Serve un nuovo inizio per la musica sacra

Temi tradizionali e utilizzo di nuovi linguaggi.
Un connubio per alcuni impossibile, dai più poco frequentato, per tutti quelli che si occupano d’arte sempre più necessario e attuale.
L’argomento diventa spinoso quando si vuole affiancare un soggetto spirituale – in particolare tornando all’antica pratica dell’oratorio – con la grammatica dei moderni linguaggi musicali.
Il Pontificio Consiglio della Cultura si impegna in questo senso ai massimi livelli, coinvolgendosi direttamente con il suo presidente, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, che si è assunto l’onere di sintetizzare il testo biblico dell’Apocalisse per l’oratorio Apokàlypsis del compositore Marcello Panni eseguito per la prima volta il 10 luglio a Spoleto nell’ambito del 52° Festival dei due mondi.
Il tentativo sembra quello di mantenere viva la funzione di riferimento delle grandi narrazioni scritturistiche,  aprendo al tempo stesso un nuovo dialogo con la musica contemporanea.  L’intervista all’arcivescovo Gianfranco Ravasi In che modo avete affrontato il problema con il compositore? Il punto di riferimento emblematico del connubio tra un testo classico e la modernità è il Mosè e Aronne di Schönberg, che è stato concepito un po’ come un oratorio.
Da lì siamo partiti per sposare l’antico al nuovo in una maniera il più possibile armonica.
Con il compositore non abbiamo avuto un rapporto continuo – avrebbe richiesto un tempo enorme, purtroppo non disponibile – ma siamo partiti dalla definizione della qualità del testo, contro ogni tentativo di equivoco.
In qualche modo abbiamo prima di tutto circoscritto il campo.
Ci faccia un esempio pratico.
L’equivoco sempre in agguato quando si parla dell’Apocalisse è considerarla l’oroscopo della fine del mondo, un passo tragico e catastrofico.
Pensiamo ad Apocalypse now di Francis Ford Coppola:  una rappresentazione della distruzione, anche simbolica.
Basti ricordare la danza degli elicotteri che nel film è una sorta di recupero di alcune componenti della marcia dei cavalieri del testo biblico.
Superare questo equivoco significa evitare di produrre un’opera, magari monumentale, ma che non tenga conto di tutte le componenti dell’Apocalisse, dove certo troviamo un accento fortissimo sul male del mondo che inquina e incrina la storia,  ma  anche  un  messaggio  finale di speranza.
In realtà essa, così come è scritta, è un’opera sghemba:  ha venti capitoli sostanzialmente tragici e gli ultimi due luminosissimi.
Sono la vera  meta  del  libro di solito dimenticata.
Quindi non un’adesione diretta tra ogni verso e la musica, non un’esegesi del testo attraverso il suono, ma un lavoro sulla forma.
Il lavoro che ho fatto sul testo tende a preservarlo nella sua sostanza, senza garantirne l’integrità.
Non abbiamo privilegiato l’elemento di speranza penalizzando quello catastrofico, ma gli equilibri fanno sì che ci sia una attesa, non della catastrofe, ma dell’epistrophè, della conversione.
In questo senso la forma è proprio quella dell’Apocalisse in senso stretto, che già per sua natura è drammatica e musicale.
Su queste basi  ho  tentato  di  conservare l’autenticità  del  testo,  cercando  di  evitare il rischio della didascalia.
Dal punto  di  vista  musicale  usare  la banda, con un grande organico, consente di non perdere la dimensione escatologica, nel senso tradizionale del termine.
Che  rapporto c’è tra testo e musica in questo lavoro? Si dà molta importanza alla parola.
C’è sia il cantato, affidato al coro, sia il parlato, da solo o in forma di melologo.
Il testo quindi fiorisce in musica e non è utilizzato come un pretesto.
Come ha scelto le parti da musicare? Ho fatto una selezione divisa in sette quadri – anche per salvaguardare la mistica delle cifre – con un prologo e un glorioso epilogo.
È inoltre prevista una scansione in due parti, per costruire un intervallo pensato come momento di meditazione.
Che rapporto c’è tra il testo originale e la sua riduzione? Il testo c’è in tutte le sue parti, ma non integralmente.
Viene riprodotta cioè la dinamica letteraria dell’Apocalisse.
Non è  un  estratto,  ma  un   condensato che  mantiene  la  struttura dell’originale.
In che senso? Pensiamo alle lettere di apertura, un elemento indispensabile per capire che si tratta di un testo indirizzato alle Chiese.
Il momento delle lettere viene mantenuto, ma se ne privilegiano solo due:  quelle indirizzate alla Chiesa di Efeso e a quella di Laodicea, i due testi di maggiore impatto.
Efeso è la Chiesa più importante, il nodo attorno al quale le altre sei si raccordano, quello rivolto alla Chiesa di Laodicea è un impressionante atto di accusa, di eccezionale modernità.
Poi c’è l’uso dei trittici di settenari, con il gioco del sette e del tre.
La forma poetica viene conservata così come i sette sigilli, le sette coppe o le sette trombe, ma si è cercato di evitare una deriva didascalica e di resistere alla tentazione di introdurre tutti i simboli citati.
L’importante è che permanga la struttura e l’idea simbolica, così come rimangono la grande scena finale del dramma della storia – Babilonia scaraventata nel Mediterraneo – e l’affresco finale della Gerusalemme celeste.
L’Apocalisse è un testo fortemente musicale, che presenta continuamente suoni di trombe e cori.
Come è stato affrontato questo aspetto? I cori più importanti sono stati conservati, ma proposti in latino per sottolinearne la natura liturgica.
Non bisogna infatti dimenticare che una delle interpretazioni dell’Apocalisse è che fosse un testo proprio a uso liturgico.
La voce recitante, invece, consente di presentare un testo articolato capace di rendere l’idea generale della narrazione biblica da cui deriva.
Da un punto di vista estetico – come dicevo – il richiamo è al Mosè e Aronne di Schönberg, dove Aronne canta rappresentando il sacerdote pomposo e anche un po’ il fascino dell’idolatria, mentre Mosè usa il parlato, perché non rappresenta la parola che seduce, ma quella che conquista l’anima e costringe a un’opzione.
In questa  luce  le voci, una maschile e una femminile, hanno proprio la funzione di recuperare la nudità della parola.
Quella che in Schönberg è la contrapposizione tra Mosè e Aronne qui è riprodotta nel rapporto tra coro e voci recitanti.
A eccezione del fatto che il coro cantando non cerca come Aronne di ammaliare, ma rappresenta la liturgia che salva.
Ma perché il coro finale è in greco e non in latino? Quando il testo arriva al suo apice ritorna alla lingua misterica, quella originale del testo, il greco appunto.
Quindi per le ultime frasi, quelle decisive del libro, è stata utilizzata la pronuncia bizantina, cioè quella della liturgia.
Qualcuno però potrebbe non ritrovarsi con la lingua studiata a scuola.
La pronuncia che si insegna ora è infatti una convenzione prevalentemente rinascimentale, mentre quella itacistica che ho usato è bizantina e molto simile a quella del greco che si parla oggi.
Qual è il suo ruolo nell’esecuzione? Quello di strappare la performance al rischio che sia solo un concerto.
L’idea è quella di conservare il senso di meditazione del testo originale.
Il mio intervento non è stato quello del conferenziere che all’inizio spiega cosa si sta per ascoltare, ma si è basato sul modello dell’esecuzione delle passioni nella liturgia protestante.
In quel caso il pastore teneva un sermone prima dell’inizio della musica, un’altra predica era prevista a metà, dove adesso si ricorre spesso a un intervallo, strutturalmente assurdo trattandosi di una passione.
Io ho proposto proprio questo schema, per conservare l’aspetto sacrale in una dimensione esistenziale.
È aperta da tempo la grande questione dell’adeguamento agli stilemi contemporanei della musica liturgica e di quella sacra.
La prima si muove più lentamente, ma per quanto riguarda la musica di argomento sacro è realistico pensare che questa iniziativa segni l’inizio di un rinnovato rapporto tra Chiesa e compositori di oggi? Il tentativo di riaprire un canale di comunicazione in questo senso è in pratica l’unica ragione per cui ho accettato di essere coinvolto personalmente in questo progetto.
L’oratorio fa parte di una strategia più ampia che tende a riallacciare un dialogo con l’arte contemporanea, in tutte le sue sfaccettature.
Si è partiti con l’idea di considerare prima di tutto il rapporto con le arti visive, per esempio stringendo un legame con la Biennale di Venezia nella quale saremo presenti nel 2011.
Abbiamo infatti notato che anche gli artisti che si muovono seguendo la nuova grammatica dei linguaggi contemporanei sentono sempre di più il bisogno di tornare a grandi temi.
Un esempio è quello di Bill Viola, che insiste nei suoi video su dolore, vita, morte, acqua, purificazione.
Dopo avere lavorato sulle arti visive ora bisogna aprire il dialogo sulla musica.
Cominciamo da questo esperimento.
Perché Marcello Panni? È un compositore estremamente competente, che scrive una musica avanzata e capace di comunicare direttamente anche a un pubblico non abituato a certe forme espressive.
Io non esiterei a utilizzare linguaggi anche estremi, alla Cage, ma forse non è ancora il momento.
(©L’Osservatore Romano – 12 luglio 2009)

Obama in vaticano

Per preparare la strada all’incontro che avrà con Benedetto XVI in Vaticano nel pomeriggio di venerdì 10 luglio, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha riunito attorno a sè alla Casa Bianca sei giornalisti di altrettante testate cattoliche americane: “Catholic News Service”, “America”, “National Catholic Reporter”, “Catholic Digest”, “National Catholic Register”, “Commonweal”.
In più c’era il reporter religioso del “Washington Post”.
E inoltre, unica giornalista straniera, c’era Elena Molinari per la Radio Vaticana e per “Avvenire”, il quotidiano della conferenza episcopale dell’Italia, il paese che ospita il G8.
L’intervista si è svolta la mattina di giovedì 2 luglio, con domande non preordinate.
Il giorno successivo “Avvenire” l’ha riprodotta quasi integralmente, dandole forte rilievo.
Obama si è detto fiducioso di trovare con il papa una concordia di vedute su temi come la pace in Medio Oriente, la lotta alla povertà, la salvaguardia del clima, la politica dell’immigrazione.
Ma non ha eluso nessuno dei temi – in primo luogo l’aborto – su cui c’è conflitto tra lui e una parte consistente della Chiesa cattolica americana, in testa il cardinale Francis George, presidente della conferenza episcopale e arcivescovo della sua città, Chicago.
Al conflitto aperto tra Obama e un buon terzo dei vescovi degli Stati Uniti si è aggiunta nei mesi scorsi anche un’altra linea di divisione: tra questi vescovi e il Vaticano, da loro giudicato troppo arrendevole nei confronti della politica del nuovo presidente.
Più sotto sono riportati i passaggi dell’intervista che riguardano i temi più controversi, dall’aborto all’omosessualità.
Nelle risposte, Obama porge il ramoscello d’ulivo alla Chiesa, così come aveva già provato a fare il 17 maggio col suo discorso all’università cattolica di Notre Dame.
Ma rimarca anche i punti su cui l’accordo non c’è e non ci sarà.
*** Non c’è però solo Obama che si prepara all’udienza col papa.
Anche il Vaticano suona un suo preludio.
Lo stesso giorno in cui il presidente degli Stati Uniti rilasciava l’intervista ai reporter religiosi, a Roma un’autorevole cardinale pubblicava un commento semplicemente entusiastico ai discorsi tenuti da Obama il 17 maggio all’università di Notre Dame a il 4 giugno all’università di al-Azhar, al Cairo.
Il cardinale è Georges Cottier, 87 anni, svizzero, domenicano, per molti anni in curia come teologo ufficiale della casa pontificia.
Ha pubblicato il suo commento su “30 Giorni”, una rivista cattolica edita in sei lingue molto legata ai circoli diplomatici della curia vaticana e molto attenta alla politica della Chiesa nel mondo, inviata gratuitamente a vescovi e a monasteri di tutto il mondo, diretta dall’ex presidente del consiglio e ministro degli esteri italiano Giulio Andreotti.
Il dotto cardinale trova la visione di Obama fortemente consonante con quella cattolica, a cominciare dalla consapevolezza del peccato originale.
Gli riconosce intendimenti buoni e costruttivi anche sul terreno minato dell’aborto.
Nega che Obama possa essere considerato “abortista”, anzi, gli riconosce la volontà di “fare di tutto affinché il numero di aborti sia il minore possibile”, così come fecero “i primi legislatori cristiani che non abrogarono subito le leggi romane tolleranti verso pratiche non conformi o addirittura contrarie alla legge naturale, come il concubinaggio e la schiavitù”.
Chiama a conforto san Tommaso d’Aquino, secondo il quale “lo Stato non deve mettere delle leggi troppo severe e alte, perché saranno disprezzate dalla gente che non sarà capace di applicarle”.
Plaude a “L’Osservatore Romano” proprio per l’articolo pro-Obama del 19 maggio che aveva fatto infuriare tanti vescovi americani.
Il cardinale Cottier sembra quasi esaltare Obama come un novello Costantino, capo di un moderno impero anch’esso provvido per la Chiesa.
I passaggi del commento di Cottier dedicati alla questione dell’aborto sono riprodotti qui di seguito.
E subito dopo è riportato un estratto dell’intervista di Obama ai reporter religiosi, ricavato principalmente da “Avvenire”, con integrazioni trascritte da altri giornalisti presenti.
Il testo integrale dell’articolo del cardinale Cottier, in “30 Giorni” n.
5, 2009: > La politica, la morale e il peccato originale L’articolo è apparso sinora nelle edizioni italiana e inglese di “30 Giorni”.
Nelle prossime settimane apparirà anche nelle edizioni della rivista in francese, tedesco, spagnolo e portoghese.
__________ L’intervista di Obama nell’ampia trascrizione pubblicata da Elena Molinari su “Avvenire” del 3 luglio 2009: > Obama: con il papa una collaborazione per aiutare il mondo __________ In www.chiesa, i servizi sugli alti e bassi tra Obama e la Chiesa cattolica: > Obama laureato a Notre Dame.
Ma i vescovi gli rifanno l’esame
(26.5.2009) > Angelo o demonio? In Vaticano, Obama è l’uno e l’altro (8.5.2009) 2.
“Difenderò sempre con forza il diritto dei vescovi di criticarmi…” Intervista con Barack Obama D.
– Sul rispetto della vita e sul matrimonio i vescovi cattolici americani hanno espresso critiche e preoccupazioni nei confronti delle sue posizioni.
Come pensa di affrontare tali critiche? O ritiene che finirà con l’ignorarle? R.
– Primo, una forza della nostra democrazia è che ciascuno è libero di esprime le proprie opinioni politiche.
Non ci sarà mai un momento in cui deciderò di ignorare le critiche dei vescovi cattolici, perché sono il presidente di tutti gli americani e non solo di quelli che, per caso, sono d’accordo con me.
Prendo molto seriamente le opinioni delle altre persone e i vescovi americani hanno una profonda influenza sulla Chiesa e anche sulla comunità nazionale.
Vari vescovi sono stati generosi nelle loro opinioni e incoraggianti nei miei confronti, benché rimangano divergenze su alcune questioni.
In questo senso i vescovi americani rappresentano un crocevia di opinioni proprio come avviene in altri gruppi.
Difenderò sempre con forza il diritto dei vescovi di criticarmi, anche con toni appassionati.
E sarei felice di ospitarli qui alla Casa Bianca a parlare dei temi che ci uniscono e di quelli che ci dividono, in una serie di tavole rotonde.
Penso che continueranno ad esserci ambiti in cui concordiamo profondamente e altri nei quali non sarà possibile trovare pieno accordo.
Ciò è sano.
D.
– Lei ha nominato un gruppo di lavoro composto da rappresentanti pro-life e da altri che sostengono il diritto all’aborto, con lo scopo di trovare posizioni comuni.
Quali sono le sue attese realistiche sul risultato dei lavori? R.
– Quel gruppo dovrà fornirmi un rapporto finale entro l’estate e non ho l’illusione che sia in grado, con il solo dibattito, di fare scomparire le differenze.
So che ci sono punti in cui il conflitto non è conciliabile.
Ma posso dirvi che vi sono persone di buona volontà su entrambi i fronti e sarei sorpreso se non si trovassero punti significativi sui quali lavorare insieme.
Fra questi, la necessità di aiutare i giovani a prendere decisioni intelligenti in modo che evitino gravidanze non desiderate, l’importanza di rafforzare l’accesso all’adozione come alternativa all’aborto e il dovere di prendersi cura delle donne incinte e di aiutarle a crescere i loro bambini.
Ci sono invece elementi, come la contraccezione, sui quali le differenze sono profonde.
La mia posizione personale è che si debba coniugare una solida educazione morale e sessuale alla disponibilità di contraccettivi, per prevenire gravidanze indesiderate.
Riconosco che ciò contraddice la dottrina della Chiesa cattolica, quindi non mi aspetto che chi sente fortemente la cosa come materia di fede possa concordare con me su questo, ma questa è la mia opinione personale.
Sarei sorpreso se i sostenitori del diritto all’aborto non fossero d’accordo che bisogna ridurre le circostanze in cui una donna decide di interrompere la gravidanza.
Se essi prendessero questa posizione, io non sarei d’accordo con loro.
Non conosco alcuna circostanza in cui l’aborto sia una decisione felice, e se possiamo aiutare una donna ad evitare di confrontarsi con una situazione nella quale ciò diventi una possibilità, io penso che sia una buona cosa.
Ma di nuovo, questa è la mia opinione.
D.
– Alcuni cattolici lodano il suo contributo nel promuovere temi di giustizia sociale, altri la criticano per le sue posizioni sui temi della vita, dall’aborto alla ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Vede ciò come una contraddizione? R.
– Questa tensione del mondo cattolico esisteva ben prima del mio arrivo alla Casa Bianca.
Quando ho cominciato a interessarmi di giustizia sociale, a Chicago, i vescovi cattolici parlavano di immigrazione, nucleare, poveri, politica estera.
Poi, a un certo punto, l’attenzione della Chiesa cattolica si è spostata verso l’aborto e ciò ha avuto il potere di spostare l’opinione del congresso e del paese nella stessa direzione.
Sono temi cui penso molto, ma ora, come non cattolico, non sta a me cercare di risolvere queste tensioni.
Ho visto tuttavia come si possa tentare una conciliazione.
Il cardinale Joseph Bernardin, che ho conosciuto a Chicago, parlava chiaramente ed esplicitamente in difesa della vita.
Ma riteneva questa un “abito senza cuciture” e vi includeva coerentemente una gamma di questioni che erano parte di ciò che egli considerava pro-life e su cui si impegnava, come la lotta alla povertà, la cura dell’infanzia, la pena di morte, la politica estera.
Questa parte della tradizione cattolica è qualcosa che continuamente mi ispira.
E penso che vi sono stati momenti, negli ultimi due decenni, in cui questa tradizione più inclusiva s’è sentita come sepolta sotto il dibattito sull’aborto.
Desidero invece che resti in primo piano nel dibattito nazionale.
D.
– Molte persone, non solo medici, che offrono la propria opera in istituzioni non governative sono molto preoccupate di non poter fare obiezione di coscienza in campi eticamente sensibili.
La posizione della sua amministrazione in merito non è del tutto chiara…
R.
– La mia posizione personale è sempre stata coerente: sono fermamente convinto che debba essere assicurata l’obiezione di coscienza.
Ho difeso una forte obiezione di coscienza nell’Illinois per gli ospedali cattolici e le strutture sanitarie, ne ho discusso con il cardinale Francis George in un recente incontro nello Studio Ovale e l’ho ripetuto durante il mio intervento all’università di Notre Dame.
Capisco che c’è qualcuno che si aspetta sempre il peggio da me, senza che io abbia detto o fatto nulla, ma questo è più un preconcetto che una posizione motivata da una “linea dura” che staremmo cercando di imporre.
Penso che la sola ragione per la quale la mia posizione può apparire non chiara derivi dal fatto che abbiamo cambiato una misura sull’obiezione di coscienza approvata all’ultimo minuto, all’undicesima ora dalla precedente amministrazione e abbiamo deciso di cancellarla perché non era stata ben formulata.
Ma stiamo riesaminando la questione e abbiamo richiesto pareri in merito alla gente, ricevendone centinaia di migliaia.
Posso assicurare che quando questo riesame sarà completato entrerà in vigore una forte obiezione di coscienza.
Essa potrà non andare incontro ai criteri di ogni possibile critica del nostro approccio, ma certamente non sarà più debole di quella che esisteva prima che il cambiamento fosse fatto.
D.
– Come concilia la sua fede cristiana con le promesse fatte durante la campagna elettorale agli omosessuali? R.
– Quanto alla comunità gay e lesbica di questo paese, penso che venga ferita da alcuni insegnamenti della Chiesa cattolica e dalla dottrina cristiana in generale.
Come cristiano, combatto continuamente tra la mia fede e i miei doveri e le mie preoccupazioni nei confronti di gay e lesbiche.
E spesso scopro che c’è molto ardore su entrambi i fronti del dibattito, anche fra chi considero essere ottime persone.
D’altra parte, rimango fermo a quanto ho espresso al Cairo: ogni posizione che liquidi in modo automatico le convinzioni religiose e il credo altrui come intolleranti non capisce il potere della fede e il bene che compie nel mondo.
In ogni caso, come persone di fede dobbiamo esaminare le nostre convinzioni e chiederci se a volte non stiamo causando sofferenza agli altri.
Penso che tutti noi, di qualsiasi fede, dovremmo riconoscere che ci sono state delle volte in cui la religione non è stata messa al servizio del bene.
E sta a noi, penso, compiere una profonda riflessione ed essere disposti a chiederci se stiamo agendo in modo coerente non solo con gli insegnamenti della Chiesa, ma anche con quanto Gesù Cristo, nostro Signore, ci ha chiamati a fare: trattare gli altri come noi vorremmo essere trattati.
1.
“Obama mi ricorda i primi legislatori cristiani…” di Georges Cottier […] Nel suo discorso alla università di Notre Dame, mi ha colpito come Obama non abbia evitato di affrontare la questione più spinosa, quella dell’aborto, sulla quale aveva ricevuto tante critiche anche dai vescovi Usa.
Da una parte tali reazioni sono giustificate: nelle decisioni politiche riguardo all’aborto sono implicati valori non negoziabili.
Per noi è in gioco la difesa della persona, dei suoi diritti inalienabili, di cui il primo è proprio quello alla vita.
Ora nella società pluralistica ci sono differenze radicali su questo punto.
C’è chi, come noi, considera l’aborto un “intrinsece malum”, ci sono quelli che lo accettano, e addirittura alcuni che lo rivendicano come un diritto.
Il presidente non prende mai quest’ultima posizione.
Al contrario, mi sembra che dia dei suggerimenti positivi – lo ha sottolineato anche “L’Osservatore Romano” del 19 maggio –, proponendo pure in questo caso la ricerca di un terreno comune.
In questa ricerca – avverte Obama – nessuno deve censurare le proprie convinzioni, ma al contrario deve sostenerle davanti a tutti e difenderle.
Il suo non è affatto il relativismo malinteso di chi dice che si tratta di opinioni che si oppongono ad altre opinioni, e che tutte le opinioni personali sono incerte e soggettive, e dunque conviene metterle da parte quando si parla di queste cose.
Inoltre, Obama riconosce la gravità tragica del problema.
Che la decisione di abortire “strazia il cuore di ogni donna”.
Il terreno comune che lui propone è questo: lavorare tutti insieme per ridurre il numero delle donne che cercano di abortire.
E aggiunge che ogni regolamentazione legale di questa materia deve garantire in maniera assoluta l’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari che non vogliono dare la propria assistenza a pratiche abortive.
Le sue parole vanno nella direzione di diminuire il male.
Il governo e lo Stato devono fare di tutto affinché il numero di aborti sia il minore possibile.
È certo soltanto un “minimum”, ma è un minimum prezioso.
Mi ricorda l’atteggiamento dei primi legislatori cristiani che non abrogarono subito le leggi romane tolleranti verso pratiche non conformi o addirittura contrarie alla legge naturale, come il concubinaggio e la schiavitù.
Il cambiamento avvenne con un cammino lento, segnato tante volte da regressi, man mano che nella popolazione il numero dei cristiani aumentava, e, con loro, l’impatto del senso della dignità della persona.
All’inizio, per garantire il consenso dei cittadini e custodire la pace sociale, vennero mantenute in vigore le cosiddette “leggi imperfette”, che evitavano di perseguire azioni e comportamenti in contrasto con la legge naturale.
Lo stesso san Tommaso, che pure non aveva dubbi sul fatto che la legge deve essere morale, aggiunge che lo Stato non deve mettere delle leggi troppo severe e alte, perché saranno disprezzate dalla gente che non sarà capace di applicarle.
Il realismo dell’uomo politico riconosce il male e lo chiama col suo nome.
Riconosce che occorre essere umili e pazienti, combatterlo senza la pretesa di sradicarlo dalla storia umana attraverso strumenti di coercizione legale.
È la parabola della zizzania, che vale anche a livello politico.
D’altro canto, questo non diventa in lui giustificazione di cinismo o d’indifferentismo.
La tensione a diminuire per quanto possibile il male rimane persistente.
È un obbligo.
Anche la Chiesa ha sempre percepito come lontana e pericolosa l’illusione di eliminare totalmente il male dalla storia per via legale, politica o religiosa.
La storia anche recente è disseminata di disastri prodotti dal fanatismo di chi pretendeva di prosciugare le fonti del male nella storia degli uomini, finendo per trasformare tutto in un grande cimitero.
I regimi comunisti seguivano esattamente questa logica.
Così come il terrorismo religioso, che uccide addirittura in nome di Dio.
E quando un medico abortista viene ucciso da militanti antiaborto – è successo di recente negli USA – occorre ammettere che persino gli slanci ideali più alti, come la sacrosanta difesa del valore assoluto della vita umana, si possono corrompere e trasformarsi nel loro contrario, diventando parole d’ordine a disposizione di un’ideologia aberrante.
I cristiani sono portatori nel mondo di una speranza temporale realista, non di un vano sogno utopico, anche quando testimoniano la propria fedeltà a valori assoluti come la vita.
Santa Gianna Beretta Molla, la dottoressa che muore per aver rifiutato le cure che avrebbero potuto far male alla bambina che portava in seno, con il suo eroismo ordinario e silenzioso tocca i cuori non solo dei cristiani; ricorda a tutti il destino comune cui tendiamo.
È una forma profetica dello stile evangelico della testimonianza cristiana.
Obama, nel suo discorso alla University of Notre Dame, fa proprio su questo aspetto un accenno molto importante.
Racconta di quando fu coinvolto in un progetto di assistenza sociale nei quartieri poveri di Chicago – finanziato da alcune parrocchie cattoliche – a cui partecipavano anche volontari protestanti ed ebrei.
In quell’occasione gli capitò di incontrare persone accoglienti e comprensive.
Vide lo spettacolo delle opere buone alimentate dal Signore tra di loro.
E in questo spettacolo fu “attratto dall’idea di far parte della Chiesa.
È stato attraverso questo servizio”, conclude, “che sono stato condotto a Cristo”.
Fa anche un elogio commovente del grande cardinale Joseph Bernardin, che allora era arcivescovo di Chicago.
Lo definisce “un faro e un crocevia”, amabile nel suo modo di persuadere e nel suo tentativo continuo di “avvicinare le persone e trovare un terreno comune”.
In quell’esperienza, dice Obama, “parole e opere delle persone con le quali ho lavorato nelle parrocchie di Chicago toccarono il mio cuore e la mia mente”.
Lo spettacolo della carità, che viene da Dio, ha la forza di toccare e attirare la mente e i cuori degli uomini.
E questo è l’unico germe di cambiamento reale nella storia degli uomini.
Obama cita anche Martin Luther King, di cui si sente discepolo.
Che solo quarantun anni dopo l’assassinio di King proprio lui sia presidente degli Usa è un segno e una prova dell’efficacia storica della fiducia nella forza della verità.
[…] __________

Misteri Persiani, I ragazzi di Teheran

Nonostante la grande partecipazione emotiva a questi eventi, è forse il momento di cercare di guardare alla situazione con lucidità e di fissare alcuni punti di base.
La premessa a questa crisi è un fattore positivo e inatteso, cioè l’entusiasmo per la candidatura di Moussavi e la straordinaria partecipazione al voto (85% degli aventi diritto).
Il tutto è maturato rapidamente, sorprendendo gli stessi iraniani, a cominciare dal loro establishment politico.
Perché questa novità? Moussavi è un uomo della Repubblica islamica, un rivoluzionario della prima ora, un ex premier, un convinto sostenitore dei valori di Khomeini, il cui ritratto è comparso accanto al suo in campagna elettorale.
Quali speranze (per alcuni) e quali paure (per altri) rappresenta questa sorta di Cincinnato persiano, tornato alla politica attiva dopo vent’anni? Sarebbe in grado di riformare in senso democratico l’Iran, riuscendo laddove Khatami ha fallito? E lo vorrebbe davvero? Ricordiamo che Moussavi è stato il premier sotto il cui governo venne attuata una sorta di soluzione finale nei confronti di detenuti politici (si parla di 30mila esecuzioni nel 1988).
A confrontare nel dettaglio i programmi dei candidati, è molto più avanzato e riformista Karroubi di lui.
La novità sta probabilmente nella grande opportunità che si è prospettata negli ultimi mesi per l’Iran.
L’apertura di Obama non è stata forse colta nella sua pienezza da molti osservatori.
Fonti non ufficiali parlano di una trattativa ormai avviata da mesi e pronta a essere resa pubblica all’indomani del voto per le presidenziali.
Un grande accordo non vuol dire soltanto speranze di pace.
Vuol dire anche affari.
E gli affari – da sempre e a ogni latitudine – li fa chi gestisce il potere.
Questo vale ancora di più per l’Iran, dove lo Stato gestisce oltre il 70% dell’economia e dove non esiste (è bene ricordarlo sempre) l’equazione cittadino=contribuente.
Il bilancio statale lo fa l’export del petrolio, non dipende dalle tasse.
Che sono pressoché inesistenti per i redditi medio alti.
Questo è il vincolo ultimo che lega a questo sistema politico la classe dei bazarì, quella che da sempre decide le sorti del Paese.
Dall’altra parte, l’eterno Rafsanjani, potentissimo economicamente e ancora potente politicamente, visto che presiede l’Assemblea degli esperti, l’organo che – almeno in teoria – può destituire la Guida suprema.
Ahmadinejad ha gestito in modo populistico l’economia del paese e in molti hanno votato Moussavi per protesta.
Poi l’onda verde ha trascinato i giovani, li ha convinti che questa volta un cambiamento era possibile.
Ma nessuno in campagna elettorale ha mai messo in dubbio i pilastri della Repubblica islamica.
Che però adesso, dopo 30 anni, si ritrova a fare i conti con un dissenso molto diffuso, seppure non organizzato.
Probabilmente è vero che la Repubblica islamica non sarà più la stessa dopo questa crisi, ma è ancora molto presto per parlare di una rivoluzione.
I conservatori più pragmatici come Larijani e il sindaco di Teheran Mohammad Baqer Qalibaf tentano una mediazione.
Il secondo ha chiesto alle autorità nazionali di concedere l’autorizzazione per le manifestazioni spiegando che questo è l’unico modo per evitare le violenze.
Lo spettro oggi è una svolta autoritaria, un putsch militare attuato dall’ala dura dei pasdaran con l’appoggio dell’esercito.
Ma sarebbe una svolta rischiosa.
Il grande ayatollah dissidente Montazeri ha ammonito: “Se il popolo iraniano non può rivendicare i suoi diritti legittimi in manifestazioni pacifiche e viene represso, la crescita della frustrazione potrebbe arrivare a distruggere le fondamenta di qualsiasi governo, non importa quanto forte”.
Infinito edizioni: 06/93162414 A quasi due settimane dalle contestatissime elezioni, non sembra calare la tensione in Iran.
Quanto sappiamo oggi lo dobbiamo a un sistema di comunicazione “misto”, solo in parte filtrato dai tradizionali mezzi di comunicazione.
Ciò che arriva direttamente dagli amici iraniani (via internet, soprattutto) è un misto di tensione e attesa.
Le grandi manifestazioni dei primissimi giorni, filmate e raccontate dai reporter internazionali poi costretti a lasciare il Paese, sono state sostituite da assembramenti più piccoli e più drammatici.
È difficile avere certezze su quanto stia davvero accadendo in Iran.
Di certo la polizia spara, i pasdaran picchiano e molte persone vengono arrestate senza un’accusa chiara.
La repressione colpisce probabilmente più fuori Teheran.
Si parla di decine di arresti a Tabriz a Isfahan, grandi città spesso ignorate dalle cronache dei media.
E c’è paura, grande paura.

Modello del docente unico non prescrittivo

Le scuole possono autonomamente utilizzare nella scuola primaria le risorse di organico in modo flessibile.
Il modello del docente unico, previsto da settembre nelle prime classi della scuola primaria, non ha carattere prescrittivo e tassativo.
Conseguentemente, la scuola può decidere di impiegare l’insegnante non solo su una unica classe.
  È quanto emerge dalla delibera della Corte dei Conti (n.
12/2009) con cui è stato apposto il visto di registrazione al Regolamento sul primo ciclo.
Nel testo di delibera, si fa riferimento alle deduzioni e ai chiarimenti portati dai dirigenti del ministero dell’istruzione per fugare dubbi e riserve della Corte, e in proposito si riferisce che “sostiene altresì l’Amministrazione che i criteri indicati dal comma 4 dell’art.
64 non avrebbero carattere prescrittivo e tassativo.
Detti criteri, per la loro valenza generale, hanno invece ambiti di applicazione estesi e flessibili.” La posizione del Miur è altresì confermata ed ulteriormente esplicitata ancora, quando si riferisce che “L’Amministrazione sottolinea che il modello del docente unico –  di cui al d.l.
n.
137/2008, convertito in legge n.
169 del 30 ottobre 2008 – viene sì indicato come modello da privilegiare nell’ambito delle possibili articolazioni del tempo-scuola, ma pur sempre “tenuto conto della richiesta delle famiglie e nel rispetto dell’autonomia scolastica”.  In sostanza, l’indicazione del modello non avrebbe alcun carattere prescrittivo, lasciando piena  libertà alle scuole di strutturare orari e assetti didattico-organizzativi secondo la propria programmazione e valutazione.”

È il momento delle utilizzazioni

Con la firma del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo (CCNI) sulle utilizzazioni e assegnazioni provvisorie lo scorso 26 giugno si è aperta per gli Idr di ruolo la fase delle utilizzazioni, che costituisce il momento più importante per la mobilità ordinaria di questo personale.
L’OM 36 del 23-3-2009 ha già provveduto a normare – come l’anno scorso – la mobilità interdiocesana, che però interessa un numero limitato di Idr.
Molti di più sono coloro che desiderano muoversi all’interno della propria diocesi per migliorare una sistemazione su più scuole o per avvicinarsi a casa.
Il CCNI del 26-6-2009 riprende in gran parte, con minime integrazioni, le disposizioni già fissate negli anni precedenti e ripropone alcuni dei problemi che già si erano posti in passato.
In primo luogo, può essere utile ricordare che gli Idr di ruolo sono titolari su un organico regionale, vincolato alla diocesi per via dell’idoneità.
Essi non sono quindi titolari sulla scuola ma sulla diocesi e sono assegnati alla sede scolastica mediante l’istituto dell’utilizzazione (che ordinariamente sarebbe un’operazione di durata annuale, ma che nel caso degli Idr diventa una sistemazione a tempo indeterminato).
Dato che l’utilizzazione è disposta d’intesa tra Ufficio scolastico regionale e autorità ecclesiastica, per ottenere un trasferimento gli Idr di ruolo devono fare domanda di utilizzazione in altra sede della medesima diocesi e contare sul consenso dell’ordinario diocesano.
La graduatoria prevista dall’art.
10, cc.
3-4, dell’OM 36/09 serve solo all’individuazione del personale in esubero a livello diocesano e quindi non deve essere utilizzata per individuare il soprannumerario nella singola scuola in caso di contrazione oraria.
Ci si potrebbe allora domandare a cosa serva questa graduatoria, citata anche dall’art.
1, c.
6 del CCNI in questione, visto che l’utilizzazione è comunque rimessa alla discrezionalità dell’intesa con l’autorità ecclesiastica; in risposta si può sostenere che essa abbia solo un valore orientativo per l’amministrazione scolastica che, in sede di intesa, deve comunque avere un proprio criterio da far valere per il raggiungimento di un accordo, fermo restando che la scelta dell’ordinario diocesano – se non palesemente irragionevole – non può essere contestata dall’amministrazione.
La principale novità del CCNI di quest’anno può essere l’art.
2, c.
5, che prevede la possibilità di completare l’orario nella scuola di titolarità per quegli Idr che subiscano una riduzione fino a un quinto dell’orario d’obbligo.
La norma, già introdotta lo scorso anno per la sola scuola secondaria, è stata estesa quest’anno anche alla scuola primaria e dell’infanzia, probabilmente per attutire gli effetti dei tagli di organico imposti dalle recenti misure finanziarie.
A prescindere dall’equivoco riferimento alla «scuola di titolarità», che per gli Idr può usarsi solo per analogia, non avendo essi una titolarità sulla scuola, va ricordato che lo scorso anno la disposizione aveva dato luogo a una nota di chiarimento (prot.
AOODGPER 12441 del 23-7-2008) in cui si precisava che «la possibilità di completare l’orario d’insegnamento deve intendersi riferita al territorio diocesano e al caso in cui, d’intesa con la competente autorità ecclesiastica, si verifichino per un numero limitato di insegnanti riduzioni d’orario non superiori ad un quinto dell’orario d’obbligo che non siano diversamente recuperabili mediante utilizzazione presso altre sedi scolastiche, nel rispetto delle quote di organico del personale di ruolo e non di ruolo e ai sensi della normativa vigente».
Al momento in cui scriviamo la precisazione non è stata reiterata, ma sembra evidente che debba valere anche nell’attuale situazione, riducendo perciò sensibilmente la possibilità di completare l’orario nella propria sede di servizio.
Del resto, è facile capire come una simile circostanza possa applicarsi in ogni scuola solo a pochi docenti delle altre materie, mentre – a parità di contrazione di organico – potrebbe interessare la quasi totalità degli Idr.
Sarebbe quindi improponibile un’applicazione letterale, ma la disposizione contribuirà lo stesso a risolvere qualche caso critico.
La circostanza consente di fare chiarezza anche su altri aspetti delle utilizzazioni che incidono sulla gestione degli organici degli Idr di ruolo e non di ruolo.
Un equivoco abbastanza diffuso è la pretesa disponibilità per gli Idr di ruolo dei posti affidati agli incaricati (30%).
In realtà, nella logica della legge 186/03 le due quote del 70% e del 30% vanno ugualmente salvaguardate, evitando di recuperare sull’una (il 30%) le eccedenze dell’altra: gli Idr incaricati non rappresentano una quota residuale dell’organico dell’Irc, ma ne costituiscono una parte incomprimibile, fatti salvi, ovviamente, gli arrotondamenti e i recuperi di eccedenze non diversamente compensabili.
Finché possibile, perciò, cioè fino alla concorrenza del tetto del 70% dell’organico diocesano complessivo, gli Idr di ruolo che dovessero perdere ore nella propria sede di servizio dovranno andare a completare il loro orario in altre scuole della diocesi.
Le domande di utilizzazione scadono per tutti gli Idr il 24 luglio, ma l’eventuale completamento orario all’interno della scuola in cui si è verificato l’esubero deve tenere conto dell’organico di fatto, quindi si tratterà di operazioni effettuabili solo successivamente.