Federalismo, razzismo e chiesa cattolica

Una Chiesa rigida con gli ultimi e disinvolta con i potenti Per molti anni, denuncia Sacco nel suo articolo “Il governo della paura”, il fenomeno leghista è cresciuto nel cuore delle comunità cristiane del nord, tra i sorrisi compiaciuti dei “benpensanti” e di “molti uomini di Chiesa” che, definendolo solo un fenomeno di folklore, hanno assecondato la strisciante affermazione di un “modello di arroganza, di forza, di furbizia, di semplificazione dei problemi”.
E al di là di alcune esternazioni a titolo personale, c’è “la sensazione” che proprio “la Chiesa ufficiale, nei fatti, non si sia schierata troppo a fianco della Caritas e a fianco degli ultimi”, nella battaglia, per esempio, contro il Pacchetto Sicurezza, il reato di clandestinità e i respingimenti.
Gli stessi vertici si sono invece dimostrati solerti nel saltare sul carro dei vincitori senza farsi troppi problemi “politici” o morali.
Lo ha dimostrato, ad esempio, mons.
Rino Fisichella, a poche ore dall’elezione di Roberto Cota alla presidenza della Regione Piemonte, quando ha pubblicamente sdoganato la Lega affermando che, riguardo ai problemi etici, “manifesta la piena condivisione con il pensiero della Chiesa” (v.
Adista n.
35/10).
La marea populista e anticostituzionalista investe l’Europa “Populismo etnofederalista, tradizionalista cattolico”: ecco la definizione corretta, secondo Sergio Paronetto (vicepresidente di Pax Christi Italia), di questa “nuova destra che ambisce a diventare il centro politico onnicomprensivo per superare la democrazia costituzionale”.
Un revival di populismo destrorso etnocentrico investe, scrive l’autore nell’articolo “Una religione politica”, non solo quelle regioni italiane “incattivite dalla globalizzazione”, ma anche altre comunità europee (Francia, Belgio, Austria, Danimarca, Norvegia, ecc).
Ad inserire a pieno titolo il leghismo nel solco del populismo europeo sarebbero la “reazione comunitarista alla globalizzazione” e la “reazione antipolitica alla casta” e ai poteri centrali.
Il problema è che il progetto populista leghista, in Italia, trova terreno fertile e potenzialità di governo: infatti “è gran parte del centro-destra a proporre un sistema basato sul popolo come comunità organica, sull’uso politico del cattolicesimo preconciliare, sull’Europa delle regioni ‘etniche’ identificate con le cosiddette ‘radici cristiane’”.
Priva di mediazioni, diretta ed esplicita, capace di conciliare in sé tutti i malesseri sociali – dal rifiuto della globalizzazione al rifiuto della casta politica – il movimento-partito leghista “realizza nel microcosmo padano il passaggio dalla democrazia costituzionale a una democrazia dell’incarnazione che intende rappresentare immediatamente il ‘popolocomunità’”.
Siamo di fronte, si chiede infine Paronetto, “a una variante illiberale o a una malattia cronica della democrazia? A una patologia transitoria della democrazia o al modello vincente della politica per i prossimi decenni?”.
Una religione pagana e antievangelica.
Ma la Chiesa non disdegna Se “il Vangelo di Cristo è accoglienza, solidarietà, amore per il prossimo, giustizia, uguaglianza, misericordia, compassione e fiducia”, la Lega – che organizza esibizioni mistico-religiose sulle sponde del Po – “nasce e si propaga predicando esclusione, diffidenza, separazione, condanna, razzismo, paura”.
Tutto questo, scrive Aldo Maria Valli (giornalista Rai) nell’articolo “Una proposta anticristiana”, stride pesantemente con la pretesa attuale della Lega di ergersi a “paladino di valori morali”, in linea con la dottrina della Chiesa.
In realtà, spiega Valli, il messaggio leghista, che ricorre allo stratagemma pagano del dio Po per la coesione della comunità territoriale, è quanto di più lontano “dalla rivoluzione cristiana che, al contrario, libera l’uomo dalle appartenenze terrene per trasformarlo in un cittadino (si ricordi la Lettera a Diogneto) che vive in questo mondo senza essere di questo mondo”.
In questa svolta in senso cristiano, la Lega non solo contesta la Chiesa, ma si propone, nota Valli, “come vera interprete del messaggio cristiano, contro una gerarchia romana che non ha legittimità in quanto corrotta proprio perché romana”.
Vedi le invettive contro l’arcivescovo di Milano, il card.
Dionigi Tettamanzi, per la sua pastorale dell’accoglienza e dell’integrazione, nonché le dure parole rivolte, nell’estate 2009, al segretario del Pontificio Consiglio dei Migranti, mons.
Agostino Marchetto, il quale ebbe a criticare il “peccato originale” del reato di clandestinità (v.
Adista n.
76/09).
Ne discende che “è quanto meno sbalorditivo che la Lega abbia sia elettori sia alleati cattolici.
Ma ancor più sbalorditivo è che tra le stesse gerarchie vaticane siano arrivate di recente formidabili aperture di credito nei confronti di Bossi e del suo movimento”.
Eppure, spiega Valli, conservare ottime relazioni conviene ad ambo le parti.
Da un lato la Lega “sta cercando di conquistare terreno nel rapporto con la Chiesa sottraendolo a Berlusconi, per accreditarsi ancora di più come forza fondamentale nella coalizione di centrodestra”.
Dall’altro, “le gerarchie sembrano cercare sponde politiche in grado di sostenere le richieste di sempre (legate a vita, scuola e famiglia) meglio di quanto abbia fatto Berlusconi.
È un cambio di cavallo politico”.
in “Adista” – Notizie n.
61 del 24 luglio 2010 Per interrogarsi in modo concreto e semplice – “popolare, come direbbero appunto i leghisti” – su un fenomeno che inquieta per la sua natura “culturale” oltre che politica ed elettorale, Mosaico di pace, nel numero di luglio 2010, dà ampio spazio ad un dossier dal titolo: “Un moderno tribalismo guerriero.
Federalismo, razzismo e Chiesa cattolica”, a cura di Rosa Siciliano e Renato Sacco.
Il dossier apre con la sollecitazione del vescovo di Alba, mons.
Sebastiano Dho, il quale ha così commentato l’ascesa impetuosa del partito di Umberto Bossi anche in Piemonte: “Tenendo conto della larga adesione anche nelle nostre terre a forze politiche e sociali ispirate a teorie razziste e xenofobe, credo che un serio esame di coscienza s’imponga urgentemente per le comunità cristiane, poiché qui si tratta di veri valori ‘non negoziabili’, la dignità della persona e la vita stessa!”.

Il cardinale Scola: sull’amore serve una riforma della Chiesa

«Io sono la madre del bell’amore …».
Il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, sta rivedendo gli appunti del discorso del Redentore.
Partendo dal passo delle Scritture sul «bell’amore », toccherà temi delicati come sessualità, pedofilia, verginità e celibato.
Perché questa scelta? «Per la fatica di noi cristiani a comunicare che lo stile di vita affettiva e sessuale indicato dalla Chiesa è buono e conveniente per l’uomo di oggi.
Invece pare quasi che questa proposta non solo sia iperdatata, impotente a favorire il desiderio umano di gioia piena, ma che sia addirittura contraria alla libertà e priva di realismo, incapace di tener conto di ciò che l’uomo ha imparato circa se stesso e circa il mondo delle emozioni, degli affetti, dei rapporti con l’altro, grazie a una lunga storia e alle recenti scoperte scientifiche.
Ho sentito tutto questo come una provocazione a dire che gli uomini e le donne di oggi, magari senza volerlo, rischiano di smarrire qualcosa di profondo, perdono una grande chance di realizzazione, se mettono da parte la proposta cristiana circa la vita affettiva e sessuale».  Ma su cosa si fonda questa proposta? «Mi pare che l’idea biblica del “bell’amore”, che la tradizione cristiana ha approfondito, sia particolarmente adeguata proprio per la sua capacità di coniugare l’amore alla bellezza, di vederlo scaturire da essa e percepirlo come “diffusivo” di bellezza, capace di farla splendere sul volto degli altri.
I Padri della Chiesa riferiscono il tema biblico del “bell’amore” non solo alla Madonna ma anche a Gesù.
Tommaso parla della bellezza come dello “splendore della verità”; per Bonaventura colui che contempla Dio, cioè che lo ama, è reso tutto bello.
Ma questa capacità spesso manca nell’esperienza sessuale degli uomini e delle donne di oggi.
Viverne la bellezza significa strappare la sessualità al dualismo tra spirito e corpo; come se trattenessimo la sessualità nell’animalesco e poi a tratti avessimo spiritualissimi slanci d’intenzione di bell’amore.
Pascal diceva che l’uomo è a metà strada tra l’animale e l’angelo, ma deve stare bene attento a non guardare solo all’uno o all’altro; ognuno di noi, inscindibilmente uno di anima e di corpo, ha da fare i conti con la dimensione sessuale del proprio io per tutta la vita, dalla nascita fino alla morte».
Patriarca, lei conosce l’obiezione mossa agli uomini di Chiesa: parlano di cose che non vivono, se non talora in modo deviato, e non li riguardano.
«Ho appena detto che “ogni uomo e ogni donna” devono fare i conti con la dimensione sessuale per tutta la vita! Certo, chi è chiamato alla verginità o al celibato li fa in un modo singolare ma, sia ben chiaro, senza mutilazioni psichiche e spirituali.
Il fatto poi che il messaggio cristiano sia portato in vasi di argilla, e quindi che uomini di Chiesa possano cadere in contraddizioni tragiche e gravissime a livello affettivo e sessuale, non inficia di per sé la proposta come tale.
Ovviamente non lo dico per coprire scandali».
Come uscire dallo scandalo della pedofilia? «Il Santo Padre, a partire dalla “Lettera ai cattolici di Irlanda”, ha saputo affrontare la situazione in modo chiaro e deciso: una condanna senza mezzi termini della gravità estrema di questo peccato e di questo reato.
Le parole chiave — misericordia, giustizia in leale collaborazione con le autorità civili, ed espiazione—consentono di affrontare ogni singolo caso.
Il Papa non sottovaluta la corresponsabilità che ne viene ad ogni membro dell’unico corpo ecclesiale e, in particolare, del collegio episcopale.
È uno scandalo che tocca l’intera Chiesa, chiamata ad una profonda penitenza e ad una riforma che non potrà non riguardare tutti i livelli della sua missione.
Una cosa però mi ha colpito in questa vicenda: quelli che dovrebbero parlare, per aiutarci a capire la radice di questo male e tentare di espungerlo, stanno zitti ».
A chi pensa? «Agli psicologi, agli educatori, ai pedagogisti, agli uomini chiamati ad approfondire questi lati oscuri dell’io.
La stampa ha denunciato il fenomeno con enfasi comprensibile, entro certi termini anche giustificabile, ma indiscutibilmente eccessiva».
Lei parla della necessità di riforma della Chiesa.
«Come il Santo Padre ci ha indicato, i casi terribili di pedofilia e le provate responsabilità di ingenua copertura o negligenza da parte delle autorità richiamano con forza alla Chiesa la sua condizione di realtà sempre in riforma.
Benedetto XVI esige penitenza, andare alle radici della misericordia, cioè all’incontro personale con il Tu di Cristo, e ricorda che i nemici più pericolosi della Chiesa vengono dall’interno e non dall’esterno».
Ma in cosa dovrebbe consistere la riforma? «Nello specifico, riscoprire il nesso tra il bell’amore e la sessualità.
Mostrare che la soddisfazione piena del desiderio è ritrovare il vero volto dell’altro, soprattutto nel rapporto uomo-donna.
E imparare di nuovo come la sfera della sessualità esiga di essere integrata nell’io attraverso una grande virtù purtroppo in disuso: la castità.
Per riscoprirla occorre il coraggio di parlare del modo in cui noi viviamo oggi la sfera sessuale».
A quale modo si riferisce? «Cito l’esempio più sofisticato.
I più recenti studi della neuroscienza, come quelli di Helen Fisher, riconducono tutte le dimensioni dell’amore, compreso “l’amore romantico”, a pure modificazioni neuronali del nostro cervello.
Fine della libertà e della creatività anche in questo ambito? È vero che noi abbiamo bisogno di mangiare e bere, come gli animali; ma non mangiamo e beviamo come animali, anzi la cucina è diventata un’arte, un aspetto della civiltà; e questo vale a maggior ragione per la dimensione sessuale.
Una pretesa riduzionistica come quella della Fisher è una variante della tentazione di concepire l’uomo come puro esperimento di se stesso.
Così si crea una mentalità, un clima in cui il desiderio, l’energia della libertà che incontra la realtà, diventa privo di senso, e la dimensione sessuale assume una fisionomia quasi animalesca.
Ma questo un uomo e una donna, quando sono in sé, non possono accettarlo».
Castità e sessualità sono sentite come antitesi.
«La castità tiene in ordine l’io.
Eliminarla significa ridurre l’amore a mera abilità sessuale, veicolata da una sottocultura delle relazioni umane che si fonda su un grave equivoco e cioè sull’idea che nell’uomo esista un “istinto sessuale” come avviene negli animali.
Non è vero, lo dimostra certa psicanalisi: anche nel nostro inconscio più profondo niente si gioca senza un coinvolgimento dell’io.
Il sacrificio ed il distacco richiesti dalla castità mantengono l’io personale unito, aprendo la strada ad un possesso più autentico.
Il sacrificio non annulla il possesso, è la condizione che lo potenzia.
I dottori della Chiesa parlavano in proposito di “gaudium” (godimento).
Il puro piacere, che per sua natura finisce subito, chiede di essere inserito nel godimento, perché se resta chiuso in se stesso annulla lentamente il possesso, lo intristisce, lo deprime.
Mi colpisce il fatto che quando dico queste cose ai giovani incontro più sorpresa che obiezione».
Godimento e sessualità sembrano concetti incompatibili con la dottrina cattolica.
«Non è così.
Il messaggio biblico è stato il primo storicamente parlando a far vedere la differenza sessuale in un’ottica assolutamente positiva e creativa, come dono di Dio.
Ma, come in tutte le cose umane, il positivo, il bene, il vero non sono mai a buon mercato.
Però senza il bello, il buono, il vero, la vita si affloscia, non ha in se energia per condurre alla pienezza del reale.
Nei Libro dei Proverbi, tra le cose troppo ardue a comprendersi, l’autore considera “la via dell’uomo in una giovane donna”.
La donna è la figura di colei che sta all’inizio: io esco da lei quando nasco.
Allora quando l’uomo e la donna si incontrano fanno al tempo stesso l’esperienza di ricominciare quel che in qualche modo già conoscevano e di dar vita a una novità.
Qui c’è l’inestirpabile radice della fecondità.
L’amore oggettivo non è mai un rapporto a due.
Lo impariamo dalla Trinità ».
Ma cosa c’entra questo con la riforma della Chiesa? «C’entra e come! Fondamentale per la riforma della Chiesa è ritrovare testimoni credibili del bell’amore, che Cristo, con una schiera innumerevole di santi nella stragrande maggioranza anonimi, ha introdotto nella storia.
Penso a tante generazioni vissute nella logica del bell’amore.
Penso ai miei genitori, agli occhi con cui mio papà a novant’anni guardava mia mamma pure novantenne, moribonda, stremata da un cancro violento al rene.
Penso alle coppie di anziani che quasi ogni domenica, alla fine della messa, vengono a dirmi: “Questa settimana sono cinquanta”, oppure “questa settimana sono sessant’anni di matrimonio”.
Quale amore avrebbe custodito l’io meglio di questo legame indissolubile? Oggettivamente non c’è paragone tra la densità di un’esperienza così definitiva e il susseguirsi indefinito di una sequenza di relazioni precarie.
Alla fine, sia la necessità di amare definitivamente, sia la fragilità sessuale sono segnate dal terrore della morte.
Per amare veramente devo essere amato definitivamente, cioè oltre la morte; ed è quello che Gesù è venuto a fare.
Se c’è un delitto che noi cristiani commettiamo è non far vedere il dono stupendo di Gesù: dare la vita per farci capire la bellezza dell’amore oggettivo ed effettivo.
Esso ha sempre un carattere nuziale, inscindibile intreccio di differenza, dono di sé e fecondità.
L’altro non è fuori dal mio io, l’altro mi attraversa tutti i giorni; lo stesso mio concepimento è legato a questo attraversarmi.
Perciò umanizzare la sessualità attraverso la castità è una risorsa capitale per vincere la scommessa del postmoderno, per l’uomo del terzo millennio che voglia salvare la via del bell’amore, la quale ci fa godere davvero la vita».
Aldo Cazzullo

La dispersione scolastica al 31%

Sono quasi 120mila i ”dispersi” tra i 14 e i 17 anni E’ quanto ha reso noto un rapporto Isfol, secondo cui il 5% dei ragazzi in questa fascia d’età abbandona gli studi Sono 117.429 (il 5%) i ragazzi tra i 14 e i 17 anni fuori da qualsiasi percorso formativo, con un forte divario tra Nord e Sud.
È quanto ha reso noto l’Isfol, che ha effettuato il rapporto di monitoraggio del diritto-dovere per conto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Il numero che risalta maggiormente è, ancora una volta, quello dei dispersi, pari ad oltre 117 mila giovani tra i 14 e i 17 anni.
Il fenomeno dell’abbandono, però, non ha la stessa rilevanza lungo tutto il territorio nazionale.
Oltre 71mila dispersi risulta risiedere al sud e nelle isole, in altri termini, oltre 1 disperso su 2.
Diversa la situazione al Nord, che registra rispettivamente il 4,5% dei dispersi a nord ovest e solo l’1,7% a nord est.
Tra gli strumenti a sostegno dei ragazzi a rischio si profilano i percorsi triennali di istruzione e formazione curati dalle Regioni, che hanno registrato, nel 2008, un +9,5% di iscrizioni.
 La dispersione in Sardegna sfiora il 40%; Marche e Umbria al 23% Difficile dare un nome preciso (e unico) alle cause di abbandono del percorso scolastico verso il diploma che colpisce tuttora più di tre ragazzi su dieci in Italia nella scuola statale.
Alle classi del quinto anno di corso del 2009-10 sono mancati 31 dei cento ragazzi partiti cinque anni prima.
Forse alcuni (molto pochi) hanno scelto altre strade formative o alternative (la scuola non statale, la formazione professionale).
In attesa che l’anagrafe degli studenti si attui pienamente consentendo di rilevare il percorso di ogni ragazzo e di quantificare e localizzare meglio il fenomeno della dispersione (e di intervenire con misure preventive puntuali), si può stimare nell’1-1,5% questa quota di non dispersi (non più di 10 mila all’anno) che non intacca sostanzialmente il fenomeno.  I differenziati livelli quantitativi della dispersione raggiunti sul territorio non aiutano a capire le cause effettive della dispersione, distinguendo tra fattori esterni alla scuola (attrazione del mondo del lavoro o grave mancanza di prospettiva occupazionale) e fattori interni (severità, selezione, impegno gravoso degli studi).
Così può capitare che nella stessa area territoriale del Sud vi sia la Calabria che registra “soltanto” un 24,1% di dispersione (24,4% nel 2008-09), mentre la Campania si attesta al 35,4% (35,9% nel 2008-09).
Molto più omogenee nella loro negatività le situazioni di dispersione nelle isole: Sicilia al 37,5% (36,7% l’anno precedente), Sardegna 39,4% (35,2% nel 2008-09).
Nell’area settentrionale si registra una analoga situazione differenziata con il Nord Ovest che evidenzia un tasso di dispersione oscillante tra il 33,2% della Lombardia e il 30,1% del Piemonte, mentre il Nord Est ha una dispersione compresa tra il 23,3% del Friuli Venezia Giulia e il 28% dell’Emilia Romagna.
Le regioni centrali sono tutte sotto il 30% di dispersione con la situazione virtuosa delle Marche (22,9% di dispersione) e dell’Umbria (23%).

I responsabili della crisi? Sono gli unici a guadagnarci

La crisi economico-finanziaria è tutt’altro che superata.
Le conseguenze negative sono sempre più evidenti, e si fanno sentire, sia sul terreno dell’occupazione – ogni giorno si assiste anche nel nostro Paese alla chiusura di nuove aziende – sia su quello dei consumi, che hanno subito una forte contrazione.
Ma a destare soprattutto sconcerto è il fatto che – come osservava alcuni mesi fa sul Financial Times George Soros – gli operatori finanziari, cioè i principali responsabili della crisi, sembrano gli unici a guadagnarci.
Dopo un breve periodo di silenzio dovuto alla paura delle reazioni dell’opinione pubblica, essi sono infatti rientrati spavaldamente sul mercato, usando tutta la loro influenza per ristabilire lo statu quo, per ripristinare cioè la massimizzazione dei loro profitti a spese dei consumatori.
A risultare vincenti sono infatti oggi la maggior parte delle grandi banche e agenzie finanziarie americane ed europee, che vantano nel 2009 ricavi superiori a quelli del 2007.
A propiziare questo risultato è stato l’impegno profuso dai Governi e dalle banche centrali nel salvataggio degli enti in difficoltà (banche private in particolare); impegno peraltro doveroso in vista della creazione di condizioni per il rilancio delle imprese in grave crisi di liquidità.
Le somme erogate per perseguire tale risultato sono state assai ingenti; i Paesi del G20 hanno speso finora nove miliardi di dollari, pari al 18% del loro Pil (e vi è chi ipotizza persino una cifra doppia).
Le perplessità circa questo massiccio impegno del “pubblico” sono venute, tuttavia, gradualmente affiorando soprattutto per il modo con cui banche e società finanziarie hanno utilizzato (e utilizzano) i fondi ricevuti: sembra infatti che lo sforzo maggiore si sia concentrato sul perseguimento di ricavi sempre più elevati e sugli stipendi dei banchieri che, stando a quanto riferisce il Wall Street Joumal, superano, nelle ventitré maggiori istituzioni finanziarie americane, il record raggiunto nel 2007.
Le conseguenze di tali operazioni si sono rivelate estremamente gravi: si va infatti dall’aumento del deficit pubblico – si calcola che si sia giunti un po’ ovunque in Occidente al 100% del Pil – alla riduzione delle entrate fiscali, fino alla crescita della spesa statale, che ha raggiunto negli Usa oltre il 100% del Pil.
A questi dati preoccupanti vanno inoltre aggiunte: la contrazione senza precedenti del credito alle imprese, anche per questo in grande difficoltà; la perdita secca del posto di lavoro per un numero assai vasto di lavoratori (si calcola che nel 2009 i disoccupati sono aumentati di oltre 60 milioni e che la percentuale degli under 25 che si trovano senza lavoro è del 18,2% negli Usa e del 19,8% in Europa); la crescita sempre maggiore dei debiti delle famiglie e, infine, la minore disponibilità delle istituzioni pubbliche a investire in campi fondamentali come la salute, l’istruzione e la cultura e, in generale, i servizi.
A pagare lo scotto maggiore di questa difficile congiuntura sono anzitutto i comuni cittadini e le loro famiglie, che si trovano a dover fronteggiare problemi sempre più assillanti di sussistenza, avendo a disposizione un quantitativo sempre meno consistente di risorse a livello personale e potendo sempre meno contare sulla protezione dal pubblico.
Ma a destare le maggiori preoccupazioni, al di là delle ricadute immediate della crisi, per le quali si esige la creazione di ammortizzatori sociali adeguati, è la constatazione che quanto si sta verificando in questi mesi, lungi dal preludere a un’uscita dall’attuale stato di difficoltà, crea le premesse perché si precipiti, in tempi ravvicinati, in un baratro ancor più profondo, con esiti drammatici.
La mancata ricerca di alternative vere, che provochino un capovolgimento nei rapporti tra economia finanziaria ed economia produttiva, ribaltando l’ordine attuale e restituendo alla produttività dei beni il primato, ma soprattutto la rinuncia a imporre regole severe al mercato per rimetterlo al servizio dello sviluppo umano, sono segnali che mortificano ogni speranza di cambiamento.
L’uscita dal tunnel è ancora lontana, ed esige, per potersi realizzare, una svolta radicale nelle politiche degli Stati, con l’abbandono del semplice laissez-faire e la rivendicazione di un ruolo di controllo anche in campo economico finalizzato a indirizzare le scelte verso il bene comune.
Ma, nel contempo, esige la presenza di una società civile matura, che sappia sostenere responsabilmente l’azione politica, anche a costo di inevitabili sacrifici, e sia soprattutto in grado di reagire alla situazione presente con l’adozione di stili di comportamento che abbiano come obiettivo lo sviluppo di un nuovo modello di civiltà incentrato sulla promozione di una migliore qualità della vita.
in “Jesus” del luglio 2010

Perché il potere ha perso sacralità

Il teologo interviene sulla laicità alle “Parole della politica” Qual è l’esperienza concreta da cui è sorto il concetto di laicità? Io credo che sia la consapevolezza della complessità del rapporto tra il proprio mondo mentale e quello di altri.
Intendo quindi per laicità il metodo che governa il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita: la laicità è un metodo che si applica alla relazione tra il foro interiore delle convinzioni ideali e il foro esteriore della convivenza con chi è diverso da noi.
Questa precisazione è essenziale per capire come agire rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili” di cui parla spesso Benedetto XVI.
A mio avviso la non negoziabilità dei principi si dà a livello di foro interiore, nel senso che non si devono tradire i propri ideali, soprattutto quando si agisce in prima persona.
Ma la realtà di un mondo sempre più plurale fa sì che il foro interiore della prima persona singolare non sia mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale.
Perché si possa pronunciare un armonioso noi, ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri.
Solo a questa condizione si avrà una sinfonia e non la cacofonia del conflitto sociale.
Ne viene che a livello di foro esteriore non c’è nulla che non sia negoziabile, perché la negoziazione è l’anima del diritto e della politica nella misura in cui essi sono elaborati all’insegna della democrazia.
Quindi riassumo: nessuna negoziazione a livello interiore dove è in gioco l’anima e l’adesione alla verità; ma concrete negoziazioni a livello di foro esteriore dove è in gioco la relazione armoniosa della convivenza tra uomini sempre più diversi.
Riuscire a mediare queste due dimensioni significa praticare la laicità.
Quanto detto finora però non è sufficiente.
La modernità è stata l’epoca delle distinzioni: la spiritualità dalla religione, la religione dall’etica, l’etica dal diritto, il diritto dalla politica.
Occorreva farlo per fondare su basi razionali la convivenza sociale.
Alla fine però ne è risultata una politica separata dalla spiritualità, dall’etica e ora sempre più anche dal diritto.
Per questo io penso che occorra qualcosa di diverso.
Guardando alla nostra società, a me pare infatti che più laica di così, più priva di sacralità di così, la politica non potrebbe essere.
Separata dalla spiritualità e dall’etica, la politica oggi si ritrova del tutto priva di sacralità, completamente profana, anzi così profana da essere ormai profanata.
Aristotele scriveva che «il vero uomo politico è colui che vuole rendere i cittadini persone dabbene e sottomessi alle leggi» (EN, 135).
Quanti sono i politici così? È stato messo in piedi un meccanismo che esclude quasi automaticamente chi si vorrebbe avvicinare alla politica con questi ideali, una specie di selezione naturale al ribasso.
A mio parere il nostro tempo ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica.
Non sto certo auspicando il ritorno alle teocrazie, meno che mai collateralismi neoguelfi di sorta e presenze di cardinali a cene di uomini di potere.
So solo che le grandi civiltà del passato non conoscevano la rigida separazione tra Cesare e Dio e l’avrebbero trovata innaturale.
Sono certo che neppure Gesù l’avrebbe praticata se sulla moneta ci fosse stata l’effigie del re Davide e non quella di un re straniero.
E quando Roma perse la sua sacralità e si laicizzò al punto da risultare del tutto profana agli occhi dei cittadini, perse anche la sua forza politica e militare.
Scriveva Hegel due secoli fa: «Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso…
Come Pilato domandò: “che cos’è la verità?”, così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato.
È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva.
Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva».
Nella stessa prospettiva oggi Eugenio Scalfari parla dei contemporanei come di barbari: «I contemporanei sono i nostri barbari».
Al cospetto di una politica ormai priva di sacralità, io avverto il bisogno di un movimento contrario rispetto alla laicità come separazione: c’è bisogno di reciproca fecondazione tra dimensione spirituale e politica.
Se la politica vuol tornare a essere capace di toccare la mente e il cuore degli uomini (e non solo le loro tasche) deve ricollegarsi organicamente al diritto, all’etica, alla religione, alla spiritualità.
Come debba fare non so perché non sono un politico, ma credo che il vero problema da affrontare non siano le piccole rivendicazioni del neoguelfismo all’italiana.
Queste sono manovre di poco conto, a loro volta segno di decadenza.
Il vero problema è il nichilismo che dilaga nelle anime, il bisogno dell’uomo di sacralità e la politica che non sa più neppure cosa sia la sacralità.
L’anima della nostra civiltà è malata, intendendo con anima della civiltà ciò che tiene unite le persone al di là degli interessi immediati, quel senso ideale per cui il singolo percepisce di essere al cospetto di una realtà più importante di lui nella quale però si identifica e quindi serve con onestà.
Di fronte a questa situazione penso che ogni persona responsabile debba cercare di capire in che modo la propria area di appartenenza possa servire il paese con equità.
E al riguardo mi permetto di ritenere inadeguata l’impostazione della Chiesa cattolica.
Essa infatti pensa i cattolici come interessati solo ad alcuni aspetti della vita quali bioetica, scuole cattoliche, famiglia, e non invece all’insieme della società.
Che le questioni ricordate siano importanti è ovvio, ma esse non possono rappresentare l’unico punto di vista in base al quale giudicare la politica perché il cristiano deve essere fedele al mondo nella sua integralità e non crearsi un mondo a parte.
Dietro l’impostazione del Magistero c’è invece l’idea che i cattolici siano una realtà estranea rispetto al mondo e vi si rapportino solo per trarne più benefici possibili per il loro piccolo mondo particolare.
Questo però è teologicamente sbagliato perché significa trasformare i cattolici in una delle tante lobby del mondo e far perdere sapore al sale: «ma se il sale perde il sapore, a null’altro serve che a essere gettato via» (Mt 5,13).
in “la Repubblica”del 14 luglio 2010

Testimoni credibili in una società in crisi: intervista a Angelo Bagnasco,

La questione sollevata dalla controversa sentenza della Corte di Strasburgo che vieta l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche da affrontare con un pizzico di buon senso; la malintesa e pervicace forma di laicità, che ignora il fatto religioso e anzi esplicitamente lo esclude; la necessità di un’autoriforma e di una purificazione della Chiesa indicata da Benedetto XVI; l’esigenza di una nuova generazione di politici cattolici auspicata già dal Papa e dal suo segretario di Stato; il persistere della crisi economica; l’anniversario dell’unità d’Italia come occasione per ritrovare coesione e convergenza secondo l’auspicio, tra gli altri, del presidente della Repubblica; il federalismo come intuizione già presente nella dottrina sociale della Chiesa; la bellezza, la gioia e la responsabilità dell’essere preti come frutti dell’Anno sacerdotale.
Sono i questi i temi della lunga intervista che il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo metropolita di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha rilasciato al nostro giornale.
Che ha espresso alla fine una convinzione: “Questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l’annuncio di Dio con le parole e le opere.
Di Dio, infatti, l’uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena”.
Eminenza, il 30 giugno si è tenuta presso la Corte di Strasburgo l’udienza per il ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza del novembre scorso che vieta l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche.
Che aspettative ha rispetto a questa decisione? A quali conseguenze porterebbe una conferma della precedente sentenza? A dire la verità, mi aspetterei solo un pizzico di buon senso.
È strano infatti che proprio oggi, quando il confronto interculturale si fa più esigente, a motivo della crescente mobilità, si pretenda poi di censurare una delle matrici fondamentali della storia del nostro continente.
Ipotizzare, come taluni fanno, che il crocifisso leda la laicità dello Stato, il quale non dovrebbe inclinare verso nessuna opzione religiosa o confessionale, significa dimenticare che ben prima dello Stato vi è la gente; esiste infatti un humus profondo che identifica il sentire comune della gran parte della popolazione italiana.
Nella scelta di mettere tra parentesi un segno come il crocifisso colgo peraltro una scarsa considerazione di quel principio di sussidiarietà per cui ciascuno Stato, nel contesto europeo, presenta una peculiare radice che merita rispetto e considerazione.
Del resto, a essere sinceri, a chi mai è venuto in mente di eliminare festività nazionali che hanno una chiara impronta religiosa nel nostro o in altri Paesi del mondo? Volere eliminare le caratteristiche tradizioni culturali e religiose di un Paese, specie quelle legate agli ambienti di vita – siano essi la scuola o i luoghi di aggregazione giovanile – significa rinunciare proprio a quella ricchezza delle culture che si vorrebbe per altri versi tutelare e difendere.
Sono stati in molti a ravvisare dietro alla precedente sentenza della Corte un’ispirazione culturale molto vicina a sentimenti di cristianofobia.
Lo stesso si è detto a proposito degli attacchi subiti dalla Chiesa, come per esempio è avvenuto in Belgio.
Da dove nasce tutta questa ostilità? Più semplicemente – ma vorrei dire ancora più gravemente – esiste una malintesa e pervicace forma di laicità, che sarebbe meglio definire laicismo; questa ignora il fatto religioso, anzi esplicitamente lo esclude.
Si tratta in realtà di una grave amputazione del senso dello Stato, che ovviamente non ha competenze in campo religioso né persegue finalità religiose, ma deve riconoscere, rispettare e anzi promuovere la dimensione religiosa.
Dietro la libertà religiosa infatti si cela la più decisiva esperienza della libertà umana, senza la quale è a rischio non solo la fede, ma ancor prima la democrazia.
Dietro la cosiddetta neutralità dello Stato è presente un pregiudizio, tardo a morire, verso il quale giustamente Benedetto XVI da tempo va concentrando la sua riflessione: quello cioè di confinare Dio al di fuori dello spazio pubblico, riducendolo a una questione privata.
Per quel che riguarda l’Europa, poi, si trascura il fatto che la nostra civiltà – delle cui conquiste relative alla libertà, all’uguaglianza, ai diritti individuali e sociali tutti godono – germoglia proprio dal crocifisso, riconosciuto come il suo simbolo più qualificato e universale.
Benedetto XVI ha affermato che il pericolo più grande per la Chiesa è al suo interno.
Come si affronta questa minaccia? Il Santo Padre chiama tutti i cattolici a un’opera di autoriforma e spinge tutta la Chiesa a compiere un cammino di purificazione.
Questa indicazione è senza dubbio una provocazione non solo per il mondo ecclesiale, ma per la stessa società civile.
Tale linea di marcia non è affatto “spiritualista”, come afferma qualcuno; al contrario, racchiude un’immensa forza rinnovatrice, una forza di concretezza e di azione che la storia già conosce.
In una stagione in cui tendenzialmente tutti cercano di difendere se stessi e, all’occorrenza di denigrare gli altri, il Papa invita a battersi il petto e a non guardare alle colpe altrui, chiamando in causa la coscienza individuale perché dinanzi a Dio ognuno si riconosca nella verità.
È evidente che l’insidia maggiore nasce sempre dal di dentro e non dal di fuori.
Ciò che fa vacillare, infatti, non sono gli attacchi, anche virulenti, che possono esserci da parte di chi nutre pregiudizi o ostilità nei riguardi della fede, ma quelli da parte di chi alla fede si appella, rinnegandola poi nel concreto con l’insipienza e lo scandalo dei suoi comportamenti.
La minaccia dall’interno dunque è più subdola e chiede di essere smascherata attraverso un lineare riconoscimento dei fatti, seguendo un rigoroso percorso di penitenza che non ammette ritardi o attenuanti.
Nel caso degli abusi su minori, che hanno coinvolto dolorosamente alcuni ecclesiastici, occorre aggiungere che l’accertamento dei fatti, nelle sedi e nei modi dovuti, garantisce alla giustizia i colpevoli di questi terribili delitti.
Se, come credo, la crisi che si sta attraversando ha un senso, esso consiste proprio nel ritornare con umiltà alle sorgenti del Vangelo, che chiama ogni generazione di cristiani a dare ragione della propria speranza con le parole e con la vita.
La questione educativa è da tempo indicata come elemento centrale dell’azione pastorale.
In Italia, la Chiesa l’ha messa al centro degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio.
C’è un momento, o un processo, a partire dal quale, nella società civile, si può ravvisare l’inizio di questa emergenza? Come ricorda di frequente Benedetto XVI, ogni generazione è chiamata a raccogliere la sfida della libertà, e così a imparare sempre di nuovo cosa significhi essere liberi.
Certamente ai nostri giorni esiste una serie di elementi che hanno reso più difficile l’esercizio di questa libertà, a fronte di un’aspirazione diffusa che la vede come un diritto e non anche come una responsabilità.
In particolare, il mondo degli adulti ha smesso di generare alla vita.
Ognuno di noi, infatti, cresce non tanto ascoltando quanto vedendo qualcuno.
In concreto, genera alla vita chi si lascia sorprendere dalla vita e attraversare da essa.
Ciò vuol dire che per essere generativi bisogna accettare il fatto che non si è all’origine della vita, ma che ci si fa attraversare da essa e con essa si dialoga.
Diversamente si resta accecati e imprigionati dalla volontà di potenza e si finisce per distruggere il mondo.
Credo che avere perso il senso dell’anteriorità, cioè di Dio, abbia prodotto mancanza di autorevolezza, e finito col creare una società senza padri, cioè fatalmente senza testimoni.
La capacità di generare peraltro implica sempre una trasformazione personale, fatta di dedizione, di impegno, di passione, di successo e di fallimento.
Fa parte dell’accoglienza della vita anche il sapere rinunciare a qualcosa di sé per gli altri.
Mi sembra che questa serie elementare di atteggiamenti sia scomparsa dalla scena pubblica per dare adito a comportamenti per lo più narcisistici, quando non addirittura adolescenziali.
Benedetto XVI, già nel 2008, ha fatto riferimento alla necessità di una nuova generazione di politici cattolici, messaggio rilanciato dal suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, e da lei in occasione del Consiglio permanente della Cei dello scorso gennaio.
Generalmente questo messaggio viene inteso come una chiamata ad assumere iniziative politiche conseguenti alla propria coscienza di cristiani.
È questa l’interpretazione corretta? Il Papa a Cagliari ha auspicato una nuova generazione di politici cattolici e il suo segretario di Stato, il cardinale Bertone, gli ha fatto doverosamente eco, per segnalare una urgenza che è sotto gli occhi di tutti.
L’affezione per la cosa pubblica sta scemando e sempre più rarefatto è il consenso intorno al bene comune, privilegiando ciascuno beni di piccolo cabotaggio e senza prospettiva alcuna.
Per questa ragione anch’io ho fatto riferimento a un “sogno” per evocare una direzione di marcia verso cui camminare.
Nella prolusione mi riferivo appunto a “una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni”.
Penso che attorno a questo tema nevralgico della nostra società, che chiama in causa la testimonianza della Chiesa, occorra il concorso attivo di tutti.
Come vescovi italiani ci impegneremo a una specifica riflessione in merito.
Sui temi etici, in quasi tutti i partiti italiani si registrano al momento posizioni eterogenee.
Esiste oggi un problema di rappresentanza politica delle posizioni cattoliche in Italia? Più che un problema di rappresentanza politica esiste un problema di coerenza personale.
Credo che sempre più siano necessari fedeli laici capaci di imparare a vivere il mistero di Dio, esercitandosi ai beni fondamentali della libertà, della verità, della coscienza.
Come detto nella citata prolusione dello scorso gennaio, “cresce l’urgenza di uomini e donne capaci, con l’aiuto dello Spirito, di incarnare questi ideali e di tradurli nella storia non cercando la via meno costosa della convenienza di parte comunque argomentata, ma la via più vera, che dispiega meglio il progetto di Dio sull’umanità, e perciò capaci di suscitare nel tempo l’ammirazione degli altri, anche di chi è mosso da logiche diverse”.
L’Italia, come il resto del mondo, sta vivendo un difficile passaggio economico.
Ritiene che il peggio si possa considerare ormai superato o gli effetti della crisi devono ancora rivelarsi pienamente? Per quel che vedo con i miei occhi, c’è ancora molta disoccupazione.
E non scorgo concreti e sicuri segnali di inversione di tendenza, anche in grandi realtà industriali della mia Genova.
Serpeggiano tra la gente preoccupazioni serie e pungenti.
Non mi riferisco ovviamente a un discorso di macroeconomia per il quale non ho le competenze.
Semplicemente constato che se gli strateghi possono rassicurare sul medio periodo, ritenendo che la strada giusta sia stata imboccata, come vescovo vedo molta gente senza lavoro e sono turbato da tanta sofferenza e insicurezza su come arrivare alla fine del mese.
Un certo assestamento c’è stato perché le famiglie si sono adattate, utilizzando meglio le risorse ed evitando gli sprechi.
Però c’è una fascia che aveva ben poco da risparmiare e che obiettivamente è in affanno.
Le misure che si stanno prendendo in risposta alla crisi stanno creando diverse tensioni fra parti sociali e contrasti a livello politico.
Quali criteri dovrebbero essere seguiti nella previsione di interventi che si preannunciano molto severi? Credo che il criterio dell’equità economica sia quello da seguire, dovendo ciascuno dare in rapporto alle proprie capacità.
Sta poi a chi ha la responsabilità politica affrontare in concreto la situazione, declinando l’equità economica dentro a una cornice di libertà politica e di coesione sociale.
Solo così i tre valori in gioco – la libertà politica, la giustizia economica, la coesione sociale – si salvaguardano insieme.
Da alcune parti, di frequente anche dal Quirinale, si osserva come il Paese stia perdendo il senso della coesione nazionale.
La Chiesa in Italia condivide questa sensazione? L’anniversario dell’unità d’Italia è una provvidenziale occasione per ritrovare le comuni radici che hanno fatto il nostro Paese, ben prima del suo riconoscimento come Stato.
Proprio riandando indietro nel tempo, si scopre che quando a prevalere sono state logiche di campanile e ci si è contrapposti in nome del proprio “particolare” si è registrata una battuta d’arresto.
Al contrario, quando si è innescato il meccanismo virtuoso della cooperazione, allora le forze culturali, sociali, economiche e spirituali, si sono sommate e non annullate.
Penso che la crisi in atto debba dunque spingere l’Italia a ritrovare se stessa.
Per questo apprezzo lo sforzo di quanti, innanzitutto il presidente della Repubblica, invitano continuamente a ritrovare la coesione e la convergenza, al di là delle legittime differenze.
Al Mezzogiorno la Cei ha dedicato un importante documento.
La crisi, secondo gli osservatori, sembra aver aggravato ulteriormente il divario con il resto del Paese.
Si discute anche dell’impatto del decentramento fiscale.
Il federalismo è un pericolo o un’opportunità? Il federalismo non è una ricetta magica, ma rappresenta un’intuizione ben presente nella dottrina sociale della Chiesa, che sin dai tempi di Pio XI chiama in causa il principio di sussidiarietà – poi introdotto a Maastricht – per sottolineare che quel che può essere fatto dalle realtà intermedie non deve essere avocato a sé dall’istanza centrale.
Infatti più si è vicini alla realtà, più la si può accompagnare con efficienza e oculatezza.
Ciò posto, il principio suddetto va coniugato con quello di solidarietà per evitare che chi sta indietro resti ancora più arretrato.
Dal 14 al 17 ottobre si terrà a Reggio Calabria la Settimana sociale dei cattolici italiani, con la quale si vuole proporre un'”agenda di speranza”.
È la speranza che manca maggiormente al Paese? L’agenda è un termine entrato nel linguaggio comune per richiamare concretezza di obiettivi e aderenza alla realtà.
In quella preparata in vista della settimana di Reggio Calabria si elenca una serie di questioni non più rinviabili – come creare impresa, educare, includere nuove presenze nel nostro Paese, introdurre i giovani nel mondo del lavoro e della ricerca, compiere la transizione istituzionale – che oggi definiscono in modo puntuale il volto del bene comune, che solo garantisce la tenuta unitaria dell’Italia e la ripresa economica.
Certamente è la speranza cristiana che fa da sfondo, e ancor prima da movente, a questa rinnovata stagione di impegno dei cattolici italiani dentro la società di oggi.
Si è da poco concluso l’Anno sacerdotale.
Cosa ha significato per i sacerdoti italiani, quale è l’eredità di questa iniziativa? L’Anno sacerdotale è stato, per volontà di Benedetto XVI, un’occasione straordinaria per riscoprire la bellezza, la gioia e la responsabilità del sacerdozio e del ministero pastorale.
E per mettersi di più in gioco nella santità che richiede.
La vocazione sacerdotale è infatti un dono inestimabile che non cancella la consapevolezza dei limiti umani, ma esalta la scelta del Signore Gesù, il quale si fa prossimo a ogni uomo attraverso il servizio discreto e fedele di tanti parroci e preti; e questi, attraverso il Vangelo e i sacramenti, aprono il mondo a Dio e rendono più umano il nostro territorio.
Credo che l’eredità dell’Anno sacerdotale sia l’impegno a una testimonianza di vita che deve farsi ancor più trasparente per l’amore a Dio e alla sua Chiesa.
“Per crucem ad lucem”: ha usato più volte questa espressione per descrivere il momento che sta vivendo la Chiesa.
Il tempo della croce sarà ancora molto lungo? Ogni momento di sofferenza, quando accolto con senso di responsabilità, prelude sempre a una rinascita.
Sono convinto che anche questi mesi difficili cederanno il passo a una rinnovata passione per l’annuncio di Dio con le parole e le opere.
Di Dio, infatti, l’uomo contemporaneo sente forte il bisogno in un mondo confuso e incerto, ma pur sempre alla ricerca del senso della vita terrena e della felicità piena.
in “L’Osservatore Romano” del 14 luglio 2010

“Gerusalemme, un laboratorio della biodiversità umana”. colloquio di Jean-Yves Leloup e Elias Sanbar,

Un prete ortodosso, Jean-Yves Leloup, e un saggista palestinese, Elias Sanbar, sono gli autori di due dictionnaires amoureux.
Uno su Gerusalemme, l’altro sulla Palestina.
Hanno accettato di dialogare.
Jean-Yves Leloup, lei ha scritto un “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” (Plon, p.
960, € 27) e lei, Elias Sanbar, un “Dictionnaire amoureux de la Palestine” (Plon, p.
496, € 24,50).
Avrebbe accettato questo dialogo se l’autore del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem” fosse stato un ebreo israeliano? Sanbar: Se si trattasse di attaccamento personale, non di un qualsiasi diritto esclusivo sulla città basato sulla religione, sì, sinceramente.
Simbolicamente, l’editore ha pubblicato questi due libri contemporaneamente, ma uno è fatto da un palestinese, quindi dall’interno, l’altro da un cristiano francese.
Leloup: Un cristiano aperto ai palestinesi, agli ebrei e a tutte le tradizioni che sono vive a Gerusalemme.
Jean-Yves Leloup, che cosa pensa dell’affermazione di Elias Sanbar su Gerusalemme, una città che deve essere concepita in funzione della condivisione, “una capitale per due Stati”? Leloup: È forse una cosa possibile, conoscendo l’attaccamento degli uni e degli altri a questa terra e a questa città, e la confusione che vi regna tra il politico e il religioso? Sanbar: Io ci credo.
Bisognerà arrivare a questo, perché non c’è altra soluzione.
La grande difficoltà, ancor prima che inizino i negoziati, è la confusione permanente tra lo strato spirituale, simbolico della città, ciò che costituisce la sua universalità, e il problema della sovranità.
Per il momento, i negoziati e i discorsi trattano la città come un luogo di disputa tra due sovranità divine: vale a dire, quale dio sarebbe più sovrano? E la cosa è tanto più complicata per il fatto che è lo stesso dio per i tre monoteismi! Bisogna riconoscere alla città la sua importanza spirituale e, su questo piano, essa appartiene all’umanità.
Ma bisogna anche trattarla come una città, semplicemente, non diversa da altre città del paese, senza tuttavia rinnegare la sua dimensione di futura capitale della Palestina.
Come avrete capito, parlo di Gerusalemme est.
Solo a quel punto, si potrà negoziare.
Leloup: Ogni realtà è una realtà “costruita” o immaginaria.
Particolarmente a Gerusalemme dove ciascuno investe talmente tanti sentimenti e così tante memorie sulle sue pietre…
Come ritrovare la terra che vi è sotto? Sanbar: I palestinesi hanno il vantaggio di non dover fare nulla per considerarla anche come una città reale.
Noi ci stiamo.
Sentiamo così tanti discorsi deliranti, sulla Terra santa, i Luoghi santi, ma per noi è anche la nostra terra, banalmente.
Abbiamo pagato caro il prezzo di questi immaginari.
L’imposizione dell’aspetto mitico sui luoghi è stata origine di morte e non di vita.
Senza rinnegare la sua dimensione universale, se non ci si rende conto anche che questo paese esiste, non si troverà la soluzione.
Che cosa significa per voi due l’idea di “città santa”? Leloup: La santità è l’alterità.
Una città santa è il luogo di incontro delle alterità.
Gerusalemme è una sorta di laboratorio della biodiversità umana.
Non far entrare in relazione queste alterità rende la vita impossibile all’umanità.
Elias Sanbar, nel suo dizionario, alla voce “Fondamentalismo” lei scrive: “È una malattia che colpisce i tre monoteismi.” Leloup: Lo penso anch’io, è una patologia che vuol ridurre l’altro a sé: fare di Gerusalemme una città ebraica, una città musulmana o una città cristiana.
Gerusalemme all’origine è una sorgente in un deserto, un pozzo; bisogna avere cura del pozzo, non solo per sé, ma anche per i cammelli dell’altro.
Elias Sanbar, che cosa ha pensato della voce “Palestina” del “Dictionnaire amoureux de Jérusalem”? Sanbar: È una breve voce storica.
Io torno allo spazio reale e alla terra familiare, cosa complicata per i nativi di questa terra, perché alla loro familiarità dei luoghi viene sempre opposta l’immensità del sacro.
Ma essa è anche terra familiare.
L’identità della Palestina è spesso a torto analizzata col metro della vicinanza di comunità del vicino Libano.
In Palestina, non si è nelle terre vicine.
Ma in una realtà forgiata nella durata, che fa sì che le persone del luogo, pur appartenendo ciascuna ad una religione, si ritengono depositari, attraverso il luogo, di tutto ciò che vi è accaduto.
Si parla molto di questa pluralità della Palestina, oggi minacciata, poiché sia il sionismo che il fondamentalismo musulmano cercano di darle un solo colore.
Anche le crociate, un tempo, hanno cercato di darle un colore, allora esclusivamente cristiano.
Nella seconda metà del XIX secolo, ci sono stati degli scontri “comunitari” sanguinosi nei paesi vicini, Libano e Siria, dovuti fondamentalmente all’arrivo della modernità industriale, che sconvolgeva le strutture tradizionali.
In Siria, ad esempio, abbiamo assistito ad un’alleanza della comunità ebraica e di quella musulmana contro la comunità cristiana.
In Libano, ci sono stati degli scontri tra drusi e maroniti.
Da noi, questo non è avvenuto.
Certi parlano di una sorta di “attitudine democratica” precoce nei palestinesi: è ridicolo.
Semplicemente si tratta del sentimento dei palestinesi di essere i depositari di tutto ciò che era accaduto nella loro terra.
È ciò che chiamerei la loro pluralità.
Del resto oggi minacciata, e questo per la prima volta nella loro storia.
Jean-Yves Leloup, la sua voce “Terrorismo” è molto breve.
Perché ha affrontato il tema? In un “Dictionnaire amoureux”, si è totalmente liberi di scegliere le voci.
Leloup: I terroristi si presentano purtroppo anche come innamorati della legge, della religione, della terra.
Uccidono in nome del loro amore.
Di quale amore parlano, di quale dio parlano? Per quanto mi riguarda, dico con Albert Camus: “Quale che sia la causa che si difende, essa resterà sempre disonorata dal cieco massacro della folla innocente.” Jean-Yves Leloup, lei ha sviluppato molto le voci “Resistenti”, “Commando-suicidi”…
Sanbar: Ho affrontato non il terrorismo, ma il problema che mi sembra inglobare tutto ciò, nella voce “Vivere e morire”.
Ciò che è molto preoccupante oggi, è che sia la morte e non la libertà a diventare la finalità della lotta.
Capisco la metafora usata da Jean-Yves Leloup su terrorismo e amore.
Ma essa non esprime la terribile realtà, quella realtà nuova che fa dire a dei giovani: “Io mi batto per morire.” Le generazioni precedenti hanno certo rischiato e spesso perso la vita, ma si battevano per vivere, la finalità della loro lotta era la libertà: vivere liberi, a rischio, e non con lo scopo, di morire per questo.
Il suo “Dictionnaire amoureux”, Elias Sanbar, è quello di un esiliato.
Sanbar: Sì, ma ho anche voluto presentare la Palestina reale.
Noi siamo vivi e c’è un modo di ridere palestinese, di autoderisione, che si esprime bene nei nostri film e nella nostra letteratura.
È una forma superiore di resistenza, perché esprime la fede nella vita che abita, malgrado tutto, questa terra semplice, schiacciata in un conflitto interminabile.
A Gerusalemme più che altrove, secondo lei, Jean-Yves Leloup, ci si può interrogare sull’idea di un’etica universale.
Leloup: Ritrovare la realtà di Gerusalemme significa ritrovare il senso dell’altro, del volto unico di ciascuno.
Non è forse lì l’inizio dell’etica che può liberarti da ogni idolatria, cioè da ogni forma di appropriazione esclusiva? Lei dice anche di essere partito dall’idea di un dizionario di una certa leggerezza amorosa e di essere sfociato ad una certa gravità.
Leloup: Non si può essere leggeri né con la Shoah, né con l’esilio dei palestinesi, né con l’emigrazione dei cristiani.
Ma, malgrado tutto, tante volte distrutta e tante volte ricostruita, Gerusalemme testimonia una vita più forte della morte.
in “Le Monde” del 3 luglio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

Tecnologie educative

Il Regno Unito è all’avanguardia in Europa per quanto riguarda la diffusione delle tecnologie per l’istruzione, tanto che in quasi tutte le scuole è presente una lavagna interattiva.
Secondo quanto riportato da una ricerca condotta da Panasonic le lavagne vendute nel 2009 in Gran Bretagna sono state ben 55.000.
Passi in avanti si stanno facendo anche in altri Paesi, come la Francia, dove però la percentuale di scuole equipaggiate con strumenti di questo tipo è solo del 20%.
In Spagna sono stati previsti 200 milioni di euro per la digitalizzazione di tutte le aule spagnole entro il 2012, e anche la Germania si muove nella stessa direzione.
Per quanto riguarda l’Italia, secondo il rapporto Ocse “Uno sguardo sull’educazione 2009”, il nostro paese risulta sotto la media europea della spesa per l’istruzione, ma ha varato un importante piano d’intervento, “La scuola digitale”, per la diffusione dell’innovazione nella scuola, coordinato dal Miur e dall’Agenzia per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica (ex Indire).
Il piano si articola in due fasi.
La prima prevede l’introduzione delle “Lavagne interattive multimediali (LIM)”, la seconda, denominata cl@ssi 2.0, ha come obiettivo l’utilizzo delle ICT nelle scuole primarie e secondarie di I grado.
A partire dall’anno scolastico 2009-2010) sono state installate 16.000 LIM in altrettante classi della scuola secondaria di I grado e 50.000 insegnanti sono stati coinvolti in percorsi di formazione che interessano oltre 350.000 studenti.
Anche il Ministro per l’Innovazione e la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, ha recentemente presentato My Innova, un social network che si appoggia alla piattaforma Innova Scuola, progettato per la condivisione di esperienze e risorse didattiche tra studenti e docenti.

2010-2020, boom di dati digitali

Immaginate 75 miliardi di iPad che riempiono il tunnel del monte Bianco avanti e indietro per ben 84 volte.
O 41 stadi di Wembley pieni fino all’ultima poltroncina delle tavolette Apple, in lungo e in largo, erba e panchine inclusi.
O se preferite, lo stadio nazionale di Pechino per 15,5 volte.
O ancora, immaginate ogni uomo, donna o bambino sulla Terra che, ininterrottamente e per 100 anni, invii tweet (i brevi messaggi tipici del microblogging e in particolare di Twitter).
Ecco qual è la mole di dati digitali che nascono solo nel corso del 2010 per venire poi scambiati, stampati, archiviati, dimenticati e forse distrutti.
Un totale inimmaginabile che supererà per la prima volta nella storia digitale una nuova unità di misura: si tratta di 1,2 zettabyte di informazioni.
Tradotto nelle unità di misura usate fino a oggi, uno zettabyte corrisponde a mille miliardi di gigabyte.
LA RICERCA – A raccontare lo stato del mondo digitale è per la quarta volta negli ultimi anni la società di ricerca IDC, con uno studio commissionato dall’azienda EMC, che sul suo sito fornisce anche un contatore – l’Information Growth Ticker – da scaricare sul proprio Pc che aggiorna in tempo reale sulla quantità di dati creati a partire dal primo gennaio 2010.
Stupiscono i tassi di crescita previsti per il futuro.
Nel 2020 la nostra personale odissea tra i dati digitali ci vedrà immersi in un universo quasi 50 volte più grande di quello attuale.
Complici di questo aumento saranno i passaggi all’universo dei bit di voce, tv, radio e stampa, dunque tutto il mondo oggi ancora per larga parte in analogico.
NUVOLE – L’universo sarà dunque sempre più sommerso dal digitale, e la Rete continuerà ad avere un ruolo di primo piano, per via di tutti i documenti nati e utilizzati nella «nuvola» del cloud computing.
Dice infatti la ricerca di IDC che, entro il 2020, più di un terzo di tutte le informazioni digitali create ogni anno (private o pubbliche che esse siano) risiederà o transiterà nella nuvola di tecnologie informatiche disponibili online.
Ancora una volta, la ricerca denuncia anche l’overload di informazioni e mette al centro il problema della ricerca dei dati che più interessano da parte degli utenti, visto che già oggi i contenuti creati sono superiori del 35 per cento alle capacità di archiviarli e questo dato aumenterà anche del 60 per cento nei prossimi anni.
Corriere della sera  08 06 2010

«La religione nella sfera pubblica».

Durante la scrittura della Costituzione europea, naufragata poi sui capricci dei referendum, la questione delle «radici cristiane» (o giudeo-cristiane) dell’Europa ha tenuto banco per mesi.
Chi non le voleva menzionare sosteneva che quella espressione ambigua (il Nuovo Testamento usa «radice» o per parlare dell’interiorità o per descrivere l’ebraismo) minacciava le libertà laiche del continente.
Chi la difendeva non s’accorgeva che, arroccandosi su un sintagma innocuo (che Pio XII ad esempio non chiese mai ai costituenti italiani), la Santa Sede rinunciava alle pregiudiziali che avrebbero potuto strozzare, con un non expedit bioetico, la nascita della Costituzione.
Alla fine tutti sanno come andò: da allora il paesaggio religioso dell’Europa è mutato.
Mentre le Chiese rimpiazzano l’ecumenismo con un galateo scortese, i nuovi cristianesimi evangelicali si insediano.
La minoranza islamica è un imamato, spesso fatto di apprendisti, galleggia sugli strepiti di chi insegue ad urla la distinzione fra il velo di chi va in moschea e quello di chi entra al Carmelo.
Il vicinato fra fedi vissute per secoli lontanissime è affidato al fai da te delle maestre.
L’antisemitismo — patologia mai sopita, come s’è visto in questi giorni quando, non un ministro o un governo, ma un Paese e un popolo sono stati accusati di un esecrabile eccidio — continua a correre con nuove parole d’ordine.
E il mantra «lai-ci-té/lai-ci-tà» viene ripetuto con la nostalgia di chi ricorda una Europa, semplice, divisa fra cristiani ed ex cristiani e decorata da una puntina superstite d’ebraismo.
Per decifrare le sfide di questo paesaggio plurale ci vuole un pensiero.
E la Polonia sta preparando il suo turno di presidenza Ue producendo pensiero con seminari finalizzati al Congresso sulla cultura europea che si terrà a Breslavia dall’8 all’11 settembre 2011.
Tramite il prestigioso Istituto viennese di scienze umane, diretto da un intellettuale a tutto tondo come Krzysztof Michalski, il ministero della Cultura polacco ha fatto un programma che inizia oggi a Milano con la collaborazione della Fondazione Corriere della Sera, presieduta da Piergaetano Marchetti.
Un giurista come Giuliano Amato (a suo tempo vicepresidente della Convenzione europea), uno storico della filosofia antica come Giovanni Reale (cattolicissimo, ma detestato da qualche frangia del fondamentalismo per il rigore teoretico con cui discute d’embrione), un direttore di giornale come Adam Michnik (che non ha appreso la militanza antitotalitaria in saldo), e il canadese Charles Taylor (il maggior studioso del comunitarismo e della secolarizzazione, nonché Templeton Prize 2007), si confronteranno su «La religione nella sfera pubblica».
Tema da discutere (religione o religioni? Sfera o sfere?), ma cruciale: perché, nella caduta di riferimenti ideologici collettivi e nella crisi della capacità «trasmittente» della famiglia, cresce la tendenza ad usare l’appartenenza religiosa per riempire lo smarrimento delle maggioranze e la solitudine delle minoranze.
Col rischio che convivenze storiche (pensate alla Bosnia o alla Turchia) si logorino e che il nocciolo dell’esperienza di fede — che è la fede — si perda nell’ossessione di agitare differenze che i fondamentalisti americani definirono «non negoziabili» cent’anni fa, senza gran frutto per nessuno.
La politica d’una Unione che ingloba re capi di Chiese, Stati costituzionalmente ortodossi e leggi di laicità che vietano di indossare un crocifisso, non può snobbare la voce delle autorità religiose, ma non può nemmeno non chiedersi come la democrazia risponde a queste sfide.
Il vecchio continente, infatti, ha da insegnare a tutti non una formula ma una storia: la storia che dice che nella coabitazione plurale le fedi stesse possono riapprendere cose che avevano dimenticato — basti pensare all’atteggiamento della Chiesa cattolica verso i diritti della donna, ad esempio — e che nel dimenticatoio sarebbero rimaste.
in “Corriere della Sera” dell’8 giugno 2010