’odio per un certo popolo.
Siate equi: l’equità è consona alla devozione.
(Sura 5,8).
Il razzismo e qualsiasi tipo di discriminazione sono quindi estranei all’Islam.
1.
Cosa vuol dire che la vita, nella mentalità islamica, è un’unità organica? 2.
Che cosa condivide l’islam con l’ebraismo e il cristianesimo a proposito del tema della morte? 3.
Sai spiegare perché, nella concezione indiana della vita, prevale l’atteggiamento fatalistico? 4.
In che cosa consiste la legge del Karma? 5.
Come definiresti lo scopo della pratica buddista? 6.
Che cos’è il Bardo Thödol? La morte non è la fine della vita, ma solo la fine di uno stato; quando si muore l’anima si reincarna nuovamente, a seconda della condotta tenuta nella vita precedente.
Addirittura, in alcuni casi, ci si può reincarnare anche in animali (chi si è macchiato di colpe particolarmente gravi, è condannato a rinascere anche in un insetto).
La legge inesorabile del Karma lega l’uomo al ciclo della morte e delle rinascite; è la legge secondo la quale ognuno sarà ricompensato in base alle opere compiute; queste opere compiute durante la vita, infatti, lasciano una traccia nell’anima della persona che le ha compiute.
Questo lungo ciclo di rinascite, chiamato samsara (cioè pellegrinaggio) durerà fino al raggiungimento della virtù in possesso dell’uomo che ama Dio e desidera l’incontro con lui come bene supremo e che è capace di azioni buone e disinteressate.
Le reincarnazioni servono a purificare la propria anima, a espiare il peso delle vite precedenti.
Quando finisce il ciclo delle reincarnazioni, anche dopo 800 vite, la persona si immedesima, si dissolve nel Brahman, l’assoluto, realtà unica, perdendo ogni identità, giungendo all’illuminazione e alla conoscenza assoluta e sottraendosi alla vita terrena, che è soltanto apparenza, illusione e dolore.
La nascita e la morte non sono altro che momenti di mutamento nell’eterno flusso della vita.
Come un uomo smettendo i vestiti usati, ne prende altri nuovi, così proprio l’anima incarnata, smettendo i corpi logori, viene ad assumerne altri nuovi.
(Bhagavadgita) Samsara è il cerchio della nascita, della morte, della rinascita, della nuova vita e poi ancora della morte, e così all’infinito.
La fruizione dei desideri accumulati nelle esperienze è la spinta essenziale che, fino al suo totale esaurimento, determina il fenomeno di ritornare in un altro corpo.
Dissolvendo il velo della separazione e dell’ignoranza, si realizza lo scopo unico della vita, la realizzazione del Sé immortale.
La morte è considerata un punto importante del ciclo della vita.
È una realtà necessaria e anche desiderabile, perché la vita, se io non muoio, non può continuare e ricrearsi.
Non è una cosa spaventosa che bisogna combattere a ogni costo, ma un passaggio che bisogna accettare di compiere.
Il suicidio non è visto come una cosa drammatica, ma non è auspicabile.
La morte di un bambino è considerata un fatto anormale, e le morti per incidente appaiono come morti non naturali.
Nello stesso senso, la sofferenza fa parte del ritmo naturale delle cose, dato che la vita comporta inevitabilmente delle sofferenze, legate alla malattia (roga) o alla vecchiaia (jara).
Bisogna vivere attraverso la sofferenza e il dolore, fisico, mentale o spirituale che sia.
Bisogna tener conto del fatto che, se una persona è malata, lo sono anche la sua famiglia, la sua comunità e il cosmo stesso: l’interrelazione è totale.
Ognuno – afferma il dr.
Srinivas dell’Università di Pondicherry – dovrebbe desiderare di raggiungere l’obiettivo supremo della vita che non è altro che la realizzazione del Sé, la liberazione, l’emancipazione (moksha) da tutti i legami.
L’Islam non ritiene che la morte sia la conseguenza del peccato e la dedizione a Dio fa sì che la morte perda tutto ciò che ha di terribile.
Ogni anima gusterà la morte, ma riceverete le vostre mercedi solo nel Giorno della Resurrezione.
Chi sarà allontanato dal Fuoco e introdotto nel Paradiso, sarà certamente uno dei beati, poiché la vita terrena non è che ingannevole godimento.
(Sura 3,185) L’Islam ortodosso condanna ogni interruzione violenta della vita perché rappresenta un’intromissione illecita nelle competenze divine.
Secondo il Corano gli uomini e le loro opere, se buoni secondo le indicazioni islamiche, sono immortali.
Nella mistica islamica è presente anche l’idea che la morte sia una tappa del processo di crescita.
Il mistico Rumi (morto nel 1227) affermava nel suo Corano dei mistici: Guarda! Sono morto da pietra e sono germinato come pianta; sono morto da pianta e mi sono trasformato in animale; sono morto da animale e mi sono trasformato in un uomo.
Di che temo dunque se con la morte non posso trasformarmi in qualcosa di inferiore? Di nuovo, quando sarò morto come uomo, mi saranno date ali da angelo, ma anche come angelo dovrò essere sacrificato, dovrò diventare ciò che non comprendo, un alito divino.
L’Islam ha ripreso la topografia ebraico/cristiana dell’aldilà.
Per la tradizione, che aggiunge molto al Corano, il Paradiso è un luogo elevato «la cui estensione è quella dei cieli e della terra» e che ha per pavimento il trono di Allàh.
Secondo i testi si tratta di uno (o due) giardini, irrigati da due o quattro fiumi; comprende sette piani dei quali l’ultimo è riservato ai màrtiri.
L’inferno, sotto terra, è circondato da una muraglia con sette porte.
Le differenti tradizioni rivelano così il desiderio di disegnare una geografia ideale, una ripartizione spaziale dei defunti secondo la loro purezza e il loro grado di dedizione alla divinità, il valore assoluto.
Secondo la tradizione che riferisce, a tal proposito, alcuni detti del Profeta, Allah accetta il pentimento dell’uomo finché l’anima non risale nel corpo fino alla gola per fuggire via.
Ma non c’è perdono per coloro che fanno il male e che, quando si presenta loro la morte, gridano: «Adesso sono pentito!»; e neanche per coloro che muoiono da miscredenti.
Per costoro abbiamo preparato doloroso castigo.
(Sura 4,18).

Matteo Ricci

Gli sarebbero bastate “una casetta e una chiesuola” dove stare fino alla morte servendo Dio.
Così, felice in terra e sereno nell’anima, avrebbe compiuto i suoi giorni ricco di pace e di fede, più che di fama e di beni terreni.
La Provvidenza, però, volle assai più per il gesuita Matteo Ricci, umanista rinascimentale, uomo illustre di scienza e di lettere, missionario illuminato, “il saggio d’Occidente”: non solo trascorse ventotto fecondi anni, dal 1582 al 1610, nella Cina imperiale lontana e misteriosa, ma nel segno dell’armonia portò in quelle terre, modellate dal pensiero di Confucio e da culti antichissimi, la Buona Novella del Vangelo.
Accolto con rispetto e amicizia, si fece cinese ut Christo Sinas lucrifacere.
E in quell’impero così vasto e da lui così ammirato e rispettato, venne sepolto, “come il chicco di grano nascosto nel seno della terra per portare frutto abbondante”, scriveva, guardando al Celeste impero d’allora e alla Repubblica popolare di oggi, Giovanni Paolo II.
Una divina dinamica della missione che Giovanni XXIII, additando proprio padre Matteo come esempio nella lettera Princeps pastorum, semplicemente citando il Vangelo di Giovanni pone sotto la logica talvolta imperscrutabile del Buon Dio, poiché “chi semina non è lo stesso che raccoglie”.
È una vera avventura umana e spirituale quella di Matteo Ricci: per il secolo in cui si svolse, i luoghi che l’accolsero – Macerata, Roma, Coimbra, Goa, Macao, la Cina continentale fin verso Pechino – per la modernità dell’approccio missionario diventato modello di autentica, eppure vigile, inculturazione del Vangelo.
Un “apostolato originale e profetico”, ricorda Benedetto XVI, il cui stile fu improntato, come ancora rileva il Papa, dall’amicizia, dal rispetto e dalla stima reciproca.
Vi sono aspetti anche spettacolari, in questa vita esemplare, che visivamente possono avvincere: la scoperta della Roma pontificia; il fascino del viaggio e dell’ignoto; l’approccio a un Paese vastissimo e sconosciuto; gli usi, i costumi e le scienze così diversi, che pazientemente Ricci cerca di avvicinare e di integrare ai valori dell’Occidente e del cristianesimo.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Fare un “docufilm” su di lui può essere, per questi motivi, anche una brillante operazione di cinema e il regista d’origine kossovara Gjon Kolndrekaj ha colto con lungimiranza questi aspetti in Matteo Ricci, un gesuita nel Regno del Drago presentato in Vaticano.
Forte di una solida consulenza editoriale, religiosa e storica ha cercato di fornire più informazioni possibili, con una scelta forse arbitraria e dando un ritmo anche troppo affannato alle citazioni e alle immagini, come per trasmettere l’ansia missionaria e conoscitiva della quale Matteo fu investito.
Si coglie, però, anche la limitazione economica che deve avere imposto alla produzione di fare “di necessità virtù”: nella prima parte Matteo in costume entra e esce da troppe scale e saloni; poi da turista del XVI secolo percorre, trasognato, una Roma assai moderna; del suo lungo viaggio è detto e mostrato poco; infine del suo soggiorno in Cina cogliamo solo l’abito e la fluente barba bianca.
I mezzi della tecnologia e del cinema oggi possono invece fare meraviglie.
Basta seguire alcuni splendidi documentari inglesi e americani: assicurano, alternando il passato ricostruito da validi esperti al presente raccontato da illustri ospiti, un perfetto scorrere dei tempi, senza mancare un’informazione, un dettaglio, una curiosità, che diventano spettacolo.
Aiuterà probabilmente il libro che sarà stampato a supporto del film in dvd: insieme prepareranno ai grandi festeggiamenti del prossimo anno per il quarto centenario della morte di padre Matteo, oggi così caro alla diocesi di Macerata, alla Chiesa e alla Cina.

«Offrire testimoni a chi cerca Dio»

Intervista a Mons.
Bruno Forte Chi sono oggi i “cercatori di Dio”? Tutti coloro che hanno nel cuore la domanda della felicità, perché la felicità nell’attesa più profonda del cuore umano non può essere che un amore assoluto, un amore senza riserve, che ci avvolga totalmente: chi crede riconosce tutto questo in Dio.
Ecco perché nella definizione di “cercatori di Dio” non si comprendono soltanto quelli che cercano Dio non conoscendolo, ma anche i credenti, che anche nell’esperienza della fede restano assetati di felicità, di amore assoluto.
Proprio per questo quella formula accomuna tutti, perfino gli indifferenti, quelli che sembrano distratti, lontani, e che però non possono non sentire nel cuore il desiderio di una vita piena, ricca di felicità.
Così questa Lettera si rivolge veramente a tutti, agli uni come corrispondenza a una domanda del cuore, alla nostalgia di Dio, nostalgia di bellezza che è in noi; agli altri, “non cercatori apparenti”, con la speranza di suscitare domande, attese, desiderio.
Oggi sappiamo che c’è una grande richiesta di “religioso”, è quasi diventato anche questo un fenomeno consumistico con una molteplicità di “offerta”.
Rispetto a questo fenomeno, come si colloca la Lettera? Il cosiddetto “ritorno di Dio” in realtà è un fenomeno complesso.
Da una parte c’è certamente la domanda vera e profonda di quanti sono pensosi e alla ricerca di un senso ultimo della vita e della storia, capace di dare colore alla fatica dei giorni; sono quei cercatori di speranza, di cui parla per esempio la Spe salvi di Benedetto XVI, alludendo al bisogno di speranza che c’è in tutti noi.
C’è però anche una forma di questo “ritorno di Dio”, che è una sorta di ricerca di sicurezza, di consolazione a buon mercato.
Evidentemente la Lettera, proprio in quanto parte dalle domande vere, inquieta questo tipo di possibili destinatari, nel senso che li stimola a non accontentarsi di certezze facili, di consolazioni di comodo.
In questo senso vorrebbe al tempo stesso essere una proposta di riflessione ai pensanti e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca.
Proprio così essa ha bisogno di essere mediata da testimoni, proposta come strumento di un primo annuncio a quelli che sono in ricerca pensosa, non negligente, ma anche in modo diverso a quelli che bisogna svegliare alla ricerca e dunque all’apertura del cuore al possibile incontro con Dio.
In che modo questa Lettera si propone come strumento anche per la comunità? In due sensi.
Il primo in quanto tutti siamo destinatari di una riflessione data dalle domande che ci accomunano tutti, felicità e sofferenza, amore e fallimenti, lavoro, festa, giustizia e pace, la stessa sfida di Dio, sono interrogativi rispetto ai quali nessuno di noi può sentirsi estraneo o lontano.
Nello stesso tempo però, nel rivolgersi alla comunità cristiana, la Lettera interpella anche gli operatori pastorali, quelli che in modo speciale si consacrano all’annuncio del Vangelo di Gesù, perché nelle loro mani essa diventa un ponte di dialogo e di amicizia possibile con tutti i cercatori di Dio, e anche una via per accendere o stimolare domande in quelli che sembrano invece fuggirle, sempre all’insegna del rispetto e dell’amicizia per tutti.
Così, questo testo vorrebbe anche esprimere il volto di una Chiesa amica, vicina alla complessità della nostra condizione umana, nei suoi risvolti più alti, inquieti, pensosi, ma anche in quelli umili e quotidiani, a volte negligenti e stanchi come spesso ci capita d’incontrare nell’esperienza umana.
Con tutto ciò, come inquadrebbe questo documento? Questa Lettera si rivela come qualcosa di nuovo.
In effetti noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo.
Uno strumento, cioè, che non voglia dire tutto del cristianesimo, ma si concentri sul messaggio centrale e sulle vie concrete per farne esperienza – la preghiera la Parola di Dio, i sacramenti, l’amore, il desiderio della vita eterna e della bellezza divina – partendo dalle domande del cuore umano e della società in cui ci troviamo.
In questo senso l’auspicio dei vescovi è di aver offerto alla Chiesa in Italia uno strumento che possa aiutare i cercatori di Dio a fare un passo avanti nell’esperienza del suo volto, e quanti non lo ricercano a svegliarsi, a essere in qualche modo stimolati a questa ricerca su cui si gioca la verità e la bellezza della vita.
Un pensatore ebreo molti anni fa mi diceva: “Vivere è cercare Dio, vivere veramente è trovare Dio”.
La Lettera vorrebbe essere uno strumento per aiutarci a vivere e a vivere veramente.
Salvatore Mazza A tutti coloro «che hanno nel cuore la domanda della felicità».
E dunque, in fondo, a tutti.
A chi cerca Dio non conoscendolo, e a chi crede in lui.
Sono questi i destinatari della Lettera ai cercatori di Dio che la Commissione episcopale per la Dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi diffonde oggi, e che pubblichiamo integralmente come inserto del giornale.
«Una proposta di riflessione ai pensanti – spiega in questa intervista monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto e presidente della Commissione Cei che ha redatto la Lettera – e una sorta di sfida e di provocazione a quelli che fuggono la fatica del pensiero e della ricerca».
Uno strumento che si propone «come qualcosa di nuovo», perché «in effetti – osserva Forte – noi abbiamo tante forme di proposta catechistica, ma forse mancava uno strumento per il primo annuncio come questo».
 

Filippo Neri: la predicazione quotidiana

La preziosa eredità filippiana fu codificata negli Instituta della congregazione, approvati da Paolo V nel 1612: “Coloro che sono stati scelti per questo ufficio nutrono l’anima degli ascoltatori con un genere di predicazione veramente fruttuoso, adattando soprattutto le parole, con ordinata successione, alla comprensione del popolo, senza concedere nulla alla vuota pomposità e al vano applauso; e confermano l’insegnamento particolarmente citando gli esempi dei Santi e con fatti storici documentati.
Eviteranno inoltre (…) tutti gli argomenti che si addicono più alle scuole che all’Oratorio”.
Già il primo testo costituzionale (1583) stabiliva che cibo fondamentale nella congregazione oratoriana fosse la Scrittura di cui si chiedeva una conoscenza profonda attraverso un perseverante contatto: percupimus eos qui publicis praedicationibus destinandi erunt Scripturae divinae paginas (…) diurna nocturnaque manu diligentissime pertractare.
E gli scritti dei primi oratoriani, con la loro ricchezza di informazione e la penetrazione della Sacra Scrittura, mostrano quanto tale indicazione fosse diligentemente accolta.
“Padre Filippo – si legge nell’Itinerario spirituale dell’Oratorio – con il suo metodo creò una vera scuola nell’ambiente di Roma, dove i predicatori ecclesiastici rivaleggiavano con i classici pagani.
Il Santo insegnava che per predicare, bisogna prima far molta preghiera, dar molta importanza alla pratica della virtù, avere retta intenzione nello studio e ricorrere frequentemente agli esempi presi dalla vita della Chiesa e dei Santi.
Padre Giuliano Giustiniani era solito dire che un prete di Congregazione doveva morire sopra uno di questi “tre legni”: la predella dell’altare, il confessionale, la sedia dei ragionamenti”.
A questo metodo si ispirarono fin da subito i primi che Filippo Neri chiamò a coadiuvarlo nella tractatio Verbi Dei, poiché, come testimonia padre Pompeo Pateri, Filippo “volle che i suoi discepoli si abituassero allo stesso modo a annunciare la Parola di Dio, per ferire più i cuori degli ascoltatori che le orecchie”.
In qualche caso li educò alla semplicità, alla sincerità e a un rapporto di intima confidenza con gli ascoltatori anche con espedienti curiosi: al padre Agostino Manni, anima poetica e di grande sensibilità artistica, incline a farsi prendere la mano dalla vena letteraria, fece ripetere, ad esempio, per sei volte lo stesso elaborato sermone, tanto che i fedeli pensarono che quel padre non sapesse dir altro; a padre Francesco Maria Tarugi, che in un sermone parlò, con enfasi eccessiva e impeto degno della miglior retorica, sull’utilità della sofferenza, padre Filippo, dopo essersi a lungo agitato sulla sedia per fargli comprendere di rientrare nei giusti confini, disse pubblicamente, al termine, che nessuno di loro aveva ancora versato una goccia di sangue per Gesù Cristo.
Per l’attrattiva che esercitava e per i frutti di sincera conversione che produceva, lo stile della predicazione filippiana si diffuse presto anche al di fuori dell’ambiente oratoriano dando il via al rifiorire della predicazione frequente nelle chiese romane: i domenicani della Minerva furono i primi ad assumerlo, fin dal 1562, per iniziativa del loro priore Vincenzo Ercolani, grande amico di padre Filippo; gli scolopi stabilirono nelle loro costituzioni che si usasse la stessa familiare eloquenza “di cui si servono i RR.
pp.
dell’Oratorio alla Vallicella”; fuori Roma, san Carlo Borromeo lo prescrisse ai padri oblati di Milano e san Vincenzo de Paoli lo raccomandò ai suoi missionari.
Interessante, al riguardo, quanto riportato in una deposizione di padre Francesco Bozzio: “Avendo saputo che alcuni religiosi avevano adottato il tipo di predicazione che si faceva nel nostro Oratorio, e poiché un padre diceva che non era lecito usurpare quello che Padre Filippo aveva istituito, il Beato Padre rispose: oh se tutti fossero profeti…” I testi del processo di canonizzazione di Filippo Neri, editi da Giovanni Incisa della Rocchetta e da Nello Vian – verso i quali l’Oratorio conserva, e non solo per questo, un grato ricordo – sono ricchi di testimonianze sul ministero della predicazione di padre Filippo, il quale, già negli anni della giovinezza, aveva suscitato ammirazione parlando nella chiesa romana di San Salvatore in Campo, negli incontri della confraternita della Santissima Trinità.
Prima di citarne alcune, merita ricordare quella contenuta in una lettera che egli ricevette da Napoli nel 1588, agli inizi di quell’Oratorio, fondato da padri provenienti dalla Casa di Roma: “Oggi – scrisse padre Antonio Talpa – il padre messer Francesco Maria [Tarugi] ha parlato familiarmente, poi ha parlato messer Giovenale [Ancina].
Io ne ho sentita tanta consolazione che non potrei dir di più: mi è sembrato di vedere l’Oratorio in quella purezza e semplicità che aveva a San Girolamo.
(…) Desidererei che Vostra Reverenza non solo gli desse la sua approvazione, ma anche che glielo comandasse (…) Il frutto sarà certamente maggiore e minore la fatica, e, quel che più importa, si conserverà la forma di parlare propria dell’Oratorio e si trasmetterà ai posteri: altrimenti si perderebbe, ed è il bene più grande che la nostra Congregazione possiede”.
Nella risposta di Filippo Neri – diretta al Tarugi e affidata, come spesso accadeva, alla penna di Niccolò Gigli, molto caro al santo per il candore e la profonda sintonia di spirito – si legge una preziosa indicazione: “Le dico che il Padre ed i Deputati e gli altri sacerdoti di Congregazione si sono rallegrati quando hanno saputo che Vostra Reverenza ha parlato sopra il libro, secondo l’antico costume dell’Oratorio, quando in spiritu et veritate et simplicitate cordis si predicava, lasciando che lo Spirito Santo infondesse le sue virtù in bocca a chi parlava”.
Francesco M.
Tarugi, ne era ben convinto: tracciando le linee programmatiche su cui sviluppare il testo delle Costituzioni, egli affermava infatti: “Si cerchi di mantenere l’Oratorio più con la devozione che con gli ornamenti del parlare”; e già qualche anno prima, scrivendo nel 1579 a Carlo Borromeo, aveva ricordato che l’Oratorio consiste “nel trattare ogni giorno il Verbo di Dio in modo familiare” precisando che la “familiarità” non doveva essere separata dalla “dignità dovuta” e la “semplicità” non doveva confondersi con la povertà dei contenuti, dal momento che scopo principale dell’Oratorio è “formare un uomo cristiano e tenerlo, con l’aiuto della Grazia, continuamente in esercizio”.
Nelle deposizioni dei testi al processo è presente il ricordo della predicazione di padre Filippo in chiesa, durante le celebrazioni, caratterizzata da fervore e commozione, ma anche da una speciale capacità di leggere negli animi che gli consentiva di parlare a tutti tenendo presente la situazione di ognuno.
Vigerio Aquilino, che attesta di averlo sentito spesso sermoneggiare nella Chiesa Nuova, depone: “Una volta, mentre il Padre predicava pubblicamente, e credo che fosse l’anno 1583, raccontò dettagliatamente il caso di un conflitto spirituale molto stravagante, che diceva essere capitato ad un sacerdote.
E io, che ero presente ed ero ordinato sacerdote sebbene ancora non avessi celebrato la messa, ho capito che il beato Padre faceva per me questo ragionamento, poiché questo conflitto era quello che si agitava in me, punto per punto, come il Padre lo raccontava.
Donde io ne ricevetti ammirazione per il Padre e giovamento per la mia anima”.
Ciò che ancor più colpiva era però il suo “ragionare” nell’Oratorio: “Chi voglia farsi un’idea del predicare di lui – scrive il cardinale Capecelatro – deve risalire su fino a Gesù Cristo e ricordare la semplicità, la bellezza e la facilità grande delle parabole evangeliche”.
Marcello Ferro, tra gli altri, descrive gli incontri in cui san Filippo, esponendo la Parola di Dio, come un “Socrate cristiano”, coinvolgeva i presenti: “Da quando mi posi nelle sue mani, intorno al 1553, mi sono trovato molte volte presente quando il beato Filippo, cominciava a parlare, o proponeva qualche cosa di spirituale e faceva dire agli astanti il loro parere”.
Era toccante il fervore di Filippo: “Si vedeva – ricorda un teste – che nel parlare delle cose di Dio andava tutto in spirito, e molte volte l’ho visto che tremava e si muoveva facendo tremare anche il letto (…) a volte sembrava che tremasse la camera stessa”.
Il fenomeno era iniziato con la misteriosa effusione di Spirito Santo che Filippo ricevette, ancora laico – sarebbe stato ordinato sacerdote solo nel 1551, a trentasei anni – nell’imminenza della Pentecoste del 1544.
Di quell’avvenimento egli custodì gelosamente il segreto – secretum meum mihi diceva – fin quasi al termine della sua vita, ma non sempre fu in grado di nascondere gli improvvisi calori, i tremiti, le estasi e le impressionanti palpitazioni del cuore di cui l’esame autoptico evidenziò l’enorme dilatazione.
Una prorompente commozione accompagnava spesso il fervore, testimonia, tra i molti, Marcello Vitelleschi – “Io ho visto molte volte il Padre piangere, perché non si poteva trattenere” – e l’abate Marco Antonio Maffa attesta che ciò accadeva anche nella predicazione del Padre in chiesa: “L’ho sentito molte volte predicare (…) e come aveva detto dieci parole incominciava a versare lacrime nel parlare dell’amore di Dio, al punto che doveva interrompersi”.
Fu questo il motivo per cui, negli ultimi anni della vita, non parlò più in pubblico.
L’ultima volta che cercò di predicare è ricordata dai testi con particolare commozione: “Mi ricordo ancora – testimonia Alessandro Illuminati, il 2 settembre 1595 – che, circa sei anni sono, mentre si facevano sermoni nell’oratorio il padre salì su la banca da sermoneggiare con tanto spirito, et venne in tanta dirottura de piangere che non possette dire una parola, et discese giù senza dir altro, et mai più ci è salito”.
Da quel momento Filippo, che viveva della Parola di Dio, in modo ancor più efficace divenne tacito predicatore del Verbo, ripetendo, fin sul letto di morte: “Cristo mio, Signor mio, tutto è vanità.
Chi vuol altro che non sia Cristo non sa quel che si voglia, chi cerca altro che Cristo non sa quel che cerca, chi fa e non per Cristo non sa quel che si faccia”.
Schola beati Patris sarà detto dal Gallonio e dai primi oratoriani il cammino dei discepoli di padre Filippo ed il metodo dell’Oratorio, che nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nella assidua pratica sacramentale, nell’ascetica dell’umiltà come base per l’esercizio delle virtù ha il proprio punto di forza.
Senza proclami ufficiali, in tutta semplicità, l’Oratorio assunse il volto della comunità apostolica descritta dagli Atti, come testimoniano, tra i primi, Cesare Baronio e Francesco M.
Tarugi: “Sembrò riapparire, in relazione al tempo presente, il bel volto della comunità apostolica”, “la rinnovazione dello spirito che ebbero i cristiani della primitiva Chiesa”.
(©L’Osservatore Romano – 25-26 maggio 2009) Nella preghiera litanica che il cardinale John Henry Newman compose delineando il volto e la missione di san Filippo Neri, l’invocazione Sancte Philippe, qui Verbum Dei cotidianum distribuisti esprime l’amore di Filippo per la Parola di Dio, ma anche la novità della predicazione quotidiana in un’epoca in cui essa era piuttosto occasionale, tanto che Antonio Gallonio, autore della prima biografia del santo, poté scrivere che Filippo “fu il primo che introdusse in Roma la parola di Dio cotidiana”.
Ciò che attirava all’Oratorio un numero crescente di persone, era, comunque, la semplicità e il modo familiare con cui egli, con evidente distanza dallo stile ampolloso e pieno di artifici retorici della sua epoca, trasmetteva ogni giorno la Parola di Dio.