Un’aggressione al Papa e alla democrazia

Un’aggressione al Papa e alla democrazia di Marcello Pera Caro direttore, la questione dei sacerdoti pedofili o omosessuali scoppiata da ultimo in Germania ha come bersaglio il Papa.
Si commetterebbe però un grave errore se si pensasse che il colpo non andrà a segno data l’enormità temeraria dell’impresa.
E si commetterebbe un errore ancora più grave se si ritenesse che la questione finalmente si chiuderà presto come tante simili.
Non è così.
È in corso una guerra.
Non propriamente contro la persona del Papa, perché, su questo terreno, essa è impossibile.
Benedetto XVI è reso inespugnabile dalla sua immagine, la sua serenità, la sua limpidezza, fermezza e dottrina.
Basta il suo sorriso mite per sbaragliare un esercito di avversari.
No, la guerra è fra il laicismo e il cristianesimo.
I laicisti sanno bene che, se uno schizzo di fango arrivasse sulla tonaca bianca, verrebbe sporcata la Chiesa, e se fosse sporcata la Chiesa allora lo sarebbe anche la religione cristiana.
Per questo i laicisti accompagnano la loro campagna con domande del tipo «chi porterà più i nostri figli in Chiesa?», oppure «chi manderà più i nostri ragazzi in una scuola cattolica?», oppure ancora «chi farà curare i nostri piccoli in un ospedale o una clinica cattolica?».
Qualche giorno fa una laicista si è lasciata sfuggire l’intenzione.
Ha scritto: «L’entità della diffusione dell’abuso sessuale su bambini da parte di sacerdoti mina la stessa legittimazione della Chiesa cattolica come garante della educazione dei più piccoli».
Non importa che questa sentenza sia senza prove, perché viene accuratamente nascosta «l’entità della diffusione»: un per cento di sacerdoti pedofili? dieci per cento? tutti? Non importa neppure che la sentenza sia priva di logica: basterebbe sostituire «sacerdoti» con «maestri» o con «politici» o con «giornalisti» per «minare la legittimazione» della scuola pubblica, dei parlamenti o della stampa.
Ciò che importa è l’insinuazione, anche a spese della grossolanità dell’argomento: i preti sono pedofili, dunque la Chiesa non ha autorità morale, dunque l’educazione cattolica è pericolosa, dunque il cristianesimo è un inganno e un pericolo.
Questa guerra del laicismo contro il cristianesimo è campale.
Si deve portare la memoria al nazismo e al comunismo per trovarne una simile.
Cambiano i mezzi, ma il fine è lo stesso: oggi come ieri, ciò che si vuole è la distruzione della religione.
Allora l’Europa pagò a questa furia distruttrice il prezzo della propria libertà.
È incredibile che soprattutto la Germania, mentre si batte continuamente il petto per la memoria di quel prezzo che essa inflisse a tutta l’Europa, oggi, che è tornata democratica, se ne dimentichi e non capisca che la stessa democrazia sarebbe perduta se il cristianesimo venisse ancora cancellato.
La distruzione della religione comportò allora la distruzione della ragione.
Oggi non comporterà il trionfo della ragion laica, ma un’altra barbarie.
Sul piano etico, è la barbarie di chi uccide un feto perché la sua vita nuocerebbe alla «salute psichica» della madre.
Di chi dice che un embrione è un «grumo di cellule» buono per esperimenti.
Di chi ammazza un vecchio perché non ha più una famiglia che se ne curi.
Di chi affretta la fine di un figlio perché non è più cosciente ed è incurabile.
Di chi pensa che «genitore A» e «genitore B» sia lo stesso che «padre» e «madre».
Di chi ritiene che la fede sia come il coccige, un organo che non partecipa più all’evoluzione perché l’uomo non ha più bisogno della coda e sta eretto da solo.
E così via.
Oppure, per considerare il lato politico della guerra dei laicisti al cristianesimo, la barbarie sarà la distruzione dell’Europa.
Perché, abbattuto il cristianesimo, resterà il multiculturalismo, che ritiene che ciascun gruppo ha diritto alla propria cultura.
Il relativismo, che pensa che ogni cultura sia buona quanto qualunque altra.
Il pacifismo che nega che il male esiste.
Questa guerra al cristianesimo non sarebbe così pericolosa se i cristiani la capissero.
Invece, all’incomprensione partecipano molti di loro.
Sono quei teologi frustrati dalla supremazia intellettuale di Benedetto XVI.
Quei vescovi incerti che ritengono che venire a compromesso con la modernità sia il modo migliore per aggiornare il messaggio cristiano.
Quei cardinali in crisi di fede che cominciano a insinuare che il celibato dei sacerdoti non è un dogma e che forse sarebbe meglio ripensarlo.
Quegli intellettuali cattolici felpati che pensano che esista una questione femminile dentro la Chiesa e un non risolto problema fra cristianesimo e sessualità.
Quelle conferenze episcopali che sbagliano l’ordine del giorno e, mentre auspicano la politica delle frontiere aperte a tutti, non hanno il coraggio di denunciare le aggressioni che i cristiani subiscono e l’umiliazione che sono costretti a provare dall’essere tutti, indiscriminatamente, portati sul banco degli imputati.
Oppure quei cancellieri venuti dall’Est che esibiscono un bel ministro degli esteri omosessuale mentre attaccano il Papa su ogni argomento etico, o quelli nati nell’Ovest, i quali pensano che l’Occidente deve essere laico, cioè anticristiano.
La guerra dei laicisti continuerà, se non altro perché un Papa come Benedetto XVI che sorride ma non arretra di un millimetro la alimenta.
Ma se si capisce perché non si sposta, allora si prende la situazione in mano e non si aspetta il prossimo colpo.
Chi si limita soltanto a solidarizzare con lui o è uno entrato nell’orto degli ulivi di notte e di nascosto oppure è uno che non ha capito perché ci sta.
in “Corriere della Sera” del 17 marzo 2010 Ruini contro l’assedio etico al clero, critico sull’operazione Bonino intervista a Camillo Ruini a cura di Paolo Rodari Accetta di parlare della pedofilia dei sacerdoti.
Difende il Papa, accusa i media e tutti coloro che alimentano il vento della diffamazione contro la chiesa cattolica.
Perché quando l’argine delle diffamazioni supera il limite occorre reagire e dire una parola che resti.
Nella sua abitazione appena fuori le mura leonine che delimitano la Città del Vaticano, di ritorno dall’abbazia benedettina di Santa Scolastica a Subiaco dove ha ricevuto il Premio “San Benedetto 2010”, il cardinale Camillo Ruini, 79 anni compiuti da poco, guarda sospettoso il risalto che i mezzi d’informazione – giornali, tv e Internet – danno ai reati di pedofilia nei quali sono coinvolti sacerdoti.
Un’analisi oggi necessaria perché “seppure il reato di pedofilia è abominevole”, dice al Foglio il vicario generale emerito del Papa per la città di Roma, “alcune considerazioni è arrivato il momento di farle”.
Ruini non è per nulla sorpreso della campagna di stampa di questi giorni che arriva a chiamare in causa anche il Papa.
“Davvero non lo sono” dice.
E spiega: “I reati di pedofilia sono sempre infami, specialmente quando commessi da un sacerdote.
Per questo è più che giusto denunciarli e reprimerli e, nella misura del possibile, aiutare le vittime a superarne le conseguenze.
E’, inoltre, assolutamente doveroso prendere tutti i provvedimenti che possono prevenire nuovi reati”.
Tuttavia? “Detto ciò non si può far finta di non vedere che l’attenzione di molti giornali e degli ambienti che si esprimono attraverso di essi si concentra sui casi di pedofilia dei sacerdoti cattolici, sicuramente non più frequenti di quelli di tante altre categorie di persone.
E non si può nemmeno ignorare il tentativo tenace e accanito di tirare in ballo la persona del Papa, nonostante tutti i puntuali chiarimenti della sala stampa vaticana e di altre fonti attendibili”.
Sono anni che Ruini segue l’eco che la stampa italiana e internazionale dà ai vari casi di abusi su minori attribuiti a sacerdoti, dal primo scandalo che occupò i titoli dei quotidiani di tutto il mondo – quello scoppiato nel 2002 in seguito alla scoperta di abusi sessuali perpetrati da più sacerdoti nei confronti di minorenni nell’arcidiocesi di Boston – fino a quelli di questi giorni che a macchia di leopardo sembrano poter interessare diversi paesi europei: Germania, Austria, Olanda, Irlanda, Svizzera.
Due termini ricorrono con frequenza nella sua conversazione: “Campagna diffamatoria” e “strategia”.
Cioè? “A mio avviso la campagna diffamatoria contro la chiesa cattolica e il Papa messa in campo dai media rientra in quella strategia che è in atto oramai da secoli e che già Friedrich Nietzsche teorizzava con il gusto dei dettagli.
Secondo Nietzsche l’attacco decisivo al cristianesimo non può essere portato sul piano della verità ma su quello dell’etica cristiana, che sarebbe nemica della gioia di vivere.
E allora vorrei domandare a chi scaglia gli scandali della pedofilia principalmente contro la chiesa cattolica, tirando in ballo magari il celibato dei preti: non sarebbe forse più onesto e realistico riconoscere che certamente queste e altre deviazioni legate alla sessualità accompagnano tutta la storia del genere umano ma anche che nel nostro tempo queste deviazioni sono ulteriormente stimolate dalla tanto conclamata ‘liberazione sessuale’?”.
Una domanda non retorica, quella di Ruini.
Una domanda che, probabilmente, molti vescovi e cardinali vorrebbero porre seppure spesso non riescano ad averne il coraggio o a trovare il contesto giusto in cui avanzarla.
“Quando l’esaltazione della sessualità pervade ogni spazio della vita e quando si rivendica l’autonomia dell’istinto sessuale da ogni criterio morale diventa difficile far comprendere che determinati abusi sono assolutamente da condannare.
In realtà la sessualità umana fin dal suo inizio non è semplicemente istintiva, non è identica a quella degli altri animali.
E’, come tutto l’uomo, una sessualità ‘impastata’ con la ragione e con la morale, che può essere vissuta umanamente, e rendere davvero felici, soltanto se viene vissuta in questo modo”.
La rivendicazione dell’autonomia dell’istinto sessuale da ogni criterio morale, un’impostazione narcisistica e dunque autoreferenziale della sessualità, è l’opposto di quanto propone la chiesa.
E’ un modello che vola sulle ali retoriche di altri pulpiti.
Alcuni di questi radicalismi di tipo libertino hanno rappresentanza nelle prossime elezioni regionali.
Argomento ghiotto.
Che cosa ne pensa il predecessore del cardinale Angelo Bagnasco alla guida dei vescovi italiani e del cardinale Agostino Vallini alla guida operativa della diocesi di Roma? “Voglio dire – dice Ruini – che condivido pienamente nei contenuti e nello stile la nota uscita domenica su ‘Roma sette’.
Visti i candidati che sono in gara, particolarmente nel Lazio ma anche in alcune altre regioni, è indispensabile richiamare l’attenzione sui temi veramente fondamentali che la nota richiama con chiarezza e precisione.
Tra questi la difesa della vita umana in ogni fase della sua esistenza, il sostegno della famiglia fondato sul matrimonio tra uomo e donna e più in generale il rifiuto di un permissivismo che mina le basi della società”.
Ruini, come tutti i sacerdoti e i suoi confratelli vescovi, si attiene alle disposizioni che vietano loro di dare indicazioni di voto.
Ma nello stesso ha letto bene il passaggio della nota che dice che “non è possibile equiparare qualunquisticamente tutti i progetti politici, perché non tutti incarnano i valori in cui crediamo”.
E ancora: “Non si possono concedere deleghe di rappresentanza politica a chi persegue altro progetto politico, che ci è estraneo e che non condividiamo”.
Dice, infatti, Ruini: “I cittadini che fanno riferimento all’etica cristiana, ma anche tutti coloro che vogliono salvaguardare le strutture portanti della nostra civiltà hanno qui un preciso criterio per l’esercizio del diritto/dovere del voto.
Dopo le tormentate vicende relative alla presentazione delle liste è tempo infatti di concentrare l’attenzione sulle questioni di sostanza, anzitutto quella della scelta delle persone che dovranno guidare le regioni italiane”.
in “il Foglio” del 16 marzo 2010 Perché entra in crisi il vincolo dei sacerdoti di Vito Mancuso «Non è bene che l’uomo sia solo», dice Dio di fronte al primo uomo.
Per rimediare crea gli animali, ma l’uomo non è soddisfatto.
Allora gli toglie una costola, plasma la donna e gliela presenta.
A questo punto l’uomo non ha più dubbi: «Questa è osso delle mie ossa e carne della mia carne.
La si chiamerà išà (donna) perché da iš (uomo) è stata tolta».
Una voce fuori campo commenta: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola» (Genesi 2,23-24).
Questa scena mitica, mai avvenuta in un punto preciso del tempo perché avviene ogni giorno, insegna che la relazione uomo-donna è scritta dentro di noi e che, ben prima dei genitali, riguarda la carne e le ossa.
La Sacra Scrittura esprime così nel modo più intenso che noi siamo relazione in cerca di relazione, che viviamo con l’obiettivo di formare “una carne sola” e di compiere l’uomo perfetto, quello pensato da subito nella mente divina come maschio+femmina, secondo quanto insegna Genesi 1,27: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò».
La vera immagine di Dio, che è comunione d’amore personale, non è né il monaco né il prete celibe e neppure il papa, ma è la coppia umana che vive di un amore reciproco così intenso da essere “una carne sola”.
Per questo, secondo un detto rabbinico, «il celibe diminuisce l’immagine di Dio».
Lo stesso si deve dire della paternità e della maternità.
Se Dio è padre che eternamente genera il Figlio e che temporalmente genera gli uomini come figli nel Figlio, la sua immagine più completa sulla terra sono gli uomini e le donne che a loro volta generano figli e spendono una vita di lavoro per farli crescere.
Per questo la Bibbia ebraica considera la scelta celibataria di non avere figli qualcosa di innaturale che trasgredisce il primo comando dato agli uomini cioè “crescete e moltiplicatevi”.
Naturalmente tutti sanno che Gesù era celibe, e così anche san Paolo.
Ma mentre Gesù conservava una visione positiva del matrimonio, san Paolo giunge a ribaltare quanto dichiarato da Dio al principio dei tempi («non è bene che l’uomo sia solo») scrivendo al contrario che «è cosa buona per l’uomo non toccare donna» (1Cor 7,1).
Per lui il matrimonio è spiritualmente giustificabile solo «a motivo dei casi di immoralità», nulla più cioè che un remedium concupiscentiae per i deboli di spirito che non sanno controllare le passioni della carne.
L’apostolo non poteva essere più esplicito: «Se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che ardere» (1Cor 7,9).
Da qui sorge la visione che domina la tradizione occidentale che assegna una schiacciante superiorità morale e spirituale al celibato e solo un valore secondario al matrimonio.
Da qui la chiesa latina del secondo millennio sarà portata a legare obbligatoriamente il sacerdozio alla condizione celibataria.
Ma su che cosa si fondava l’idea di Paolo? Qualcuno parla di sessuofobia, ma a mio avviso il motivo è un altro e si chiama escatologia: ovvero la sua ferma convinzione che «il tempo ormai si è fatto breve» (1Cor 7,29), che «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,31), che quanto prima cioè giungerà la fine del mondo con il ritorno di Cristo.
La Prima Corinzi, lo scritto decisivo in ordine alla fondazione del celibato ecclesiastico, è dominata dall’attesa dell’imminente parusia (vedi 15,51- 53): se Cristo tornerà a momenti, «al suono dell’ultima tromba», a che serve sposarsi e mettere al mondo figli? Il mancato ritorno di Cristo al suono dell’ultima tromba ha portato naturalmente a moderare l’impostazione già nelle lettere deuteropaoline, tra cui in particolare quella agli Efesini i cui passi si leggono spesso durante le cerimonie nuziali, ma questo avrà solo l’effetto di giustificare il matrimonio in quanto sacramento, non di ritenerlo spiritualmente degno almeno quanto il celibato.
Anzi, la tradizione ascetica e mistica dei padri della chiesa e della scolastica è unanime nell’affermare la superiorità indiscussa del celibato rispetto al matrimonio.
Tommaso d’Aquino la sintetizza col dire che «indubitabilmente la verginità deve essere preferita alla vita coniugale» (Summa theologiae II-II, q.
152, a.
4), e il decreto del Concilio di Trento del 1563 arriva persino a scomunicare chi osi dire che «non è cosa migliore e più felice rimanere nella verginità e nel celibato che unirsi in matrimonio» (DH 1810).
Una scomunica che, a ben vedere, colpisce lo stesso Dio Padre per quella sua frase imprudente all’inizio della Bibbia! Oggi assistiamo alla fine abbastanza ingloriosa del modello di vita sacerdotale sancito dal Concilio di Trento, e in genere portato avanti nel secondo millennio cristiano, con il legare obbligatoriamente alla vita sacerdotale la scelta celibataria.
I crimini legati al clero pedofilo (che la gerarchia conosceva e copriva per anni) stanno scavando la fossa, anzi hanno già scavato la fossa, alla falsa idea della superiorità morale e spirituale del celibato.
Naturalmente non intendo per nulla cadere nell’eccesso opposto di chi ritiene la vita celibataria alienante e disumana a priori.
Conosco preti celibi straordinari, modelli integerrimi di vita serena, pura, felicemente realizzata.
Voglio piuttosto esprimere la mia ferma convinzione che ciò che conta per un uomo di Dio (perché nulla di meno il prete è chiamato a essere) sia avere l’anima piena della luce e della gioia del vangelo, e che a questo scopo la condizione migliore sarà per uno vivere nel celibato e per un altro metter su famiglia, a seconda del temperamento e dell’attitudine personali.
Il che è esattamente quello che avveniva tra gli apostoli, come ci fa sapere san Paolo quando scrive che, a differenza di lui, «gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa» vivevano con una donna (1Cor 9,5).
I capi della Chiesa non avevano ancora dimenticato che «non è bene che l’uomo sia solo».
in “la Repubblica” del 18 marzo 2010 La difesa della castità intervista a mons.
Gianfranco Girotti, a cura di Orazio La Rocca «Il celibato sacerdotale è un bene prezioso a cui la Chiesa cattolica non rinuncerà mai.
Difficile, forse, da capire in una società come quella attuale sempre più dominata da consumismo, modelli edonistici, sfruttamento del sesso.
Ma la Chiesa sa che col vincolo della castità, liberamente accettato e coltivato, i suoi sacerdoti sono più liberi di esercitare il loro ministero avendo come modello esclusivo e irrinunciabile Gesù Cristo».
Non si scompone l´arcivescovo Gianfranco Girotti, Reggente della Penitenzeria Apostolica, il tribunale pontificio che ha competenza sui grandi peccati che possono essere assolti solo dalla Santa Sede, i cosiddetti delicta graviora.
E vale a dire, la profanazione delle ostie consacrate; l´assoluzione del complice (quando un sacerdote rompe il celibato e assolve anche la persona con cui ha avuto un rapporto sessuale); la violazione del segreto confessionale; la consacrazione del vescovo senza autorizzazione del Papa; l´offesa alla persona del Pontefice.
Moralista di fama, collaboratore del cardinale Ratzinger negli anni in cui l´attuale Pontefice era prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, monsignor Girotti considera «il celibato un bene assoluto per i sacerdoti, anche se non è un dogma di fede, ma una norma disciplinare che comunque rende più libero e più credibile l´esercizio pastorale dei consacrati».
Eppure, monsignor Girotti, sempre più frequentemente oggi si mette in dubbio la validità del celibato sacerdotale.
«È vero.
Ma non è la prima volta e non sarà nemmeno l´ultima che si levano voci critiche sulla castità a cui sono chiamati i sacerdoti.
Ma non significa che questa scelta non sia valida.
La Chiesa sa che col celibato, liberamente scelto e abbracciato, i sacerdoti possono svolgere la loro vita pastorale con più credibilità e completezza.
Anche se i modelli di vita che vengono imposti in una società secolarizzata come la nostra non sembrano in sintonia con una scelta tanto libera e radicale».
Ma, in concreto, un sacerdote quali vantaggi ha dal celibato? «La sua missione pastorale è più illuminata perché ha come modello Cristo, il nostro Signore a cui tutti dobbiamo guardare.
Sul piano più pratico, col celibato il sacerdote si dedica completamente alla guida della comunità senza dovere, ad esempio, pensare al mantenimento di una sua famiglia».
Nella Chiesa non sempre è stato così.
Il celibato storicamente è stato imposto solo dopo il secondo millennio.
«Certo, perché si tratta di una legge disciplinare, non di un dogma di fede.
Ma se la Chiesa ha fatto questa scelta avrà avuto i suoi motivi che sono validi ancora oggi e credo che lo saranno anche in futuro».
Nella Chiesa cattolica orientale, legata da sempre al Papa, però i sacerdoti si possono sposare.
Non è un controsenso? «No.
È solo una tradizione che viene rispettata.
Ma le posso assicurare che sono pochi i sacerdoti di rito orientale che decidono di sposarsi.
I loro vescovi vengono, invece, scelti tra chi sceglie il celibato.
Questo perché, in generale, anche la Chiesa d´Oriente guarda con rispetto alla castità sacerdotale».
Non è una scelta che può causare disturbi di natura psicologica e caratteriale? «Il sacerdozio celibatario è un dono, una scelta libera e un servizio pastorale gratuito.
L´importante è affrontarlo con discernimento e in piena consapevolezza, anche attraverso una attenta preparazione.
Malgrado le difficoltà, è una scelta sempre valida e chi pensa che la Chiesa cattolica in un futuro più o meno lontano possa rinunciarvi, dice semplicemente una grande sciocchezza».
in “la Repubblica” del 18 marzo 2010 Ratzinger reciti il mea culpa sulla pedofilia di Hans Küng Si è detto che dopo aver ricevuto in udienza l’arcivescovo Robert Zollisch il Papa era «profondamente scosso» e «sconvolto» per i numerosi casi di abusi.
Dal canto suo, il presidente [della Conferenza episcopale tedesca] ha chiesto perdono alle vittime, citando nuovamente le misure già adottate e quelle previste.
Ma nessuno dei due ha risposto a una serie di domande di fondo che non è più possibile eludere.
Stando ai risultati dell’ultimo sondaggio Emnid, solo il 10% degli interpellati trova soddisfacente l’opera di rielaborazione della Chiesa, mentre per l’86% dei tedeschi l’atteggiamento degli alti livelli della gerarchia ecclesiastica manca di chiarezza.
Le loro critiche troveranno peraltro conferma nell’insistenza con cui i vescovi continuano a negare ogni rapporto tra l’obbligo del celibato e gli abusi commessi sui minori.
Prima domanda: Perché il Papa continua, contro la verità storica, a definire il «santo» celibato un «dono prezioso», ignorando il messaggio biblico che consente espressamente il matrimonio a tutti i titolari di cariche ecclesiastiche? Il celibato non è «santo», e non è neppure una grazia, bensì piuttosto una disgrazia, dal momento che esclude dal sacerdozio un gran numero di ottimi candidati, e ha indotto molti preti desiderosi di sposarsi a rinunciare alla loro missione.
L’obbligo del celibato non è una verità di fede, ma solo una norma ecclesiastica che risale all’XI secolo, e avrebbe dovuto essere sospesa ovunque in seguito alle obiezioni dei riformatori dal XVI secolo.
In nome della verità, il Papa avrebbe dovuto quanto meno promettere un riesame di questa norma, da tempo auspicato dalla grande maggioranza del clero e della popolazione.
Anche personalità come Alois Glück, presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, o Hans-Jochen Jaschke, vescovo ausiliare di Amburgo, si sono espresse in favore di un rapporto più sereno con la sessualità e della possibilità di far coesistere fianco a fianco sacerdoti celibi e sposati.
Seconda domanda: È possibile che «tutti gli esperti» abbiano escluso l’esistenza di qualsiasi rapporto tra la pedofilia e l’obbligo del celibato sacerdotale, come ha nuovamente asserito l’arcivescovo Zollitsch? Chi mai può conoscere il parere di «tutti gli esperti»!? Di fatto si potrebbero citare innumerevoli psicoanalisti e psicoterapeuti che al contrario hanno sottolineato questo rapporto: mentre l’obbligo del celibato impone ai preti di astenersi da qualunque attività sessuale, i loro impulsi sono però virulenti, col rischio che il tabù e l’inibizione sessuale li induca a ricercare una qualche compensazione.
In nome della verità, la correlazione tra l’obbligo del celibato e gli abusi non può essere semplicemente negata, ma va presa invece in seria considerazione.
Lo ha ben chiarito ad esempio lo psicoterapeuta americano Richard Sipe, che a questi studi ha dedicato un quarto di secolo (cfr.
«Knowledge of sexual activity and abuse within the clerical system of the Roman Catholic church», 2004): la forma di vita del celibato, e in particolare la socializzazione che la prepara (il più delle volte nei convitti e successivamente nei seminari) può favorire tendenze pedofile.
Richard Sipe ha individuato un tipo di inibizione dello sviluppo psicosessuale più frequente nei celibi che nella media della popolazione; ma spesso la consapevolezza dei deficit dello sviluppo psicologico e delle tendenze sessuali si raggiunge solo dopo l’ordinazione al sacerdozio.
Terza domanda.
Oltre a chiedere perdono alle vittime, i vescovi non dovrebbero finalmente riconoscere anche le proprie corresponsabilità? Per decenni, dato il tabù sulla norma del celibato, hanno occultato gli abusi, limitandosi a disporre il trasferimento dei responsabili.
Tutelare i preti era più importante che proteggere bambini.
C’è poi una differenza tra i casi individuali di abusi commessi nelle scuole, al di fuori della Chiesa cattolica, e gli abusi sistemici, spesso reiterati e frequenti, all’interno stesso della Chiesa cattolica romana, in cui vige tuttora una morale sessuale quanto mai rigida e repressiva, che culmina nella norma sul celibato.
In nome della verità, anziché porre un ultimatum di 24 ore al ministro federale della giustizia, sopravvalutando peraltro gravemente l’autorità ecclesiastica, il presidente della Conferenza episcopale avrebbe dovuto finalmente dichiarare con chiarezza che d’ora in poi, in caso di reati di natura penale le gerarchie della Chiesa non cercheranno più di eludere l’azione giudiziaria dello Stato.
O dovremo aspettare che per ricredersi, la gerarchia sia costretta a pagare risarcimenti dell’ordine di milioni di euro? Negli Usa la Chiesa cattolica ha dovuto versare a questo titolo, nel 2006, ben 1,3 miliardi di dollari; e in Irlanda, nel 2009 il governo ha stabilito con gli ordini religiosi un accordo – rovinoso per questi ultimi – per un fondo risarcimenti di 2,1 miliardi di euro.
Cifre del genere sono assai più eloquenti dei dati statistici sulle percentuali dei celibi tra gli autori di reati sessuali, citati nel tentativo di sdrammatizzare il dibattito.
Quarta domanda: Il papa Benedetto XVI non dovrebbe assumersi a sua volta le proprie responsabilità, anziché lamentarsi di una campagna che sarebbe in atto contro la sua persona? Nessuno finora, in seno alla Chiesa, si è mai trovato sulla scrivania un così gran numero di denunce di abusi.
Vorrei ricordare quanto segue: Per otto anni docente di teologia a Regensburg e in stretti rapporti col fratello Georg, maestro della cappella del Duomo (Domkapellmeister), Joseph Ratzinger era perfettamente al corrente della situazione dei Domspatzen, i piccoli cantori di Regensburg.
E non si tratta qui dei ceffoni, purtroppo all’ordine del giorno a quei tempi, bensì anche di eventuali reati sessuali.
Arcivescovo di Monaco per cinque anni, in un periodo durante il quale un prete, trasferito nel suo episcopato, perpetrò una serie di ulteriori abusi che oggi sono venuti alla luce.
Anche se Mons.
Gerhard Gruber, suo vicario generale (oltre che mio ex collega di studi) si è assunta la piena responsabilità di questi episodi, la sua lealtà non poteva bastare a scagionare l’arcivescovo, responsabile anche sul piano amministrativo.
Per 24 anni Joseph Ratzinger è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nel cui ambito si prendeva atto dei più gravi reati sessuali commessi dal clero in tutto il mondo, per raccoglierli e trattarli nel più totale segreto («Secretum pontificium».
Il 18 maggio 2001, con una lettera rivolta a tutti i vescovi sul tema delle «gravi trasgressioni», Joseph Ratzinger aveva confermato per gli abusi il «segreto pontificio», la cui violazione è punita dalla Chiesa).
Papa per cinque anni, non ha cambiato di una virgola questa prassi infausta.
In nome della verità Joseph Ratzinger, l’uomo che da decenni è il principale responsabile dell’occultamento di questi abusi a livello mondiale, avrebbe dovuto pronunciare a sua volta un «mea culpa».
Così come lo ha fatto il vescovo di Limburg, Franz-Peter Tebartz-van Elst, che in un’allocuzione trasmessa per radio il 14 marzo 2010 si è rivolto a tutti i fedeli in questi termini: «Poiché un’iniquità così atroce non può essere accettata né occultata, abbiamo bisogno di cambiare strada, di invertire la rotta per dare spazio alla verità.
Per convertirci ed espiare, dobbiamo incominciare col riconoscere espressamente le colpe, fare atto di pentimento e manifestarlo, assumerci le responsabilità e aprire così la strada a un nuovo inizio» in “la Repubblica” del 18 marzo 2010

Indicazioni nazionali dei licei

Era atteso da alcuni mesi e, finalmente, vede la luce in queste ore il testo provvisorio delle nuove Indicazioni nazionali degli obiettivi specifici di apprendimento per i licei riformati.
La redazione della bozza delle Indicazioni, presente sul sito dell’Ansas (www.indire.it), è stata curata da un gruppo di lavoro formato da Sergio Belardinelli, Giorgio Bolondi, Max Bruschi, Paolo Ferratini, Gisella Langè, Andrea Ragazzini, Luca Serianni, Elena Ugolini e Nicola Vittorio, che ha coinvolto personalità del mondo accademico, della cultura e della scuola.
Dopo l’approntamento di questa bozza, come si legge nella sua presentazione, prenderà l’avvio una vasta consultazione che coinvolgerà associazioni professionali e disciplinari, esperti, accademici, sindacati, insegnanti, forum dei genitori e degli studenti, e la pubblica opinione, attraverso il sito “nuovilicei.it” (già sperimentato durante la stesura del regolamento).
Dai pareri raccolti usciranno le Indicazioni nazionali definitive sotto forma di Regolamento.
Successivamente una apposita Commissione ministeriale si occuperà di altre due fasi: la prima riguarderà la raccolta e la verifica di curricula dettagliati sulle discipline, mentre la seconda fase riguarderà la revisione e l’armonizzazione delle Indicazioni nazionali del primo ciclo di istruzione che, come è noto, sono attualmente in fase applicativa sperimentale con utilizzo delle Indicazioni varate dal ministro Moratti e delle indicazioni per il curricolo varate dal ministro Fioroni.

Da dove viene il disatro della scuola ?

In un servizio su “Il Corriere della sera”, Angelo Panebianco si rivolge ai nostalgici della prima Repubblica che, a proposito di politica, forse pensano a quegli anni come un’età dell’oro, un’età felice che – precisa l’editorialista – non però è mai esistita.
E della prima Repubblica Panebianco individua quelli che a suo parere sono stati i quattro disastri maggiori lasciatici in eredità: l’instabilità dei governi per l’assenza di alternanza, la pubblica amministrazione utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, il colossale debito pubblico.
Quarto disastro, secondo Panebianco, è quello della scuola.
“Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.
Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele – prosegue – dopo il ’68 diventò la principale sede di uno strisciante “compromesso storico”: il clientelismo democristiano si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex-sessantottini diventati insegnanti.” “Chi vuol capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola – conclude Panebianco – è al quarantennio della prima Repubblica che deve guardare”.
   tuttoscuola.com LA PRIMA REPUBBLICA VA RIMPIANTA? Quelle inutili nostalgie Di fronte al marasma in cui è quotidianamente immersa la nostra vita pubblica attuale è comprensibile che tanti ripensino con nostalgia alla Prima Repubblica, trasfigurata nel ricordo e idealizzata come un’oasi di ordine politico e di pace.
Un «luogo» ove erano inimmaginabili la volgarità dell’oggi, e ove (come si sente continuamente dire) i politici erano dei veri professionisti, misurati nelle parole e capaci di gestire con competenza situazioni difficili.
Il contrario dello spettacolo di disordine, dilettantismo e sguaiataggine cui assistiamo.
La nostalgia per il passato è uno dei più naturali e ricorrenti fra i sentimenti degli uomini.
C’è gente che ricorda con nostalgia persino le guerre e altre catastrofi (magari perché, all’epoca, possedeva la cosa che tutti rimpiangono quando non c’è più: la gioventù).
È accaduto anche in Russia: spaventati dal disordine successivo alla caduta dell’Urss, tanti russi si scoprirono nostalgici dei «bei tempi» del potere totalitario comunista.
Dunque, non c’è nulla di strano nel fatto che tanti italiani oggi ricordino con nostalgia la Prima Repubblica.
Ma ne vale la pena? La Prima Repubblica non era affatto un luogo ameno, o un’irreprensibile democrazia.
Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora) nel quale i tentacoli dei partiti si estendevano ovunque.
La sua storia va divisa in due parti.
Nella prima parte, l’Italia fu immersa in una guerra civile virtuale: da un lato i comunisti, di stretta osservanza sovietica, dall’altro lato i democristiani e i loro alleati.
La Falce e il Martello e lo Scudo Crociato, che campeggiavano sulle loro bandiere, erano simboli di guerra, di armate al servizio di visioni della società e della politica mortalmente nemiche.
L’inamovibilità della Dc, l’assenza di alternanza al governo, non erano casuali.
Erano il prodotto necessario della natura degli attori politici.
Se vogliamo capire, guardando allo scontro di oggi fra berlusconiani e antiberlusconiani, dove abbiamo appreso la sciagurata abitudine di trattare la politica come conflitto fra Bene e Male è a quell’epoca che dobbiamo rivolgerci.
Nella seconda fase della Prima Repubblica, le contrapposizioni ideologiche si stemperarono un po’, i nemici ideologici impararono a coesistere ma ciò non migliorò la condizione della nostra vita pubblica.
Per certi versi, la peggiorò.
Si aprì infatti l’epoca che Alberto Ronchey per primo battezzò della «lottizzazione», una selvaggia e continua spartizione delle spoglie pubbliche fra fameliche macchine partitiche.
Non esisteva una reale separazione dei poteri.
Finché i partiti non cominciarono a indebolirsi (più o meno, dalla Presidenza Pertini in poi), ad esempio, i Presidenti della Repubblica erano comandati a bacchetta dalle segreterie di partito.
La costituzione formale era una cosa ma ciò che contava era la costituzione materiale: le vere regole del gioco avevano ben poca attinenza con le regole formali (costituzionali).
La Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità molti disastri.
Ne cito quattro.
L’assenza di alternanza andava a braccetto, nella Prima Repubblica, con un’endemica instabilità governativa.
La conseguenza era l’incapacità della politica di concepire e attuare piani a medio termine nei suoi vari settori di competenza.
Era costretta ad occuparsi solo del consenso immediato.
Il dissesto idrogeologico, il decadimento di tante infrastrutture, la carenza di ospedali, carceri o scuole, da cui siamo tuttora afflitti, hanno la loro radice nell’incapacità della Prima Repubblica di attuare politiche di respiro nei vari ambiti.
La pubblica amministrazione, oltre che come ricettacolo di clientele, fu utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, soprattutto dal Mezzogiorno, senza riguardo per i suoi problemi di funzionalità.
La sua celebre inefficienza, che tuttora ci opprime, è un regalo della Prima Repubblica.
Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola.
Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele, dopo il ’68 diventò (come, in seguito, accadrà anche alla Rai) la principale sede di uno strisciante «compromesso storico»: il clientelismo dei democristiani si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex sessantottini diventati insegnanti.
Chi vuole capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola è al quarantennio della Prima Repubblica che deve guardare.
Infine, la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità un colossale debito pubblico (una colpa più grave, per i suoi effetti, del finanziamento illecito dei partiti).
Si consentì a tanti italiani di vivere al di sopra dei loro mezzi scaricandone i costi sulle generazioni successive.
Anche i figli dei nostri figli continueranno, incolpevoli, a pagare quel conto.
Ma, si dice, i partiti erano fonte di «professionalità » (sottintendendo: altro che i dilettanti attuali).
Questo è vero ma la professionalità dei politici dell’epoca non impedì nessuno dei disastri che ho sopra ricordato.
Ma, si dice ancora, c’era più decoro, meno volgarità imperante.
Anche questo è vero, ma si dimentica qual era la causa del minor tasso di volgarità.
La società era meno libera, condizionata da modelli di comportamento assai più rigidi degli attuali.
La volgarità di oggi è, per così dire, il lato oscuro della libertà.
Siamo più liberi, e ciascuno fa uso di quella libertà come sa e come è portato a fare.
C’è poi il capitolo magistratura (l’unico rispetto al quale persino un detrattore della Prima Repubblica, quale è chi scrive, ha qualche tentennamento).
Siamo passati da una magistratura dipendente dal potere politico (almeno nella prima fase della Prima Repubblica) all’anarchia giudiziaria attuale, dove ci sono magistrati che vorrebbero avere diritto di vita e di morte sui governi (si tratti del governo Prodi o del governo Berlusconi) e assistiamo al fenomeno dei raider giudiziari, procuratori che costruiscono inchieste spettacolari (spesso destinate a finire in nulla) per poi costruirci sopra carriere politiche.
Non siamo riusciti a trovare un accettabile punto di equilibrio fra la dipendenza di ieri e l’anarchia di oggi.
La nostalgia è un sentimento rispettabile ma, come spiegano gli psicologi, non è sano.
È nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi.
Non serve evocare un’età dell’oro che non è mai esistita.
Angelo Panebianco Corriere della sera 15 marzo 2010

Fase due della Riforma della scuola

In un’intervista pubblicata sul numero in edicola di Tuttoscuola, il presidente della Commissione Cultura della Camera, Valentina Aprea, lancia un’importante novità nella definizione delle nuove regole per la carriera dei docenti: “Occorre prevedere – spiega l’onorevole del Pdl – più modalità di riconoscimento professionale, non escludendo la possibilità che anche le scuole possano valutare miglioramenti retributivi.
In sostanza, l’esperienza personale di dirigente scolastico e la conoscenza dei migliori sistemi educativi mi porta a dire che i dirigenti possono diventare un soggetto valutativo, ma non in via esclusiva”.
“La premialità dei docenti potrebbe essere competenza anche di altri soggetti.
Penso – continua l’esponente del Popolo della Libertà –  agli ispettori, magari in collegamento con l’Invalsi, come avviene con l’Ofsted in Inghilterra, ma anche alle famiglie, agli studenti e agli organismi tecnici delle scuole, chiamati a valutare l’efficacia dell’azione educativa come nelle migliori tradizioni”.
Di fatto genitori e studenti daranno il voto agli insegnanti? “Penso – risponde la Aprea a Tuttoscuola – che solo attraverso più indicatori si potrà monitorare e incoraggiare una sempre maggiore qualità e professionalità della docenza italiana, e che dunque anche le famiglie e gli studenti potranno essere coinvolti nella valutazione.
Questi ultimi, d’altra parte, già valutano i docenti in alcune università”.
Una proposta che certamente metterà in allarme il mondo dei docenti, sempre molto sensibili al tema della valutazione del loro lavoro, tanto più se dovesse avvenire da parte dei dirigenti scolastici e, addirittura, degli studenti.  E quale sarà la reazione dei  sindacati? Entro settembre si cambia formazione iniziale e reclutamento dei docenti Un altro argomento strategico sul quale si sofferma la Aprea nell’intervista al mensile Tuttoscuola è quello dello stato giuridico, sul quale la scorsa estate si è registrato un inaspettato stop da parte della Lega.
La rappresentante del Pdl schiaccia l’acceleratore anche su questo fronte: “La Proposta di legge da me presentata all’inizio della Legislatura e le Proposte di leggi abbinate hanno come focus una nuova governance della scuola, di cui lo stato giuridico dei docenti, nuove forme di sviluppo professionale e nuove modalità di reclutamento costituiscono corollari imprescindibili perché i nuovi modelli organizzativi e gestionali delle scuole autonome siano realmente ‘sussidiari’ e di qualità.
Sono certa che presto riprenderemo a discutere in Commissione questi temi e a ricercare un’intesa”.
Sui tempi per l’introduzione di questa novità, che includerà novità come i Consigli di amministrazione e gli albi professionali dei docenti, il deputato della maggioranza prospetta l’anno scolastico 2010-11: “A breve – afferma Aprea, che dice di muoversi in sintonia con il ministro Gelmini – giungerà in commissione il regolamento sulla formazione iniziale dei docenti, e si porrà contestualmente il tema del reclutamento attraverso albi professionali regionali e concorsi regionali banditi dalle reti di scuole, come da raccomandazione OCSE.
Per questo, e anche per offrire con l’inizio del prossimo anno scolastico alle scuole strumenti organizzativi più flessibili di accompagnamento e sostegno alla riforma delle superiori, credo che già dalla prossima primavera si possa riprendere il dibattito politico e istituzionale su questi aspetti”.
Infine, la numero uno della Commissione Cultura di Montecitorio nell’intervista a Tuttoscuola dà i voti ai sindacati e promuove solo alcune sigle: “Anp, Snals, Cisl e Uil, tanto per richiamare le sigle di alcuni grandi sindacati di categoria, sembra che abbiano scelto la strada del confronto e non quella dell’opposizione ideologica preventiva contro le scelte del governo in carica.
Le migliori conquiste sindacali si realizzano non sulla spinta dell’ideologia, ma sul terreno della condivisione degli obiettivi e del buon senso”.
E aggiunge: “E’ giusto investire di più sui docenti, ma chiedendo loro qualcosa in cambio: si deve capire, da parte di tutti, che il riferimento centrale deve tornare ad essere l’alunno, i giovani, la persona.
Si deve dare il giusto peso alle ragioni del personale della scuola, ma non a scapito del servizio che si deve assicurare alle famiglie e alla nostra società, di cui gli studenti rappresentano il futuro”, conclude l’Aprea.
Le dichiarazioni rilasciate a Tuttoscuola dal segretario generale della Uil Scuola, Massimo Di Menna sull’intervista alla Presidente della Commissione Cultura della Camera Valentina Aprea, che il nostro mensile pubblica nel numero di marzo (di cui una sintesi è visibile nell’articolo Aprea a Tuttoscuola: ”Pure gli studenti potranno valutare i docenti”) sono una vera e propria road map “per modernizzare la scuola e innalzare la qualità”.
Per Di Menna non vi è altra strada che “puntare sui docenti, supportandoli nel delicato lavoro e valorizzandone le professionalità”.
“Sul come fare – continua il segretario generale della Uil Scuola -, registriamo ritardi e un eccesso di genericità: molti richiami, molte affermazioni di principio, talvolta davvero fantasiose , ma nel concreto vedo poco.
A parere della Uil la via da percorrere è la seguente: 1) Aprire un confronto con il Sindacato, a cui non ci sottraiamo.
2) Rapido intervento legislativo sulla governance delle scuole, rafforzando l’autonomia e puntando sulle reti di scuole, definendole giuridicamente e facendole diventare la sede in cui si sviluppi ricerca didattica, dipartimenti, efficienza nella gestione del personale, valutazione, stabilità di organico, interlocuzione con il territorio.
Il testo unificato della Commissione ristretta della Camera può essere un utile riferimento.
3) Rapida definizione da parte del Governo del decreto della formazione iniziale, e subito decreto sul nuovo reclutamento per coprire i posti vacanti dove le graduatorie sono esaurite, per evitare nuovo precariato.
4) Rafforzare l’INVALSI che ha iniziato un pregevole lavoro per la valutazione degli esiti con le verifiche delle competenze, degli standard, attraverso rilevazioni nelle scuole.
Occorre costruire un sistema di valutazione in grado di seguire sia i livelli d’ingresso che di uscita.
Il sistema deve avere articolazioni a livello di scuole e di reti.
5) Riconoscere economicamente la professionalità degli insegnanti”.
Di Menna richiama anche sulla necessità di utilizzare “le risorse disponibili (il 30% dei risparmi)”, e di aprire “rapidamente il confronto contrattuale per il triennio 2010/2012”: “Devono iniziare le trattative e in tale sede, quella contrattuale, vanno individuate le soluzioni.
Servono soldi certi, criteri che leghino la valorizzazione professionale allo specifico delle funzione docente, l’insegnamento.
Certamente un efficace sistema di valutazione che supporti e segua il percorso didattico può aiutare.
La carriera può prevedere nuovi funzioni, fermo restando la docenza, il coordinamento, ma soprattutto il riconoscimento deve puntare sul lavoro d’aula, quello che ha diretta incidenza sulla crescita dei ragazzi, che va resa, attraverso un efficace sistema di valutazione, trasparente e verificabile”.
“Il rischio maggiore – conclude il segretario generale della Uil Scuola -, da evitare è la burocratizzazione.
Ci opporremo a una valutazione tutta burocratica e fatta di carta e certificazioni.
Serve una forte connotazione tecnico-professionale nelle scuole, e una eliminazione della gestione burocratica che sta soffocando, insieme ai tagli, il sistema e appesantendo il lavoro.
Al di là dei continui proclami vedo ritardo nelle scelte concrete (organi di governance, decreti sulla formazione iniziale, confronti sulle carriere)”.
Dopo la razionalizzazione, con la drastica riduzione degli organici, e la riforma degli ordinamenti, dal maestro unico alle nuove superiori, si potrebbe ora aprire la “fase due” nell’azione della maggioranza sulla scuola, su carriera, reclutamento e nuova governance.
E non mancano le sorprese nei contenuti della proposta di cambiamento.

Sos alcol

Sos giovani e alcol: i ragazzi italiani consumano alcol per la prima volta ad un’età che è la più bassa in Europa, poco più di 12 anni, e al di sotto dei 13 anni consumano bevande alcoliche con una prevalenza tra le più alte dell’Ue.
Così, nel 2008 il 17,6% dei giovani di 11-15 anni ha consumato bevande alcoliche, in un’età al di sotto di quella legale per la somministrazione e per la quale il consumo consigliato è pari a zero.
L’INDAGINE – Il dato allarmante è contenuto nella Relazione al Parlamento sugli interventi realizzati da Ministero della Salute e Regioni in materia di alcol e problemi alcolcorrelati, anni 2007-2008.
Tra i giovani di 18-24 anni di entrambi i sessi, evidenza la Relazione, ha consumato bevande alcoliche il 70,7%, con una prevalenza superiore alla media nazionale.
Inoltre, afferma il ministero della Salute, «per quanto riguarda i giovani, la bassa età del primo contatto con le bevande alcoliche è l’aspetto di maggiore debolezza del nostro Paese nel confronto con l’Europa (in media 12,2 anni di età, contro i 14,6 della media europea)».
BINGE-DRINKING – Tra i comportamenti a rischio è sempre più diffuso il binge drinking (abbuffate d’alcol fino all’ubriacatura), soprattutto nella popolazione maschile di 18-24 anni (22,1%) e di 25-44 (16,9% ).
Altra tipologia di consumo a rischio prevalente tra i giovani è, inoltre, il consumo fuori pasto, che ha riguardato nel 2008 il 31,7% dei maschi e il 21,3% delle femmine di età compresa fra gli 11 e i 24 anni.
Nella stessa fascia di età, il 13,2% dei maschi e il 4,4% delle femmine ha praticato il binge drinking nel corso dell’anno.
PER IL 9,4% DEGLI ITALIANI CONSUMO SMODATO – Per quanto riguarda il consumo di alcol in generale nella popolazione, la relazione del Ministero dice che in Italia va meglio che in altri Paesi europei, ma il rischio resta alto: il consumo di bevande alcoliche tra gli italiani, pur registrando percentuali minori rispetto ad altre nazioni, rimane comunque sostenuto, tanto che il 9,4% della popolazione consuma quotidianamente alcol in quantità non moderate e il 15,9% non rispetta le indicazioni di consumo proposte dagli organi di tutela della salute.
Il quadro epidemiologico conferma la diffusione, in atto negli ultimi anni, di comportamenti a rischio lontani dalla tradizione nazionale, quali i consumi fuori pasto, le ubriacature e il binge drinking.
Nei confronti dell’Europa, rileva la Relazione, «l’Italia presenta una minore prevalenza di consumatori di bevande alcoliche e una minore diffusione del binge drinking; tuttavia, fra coloro che consumano alcol, ben il 26% lo fa quotidianamente (il doppio della media europea), il 14% lo fa da 4 a 5 volte a settimana (valore più alto in Europa) e il 34% pratica il binge drinking almeno una volta a settimana (contro il 28% della media europea)».
(Fonte Agenzia Ansa) 03 marzo 2010

IRC: nuovo modello per le iscrizioni

Con nota del 2 marzo scorso il Ministero dell’istruzione ha rettificato il modello (allegato alla circolare per le iscrizioni n.
4/2010) per la scelta delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica.
Tale modello, come aveva segnalato anche la Cgil-scuola, prevedeva soltanto due opzioni, mentre la stessa circolare ne riportava correttamente tre: – attività didattiche e formative – attività individuali o di gruppo con assistenza di personale docente; – non frequenza della scuola nelle ore di insegnamento della religione cattolica”.
La nota ministeriale invita i dirigenti scolastici ad integrare, pertanto, il modello già trasmesso, riportando le tre opzioni possibili.
Da notare che il modello, allegato ogni anno alla circolare delle iscrizioni, non viene utilizzato subito, bensì prima dell’inizio delle lezioni.

José Carreras

La porta non l’ha chiusa definitivamente.
«Potrei ripensarci solo se mi offrissero il titolo giusto nell’ambito di un progetto artistico serio» dice.
Aggiungendo, però, che «per ora titoli e progetti all’orizzonte proprio non se ne vedono».
José Carreras ha detto addio all’opera.
Quella che negli anni Settanta e Ottanta lo ha visto trionfare nei teatri di tutto il mondo, conteso da direttori come Karajan e Abbado.
E non se ne pente.
«Perché, guardando indietro, posso dire di aver fatto molto di più di quello che progettavo all’inizio della mia carriera» confida il tenore spagnolo.
Ma anche perché gli impegni musicali non gli mancano.
L’altra sera era a Brescia.
«Uno dei tanti recital che faccio in giro per il mondo per far conoscere e sostenere la mia Fondazione per la lotta alla leucemia».
Scusi, Carreras, ma chi glielo fa fare? A 63 anni, dopo tutti i successi raccolti, non avrebbe voglia di un po’ di riposo? «Sento che devo assolvere a un dovere.
Cantare, impegnarmi per raccogliere fondi da destinare alla ricerca è il mio modo per sdebitarmi.
Per dire grazie alla vita.
Per dare a chi oggi combatte contro la malattia quello che a suo tempo ho ricevuto gratuitamente.
Una speranza.
Il coraggio di andare avanti.
Quando mi sono ammalato di leucemia, nel 1987, i medici mi avevano detto che avevo una possibilità su dieci di guarire.
Mi crollò il mondo addosso.
Roba da chiudersi in casa e non uscire più».
Invece cosa le ha dato la forza di non arrendersi? «La famiglia e gli amici.
Le tante persone che in molti modi mi facevano sentire il loro affetto, senza il quale non so davvero se ce l’avrei fatta.
È stato fondamentale essere circondato da gente che era sicura che avrei sconfitto la leucemia.
Mi ha dato la forza di lottare.
Un’esperienza che cerco di trasmettere alle persone malate che incontro: se vi hanno detto che avete una possibilità su un milione dovete credere che quella sarà la vostra possibilità».
Detta così sembra facile.
«Naturalmente non ce l’avrei fatta senza la straordinaria équipe medica che mi ha seguito.
Anche perché i momenti di sconforto sono stati tanti.
Ma mi hanno temprato, hanno lasciato in me un segno indelebile.
E mi hanno aiutato a trovare il lato positivo del dolore: ho modificato la scala delle priorità della mia vita, sono diventato più aperto al dialogo, alla comprensione, a sentimenti di solidarietà e di fratellanza».
Possiamo sintetizzare usando la parola fede? «La malattia mi ha fatto riscoprire la dimensione spirituale dell’esistenza.
Una presenza che da allora è diventata costante nella mia vita.
Ogni anno con la mia Fondazione organizziamo un pellegrinaggio a Lourdes: una grande gioia per me, un’esperienza unica a contatto con la sofferenza e la fede».
E la musica l’ha aiutata? O in quei frangenti anche un musicista vorrebbe solo silenzio intorno a sé? «Mi sono aggrappato in ogni istante alla musica.
L’ho sempre considerata un conforto spirituale.
E nella mia lotta contro la leucemia mi ha sostenuto il desiderio di poter un giorno tornare a cantare.
Anche nei momenti peggiori non ho mai smesso di studiare musica.
Ma soprattutto di ascoltarla.
Le mie giornate avevano sempre la musica in sottofondo.
E non era necessariamente classica.
Anche se ascoltavo e riascoltavo il Concerto n.2 per pianoforte e orchestra di Rachmaninov.
Non saprei dire il perché, ma avvertivo una malinconia, un misticismo che mi confortavano e mi davano speranza».
E oggi, in un mondo dove il dolore – quello provocato dalla malattia, ma anche dalle catastrofi naturali – mette molti alla prova, che speranza intravede? «Nei momenti difficili ho sempre guardato ai più piccoli, ai bambini.
Penso che dobbiamo combattere per loro, sforzarci di dialogare tra popoli di fedi e culture diverse, intraprendere la via della pace per garantire loro un futuro.
Penso che la musica in questo possa giocare un ruolo fondamentale».
In che senso? «Può essere uno strumento di dialogo che fa incontrare le persone.
Può aiutare gli uomini a riflettere sulla vita.
Anche per questo, quando canto, spero sempre di arrivare al cuore degli ascoltatori.
Per comunicare emozioni.
Per trasmettere quella speranza che per me è stata fondamentale».
Pierachille Dolfini

“Il cortile dei gentili”

Intervista a Gianfranco Ravasi a cura di Lorenzo Fazzini «ll nostro dicastero sta organizzando una Fondazione intitolata “Il cortile dei gentili” che si ispira al discorso del Papa alla Curia a dicembre».
L’annuncio è di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura.
Una prima concretizzazione dell’auspicio di Benedetto XVI per un rinnovato dialogo con gli uomini e le donne che non credono ma vogliono avvicinare Dio.
Quali gli obiettivi di questo nuovo ente? «Primo, creare una rete di persone agnostiche o atee che accettino il dialogo e entrino come membri nella Fondazione e quindi del nostro dicastero.
Inoltre, vogliamo avviare contatti con organizzazioni atee per avviare un confronto (non certo con l’Uaar italiana, che è folcloristica).
Terzo, studiare lo spazio della spiritualità dei senza Dio su cui aveva già indagato la Cattedra dei non credenti del cardinale Martini a Milano.
Infine, sviluppare i temi del rapporto tra religione, società, pace e natura.
Vorremmo, con questa iniziativa, aiutare tutti ad uscire da una concezione povera del credere, far capire che la teologia ha dignità scientifica e statuto epistemologico.
La Fondazione vorrebbe organizzare ogni anno un grande evento per affrontare, di volta in volta, uno di questi temi».
Il debutto? «Nella seconda metà di quest’anno, probabilmente a Parigi, città molto viva su questi argomenti: abbiamo già avuto la disponibilità di Julia Kristeva (nota linguista e psicanalista, ndr)».
Ma tra i non credenti vi è disponibilità al confronto proprio su Dio? «Bisogna tener conto dei diversi ateismi, non riducibili ad un unico modello.
Da un lato c’è il grande ateismo di Nietzsche e Marx che purtroppo è andato in crisi, costituito da una spiegazione della realtà alternativa a quella credente, ma con un sua etica, una visione seria e coraggiosa, ad esempio nel considerare l’uomo solo nell’universo.
Oggi siamo in presenza di un ateismo ironicosarcastico che prende in considerazione aspetti marginali del credere o posizioni fondamentaliste, ad esempio nella lettura della Bibbia.
È l’ateismo di Onfray, Dawkins e Hitchens.
In terzo luogo vi è un’indifferenza assoluta figlia della secolarizzazione ben sintetizzata dall’esempio che Charles Taylor fa in L’età secolare quando afferma che se Dio venisse in una nostra città, l’unica cosa che succederebbe è che gli chiederebbero i documenti».
Come si conciliano annuncio e dialogo? «Nell’identità.
Come nel dialogo con le religioni, che richiede il mantenimento delle reciproche identità, vi deve essere rigore anche con l’ateismo.
Più che una dimostrazione a chi è religiosamente povero, forse bisogna far vedere la ricchezza di quell’oasi che è il credere.
Ogni fede non è mai solo informativa ma anche performativa, cioè offre dati sull’uomo ma al tempo stesso li dice con calore.
Se presenta in modo ricco la religione, il dialogo adempie al compito di presentare la fede in maniera efficace, senza che si punti su bisogni primari, ad esempio la religione come “farmaco” in una malattia.
Lo scambio è già fruttuoso con la scienza: come sostiene Michel Heller, oggi siamo in presenza di una vera e propria “teoria del dialogo” per cui, in alcuni ambienti, scienza e fede, e qui direi ateismo e fede, si incrociano.
Basti pensare alla teoria della relatività, che ha bisogno dello spazio e del tempo nel loro significato filosofico, cioè simbolico.
Qui c’è lo spazio di un vero dialogo nell’amicizia».
in “Avvenire” del 25 febbraio 2010

“Musica e Parole. 10 in Poesia”

Praticamente è un mini Sanremo per sommi poeti.
Senza principi, né fischi né orchestrali che lanciano spartiti.
Ma anche qui ci sono ex festivalieri, un tenore e qualche figlioccio dei talent show.
COMPILATION IN VERSI – Si chiama «Musica e Parole.
10 in Poesia» ed è una compilation di dieci pezzi forti della letteratura italiana in versi, trasferiti su melodie inedite e trasformati in altrettante canzoni incise su cd (ascolta).
Niente televoto.
Il tutto si fa a scopo didattico: l’iniziativa infatti è patrocinata dal Ministero per l’Istruzione.
Il cofanetto, che comprende un libretto con testo e note biografiche dell’autore, più una base musicale per esercitarsi come al karaoke, dal prossimo settembre verrà distribuito in 70.000 copie ai ragazzi delle scuole medie di sei regioni: Piemonte, Lombardia, Lazio, Abruzzo, Puglia e Sicilia.
Farà parte del programma di studio.
Con la speranza che appassioni alla poesia la generazione degli sms.
TOP TEN – Nella speciale top ten (tra parentesi gli interpreti) ci sono: Pianto antico di Giosuè Carducci (l’attore Danilo Brugia e Idaelena), X agosto di Giovanni Pascoli (Antonino ex di Amici), I pastori di Gabriele D’Annunzio (tenore Piero Mazzocchetti), L’infinito di Giacomo Leopardi (Rossana Casale), Meriggiare pallido e assorto di Eugenio Montale (Mario Venuti), Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo (Mario Lavezzi), Città vecchia di Umberto Saba (Dennis Fantina, star di Saranno Famosi e Notti sul Ghiaccio), Gabbiani di Vincenzo Cardarelli (Ivana Spagna), La madre di Giuseppe Ungaretti (Iva Zanicchi) e A Zacinto di Ugo Foscolo (Elisa Rossi da X factor e Giuseppe Zeno della fiction «L’onore e il Rispetto»).
LA PAROLIERA DEL PREMIER – L’idea è venuta al produttore teatrale torinese Alfredo Orofino, in collaborazione con l’istituto professionale «Umberto Pomilio» di Chieti.
E le musiche sono di Loriana Lana, che dopo aver lavorato con Bacalov, Zero e Morricone, è diventata famosa come paroliera ufficiale del premier.
Con cui ha scritto a quattro mani Tempo di Rumba e altre hit del prossimo cd presidenziale in duo con il fido Apicella, in uscita a marzo.
«Il ministero ci ha dato un contributo di 60 mila euro, al resto penseranno gli sponsor», spiega Orofino, che dedica l’opera ad Alda Merini.
Entusiasta la Zanicchi: «Ho scelto io il brano di Ungaretti, l’ho conosciuto, ci siamo frequentati, ed è rimasto nel mio cuore.
Leggerlo mi commuove sempre profondamente, dopo mi sento più serena.
Spero che il cd piaccia anche ai ragazzi, ormai a scuola le poesie non si studiano più».