“Modernità e ambivalenza”

ZYGMUNT BAUMAN, Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri, Torino 2010, ISBN: 8833920496, pp.350,  € 25,00 “Ogni volta che diamo un nome a qualcosa, dividiamo il mondo in due: da un lato le entità che rispondono a quel nome; dall’altro tutte quelle che non lo fanno”.
Dare un nome equivale dunque a cercare di ordinare, classificare, archiviare, controllare: null’altro ha fatto la modernità, se non coltivare il progetto di imprimere un ordine artificiale al mondo, per contrastare l’ambivalente, l’oscuro, l’indistinto o l’indefinibile, di cui percepiva la minaccia.
Compito votato al fallimento, secondo Bauman, perché è l’ambivalenza, e non l’univocità, la condizione normale del linguaggio.
Se si ammette soltanto l’alternativa rigida tra l’ordine e il caos, ci si condanna a essere inadeguati, aprendo la strada all’intolleranza.
Ma l’ambivalenza può anche costituire una trappola.
Accadde, tra Otto e Novecento, con il percorso di integrazione degli ebrei di lingua tedesca, ossia con la loro fuoriuscita sociale e culturale dal ghetto; la modernizzazione estirpò stili di vita, parlate, costumi, e produsse la categoria ambivalente degli ebrei assimilati, estranei sia alla comunità di provenienza sia alle élite nazionali.
Tra rischi e rivincite, l’ambivalenza attraversa gli ultimi due secoli e invade la postmodernità.
Dobbiamo imparare a convivere con questo scandalo della ragione.
l’autore Zygmunt Bauman (Poznán, 1925), di origine ebraica, all’invasione tedesca della Polonia è fuggito con la famiglia in Unione Sovietica.
Rientrato in patria alla fine della guerra, ha studiato sociologia e filosofia all’Università di Varsavia, dove poi ha insegnato fino al 1968.
In quell’anno ha perso l’insegnamento, in seguito alla sua presa di distanza dalle posizioni antisemite del Partito comunista polacco, ed è riparato all’estero.
Ha ottenuto la cattedra di Sociologia all’Università di Leeds, di cui è dal 1990 professore emerito.
Gran parte della sua opera è tradotta in italiano.
Presso le nostre edizioni ha pubblicato La decadenza degli intellettuali.
Da legislatori a interpreti (1992).
Nel 1989 ha vinto il Premio Amalfi e nel 1998 l’Adorno – Preis.

Insegnare vuol dire sedurre.

«C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda.
Tutto pullula di commenti; di autori, c’è grande penuria»: adesso più che mai le parole di Montaigne, nella splendida e ormai storica traduzione di Fausta Garavini, suonano di grande attualità.
Proprio in questi ultimi anni, a causa di una serie di insensate e sciagurate riforme, i classici della filosofia e della letteratura occupano un posto sempre più marginale nelle scuole e nelle università.
Gli studenti percorrono le tappe della loro carriera nutrendosi di manuali, commenti, antologie, bignamini di ogni genere.
Sentono parlare e leggono notizie di oggetti, i classici, di cui, nei casi migliori, conoscono solo qualche pagina presente nei numerosi «florilegi» che hanno invaso il mercato dell’editoria scolastica e universitaria.
Purtroppo questa tendenza non nasce dal nulla.
Al contrario: diventa espressione di una società sempre più stregata dal mercato e dalle sue leggi.
La scuola e le università sono state equiparate alle aziende.
I presidi e i rettori, spogliati dei loro panni abituali di professori, vestono gli abiti di manager.
Spetta a loro far tornare i conti, rendere competitive le imprese di cui sono a capo.
Innanzitutto il «profitto»: bisogna rispettare i tempi nei parametri previsti dai nuovi protocolli ministeriali.
Ma allora che fare? Invitare gli studenti a lavorare di più per compiere il loro itinerario nei tempi e nei modi migliori? Oppure ridurre le difficoltà per rendere più agevole il raggiungimento del traguardo? Questi anni di applicazione della riforma hanno ormai rivelato con chiarezza che è stata la scelta della semplificazione, per non dire della banalizzazione, a dettare legge negli atenei.
Fatta salva qualche piccola isola, ormai la pedagogia edonistica ha incancrenito i gangli vitali dell’insegnamento.
Pensare di inserire la lettura integrale dei «Saggi» di Montaigne o di qualche dialogo di Platone potrebbe essere considerato come una seria minaccia alla prosperità dell’azienda e l’incauto professore potrebbe finire anche sotto «processo».
Eppure, come ricorda George Steiner, sembra impossibile concepire qualsiasi forma di insegnamento senza i classici.
L’incontro tra un docente e un discente presuppone sempre un «testo» da cui partire.
Senza questo contatto diretto sarà difficile che gli studenti possano amare la filosofia o la letteratura e, nello stesso tempo, sarà molto improbabile che i professori possano esprimere al meglio le loro qualità per stimolare passione e entusiasmo nei loro allievi.
Si finirà per spezzare definitivamente quel filo che aveva tenuto assieme la parola scritta e la vita, quel circolo che ha consentito a giovani lettori di imparare dai classici ad ascoltare la voce dell’umanità e, poi col tempo, dalla vita a comprendere meglio i libri di cui ci si è nutriti.
Gli assaggi di brani selezionati non bastano.
Un’antologia non avrà mai la forza di suscitare reazioni che solo la lettura integrale di un’opera può provocare.
E all’interno del processo di avvicinamento ai classici, anche il professore può svolgere un ruolo importantissimo.
Basta leggere le biografie o le autobiografie di grandi studiosi per trovare quasi sempre un riferimento a un docente che durante gli studi liceali o universitari è stato decisivo per orientare gli interessi verso questa o quella disciplina.
Ognuno di noi ha potuto sperimentare quanto l’inclinazione per una specifica materia sia stata, molto spesso, determinata dal fascino e dall’abilità dell’insegnante.
Le lezioni tenute da alcuni grandi maestri nei saloni di Palazzo Serra di Cassano a Napoli testimoniano l’importanza dell’insegnamento nella trasmissione del sapere.
Migliaia di giovani—nel corso dei decenni in cui Gerardo Marotta ha trasformato la sede storica dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in una palestra per formare le nuove generazioni —hanno avuto l’opportunità e il privilegio di ascoltare direttamente la parola di studiosi straordinari come Hans George Gadamer, Giovanni Pugliese Carratelli, Paul Ricoeur, Jean Starobinski, Eugenio Garin e tanti altri invitati di fama internazionale.
La serie di dvd proposta dal «Corriere della Sera» permette oggi a un pubblico più vasto di rivivere momenti eccezionali di un’esperienza straordinaria.
E, soprattutto, consente ai più giovani di incontrare alcuni grandi maestri che purtroppo ci hanno lasciato.
Attraverso molti di questi dvd è possibile capire che l’insegnamento implica sempre una forma di seduzione.
Si tratta, infatti, di un’attività che non può essere considerata un «mestiere», ma che nelle sue forme più nobili e più autentiche presuppone una vera e propria vocazione.
«Una lezione di cattiva qualità — ammonisce George Steiner—è quasi letteralmente un assassinio e, metaforicamente, un peccato».
L’incontro autentico tra un maestro e un allievo non può prescindere dalla passione e dall’amore.
«Non si impara a conoscere — ricorda Max Scheler citando le parole da lui attribuite a Goethe — se non ciò che si ama, e quanto più profonda e completa ha da essere la conoscenza, tanto più forte, energico e vivo deve essere l’amore, anzi la passione».
Oggi purtroppo le aziende dell’istruzione, più attente alla quantitas che alla qualitas, chiedono ben altro ai loro docenti.
Il processo di burocratizzazione che ha pervaso scuole e università prevede per prima cosa la partecipazione attiva alla cosiddetta vita amministrativa.
Lo studio e la ricerca sembrano un lusso da negoziare con le autorità accademiche.
Quel fenomeno che aveva tenuto assieme, fino a non molti anni fa, insegnamento e lavoro scientifico nelle università italiane appare sempre più un miracolo improbabile.
Non è impossibile immaginare che le stesse biblioteche — quei «granai pubblici », come ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di «ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire » — finiranno, a poco a poco, per trasformarsi in polverosi musei.
All’interno di questo contesto sarà difficile immaginare un docente che insegni con amore e passione e studenti pronti a lasciarsi infiammare.
«La gente —annotava Rilke—(con l’aiuto di convenzioni) ha dissoluto tutto in facilità e dalla facilità nella più facile china; ma è chiaro che noi ci dobbiamo tenere al difficile ».
Il sapere, come ricordava Giordano Bruno e come ricordano tanti classici della filosofia e della letteratura, non è un dono ma una faticosa conquista.
Nuccio Ordine Corriere della sera 17 marzo 2010

Il rapporto Istat sui disabili a scuola

Nell’anno scolastico 2005/2006 gli alunni con disabilità, in ogni ordine di scuola, sono in totale 178.220 e rappresentano il 2 per cento del totale degli alunni iscritti.
La percentuale più alta di alunni si ha nel Lazio (2,4 per cento), mentre la più bassa nella Basilicata (1,4 per cento); e non si riscontra una sostanziale differenza tra le distribuzioni regionali relative alla scuola statale e non statale.
Nel tempo si è avuta una progressiva crescita del numero di alunni disabili nella scuola italiana: se nell’anno scolastico 1989/1990 erano pari all’1,2%, nel 2005/2006 sono il 2%.
Con quale tipo di istruzione? Più del 60 per cento degli studenti con disabilità presenti nella scuola secondaria è iscritto nell’istruzione professionale e le motivazioni, spiega l’Istat, possono essere da una parte la possibilità di ottenere un titolo di studio intermedio dopo tre anni di corso, dall’altra la convinzione delle famiglie che ritengono più adatte queste scuole, in quanto ritenute meno impegnative.
Resta sempre lacunosa l’analisi delle tipologie di disabilità, specie quando si tratta di disabilità sensoriali: il Rapporto evidenzia che sotto la voce “psicofisico” si ritrovano quasi il 90 per cento degli studenti con disabilità, inglobando in questo modo all’interno di un’unica tipologia un’ampia varietà di deficit sia di tipo fisico che mentale: ciò si deve al fatto che la classificazione è solo per ragioni amministrative e non pone la dovuta attenzione alle esigenze dell’alunno.
L’ambiente fisico è ancora una barriera all’integrazione.
Le scuole con strutture per il superamento delle barriere architettoniche sono poche.
Dai dati del Ministero della pubblica istruzione del 2003/2004 su 40.383 strutture scolastiche censite solo il 30,7 per cento delle scuole statali è dotato di servizi igienici a norma, il 29,7 per cento di porte a norma e il 20,3 per cento di ascensori o scale per il superamento delle barriere architettoniche.
Ci sono molte differenze tra le regioni, ma anche in quelle più virtuose il 60 per cento delle scuole non ha ancora terminato l’abbattimento delle barriere architettoniche delle proprie strutture scolastiche.
In Italia i docenti impegnati in attività di sostegno nell’anno scolastico 2005-2006 sono 80.013.
Gli insegnanti di sostegno nel corso degli anni sono aumentati in relazione alla crescita del numero degli alunni con disabilità e al numero delle deroghe richieste e concesse.
Il Rapporto dà poi conto delle percentuali di personale impiegato nelle diverse regioni e della tipologia di contratto (a tempo indeterminato e non).
Il dato sulle ripetenze rilevato dal Rapporto merita una più attenta riflessione.
Il 26,3 per cento degli iscritti ha ripetuto almeno un anno durante il corso degli studi e tra di essi la maggior parte presenta condizioni di disabilità grave.
“La ripetenza, pur non rappresentando per alcune tipologie di disabilità severa, un fallimento, può evidenziare in alcuni casi una funzione suppletiva della scuola nei confronti di servizi sociali territoriali molto spesso assenti”, dice l’istituto.
Trend crescente per il numero di studenti con disabilità iscritti all’Università statale: dall’anno accademico 2000-01 al 2004-05 passano da 4.813 iscritti (3 per mille del totale degli studenti iscritti) a 9.134 iscritti (5,4 per mille del totale degli studenti iscritti); in particolare nel triennio considerato si ha un incremento relativo pari al 90 per cento.
Gli studenti con disabilità motorie costituiscono la percentuale maggiore (30,8 per cento) degli iscritti con disabilità, mentre le percentuali minori si riscontrano nei casi di studenti con dislessia (0,7 per cento) e con difficoltà mentali (3,2 per cento).

Consiglio di Stato: l’Irc contribuisce al credito scolastico

Il significato della decisione del CdS non è solo nel risultato finale, che indubbiamente soddisfa le attese degli Idr, ma soprattutto nelle considerazioni di merito su cui i giudici ritengono opportuno dilungarsi con argomentazioni limpide e a nostro parere inoppugnabili, in cui si fa ampio ricorso alle posizioni a suo tempo espresse dalla Corte costituzionale, collocando perciò la questione in un quadro di riferimenti fondativi estremamente forte.
In primo luogo, infatti, il CdS dichiara che le ordinanze ministeriali impugnate si pongono all’interno del quadro giuridico delineato dalla giurisprudenza costituzionale e quindi sono assolutamente legittime.
Non esiste infatti alcun condizionamento o discriminazione per coloro che scelgono di non avvalersi dell’Irc trovandosi a non poter fruire dell’eventuale relativo punteggio nel credito scolastico.
Come infatti afferma la Corte costituzionale, «l’insegnamento della religione è facoltativo solo nel senso che di esso si ci può non avvalere, ma una volta esercitato il diritto di avvalersi diviene un insegnamento obbligatorio.
Nasce cioè l’obbligo scolastico di seguirlo, ed è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento (a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico.
Le stesse considerazioni valgono per gli insegnamento alternativi che, una volta scelti, diventano insegnamenti obbligatori».
All’opposto, lo studente che non si avvale né dell’Irc né delle attività alternative «non può certo pretendere di essere valutato per attività che, nell’esercizio di un diritto costituzionale, ha deciso di non svolgere, ma non può nemmeno pretendere che tali attività non siano valutabili a favore di altri che, nell’esercizio dello stesso diritto costituzionale, hanno deciso di svolgerle».
Una volta riconosciuto che in forza della scelta di avvalersi dell’Irc lo studente si sottopone all’obbligo di frequentarne le lezioni, «discende la necessità di valutare in senso positivo o negativo, come quell’obbligo scolastico sia stato adempiuto.
Non farlo rischierebbe di dare luogo ad una sorta di discriminazione alla rovescia, perché lo stato di “non obbligo” andrebbe ad estendersi anche a coloro che invece hanno scelto di obbligarsi a seguire l’insegnamento della religione cattolica o altro insegnamento alternativo.
In altri termini, l’insegnamento non è obbligatorio per chi non se ne avvale, ma per chi se ne avvale è certamente insegnamento obbligatorio: la libertà religiosa dei non avvalentisi non può, quindi, arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che, dunque, ha il diritto-dovere di frequentarlo e di essere valutato per l’interesse e il profitto dimostrato».
Non è quindi lamentabile alcuna forma di discriminazione, perché «chi segue religione (o l’insegnamento alternativo) non è avvantaggiato né discriminato: è semplicemente valutato per come si comporta, per l’interesse che mostra e il profitto che consegue anche nell’ora di religione (o del corso alternativo).
Chi non segue religione né il corso alternativo, ugualmente, non è discriminato né favorito: semplicemente non viene valutato nei suoi confronti un momento della vita scolastica cui non ha partecipato, ferma rimanendo la possibilità di beneficiare del punto ulteriore nell’ambito della banda di oscillazione alla stregua degli altri elementi valutabili a suo favore».
Il CdS fonda la sua argomentazione su una duplice par condicio: in primo luogo quella che si deve realizzare tra chi si avvale e chi non si avvale dell’Irc, i quali non devono essere – entrambi – condizionati nella loro scelta da possibili conseguenze di carattere valutativo; in secondo luogo la parità di trattamento di cui debbono godere coloro che hanno scelto l’Irc e coloro che hanno optato per una attività alternativa.
Ma proprio su questo secondo aspetto si presentano sviluppi nuovi a seguito dell’entrata in vigore del DPR 122/09, il regolamento della valutazione che ha attribuito piena potestà valutativa all’Idr e solo potere consultivo all’insegnante delle attività alternative, contrariamente alla prassi più che ventennale finora applicata.
In relazione al quadro giuridico precedente, quindi, le argomentazioni del CdS sono assolutamente fondate, ma in prospettiva si trovano in conflitto con il nuovo quadro normativo.
Anzi, il Cds, con una scelta piuttosto inusuale, ritiene di doversi soffermare su una condizione di fatto che non ha alcuna rilevanza ai fini della decisione ma che costituisce un problema cui l’amministrazione scolastica presto o tardi «dovrà necessariamente farsi carico».
Si tratta della mancata attivazione dell’ora alternativa, che in molte scuole vanifica le opzioni di tanti non avvalentisi.
Con tale raccomandazione il CdS invia un doppio messaggio: a coloro che hanno già promosso ricorsi contro il regolamento della valutazione lascia intendere che la disparità di trattamento tra Irc e attività alternative presenta quel fumus boni juris che può condurre all’annullamento delle disposizioni contenute nel DPR 122/09; al Ministero chiede contestualmente di provvedere a rendere almeno effettivo il diritto di frequentare attività alternative all’Irc, diritto che soprattutto in questo ultimo anno scolastico è stato messo in seria crisi dai tagli sul personale (che hanno ridotto o annullato la presenza di docenti a disposizione e utilizzabili proprio per le attività alternative).
Perciò, fermo restando che la scelta sull’Irc è del tutto indifferente alla presenza di attività alternative o di crediti scolastici, il CdS esprime la sua preferenza – come aveva fatto oltre venti anni fa, prima di essere smentito dalla Corte costituzionale – per un regime di effettiva opzionalità tra Irc e attività alternative da realizzarsi a valle della scelta.
Al Ministero spetta adesso dare risposta alle sollecitazioni del CdS, fornendo istruzioni (e finanziamenti) alle scuole.
   Come si ricorderà, la sentenza 7076/09 del Tar del Lazio aveva disposto l’annullamento delle ordinanze ministeriali sugli esami di stato nella parte in cui prevedevano la partecipazione a pieno titolo degli insegnanti di religione cattolica alla determinazione del credito scolastico assegnato a fine anno in vista degli esami.
La sentenza aveva avuto vasta eco sulla stampa nella scorsa estate ed aveva indotto il ministro Gelmini a fare appello al CdS per ristabilire la certezza del diritto in materia.
Il Tar era infatti intervenuto, con una sentenza di fatto priva di efficacia, sulle ordinanze relative agli anni scolastici 2006-07 e 2007-08 che si erano da tempo conclusi; ma le obiezioni potevano incrinare le procedure degli anni successivi.
Nel frattempo, proprio pochi giorni prima del deposito della decisione del CdS, il Ministero ha emanato per l’anno scolastico in corso l’OM 44/10, nella quale conferma sostanzialmente il dettato degli anni precedenti, con alcuni aggiornamenti dovuti al recente regolamento della valutazione relativamente alle attività alternative ma non all’Irc.
Ora, la decisione del CdS rilegittima pienamente la condizione valutativa dell’Irc e del suo insegnante, nonché le posizioni assunte finora dal Ministero in proposito.

Strategie per gestire i comportamenti di disturbo

Riprendo il contributo di questo lavoro, partendo dalla conclusione dell’articolo precedente, dove ho evidenziato alcuni comportamenti di disturbo.
Dicevo che il clima comunicativo del gruppo comprende anche i momenti di noia e di disturbo: sono tutti stimoli che se adeguatamente rilevati possono consentire al gruppo di evolvere verso il compito: fare del disturbo un motivo di apprendimento, utilizzare il segnale della noia per riorientare i lavori.
  Per la gestione dei gruppi si possono utilizzare due strumenti fondamentali:   a)      lo strumento della parola, pensando agli stili di comunicazione efficace b)      lo strumento ancora più efficace: l’intervento sul e con il “non verbale”, molte volte infatti i disturbi si gestiscono con movimenti del corpo, avvicinamento alla persona che parla e inoltre con giochi/esercizi centrati sul non verbale.
  Nella comunicazione efficace è presente in maniera sinergica il mondo verbale e non verbale delle persone.
La distinzione qui riportata è solo per motivi didattici.
  Il contenuto che segue è un tentativo di riflettere su quello che spesso osservo e faccio durante la conduzione di gruppi di lavoro.
Questo è il resoconto di una mia riflessione sulla pratica di conduzione dei gruppi.
Questa esperienza non ha un intento di tipo teorico, ma semplicemente narrativo.
Tale dimensione narrativa però, nel prossimo articolo, sarà inserita all’interno di un modello teorico di riferimento.
Infatti, nel prossimo articolo affronteremo il tema del team building secondo l’approccio del costruttivismo.
    IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI CON IL PRIMATO DELLA VOCE     La nostra voce è uno strumento di espressione molto differenziato, che orchestra e interpreta il nostro discorso: il timbro della voce, l’altezza del suono, il volume, il modo di usare il respiro, il ritmo dell’articolazione, la risonanza, la velocità e la lentezza nel parlare: tutto questo dice parecchio di chi parla, a volte più che non il contenuto del messaggio.
Si possono comprendere anche aspetti della personalità di chi parla, se si fa attenzione alla sua voce.
  – Come gestire chi parla troppo   Quando nel gruppo ci troviamo di fronte ad una persona che parla tanto e velocemente, un modo per aiutarla a contenersi e modellizzare un nuovo comportamento è quello di rispondere con un timbro molto basso e lentamente.
Certo, il limite di questa considerazione, che qui facciamo, sta nel fatto che non possiamo vedere quello che realmente succede.
Se provate però ad avvicinarvi alla persona che parla troppo veloce e provate a rispondere in maniera lenta, vedrete gli effetti.
A bassa voce potreste dire: “Mi chiedo qual è l’obiettivo di questa tua considerazione.
Ti chiedo di fermarti, perché faccio fatica a seguirti e voglio dare spazio anche agli altri”.
  –          Come gestire il tacere   Talvolta capita che all’inizio di un incontro, la persona più timida per evitare di esplorare lo spazio della stanza si siede sulla prima sedia che trova libera e cioè quella più vicina alla porta.
Questa persona osserva, ascolta, ma in silenzio.
Un primo modo per aiutarla ad entrare nella relazione con il gruppo è quello di avvicinarsi e, mentre si parla, mettere la mano sulla spalla in modo tale che sul piano non verbale lo si include nel processo comunicativo.
Sul piano della comunicazione verbale si può chiedere un parere su quello che si dice, mostrandogli così stima e considerazione.
Naturalmente tutto questo dovrà essere fatto con autenticità: se facciamo finta di includere una persona taciturna, l’effetto di questa azione sarà il rinforzo delle sue resistenze.
Il silenzio dell’intero gruppo può indicare che le idee di base di una discussione non sono chiare.
In questo caso il facilitatore può essere di aiuto collegando le idee dei singoli partecipanti e facendo, per esempio, uno schema di sintesi.
Inoltre il silenzio può provenire dalla paura di impegnarsi e di esporsi, se c’è poca fiducia negli altri membri del gruppo.
Il silenzio può inoltre esprimere noia se i partecipanti pensano che si pretende troppo poco nel gruppo o se le loro aspettative non corrispondono all’azione del momento del gruppo.
Il facilitatore per tentare di risolvere la situazione di silenzio nel gruppo può chiedere cosa si pensa del silenzio e che cosa si è pensato e sentito durante tale periodo.
Il silenzio del singolo partecipante inoltre può essere un’azione consapevole del soggetto per “punire” il facilitatore o altri partecipanti.
Il silenzio inoltre può essere una fuga per contattare, per via immaginativa, altre scene primarie della storia personale.
Il silenzio può dunque esprimere aspetti molti diversi della situazione del gruppo.
Non c’è uno schema prestabilito secondo il quale il facilitatore potrebbe agire, ma rispetto al silenzio il facilitatore dovrà essere lucido, prendersi del tempo e porsi alcune domande:   –          se e in quale misura il facilitatore è preoccupato per tale silenzio e quale sia la sua reazione emozionale; –          se e in quale misura il gruppo sia preoccupato del silenzio stesso; –          se un certo partecipante con il silenzio esprima una ritirata improduttiva; –          quale sia il messaggio specifico del silenzio; –          e in ultimo, il fattore più importante, quali segnali non verbali del gruppo “commentano” il silenzio…   Ecco alcune vie verbali per entrare in contatto: il facilitatore potrebbe dire: “Al momento ho poco contatto con te e vorrei sapere che cosa ci comunichi con il tuo silenzio”.
Se tace tutto il gruppo invece, il facilitatore potrebbe dire: “Non sono sicuro di che cosa voglia dire il vostro silenzio.
Che cosa volete esprimere con questo silenzio?”   –          Come gestire il generalizzare   Di solito una comunicazione efficace con le persone che generalizzano si esprime con una domanda: “Ti chiedo, per favore, di fare un esempio concreto.
Prova ad immaginare di parlare ad un bimbo di sei anni”.
In tal modo, chi di solito generalizza apprende gradualmente l’importanza di essere concreto e circostanziato.
Non sono gli altri che devono capire o gli altri che non ascoltano.
Il punto è quanto io ascolto, quanto capisco gli altri, quanto mi assumo la responsabilità di farmi capire.
Chi generalizza non parla di persone, parla di oggetti (loro, quelli, sempre…).
  –          Come gestire chi fa domande in continuazione   Il punto è individuare che tipo di domanda fa il componente del gruppo e perché la fa.
Dalla mia esperienza le domande evidenziano spesso un attacco verso il leader, sono un tentativo di far capire che si conosce bene l’argomento, quasi a intendere che il leader è un sapiente onnisciente che ha ricevuto il “Verbo”.
Con queste persone, se il leader evidenzia che a quella domanda non sa rispondere e dice di prendersi del tempo per studiare la risposta, si modellizza in questo modo l’idea che il leader non è la persona che sa tutto ma al contrario quella che è disposta ad imparare.
  –          Come gestire il frequente interpretare   Ci sono persone che nel gruppo di solito sono influenzate da modelli, teorie, punti di vista, esperienze che talvolta vengono assolutizzati e attraverso i quali si leggono le situazioni, i fatti, le persone, quello che si dice ecc.
Questi modelli vengono applicati senza criterio ad ogni situazione comunicativa e quindi ci si può sentir dire: “Siccome non mi hai guardato negli occhi, tu non mi ascolti” e magari questa comunicazione arriva da uno che sta in fondo alla sala, mentre si lavora in gruppo! Il punto di fondo del frequente interpretare sta nel fatto che molte volte non siamo consapevoli di proiettare il nostro vissuto emotivo e cognitivo sulla vita degli altri.
  –          Come gestire i colloqui “fuori la porta”   Molti partecipanti, durante il lavoro di gruppo, tendono a bisbigliare con il loro vicino mentre sta parlando un’altra persona.
Se il facilitatore non interviene, la coesione del gruppo ne soffrirà notevolmente, perché questi colloqui possono provocare diffidenza e irritazione.
Il facilitatore in questo caso domanderà a coloro che fanno il colloquio a parte se siano disposti a comunicare il contenuto del colloquio a tutto il gruppo.
  –          Come gestire ritardi e assenze   Spesso succede che i singoli partecipanti tardano o non vengono ai gruppi di lavoro, esprimendo così la loro opposizione all’attività di gruppo o nei confronti del facilitatore.
In alcuni casi l’assenza evidenzia il fatto che c’è un’attività che procura paura.
In altri casi alcune esigenze personali sembrano non rispettate.
Cosa deve fare il facilitatore? Una prima ipotesi potrebbe essere la seguente: “Che cosa vuol dire per voi il fatto che questa persona non c’è”.
Il facilitatore dovrà anche parlare del fatto che ognuno ha il diritto di ritirarsi in ogni momento dell’interazione di gruppo, ma è importante che avverta di volersi ritirare.
E’ una indicazione di adultità l’assumersi la responsabilità di non voler lavorare con questo gruppo perché non risponde né ai bisogni personali e nemmeno a quelli professionali.
    PER CONCLUDERE     Gestire i disturbi: non ci sono ricette o procedure standard, è necessario fare esperienze, riflettere e provare nuove strategie.
L’esperienza, l’ascolto e soprattutto la supervisione ci consentono di imparare nuove modalità di aiutare il gruppo a sviluppare le risorse personali e quelle professionali.
Nel prossimo articolo svilupperemo la dimensione teorica di questo approccio al lavoro di gruppo.
Parleremo di costruttivismo.

Testimoni del nostro tempo: Madeleine Delbrêl

Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni presentate al convegno “Il servizio sociale tra persona e società:  la testimonianza di Madeleine Delbrêl” organizzato dall’Istituto Petroniano di studi sociali dell’Emilia Romagna e tenutosi all’Istituto Veritatis Splendor di Bologna.
Madeleine Delbrêl è conosciuta soprattutto per la sua testimonianza di donna di fede libera e senza conformismi dentro l’istituzione ecclesiale, per la sua presenza missionaria negli ambienti dell’ateismo contemporaneo e per i suoi testi spirituali di grande vivacità letteraria e profondità mistica.
Da qualche anno è stato riscoperto anche un altro capitolo della sua ricca personalità, quello di lei come operatrice dei servizi sociali.
In effetti Delbrêl ha esercitato la professione di assistente sociale in anni pionieristici nella periferia di Parigi a Ivry-sur-Seine, tra il 1933 e il 1945, prima nell’ambito di un centro sociale parrocchiale e poi, dal settembre 1939, nei servizi sociali comunali.
La sua competenza e la sua capacità organizzativa le guadagnarono crescenti responsabilità durante gli anni tragici della seconda guerra mondiale, fino a svolgere il compito di delegata tecnica per tutta la zona di Parigi-Sud, con anche l’incarico della formazione delle ausiliarie dal 1941 al 1945.
Già nello scoutismo Madeleine aveva ricoperto in breve tempo significative responsabilità per la sua riconosciuta “capacità di immaginazione e di iniziativa”, e proprio grazie al movimento scout era venuta in contatto per la prima volta con le classi popolari e la realtà delle periferie.
Quando nel 1933, dopo esser diventata infermiera e al termine del primo anno di studi sociali, si installa con due amiche a Ivry-sur-Seine, città alle porte di Parigi con più di trecento fabbriche, trova una situazione drammatica per le condizioni abitative e di lavoro degli operai, e scopre l’ateismo ufficiale comunista, che permea tutta la città.
Mentre la maggioranza dei cristiani resta sulla difensiva e sembra incapace di comprendere la sfida anche religiosa posta dalle disuguaglianze e dalle trasformazioni in atto, Madeleine cerca di superare l’atmosfera di ostilità e la logica di contrapposizione, imprimendo attraverso il Centro di azione sociale nuovo impulso alle attività caritative e formative della comunità cristiana locale, con una disponibilità che non conosce barriere.
In una crescente prossimità alla gente al di là delle classificazioni, intesse rapporti umanamente significativi e di sincera collaborazione con tutti, compresi i militanti comunisti.
Il 1° settembre 1939 la Germania invade la Polonia e scoppia la seconda guerra mondiale.
Nel quadro della mobilitazione generale Madeleine viene designata come assistente sociale al Comune di Ivry e assunta con l’approvazione del sindaco comunista, che attesta di conoscerne e apprezzarne “le alte qualità professionali e la dedizione”.
Pochi giorni dopo le amministrazioni comuniste vengono sciolte e sostituite da delegazioni prefettizie.
Madeleine, come tutto il personale del comune in gran parte comunista, conserva il suo incarico e si trova a svolgere un importante ruolo di coordinamento nell’evacuazione di Parigi, organizzata nell’ottobre 1939, e successivamente nel maggio 1940 nel controesodo massiccio dall’Est e dal Nord verso la capitale.
Le sue responsabilità crescono progressivamente:  nel giugno 1940 viene nominata dal prefetto Delegata tecnica del servizio sociale.
Il 1° gennaio 1941 entra nel Servizio sociale della Regione Parigina e nel 1942 anche nel Consiglio municipale di Ivry, come tecnico, in rappresentanza dei servizi sociali.
Nell’assumere questi incarichi Madeleine è mossa dal desiderio di servire il Paese in un momento drammatico e si mantiene “assolutamente passiva a livello politico”.
Di fronte agli immani problemi determinati dalla disfatta militare e dall’occupazione tedesca, Madeleine riesce a coinvolgere gli elementi attivi di Ivry e a dare vita a tutta una rete di iniziative volte ad alleviare le sofferenze e a venire incontro ai bisogni della gente.
A partire dal gennaio 1941 il Soccorso Nazionale le affida l’organizzazione di corsi di formazione per le ausiliarie delle assistenti sociali, di cui c’è urgente bisogno.
Madeleine definisce allora un programma di studi di nuovo genere, che favorisca le esperienze sul campo più che l’apprendistato teorico.
Di fatto Ivry diviene una specie di laboratorio dei servizi sociali, a cui altri vengono a ispirarsi.
Madeleine stessa comunica le sue iniziative e le sue convinzioni in due sue pubblicazioni La Donna e la Casa (1941) e Veglia d’armi per le lavoratrici sociali (1942).
La sua alta visione del servizio sociale si accompagna alla consapevolezza della sua necessità in una società “continuamente soverchiata dalla immensa pasta umana”.
Il 25 agosto 1944 la municipalità comunista riprende il suo posto.
Il giorno successivo, dopo un bombardamento che aveva gravemente colpito Ivry, Madeleine viene riconfermata dai nuovi responsabili comunali, che sapevano l’impegno con cui aveva aiutato molte famiglie colpite per motivi politici o razziali e nascondendo militanti comunisti ricercati.
Lei accetta di rimanere per un anno, fino all’ottobre 1945.
Le sue idee si sono trovate affidate anche a un certo talento letterario.
I suoi scritti spaziano dalle poesie alle meditazioni spirituali per la sua comunità, ai testi in cui offre il suo contributo alla ricerca di nuove vie di evangelizzazione, a una ricchissima corrispondenza, fino ai testi professionali nei quali troviamo le linee direttrici cui ispirava il suo lavoro.
Donna piena di intraprendenza, ha avuto la preoccupazione di serbare la sua libertà di parola e di azione persino sotto l’occupazione tedesca.
Se il suo approccio alla questione delle donne era tributario a una visione tradizionale della differenza dei sessi, la sua testimonianza e i suoi testi aprono brecce a nuove prospettive per un approccio “femminile e non femminista” a un forte protagonismo sociale delle donne.
Colpisce in lei un’attenzione alla realtà senza idee preconcette e l’esigenza di tenere costantemente insieme fattori apparentemente contrapposti:  un senso acuto della unicità di ogni persona e la valorizzazione del tessuto delle relazioni a cominciare da quelle familiari ritenute insostituibili; il bisogno di lasciarsi ammaestrare dalla vita e l’esigenza di acquisire strumenti per una riflessione umile ma rigorosa; il valore dell’intervento immediato nelle situazioni di bisogno e la preoccupazione di collocarlo in un orizzonte più ampio, per preparare la strada agli interventi legislativi e amministrativi; la coscienza di una dipendenza dei servizi sociali dalla politica e insieme la difesa della loro indipendenza contro ogni strumentalizzazione.
In un’epoca di grandi ricette ideologiche, Madeleine è convinta “che anche la migliore società resta imperfetta”, per cui il compito del servizio sociale consiste nel “compensare ciò che la società ha in sé di troppo rigido, di troppo statico, di troppo fisso”, in modo che possa trasformarsi continuamente, adattandosi alla “complessa e immensa pasta umana”, come una “rivoluzione” che si deve fare “giorno per giorno”.
Tutto questo non si comprende appieno se non si misura l’impatto della sua conversione avvenuta a vent’anni.
Da allora Madeleine si era sentita in debito verso tutti di quell’Incontro abbagliante col Dio vivente, che le aveva cambiato la vita.
Lei stessa scriveva:  “È stato il mio personale Incontro con Cristo Signore.
Scrivo Incontro in grande e al singolare, incontro vero e sempre incompiuto col Dio vivente.
Ormai mi sembra vero solo ciò che può entrare nel realismo di quell’incontro o scaturirne come una conseguenza necessaria”.
Da qui la sua fiducia nel “valore degli incontri”:  “Tutti gli esseri che incontriamo hanno qualcosa da donarci e ciascuno di loro ha qualcosa da ricevere da noi”.
“Dappertutto è Gesù che attende; e in noi è Gesù che cammina”.
Si colloca a queste profondità spirituali e mistiche la chiave della sua sincera apertura a tutti e in particolare la sua concezione del servizio sociale come crocevia di incontri e compito di cerniera:  “Siamo continuamente tra gli uni e gli altri; approfittiamone per fungere da cerniera.
(…) non rifiutiamoci, dopo aver toccato con mano e col cuore tali lacerazioni, di rammendarle (…) È un lavoro da donne, è fatto per noi”.
Questo passo merita attenzione.
Madeleine vi testimonia efficacemente quello sguardo al femminile che è spontaneamente più attento alla singolarità delle persone, alla concretezza delle situazioni e alla connessione vitale dei vari ambiti di intervento.
Ma la sua affermazione va oltre.
È convinta, infatti, che solo un servizio sociale che resiste alla tentazione di un approccio burocratico o ideologico alle persone, che non smette di toccare la realtà “con mano e col cuore”, con contatti in cui ci si lascia toccare e cambiare, può promuovere un’autentica ricostruzione del tessuto sociale e una ricucitura delle tante “lacerazioni” che segnano la vita delle persone.
Per lei solo contatti pieni di fiducia e di bontà sono capaci di agire in profondità e cambiare le persone, perché ossigenano il cuore e quindi risvegliano la coscienza della propria dignità personale, il senso di responsabilità verso gli altri e una profonda nostalgia di Dio.
A convalidare lo stile di Madeleine la testimonianza di un giovane che lei aveva aiutato a uscire dal carcere:  “Madeleine è il solo essere al mondo che mi abbia amato in speranza.
Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto a se stesso, odiato da se stesso, senza coscienza di sé nel carcere da cui – dopo dieci anni e con il suo aiuto – giungo a liberarmi.
Grazie a lei io sono esistito per uno dei miei simili prima di esistere nella mia coscienza, quando tutti gli altri non potevano che ignorarmi.
Se non c’è più grande amore che dare la propria vita per coloro che  si  amano, come situare colui che rende la vita a chi l’ha perduta, che la dà a chi non l’ha mai conosciuta?”.
(©L’Osservatore Romano – 8 maggio 2010)

Book in progress”

Libri di testo scritti dagli insegnanti e stampati dalle scuole: è questa la ricetta del progetto “Book in progress” per permettere alle famiglie un risparmio sulla spesa dei libri di testo fino a 250-300 euro l’anno.
Il progetto, lanciato l’anno scorso dall’Istituto Majorana di Brindisi e oggi esteso a 14 scuole, 4 mila alunni, da nord a sud, è sostenuto da Adiconsum.
“Abbiamo sollecitato il ministro più volte – ha affermato il segretario generale di Adiconsum, Paolo Landi, durante una conferenza stampa a Roma – per i tetti di spesa dei libri di testo per il prossimo anno scolastico, ma ancora non ci sono.
In questo modo la spesa delle famiglie potrebbe aumentare del 10%.
Ma oltre alla denuncia, oggi vogliamo promuovere questa iniziativa”.
I libri di testo, ha spiegato il dirigente scolastico dell’Istituto Majorana, Salvatore Giuliano, sono stati scritti da un gruppo di 250 insegnanti, che si sono incontrati e confrontati.
Quest’anno i testi al Majorana sono stati venduti a 25 euro, il prossimo anno aumenteranno fino a 35 euro, “ma comunque le famiglie riusciranno a risparmiare fino a dieci volte rispetto ai prezzi tradizionali.
A giorni le scuole dovranno scegliere il piano libri per il prossimo anno e questo progetto potrebbe essere un’occasione per loro”.
“L’iniziativa – ha commentato Silvia Landi di Adiconsum – ha molteplici aspetti positivi, sia per l’abbattimento della spesa e sia per il ruolo culturale che assumono di nuovo gli insegnanti”.
Il plauso dell’iniziativa è arrivato anche dal ministero dell’Istruzione, attraverso Filomena Rocca della Direzione generale degli ordinamenti scolastici, poiché gli e-book mettono al centro i ragazzi.

Rimanere o andarsene?

Le nuove rivelazioni riguardo ad abusi sessuali da parte di preti in Germania e Italia hanno provocato nell’opinione pubblica un’onda di rabbia e disgusto.
Ho ricevuto e-mail da tutta Europa da persone che mi chiedono: come è possibile restare dentro la Chiesa cattolica? Mi è stato anche inviato un modulo per la rinuncia a far parte della Chiesa.
Perché restare? Innanzitutto, io direi, perché andarsene? Alcune persone ritengono che non sia più il caso di restar legati ad un’istituzione che si è rivelata così corrotta e pericolosa per i bambini.
La sofferenza di tanti piccoli è così atroce.
E loro debbono rappresentare la nostra prima preoccupazione.
Premetto che nulla di quanto andrò scrivendo intende in alcun modo diminuire tutto il nostro sdegno per il male degli abusi sessuali.
Tuttavia dobbiamo riconoscere che negli Stati Uniti, come si evince dai dati del 2004 forniti dal John Jay College deputato alla Giustizia Criminale, il clero cattolico non commette reati più del clero sposato appartenente ad altre confessioni religiose.
Alcuni sondaggi collocano pure ad un livello leggermente più basso proprio i preti cattolici.
Essi sarebbero meno propensi a commettere questo reato rispetto, ad esempio, agli insegnanti di ogni ordine di scuola e ad almeno la metà della rimanente popolazione.
Non è il celibato che spinge le persone ad abusare dei bambini.
Quindi si tratterebbe di un’idea che non corrisponde a verità quella di lasciare la Chiesa per un’altra istituzione solo in nome della sicurezza dei figli.
Dobbiamo affrontare una volta per tutte il fatto che l’abuso sui minori sia uno dei crimini più diffusi in ogni ambiente sociale.
Fare della Chiesa il capro espiatorio sarebbe come dire, mettiamoci una pietra sopra, insabbiamo.
Cosa possiamo dire invece dell’insabbiamento all’interno della Chiesa? Non abbiamo forse avuto dei vescovi incredibilmente irresponsabili a lasciare delinquenti in circolazione, non denunciandoli alla giustizia, lasciando così libero campo al perpetuarsi degli abusi? Sì, qualche volta è proprio accaduto così.
Ma la stragrande maggioranza di questi casi risale agli anni ’60 e ’70, quando i vescovi consideravano l’ abuso sessuale come un peccato invece che una condizione patologica, e quando spesso persino avvocati e psicologi li rassicuravano che era motivo di sicurezza assegnare i sacerdoti ad altro incarico dopo un trattamento.
E’ semplicemente un’ azione ingiusta il tentativo di volgersi indietro e a questo punto dire che gli abusi sessuali allora non esistevano.
Fu solo con l’avvento del femminismo verso la fine degli anni ’70, che ha fatto luce sulla violenza perpetuata nei confronti delle donne, che è venuto alla ribalta anche il terribile rischio che correvano anche i bambini indifesi.
E che dire ancora del comportamento del Vaticano? Il Papa Benedetto XVI ha imboccato una linea dura nell’affrontare tale questione fin dai tempi in cui era prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede e poi da quando è diventato Papa.
Ora il dito è puntato su di lui.
Sembra che alcuni casi segnalati alla Congregazione da lui guidata non abbiano avuto seguito.
Si è forse indebolita la sua credibilità? Ci sono manifestanti intorno a San Pietro per chiedere le sue dimissioni.
Io sono profondamente certo che lui non abbia alcuna colpa.
In genere s’immagina il Vaticano come un’organizzazione vasta ed efficiente.
In realtà è molto ridotta.
La Sacra Congregazione dà lavoro a sole 45 persone che debbono però occuparsi delle questioni dottrinali e disciplinari di una Chiesa che conta oltre 1,3 miliardi di persone, pari al 17% dell’intera popolazione mondiale, con circa 400 mila preti.
Quando ho trattato con la Sacra Congregazione, in qualità di Maestro dell’Ordine, era evidente che dovevano fare i salti mortali per far fronte al loro lavoro.
Diversi documenti si saranno arenati sulle scrivanie.
Il card.
Ratzinger si era anche lamentato con me che il personale era del tutto inadeguato per quella mole di lavoro.
Cosa dire allora riguardo alla decisione del card.
Ratzinger che avrebbe fermato il processo contro un prete accusato di aver commesso terribili crimini contro bambini sordomuti? È stato probabilmente solo un atto di pietà nei confronti di un uomo già gravemente ammalato e che è morto tre mesi dopo.
Qualcuno potrebbe obiettare che non è stato il modo migliore per mostrare misericordia, ma la misericordia spesso fa scandalo.
Cristo ha dato scandalo per la sua richiesta di perdonare chiunque senza condizioni.
La gente è indignata contro le mancanze del Vaticano reticente ad aprire i propri fascicoli e offrire una spiegazione chiara di ciò che è accaduto.
Perché tanta reticenza? Cattolici arrabbiati e feriti rivendicano il diritto di avere una gestione trasparente ai vertici della Chiesa.
Sono perfettamente d’accordo.
Ma dobbiamo anche capire perché, nelle questioni riguardanti la giustizia, il Vaticano debba essere così auto-protettivo.
Nel corso del XX secolo ci sono stati più martiri di quanti se ne abbiano avuti in tutti i secoli precedenti insieme.
Vescovi e preti, religiosi e laici sono stati assassinati in Europa Occidentale, nell’Unione Sovietica, in Africa, America Latina e in Asia.
Molti cattolici ancora oggi subiscono prigionia e condanne a morte a motivo della loro fede.
È chiaro perché il Vaticano tenda a sottolineare la riservatezza: questa è necessaria per proteggere la Chiesa da quanti vorrebbero distruggerla.
Così è comprensibile che il Vaticano reagisca con una certa aggressività alle richieste di trasparenza e di legittimazione di apertura dei fascicoli, ritenendo anche questa una forma di persecuzione.
E poi bisogna dire che alcune persone sui media intendono, su questo non c’è alcun dubbio, danneggiare la credibilità della Chiesa.
Ma riconosciamo anche che dobbiamo essere debitori alla stampa per la sua insistenza nel porre la Chiesa di fronte alle proprie inadempienze.
Se non fosse stato per i media, questo vergognoso crimine avrebbe potuto restare ancora senza responsabili.
La riservatezza è anche una conseguenza dell’insistenza della Chiesa nei confronti del diritto di ogni accusato di mantenere la propria reputazione finché questi non venga ritenuto colpevole.
Ciò è sempre più difficile da capire in una società come la nostra, in cui i media sono capaci di distruggere la reputazione delle persone senza pensarci due volte.
Perché allora andarsene? Se si tratta solo di trovare una collocazione più sicura, meno corrotta della chiesa, allora credo che rimarreste delusi.
Ho chiesto a lungo una gestione più trasparente, ancor più l’apertura di un dibattito, ma la riservatezza della Chiesa è comprensibile e, talvolta, persino necessaria.
Capire non significa sempre condonare, ma è necessario se vogliamo comportarci con giustizia.
Perché allora restare? Debbo mettere le carte in tavola; anche se la Chiesa cattolica con tutta evidenza non è peggiore delle altre, nonostante tutto non voglio andarmene.
Non sono cattolico perché la nostra Chiesa è la migliore di tutte, o perché mi piace il Cattolicesimo.
Amo molto la mia Chiesa, ma esistono anche certi suoi aspetti che non mi piacciono molto.
Non sono cattolico, quasi fosse una scelta da consumatori tra un ecclesiastico Waitrose piuttosto che Tesco, ma perché io credo che la Chiesa incarni qualcosa che è da ritenersi essenziale per la testimonianza cristiana della Resurrezione, l’unità visibile.
Quando è morto Gesù, la sua comunità si disperse.
Lui era stato tradito, rinnegato e la maggior parte di suoi discepoli erano fuggiti.
Erano state in particolare le donne ad accompagnarlo fino alla fine.
Nel giorno di Pasqua era apparso ai suoi discepoli.
Era accaduto ben di più della semplice rianimazione fisica di un cadavere.
In lui Dio aveva trionfato su tutto ciò che è in grado di distruggere una comunità: peccato, viltà, menzogna, fraintendimento, sofferenza e morte.
La Resurrezione ha reso visibile al mondo una comunità sorprendentemente rinata.
Questi che si erano mostrati codardi e 1′ avevano rinnegato si trovavano di nuovo radunati insieme.
Non era stato un gruppo affidabile, e, avrebbero dovuto vergognarsi di ciò che avevano fatto, ma nonostante tutto  essi erano di nuovo insieme.
L’unità della Chiesa è segno che tutte le forze che vorrebbero dilaniarla e disperderla sono state vinte da Cristo.
Tutti i Cristiani formano un solo Corpo di Cristo.
Nutro un profondo rispetto per i cristiani di altre Chiese che mi nutrono e mi ispirano.
Tuttavia questa unità in Cristo ha bisogno di una certa qual incarnazione visibile.
Il Cristianesimo non è una sorta di vaga spiritualità, bensì una religione incarnata all’interno della quale le verità più profonde prendono talvolta una forma fisica e istituzionale.
Storicamente questa unità ha trovato il suo punto focale in Pietro, la roccia di cui parlano i Vangeli di Matteo, Marco e Luca, e il pastore del gregge di cui parla quello di Giovanni.
Fin dall’inizio e lungo il corso della storia, Pietro ha costituito spesso una roccia alquanto traballante, talvolta anche fonte di scandalo, corruzione, eppure è questo il primo, e poi i suoi successori, cui viene chiesto di tenerci uniti tutti insieme in modo che possiamo testimoniare nel Giorno di Pasqua la sconfitta da parte di Cristo della potenza del male che tende a dividere.
E in tal modo la Chiesa è salda insieme a me, qualunque cosa accada.
Potremmo anche sentirci in imbarazzo ad ammettere di essere Cattolici, ma ricordiamo che Gesù aveva messo insieme fin dall’ inizio una compagnia che agli occhi della gente appariva disonorevole.
  Timothy Radcliffe op • Tit.
orig.
Why Stay?, articolo pubblicato sul settimanale cattolico The Tablet l’11 aprile 2010 (trad.
dall’inglese di Maria Teresa Pontara)  in “Koinonia” n.
352 del maggio 2010

Il Belgio primo paese a vietare il burqa

Anche la nuova legge, contrariamente ad una prima bozza che era circolata, non menziona esplicitamente il velo islamico, ma vieta di circolare «in uno spazio pubblico col volto coperto o mascherato, completamente o in parte, con un capo di abbigliamento che non le rende identificabili».
Sono previste eccezioni per il periodo di carnevale, solo se esplicitamente autorizzate da un´ordinanza comunale.
Non è chiaro invece come vengano esclusi dalla norma i motociclisti che indossano un casco integrale.
Nel corso degli interventi prima del voto, quasi tutti i deputati hanno messo in rilievo che la nuova legge vuole essere un passo in difesa della dignità della donna.
Il burqa e il niqab sono «prigioni mobili» ha dichiarato il liberale fiammingo Bart Somers.
«L´immagine del nostro Paese all´estero è sempre meno comprensibile – ha dichiarato il suo compagno di partito francofono Denis Ducarme facendo riferimento all´ennesima crisi tra fiamminghi e valloni – Ma almeno l´unanimità raggiunta su questo provvedimento è un elemento di orgoglio per l´essere belgi.
Siamo il primo Paese europeo a far saltare il chiavistello che aveva messo le donne in stato di schiavitù.
E speriamo che altri, come la Francia, l´Italia o l´Olanda, ci seguano».
Resta però ora da vedere se il senato avrò il tempo di approvare a sua volta la norma dandole validità legale prima dello scioglimento delle camere.
Il governo belga è caduto per l´ennesima volta su una complessa questione linguistica che divide fiamminghi e valloni nella circoscrizione elettorale di Halle-Bruxelles-Vilvoorde.
Le elezioni anticipate sembrano inevitabili.
E probabilmente si voterà a giugno.
in “la Repubblica” del 30 aprile 2010  Nonostante sia in piena crisi di governo e alla vigilia di elezioni anticipate, il Parlamento belga ha approvato ieri all´unanimità una legge che vieta di indossare il velo islamico integrale nei luoghi pubblici e per la strada.
La norma dovrà ora passare all´esame del Senato.
Se la camera alta la approverà, il Belgio sarà il primo Paese d´Europa a varare una legge contro il burqa e il niqab, i due costumi islamici che coprono completamente il volto delle donne.
La norma, che era stata proposta dai liberali sia fiamminghi sia francofoni, era già stata approvata all´unanimità in commissione parlamentare.
Poi la crisi di governo aveva costretto la Camera a rinviare il voto.
Ieri il provvedimento ha avuto il sostegno di tutti i partiti e di tutti i gruppi linguistici, ed è stato approvato con 136 voti favorevoli e due sole astensioni.
La Francia dovrebbe approvare una legge analoga su proposta del governo a maggio.
Si tratta di una decisione il cui valore è quasi puramente simbolico.
L´uso del velo integrale è poco diffuso in Belgio, dove la comunità musulmana è principalmente di origine turca o magrebina.
Inoltre in quasi tutti i comuni sono già in vigore regolamenti di polizia che vietano, per motivi di ordine pubblico, di circolare per strada con il volto coperto.
Nella sola regione di Bruxelles l´anno scorso la polizia ha contestato 29 contravvenzioni al regolamento.

Indicazioni nazionali dei Licei

Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI) nella seduta del 28 aprile, ha espresso il richiesto parere sulle Indicazioni nazionali dei nuovi Licei che, come è noto, sono attualmente oggetto di osservazioni e valutazioni e hanno raccolto anche fino al 23 aprile scorso pareri di docenti e dirigenti nell’apposito sito dedicato (www.indire.it).
Ne dà notizia la Cgil-scuola che dedica sul proprio sito (www.flcgil.it) un apposito servizio nel quale pone in particolare evidenza le sue critiche, espresse con votazione contraria anche nella seduta del CNPI.
Nel parere del Consiglio si afferma, tra l’altro, che “Sarebbe opportuno fissare in maniera più esplicita le competenze chiave da raggiungere al termine del primo biennio degli studi liceali in modo da garantire “l’assolvimento dell’obbligo di istruzione”.
Il Cnpi rileva anche che le indicazioni sembrano ancora risentire della separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica, per cui permane una certa difficoltà a portare ad unitarietà i singoli insegnamenti disciplinari.
Il Consiglio invita ad evitare vincoli di prescrittività, che mal si conciliano con la responsabilità riconosciuta ai docenti di una progettazione capace di incrociare gli stili di apprendimento degli studenti.
Ritiene , altresì, opportuno potenziare l’insegnamento delle materie ad indirizzo scientifico, prediligendo le competenze da acquisire piuttosto che gli argomenti da trattare, nel rispetto delle peculiarità dei singoli Licei e delle finalità formative che questi sono tenuti a perseguire.
Infine nel parere espresso, il Cnpi auspica l’armonizzazione dei percorsi di studio del primo ciclo con quelli del secondo e ritiene opportuna una maggior evidenza del quadro delle competenze da raggiungere al termine di ciascun biennio e dell’ultimo anno dei percorsi liceali.