“La società degli adolescenti”

Hanno sempre meno fiducia nelle “istituzioni” tradizionali, a cominciare dalla famiglia (ma soprattutto nei politici); consumano meno alcol e sigarette, ma si fanno più “canne”; vorrebbero lezioni di educazione sessuale a scuola e seguono diete fai-da-te.
Soprattutto, lasciando piano piano la televisione, si stanno spostando nella Rete dove con le loro relazioni si moltiplicano i comportamenti a rischio come dare il proprio numero di telefono a sconosciuti o accettare appuntamenti al buio.
E’ in sintesi il ritratto dei ragazzi italiani che emerge dalla XIV indagine “Abitudini e stili di vita degli adolescenti” realizzata dalla Società italiana di pediatria.
Il rapporto, che sarà presentato al convegno “La società degli adolescenti” (il 2 dicembre a Salsomaggiore), è il risultato di una ricerca patrocinata dal ministero della Gioventù e realizzata attraverso l’ascolto di 1.300 studenti delle scuole medie, di età compresa fra i 12 e i 14 anni.
Che il Web stai modificando abitudini e stimoli è sancito dal sorpasso di Internet sulla tv e soprattutto dall’inarrestabile ascesa di Facebook: il 67% degli interpellati da dichiarato di avere il profilo sul sociale network, contro il 50% dell’anno scorso.  Il boom di Facebook avviene a discapito di messenger e dei blog personali, crollati in un solo anno dal 41,2% al 17% quasi a indicare che quella del diario personale online era solo una moda passeggera.
Il rapporto rivela poi in netto calo la percentuale di navigazione su internet per cercare informazioni utili per lo studio e che le attività principali dei ragazzi sono ‘chattare’ e navigare su Youtube.
Se da un lato i social network promuovono le relazioni all’esterno, dall’altro il mezzo – il pc, ma ovviamente anche la tv –  aumenta l’isolamento in famiglia: più della metà die ragazzi intervistati ha detto infatti di avere televisore e computer nella propria cameretta; oltre l’80% (con una nettissima prevalenza dei maschi) gioca ai videogiochi; circa uno su due guarda la tele e oltre il 20% naviga in Internet la sera tardi prima di dormire.
Si conferma diffusissima (86%) la cattiva abitudine di guardare la tv durante i pasti.
Nel rapporto col web crescono però i comportamenti a rischio come inviare foto, fornire dati e informazioni personali, farsi vedere tramite webcam, accettare incontri con sconosciuti.
Oltre il 16% (contro il 12,8% del 2009) dichiara di aver dato il proprio numero di telefono a un estraneo, e uno su quattro (il 24,6% contro il 20,7% del 2009) non ha esitato a inviare una sua foto.
E’ vero che nella stragrande maggioranza dei casi gli ‘sconosciuti’ sono altri adolescenti, ma non sono rari gli episodi in cui l’interlocutore è un adulto.

Il Tar su Irc e alternativa

Il Tar sulla valutazione di Irc e alternativa   di Sergio Cicatelli     Con le due sentenze n.
33433 e n.
33434, depositate lo scorso 15 novembre, il Tar del Lazio, sezione III bis, ha rigettato quasi integralmente due ricorsi paralleli promossi lo scorso anno contro tutte quelle parti del regolamento della valutazione, Dpr 122/09, che riconoscevano all’Irc una significativa incidenza sulla valutazione degli alunni.
I ricorsi, in larga parte simili, erano stati presentati separatamente dalle solite sigle che da anni promuovono azioni del genere e dalla Cgil, sull’onda della sentenza emessa pochi mesi prima dal medesimo Tar del Lazio, sezione III quater, n.
7076, contro l’ordinanza ministeriale che consentiva la partecipazione dell’Irc all’attribuzione del credito scolastico.
Il Tar del Lazio ha risposto con due sentenze ampiamente sovrapponibili, che si distinguono solo per la considerazione che viene dedicata in una delle due alle attività alternative.
Le posizioni assunte oggi dal Tar possono per certi aspetti risultare soddisfacenti, in quanto rigettano i ricorsi e quindi convalidano il quadro normativo vigente, ma introducono anche elementi di ulteriore incertezza per la reticenza con cui affrontano questioni decisive.
In particolare, mentre i ricorrenti lamentavano la condizione di partecipazione a pieno titolo dell’Idr alle operazioni di valutazione, il Tar argomenta che non si può parlare di partecipazione a pieno titolo per via dei numerosi vincoli alla valutazione dell’Irc, che vanno dalla scheda separata, al divieto di voto numerico, alla circostanza del voto determinante in sede di scrutinio.
Tutte queste limitazioni non consentirebbero di parlare di partecipazione a pieno titolo alla valutazione e quindi non giustificherebbero le doglianze dei ricorrenti.
Su questo aspetto il Tar evita di dare una interpretazione autentica della clausola sul voto determinante dell’Idr, limitandosi a ribadire la controversa formulazione del 1990, ma lasciando intendere che – proprio in quanto clausola aggiuntiva e limitativa – il ruolo dell’Idr ne uscirebbe almeno in parte ridimensionato, «non potendosi dubitare che il docente della religione cattolica, sotto lo specifico profilo dell’attività valutativa, non è assimilabile ai docenti delle materie curricolari».
In relazione allo specifico caso di contributo alla determinazione del credito scolastico, il Tar respinge la tesi che il contributo dell’Irc possa creare discriminazione, ma lo fa ancora una volta per via delle peculiarità della valutazione dell’Irc che impediscono – a suo parere – una effettiva incidenza dell’Idr sul credito.
Gli Idr infatti non possono essere privati dello status di docenti e quindi di procedere alla valutazione dei propri studenti, ma lo fanno in maniera limitata ai soli aspetti generici dell’interesse, impegno e assiduità, e non intervenendo con una valutazione di merito circa il profitto acquisito nella propria disciplina.
In altre parole, si salva l’insegnante condannando l’insegnamento: è falso che la presenza dell’Idr al momento di determinare il credito scolastico possa costituire motivo di discriminazione, ma sarebbe altrettanto falso che l’Idr possa determinare tale credito in maniera analoga a quella degli altri docenti, dovendosi distinguere tra lo status dell’Irc e quello delle altre discipline scolastiche: «Non è quindi rispondente una configurazione del credito scolastico sul quale può incidere in maniera significativa il giudizio del docente di religione cattolica; a parte l’obiettiva circostanza – non tenuta in considerazione – che, come ogni giudizio, esso non conduce necessariamente ad un esito di segno positivo».
Per il resto, valgono le considerazioni già svolte in merito dal Consiglio di Stato nella citata decisione n.
2749/10.
E proprio come nella decisione del Consiglio di Stato, il Tar conclude una delle due sentenze (quella in risposta alle associazioni anti-Irc) con alcuni rilievi circa le attività alternative, accogliendo su questo punto le eccezioni dei ricorrenti, che avevano lamentato la condizione discriminatoria in cui si troverebbero coloro che chiedono di frequentarle, dato che i loro insegnanti sono stati accreditati dal regolamento della valutazione di un solo parere consultivo in sede di scrutinio.
Pertanto, le parti del Dpr 122/09 che negano la partecipazione del docente di attività alternative alle operazioni di valutazione finale devono essere considerate illegittime.
Oltre a questa conclusione, che già pone il Ministero nella delicata condizione di dover emendare – come era fin dall’inizio prevedibile – il Dpr 122/09, il Tar sollecita anche un altro intervento normativo, chiedendo che proprio per la delicatezza del settore «il Ministero della Pubblica Istruzione dia mano ad una nota informativa, chiara e puntuale, sull’insegnamento della religione cattolica, diretta agli organi scolastici e alle famiglie degli studenti, sugli aspetti organizzativi e sui riflessi didattici di detto insegnamento, con un necessario riferimento ovviamente anche alle previste attività alternative all’insegnamento della religione cattolica».
In attesa di vedere se il Ministero vorrà accogliere l’invito del Tar, prepariamoci comunque a seguire un’altra puntata di questo interminabile contenzioso, dato che è già in calendario l’udienza di un ulteriore ricorso promosso dalle solite sigle ancora una volta in materia di credito scolastico.
 

Religione e attività alternative a scuola

Il regolamento sulla valutazione (dpr 122/2009) aveva previsto che, a differenza dei docenti di religione che potevano partecipare a pieno titolo allo scrutinio finale, i docenti di attività alternative, invece, potevano soltanto fornire preventivamente ai docenti della classe elementi conoscitivi sull’interesse e sul profitto degli studenti.
A seguito di ricorso presentato da diverse associazioni laiche e religiose (Cidi, Consulta romana della laicità, Federazione delle Chiese evangeliche, l’Ucei e altre), il Tar Lazio ha emesso la sentenza n.
33433 del 14 ottobre scorso (deposita il 15 novembre) con la quale ritiene discriminatorio il trattamento riservato ai docenti di attività alternative, in quanto “il dpr 122/2009 determina un irragionevole trattamento deteriore dei docenti di attività alternative, rispetto alla previgente disciplina dettata con o.m.
44/2009” che assegnava analoga posizione ai docenti di religione cattolica e di attività didattica e formativa alternativa.
“Un conto è sedere a pieno titolo nel consiglio di classe – recita la sentenza – e concorrere alle sue deliberazioni in ordine alle attribuzioni del credito scolastico, un conto è fornire preventivamente al consiglio di classe elementi conoscitivi; un conto è presenziare e porsi in posizione dialettica nell’ambito dell’organo consiliare, un conto è rassegnare dei meri elementi conoscitivi che dovranno essere apprezzati dai docenti della classe”.
In conseguenza della pronuncia, sono di fatto annullati il comma 2 dell’art.
4 e il comma 3 dell’art.
6 del Regolamento sulla valutazione.

«Neoassunti a Fort Alamo».

Assunti, finalmente.
Con quel contratto a tempo indeterminato in tasca che li salva dalla roulette delle supplenze e dall’ansia per le graduatorie.
Uno se li aspetterebbe carichi di entusiasmo, almeno fiduciosi, come minimo sereni.
E invece i nuovi insegnanti d’Italia giocano già in difesa, avvertono un senso di isolamento, addirittura di arroccamento.
Al punto che la Fondazione Giovanni Agnelli ha scelto un titolo western per lo studio che ne spiega le sensazioni: «Neoassunti a Fort Alamo».
È il terzo anno che la fondazione «interroga» gli insegnanti che hanno appena terminato il primo anno in cattedra dopo l’immissione in ruolo.
Grazie alla collaborazione con gli uffici regionali, hanno risposto in 7.700, dagli asili ai licei, il 96% in dodici regioni.
Un lavorone ma pagina dopo pagina non c’è nemmeno una risposta che indichi un miglioramento.
Rispetto ai loro colleghi entrati in ruolo negli anni precedenti, i neoassunti 2010 faticano di più a mantenere la disciplina: lo ammettono i professori delle superiori (il 53,1% contro il 32,2% di due anni fa) e anche quelli degli asili, raddoppiati in due anni e arrivati al 48,6%.
Moltiplicati per due pure gli insegnanti che non riescono a spingere i ragazzi a studiare: in due anni siamo passati alle elementari dal 20,5 al 42,4%, alle medie dal 36,2 al 53,4%.
Se poi si chiede qual è la causa di questi guai, sembra di sentire una sola voce: tre insegnanti su quattro dicono che la colpa è tutta dello scarso interesse dei ragazzi per lo studio e dell’ancor più scarso valore che le famiglie danno al successo scolastico.
Sul ruolo dei genitori il giudizio è davvero severissimo.
Quattro insegnanti su cinque dicono che è diminuita la stima e la fiducia dei genitori.
E praticamente tutti, si oscilla tra il 96% al 98% a seconda delle regioni, dicono che mamma e papà sono più interessati a proteggere i figli piuttosto che a sapere come vanno a scuola.
«Chiedono di non farli lavorare troppo – sintetizza il direttore della fondazione Agnelli, Andrea Gavosto -, di non dare troppi compiti d’estate o nel fine settimana.
Ma per il resto…».
Insomma, baby sitter e distributori di pezzi di carta più che insegnanti.
In queste condizioni non è certo facile trovare l’entusiasmo necessario.
Anche perché quelli della scuola sono neoassunti molto particolari.
Al momento del passaggio di ruolo in media hanno già lavorato nelle scuole per 10 anni.
Naturalmente da precari, un percorso non sempre formativo e una vera tortura sul piano umano.
C’è il rischio che in alcuni casi, una volta assunto e finito il calvario, l’insegnante possa tirare i remi in barca? «A volte succede» dice Laura Gianferrari, curatrice della ricerca insieme a Stefano Molina e dirigente dell’ufficio scolastico dell’Emilia Romagna.
Secondo lei, però, il vero problema è un altro: «Ormai i ragazzi apprendono seguendo le modalità del pensiero veloce usato con il computer mentre gli insegnanti hanno sempre la stessa cassetta degli attrezzi di una volta: spiegazione, interrogazione, compito in classe…».
Così i ragazzi smanettano con il cellulare sotto il banco.
E i professori si chiudono a Fort Alamo.
Lorenzo Salvia Per la consultazione Fondazione_Agnelli_-_Indagine_Neoassunti_2010_-_Anticipazione.pdf

Tormenti creativi di un giovane rocker

“Ho visto il futuro del rock’n roll e il suo nome è Bruce Springsteen”.
Quando il 22 maggio del 1974, dopo aver assistito a un concerto a Cambridge, in Massachusetts, scrive questa frase, una delle più celebri della storia del giornalismo musicale, Jon Landau è il critico più influente d’America.
Sa che la casa discografica che ha prodotto i primi due dischi del giovane rocker non è soddisfatta, ma lui coglie in quel ragazzo un potenziale che non può andare perduto.
E non si sbaglia.
Springsteen riesce a realizzare Born to Run, che si rivela un successo imprevisto e clamoroso; “Time” e “Newsweek” gli dedicano la copertina la stessa settimana.
È l’inizio di una carriera incredibile e non ancora giunta al capolinea.
Chiunque, poco più che ventenne, avrebbe cavalcato l’onda, continuando sulla stessa strada.
Springsteen no.
Complice una disputa legale con il precedente produttore, che non gli permette di entrare in uno studio di registrazione per tre anni, il cantautore  ha  il  tempo  di  riflettere  sulla sua musica.
E di pensarne una nuova – chiuso nella sua casa di Freehold, New   Jersey,   assieme   alla   storica E-Street Band – segnando una svolta nel suo stile.
Nasce così uno degli album più importanti della storia del rock, Darkness on the Edge of Town.
A quell’indimenticabile esperienza creativa il regista Thom Zimny ha dedicato un docufilm intitolato The Promise:  The Making of Darkness on the Edge of Town, presentato in concorso nella sezione “L’Altro Cinema Extra” al Festival internazionale del film di Roma, proiezione diventata uno degli eventi della rassegna grazie anche all’inattesa e acclamata presenza in sala di Springsteen.
 Ed  è  stato  lo  stesso  Boss  a  spiegare il senso di questa operazione:  “Darkness è il disco che mi ha fatto capire esattamente quale sarebbe stato il mio posto nella musica, quello che ancora più di Born to Run ha avviato il mio dialogo con il pubblico”.
Un dialogo molto personale. “In molti miei dischi – ha aggiunto – racconto la ricerca di un’identità.
Ancora oggi non so chi sono.
Quando registrammo Darkness avevo 27 anni ed ero completamente identificato con la musica che facevo e questo è il motivo per il quale abbiamo lavorato così a lungo.
Le domande essenziali che mi ponevo erano:  da dove vengo? Cosa vuol dire essere figlio? Cosa vuol dire essere americano? Oggi mi domanderei cosa vuol dire essere padre.
Sono domande essenziali.
Poi si trattava di trovare delle storie e spesso sono le storie che scelgono te”.
Nel disco si riflette la necessità di capire, di andare a vedere come stavano le cose.
Una necessità ora più forte dell’istinto di fuga contenuto nel precedente lavoro.
Ma non è facile, perché lo stesso cantautore sembra impaurito da quanto gli sta accadendo.
Teme che il successo possa minare la sua identità.
Sente di essere un provinciale, tuttavia non vede in questo un limite.
Semmai un di più.
Con duemila dollari compra un’auto e con un membro della band va in giro per il Southwest a vedere l’America.
Per raccontarla dal vivo.
Già all’anteprima mondiale a Toronto Springsteen aveva chiarito il perché di questa svolta.
“In studio per Darkness realizzammo più di settanta pezzi e fu difficile scegliere.
Molti dimenticano che in quegli anni c’era stato il punk, e l’America stava attraversando un periodo drammatico:  la guerra del Vietnam era finita da qualche anno ed era come se il Paese avesse perso l’innocenza.
Io ero un ragazzo ambizioso, volevo essere la voce di tutto questo.
Quindi tolsi tutte le canzoni più allegre e lasciai le dieci più toste.
Ne uscì un disco arrabbiato”.
Raccogliendo le testimonianze di tutti coloro che parteciparono a quella stagione irripetibile, attraverso le immagini in uno sgranato bianco e nero in cui Springsteen appare come un adolescente instancabile alle soglie di un’impresa straordinaria, il film racconta con rara efficacia il lavoro creativo di un artista e la genesi di un’opera d’arte:  la quasi maniacale ricerca di un linguaggio narrativo e musicale nuovo, il desiderio di ricreare in studio il sound dei concerti, la profonda aspirazione estetica ed esistenziale, e le urgenze sociali che lo muovevano.
E in questo passaggio l’artista trova una voce adulta, comprendendo che cosa vuole realmente scrivere, quali sono le persone di cui gli importa e chi vuole essere:  “I miei amici e la mia famiglia lottavano per condurre una vita decente e produttiva, e in questo vedevo una specie di eroismo quotidiano”.
Operazione riuscita, se oggi, sessantenne, può affermare che il risultato “è proprio quello che speravo a ventisette anni:  di avere scritto qualcosa che avrebbe continuato a riempirmi di obiettivi e di significati negli anni a venire, che avrebbe continuato ad avere valore sia per me che per voi.
Devo alle scelte che abbiamo fatto allora, e a quel giovane, il dovuto rispetto”.
Questo eccezionale documento – testimonianza di quanto bisogno ci sia di musica di qualità, merce sempre più rara oggi, tanto da dover attingere di continuo a un più solido passato – fa parte di un cofanetto dal titolo The Promise:  the Darkness on the Edge of Town Story, che la Sony ha messo in commercio martedì, con oltre 6 ore di filmati e riprese video inedite, e due ore di musica realizzate nel periodo 1976-1978.
La confezione contiene tre cd – uno con la versione rimasterizzata del disco e due con 21 canzoni per lo più inedite – e tre dvd con il docufilm, altre immagini inedite di Springsteen e la E-Street Band, nonché un video in alta definizione con l’esecuzione dell’album nella sua interezza, registrato appositamente nel 2009 al Paramount Theather di Asbury Park, senza pubblico per ricreare l’atmosfera del disco originale ma suonato con la stessa grinta di un concerto.
Tuttavia la vera chicca per i fan è la riproduzione del block notes sul quale Springsteen annotava i testi delle canzoni, modificandoli di continuo, aggiungendo annotazioni, alla ricerca del mix perfetto di parole e musica.
In parallelo viene pubblicato anche un doppio cd intitolato The Promise contenente solo i 21 inediti, tra cui Because the Night scritta con Patti Smith.
Un nuovo album, in realtà, con atmosfere meno cupe, che Jon Landau, ormai storico produttore del Boss, ha definito il disco di raccordo tra Born to Run e Darkness.
Che l’attenzione su Springsteen sia particolarmente alta in questo momento è testimoniato anche in Italia dalla recente pubblicazione di due interessanti libri, che vanno ad aggiungersi alla già lunga lista di volumi dedicata al rocker.
Marina Petrillo, autrice di Nativo Americano.
La voce folk di Bruce Springsteen (Milano, Feltrinelli, 2010, pagine 296, euro 16), analizza l’impatto sulla cultura statunitense di un cantautore che ha influenzato generazioni di giovani, venduto milioni di dischi e respinto definizioni ed etichette.
Accanto alla fama di animale da palcoscenico, Spingsteen ha maturato una sempre più consapevole identità acustica, divenendo lui – il Boss del rock’n roll – il custode di un’antica tradizione popolare che affonda le radici nel folk.
Una scoperta, questa, che non lo ha sorpreso, ma che gli ha imposto un tono, una scelta.
Non meraviglia, quindi, che i personaggi delle sue canzoni, veri e propri racconti brevi, siano operai, disoccupati, migranti, banditi, reduci di guerra, ex galeotti, attratti e disillusi dal sogno americano:  tutti idealmente figli di Tom Joad, il protagonista di Furore, tutti in fuga dalle terre cattive (Badlands) e alla ricerca della terra promessa (The Promise Land).
Lasciandosi condurre da quella “voce folk”, capace di rievocare i personaggi di Steinbeck, i paesaggi di Faulkner, le ballate di Woody Guthrie senza dimenticare le suggestioni del blues, del gospel e dello spiritual, Marina Petrillo ripercorre l’itinerario umano e artistico di Springsteen.
Per sottolineare che – dai boschi stregati di Nebraska alle esperienze con la Seeger Sessions Band fino all’impegno politico – in quella voce si materializza l’indole di un vero narratore, dalla quale emerge una forte passione civile sfociata in quel Working on a dream divenuto la colonna sonora della campagna elettorale di Barack Obama.
“Attingendo alle radici più antiche dell’America – si legge – e tornando sempre alla scelta di campo che gli hanno imposto le sue origini proletarie, oggi Springsteen si trova in quel pensiero che non si volge a un’idea autodifensiva di comunità, ma piuttosto a una fede nel funzionamento di una sobria vita comune con la sua intrinseca fertilità”.
L’altro volume, Runaway Dream.
Born to Run e la visione americana di Bruce Springsteen, di Louis Masur (Roma, Arcana, 2010, pagine 223, euro 17,50), celebra in particolare i 35 anni dell’uscita dell’album.
A metà degli anni Settanta fu il disco manifesto degli States, di una società dinamica che temeva di vedersi sfuggire di mano il tanto decantato sogno americano.
Attraverso i personaggi che si muovono in quelle storie il giovane cantautore dava voce a quanti avevano poco da perdere, nati per correre, pronti a fuggire verso un futuro migliore, verso una visione diversa di mondo, capace di restituire speranza e una possibilità di redenzione.
Per questo, come sottolinea Masur, Born to Run è molto più di un semplice album rock:  è un’esplosione poetica, un grido di strada che esprime al contempo frustrazione e ansia di libertà.
Runaway Dream racconta la gestazione dell’opera che lanciò Bruce Springsteen nel firmamento della musica mondiale e ne analizza l’impatto sulla cultura statunitense, dimostrando come le immagini della sterminata provincia in essa contenute abbiano sfidato il tempo e siano ancora oggi vivide e potenti, anche se il sogno americano si è infranto.
Spazzato dall’ennesima crisi economica che ha forse riportato quella stessa atmosfera cupa che si coglie nell’album.
(©L’Osservatore Romano – 18 novembre 2010)

Don Milani

Non ricordo con precisione il mio primo incontro con don Milani; nella fase che ha preceduto il servizio militare mi è capitato di approfondire il discorso sull’obiezione di coscienza e credo di averlo incontrato a quell’epoca, leggendo un volumetto postumo, L’obbedienza non è più una virtù, scritto da don Milani insieme ai suoi alunni della scuola popolare di Barbiana.
Confrontandomi con quei contenuti ho scelto poi di farlo, il servizio militare, perché ritenevo di non essere ispirato da passioni sincere per fare obiezione di coscienza.
Forse mi mancavano argomenti sufficienti per sostenere una scelta che a quell’epoca era molto rigorosa.
Un giorno, all’inizio degli anni Novanta, di ritorno da Roma, in un viaggio assieme ad alcuni amici, abbiamo deciso di uscire all’uscita Mugello e di salire a Barbiana: è stato un momento molto forte dopo il quale ho iniziato a leggere e a informarmi maggiormente sull’argomento.
Poi ho incrociato Lettere ad una professoressa.
Quando mi chiedono che libro voglio ricordare sopra ogni altro io non ho nessun dubbio, cito sempre Lettere ad una professoressa; per me è ancora uno stimolo fortissimo.
Leggendolo, capisco che la sostanza diventa vita e le teorie diventano sangue e carne; mi ritrovo ogni volta commosso dall’esperienza di vita di una persona e di questi ragazzini che, insieme, scrivono un testo capace di azzerare ogni certezza e ogni precisa posizione, e così facendo riescono a costruire un’idea fatta di vissuto e di esistenza autentica, che porta dritti all’essenza del ruolo dell’insegnante e della formazione, visti come possibilità di riscatto dei più poveri.
La dedizione totale alla propria missione è, a mio avviso, una testimonianza spendibile da ognuno di noi, a prescindere dalla questione religiosa, che mi interessa relativamente.
In qualità di progettista mi capita spesso di coprire il ruolo del docente, sebbene non sia per me una cosa continuativa; ogni anno ho un corso d’esame e capitano altri lavori presso il Politecnico o altre strutture universitarie.
In queste situazioni la mia tensione è quella di trattare le persone con lo sguardo che potrebbe avere don Milani.
Trovo che sia molto semplice stigmatizzare il difetto, il problema, la mancanza, l’incapacità, l’insufficienza ma è più ardimentoso e più appassionante cogliere il buono da ogni idea, anche se mal espressa.
Questa è la sfida di sempre: credo che nessuno di noi abbia diritto di bocciare e di rimandare gli alunni, come non aveva diritto la professoressa del libro.
All’epoca c’era una scuola classista, nella quale per i figli dei poveri o per chi abitava in montagna era preclusa ogni possibilità di proseguire gli studi; don Milani lo spiega molto chiaramente, dati alla mano, in termini di giornate scolastiche perse da coloro che non avevano accesso.
Gli scolari si perdevano, non andavano più a scuola e interrompevano in anticipo gli studi, spesso venivano bollati come inadatti allo studio, respinti e rimandati nelle fabbriche e nei campi.
Adesso, forse, la situazione del diritto allo studio, grazie anche all’azione di don Milani, è cambiata; purtroppo è cambiata in peggio anche la qualità della scuola italiana.
Le sue passioni avevano a che fare con situazioni molto concrete, dall’organizzazione della scuola popolare, dove quelli più grandi insegnavano a quelli più piccoli, al suo odio verso la ricreazione, vissuta come una forma di impegno che portasse a dimenticarsi il dovere della formazione e per poter affrontare bene il mondo.
Aveva anche scritto a un regista francese per proporgli la trama di un film su Gesù Cristo, per dimostrare che la vita di Gesù Cristo era simile alla vita degli operai; non era solo una questione di fatti evangelici e sacri ma una vita di tristezza e restrizione.
Sosteneva che i poveri, i suoi contadini e operai, andando al cinema potevano uscire con l’idea che Gesù Cristo aveva a che fare con la loro vita.
Aveva scritto a Bernabei, allora presidente della Rai, per chiedere che in televisione fossero insegnate le lingue straniere, perché diceva che i figli degli immigrati che tornavano in Italia non sapevano governare bene la lingua che avevano imparato e voleva che fosse forma di riscatto anche l’insegnamento della lingua inglese o tedesca.
Salendo sulla montagna che porta a Barbiana all’inizio si è molto baldanzosi, la strada è bella, in mezzo ai cipressi; poi c’è un ultimo tratto da fare a piedi.
Di recente mi è capitato di arrivarci all’ora del crepuscolo, cominciava a fare freddo e quella tipica energia da gita in montagna, allegra, si era smarrita, lasciando il posto a una desolazione completa.
Si vedono la canonica e il piccolo cimitero in cui è sepolto.
Così ci si può ricondurre veramente allo spirito della sua lezione, alla volontà di mantenere tutto inalterato.
Il suo allievo prediletto, che lui ha accolto come un figlio, Michele Gesuardi, in seguito diventato presidente della provincia di Firenze, ha voluto mantenere Barbiana inalterata; per fortuna don Milani non è diventato un’icona nel mondo della chiesa cattolica, ma è rimasto una figura scomoda, scomoda per tutti.
A Barbiana non ci sono chioschi che vendono bibite, non c’è la santificazione che si percepisce quando si va in pellegrinaggio a Pietrelcina.
Ancora oggi è un paese difficile da raggiungere, proprio come il suo ispiratore.
Visitando la terra in cui ha vissuto e operato, e naturalmente leggendo i suoi libri, si producono sempre dei dubbi.
Don Milani, per me, resta un meraviglioso generatore di dubbi.
in “Il Sole 24 Ore” del 14 novembre 2010

Verbum Domini

Una “cattedrale” della Parola di Dio, con meravigliose vetrate aperte sul mondo; un trattato complesso ma fruibile da tutti, che si muove seguendo il filo d’oro di quel capolavoro teologico e letterario che è il prologo del Vangelo di Giovanni.
È l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini di Benedetto XVI, presentata questa mattina, giovedì 11 novembre, nella Sala Stampa della Santa Sede.
Frutto dei lavori della dodicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi – svoltasi dal 5 al 26 ottobre 2008 sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” – il documento è diviso in tre parti:  Verbum Dei, Verbum in Ecclesia, Verbum mundo, racchiuse da una Introduzione che ne indica gli scopi e una Conclusione che ne sintetizza le idee portanti.
Invitati a descriverne il contenuto il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi e relatore generale di quel Sinodo, che l’ha riletta soprattutto alla luce del “paradigma mariano della rivelazione”; l’arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, che ne ha sintetizzato la struttura e i contenuti; il sotto-segretario dello stesso dicastero, monsignor Fortunato Frezza, che ne ha evidenziato gli aspetti connessi alla liturgia; e l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura e presidente della commissione per il messaggio a quello stesso Sinodo, che ne ha offerto una chiave di lettura indicando i tre orizzonti verso i quali orientarsi:  l’ermeneutica, la casa o meglio la chiesa nella quale si comunica la Parola, e la strada, cioè il mondo nel quale la Parola si diffonde.
Il documento – ha fatto notare Ravasi – “inizia e termina con la parola gioia.
Un chiaro invito a riscoprire questo sentimento in un periodo come il nostro dominato dalla caduta dell’etica”.
  Verbum Domini   Conferenza Stampa di presentazione dell’Esortazione Apostolica postsinodale di Sua Santità Benedetto XVI (©L’Osservatore Romano – 12 novembre 2010)

Per comprendere meglio le innovazioni

APPENDICE INFORMATIVA La domanda di iscrizione La data entro cui bisogna presentare la domanda di iscrizione alle scuole dell’infanzia e del primo ciclo varia ogni anno, per il 2010 era fissata al 27 febbraio.
Per le superiori il periodo per iscriversi era fissato dal 27 febbraio al 26 marzo 2010, per consentire alle famiglie di comprendere a fondo i cambiamenti della riforma appena varata.
Di norma, però, le iscrizioni vengono raccolte a partire dall’anno nuovo.
Obbligo scolastico Con “obbligo scolastico” si intende il periodo durante il qualel’istruzione non è facoltativa, ma obbligatoria.
Per legge l’istruzione obbligatoria è impartita per almeno dieci anni: inizia a sei, con l’iscrizione alla primaria, e termina a sedici.
L’obbligo si considera soluto anche con la frequenza di uno tra i corsi di istruzione a formazione professionale che vengono organizzati e gestiti direttamente dalle Regioni: durano tre anni e alla fine del percorso viene rilasciata una qualifica professionale.
Tra i 16 e i 18 anni l’obbligo diventa “diritto-dovere” di istruzione e formazione.
Ci sono, però, alcune recentissime novità: a gennaio la Commissione Lavoro della Camera ha dato il via libera al Ddl, collegato ala Finanziaria 2009-2013.
che prevede, tra le varie misure, la possibilità di assolvere l’ultimo anno di obbligo scolastico (che rimane comunque invariato ai sedici anni di età) con l’apprendistato.
La norma rilancia uno strumento contenuto nella legge Biagi e riconosce l’apprendistato come mezzo per “espletare il diritto-dovere di istruzione e formazione”.
Chi l’ha voluto – il Ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e il relatore Giuliano Cazzola (Pdl) – ne parla come di “un’opportunità in più offerta a quei 126 mila giovani tra i 14 e i 16 anni (il 5,4%), che superata la scuola media non studiano e non lavorano.
Oppure, talora lavorano in nero”.
Per verificare che tutti i bambini e ragazzi soggetti all’obbligo frequentino effettivamente la scuola, ogni anno il sindaco di ciascun comune deve trasmettere l’elenco dei nomi (in base ai dati anagrafici), che andrà confrontato con il registro degli iscritti negli istituti statali e paritari.
I genitori (o chi ne fa le veci) sono considerati responsabili, di frontealla legge, dell’adempimento dell’obbligo: il che significa, ad esempio, che qualsiasi tipo di assenza nel corso dell’anno dev’essere giustificata.
Sulla carta esisterebbe un limite massimo di assenze oltre il quale si perde automaticamente il l’anno: le assenze secondo il Dlgs 59/04, non dovrebbero oltrepassare un quarto dell’orario annuale personalizzato, fermo restando che “per casi eccezionali le istituzioni scolastiche possono autonomamente stabilire motivate deroghe al suddetto limite”.
Regole più rigide, invece, alle superiori.
Come spiega il nuovo regolamento sulla valutazione, a decorrere dall’anno scolastico di entrata in vigore della riforma della scuola secondaria di secondo grado (e cioè il prossimo), ai fini della validità dell’anno scolastico, compreso quello relativo all’ultimo anno di corso, per procedere alla valutazione finale di ciascuno studente è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale.
Le istituzioni scolastiche possono stabilire, per casi eccezionali, analogamente a quanto previsto per il primo ciclo, motivate e straordinarie deroghe a condizione, comunque, che tali assenze non pregiudichino la “possibilità di procedere alla valutazione degli alunni interessati”.
Il mancato conseguimento del limite minimo di frequenza comporta l’esclusione dallo scrutinio finale e la non ammissione alla classe successiva.
Lo stesso vale per chi frequenta l’ultimo anno: i maturandi “assenteisti” non potranno accedere all’esame finale e saranno costretti a ripetere l’anno.
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La nuova scuola del primo ciclo

LA SCUOLA DELL’INFANZIA La scuola dell’infanzia è il “primo segmento del percorso di istruzione” nella vita di una persona.
Si rivolge a tutti i bambini italiani e stranieri di età compresa fra i tre e i cinque anni.
Ha durata triennale e non è obbligatoria.
I suoi obiettivi: “Concorre all’educazione e allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo, morale, religioso e sociale dei bambini promuovendone le potenzialità di relazione, autonomia, creatività apprendimento, e ad assicurare un’effettiva eguaglianza delle opportunità educative”.
Nel rispetto della responsabilità educativa dei genitori, la scuola dell’infanzia contribuisce alla formazione integrale dei bambini e realizza la continuità educativa con la scuola primaria.
LA SCUOLA PRIMARIA La scuola primaria è il primo segmento di istruzione obbligatoria.
Segue la scuola dell’infanzia e precede la secondaria di primo grado.
Si svolge in cinque anni e fornisce al bambino non solo l’alfabetizzazione, ma anche gli strumenti per sviluppare le competenze di base.
Le materie insegnate sono italiano, inglese, storia, geografia, matematica, scienze, tecnologia e informatica, arte, musica, scienze motorie e religione cattolica (non obbligatoria).
LA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO La scuola secondaria di primo grado è la “vecchia” scuola media.
Il nuovo nome è stato introdotto dalla riforma Morati, nel 2003.
dura tre anni e la frequenza è obbligatoria.
Rappresenta la chiusura del primo ciclo dell’istruzione, e si conclude con l’esame di Stato per la licenza: di fatto, l’unica prova sopravvissuta nella scuola dell’obbligo.
La licenza di terza media è il prerequisito fondamentale per iscriversi alla secondaria di secondo grado.
Rispetto alla scuola elementare, ci sono ovviamente differenze nella didattica: se prima l’attenzione era rivolta agli elementi base della conoscenza, ora i bambini vengono messi di fronte a un corpo di discipline più strutturato e approfondito.
Il numero di materie aumenta, insieme con quello dei docenti, che sono tutti specialisti nel proprio settore.
Alla media, inoltre, viene introdotto l’insegnamento della seconda lingua comunitaria.
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La sfida della Spagna dai due volti

Il viaggio di Benedetto XVI in Spagna sembrava una combinazione occasionale tra due inviti.
Invece è stato un messaggio unitario: la visita alle due Spagne (quella cattolica e quella moderna e laica).
Santiago rappresenta la prima.
Barcellona, città europea in sviluppo e di grande turismo, esprime la Spagna laica.
Le due Spagne si fronteggiano sulla visione del futuro, sulla famiglia, sulla religione.
Dietro di loro sta la memoria della guerra civile.
Nel sistema politico spagnolo o vince l’una o l’altra.
La sfida è irriducibile e più profonda della politica.
In aereo, il Papa ha definito la Spagna come «Paese originario del cristianesimo».
Ma ha aggiunto correttamente: «In Spagna è nata anche una laicità, un secolarismo, forte e aggressivo, come abbiamo visto negli anni Trenta».
Il  Papa non si è gettato nel conflitto.
Non ha nemmeno adattato irenicamente il suo messaggio.
Ha confermato però il passo lieve, non incerto, con cui venne a Valencia nel 2006, quando Zapatero era quasi agli inizi.
Si è presentato con ingenuità sapiente.
Sa che «questo scontro tra fede e modernità, ambedue molto vivaci, si realizza anche oggi di nuovo in Spagna».
Eppure gli europei — come diceva Benedetto Croce — non possono non dirsi cristiani; ma sono anche figli di una storia «laica».
Per Benedetto XVI la tragedia europea è «la convinzione che Dio è l’antagonista dell’uomo e il nemico della libertà», ha detto.
Di questo antagonismo il Papa misura tutta la profondità culturale, antropologica e politica.
Con ingenuità, non da antagonista, ha parlato della bellezza del cristianesimo.
Lo ha fatto con un modo che sfugge all’ autoreferenzialità di tanti discorsi ecclesiastici in Europa, incapaci di superare le soglie delle chiese.
Proprio nella moderna Barcellona, la città spagnola più lanciatasi dopo il franchismo nella sfida della crescita, è venuto in aiuto al Papa il genio laico e credente di Antoni Gaudí.
Il grande architetto catalano ha gettato le basi del più importante monumento religioso dell’Europa contemporanea, la Sagrada Familia.
Morto nel 1926, ha lasciato alle generazioni successive l’impegno di completare una chiesa che, a un pensiero utilitaristico, appariva interminabile e grandiosa.
Fortunatamente la passione catalana ha perseverato nella costruzione.
Benedetto XVI ha individuato nell’opera «carismatica» di Gaudí il superamento della «scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana… tra la bellezza delle cose e Dio come Bellezza».
La basilica parla della Sacra Famiglia, tema caro ai cattolici per la difesa della famiglia, ma anche emblematico per esprimere i legami nella comunità nazionale e tra i popoli.
Benedetto XVI ha invitato a difendere famiglia, vita, natalità.
Ha chiesto «che in questa terra catalana si moltiplichino e consolidino nuovi testimoni di santità».
Anche all’autonoma Catalogna ha additato un futuro cristiano.
Benedetto XVI non vuole adattare la Chiesa all’agenda della modernità.
Ma non ci si può solo combattere.
In qualche modo bisogna varcare le frontiere e compenetrarsi.
Non è storia di un giorno o un accordo politico.
Il «grande disegno» di papa Ratzinger sembra come la Sagrada Familia, iniziata nel 1883: non solo per i tempi lunghi della costruzione, ma per la convinzione che la bellezza sia decisiva nel cristianesimo.
L’idea di bellezza parla di una Chiesa non minimalista e alla rincorsa dei tempi, ma nemmeno arcigna e antagonista.
Nel quadro solenne della consacrazione della chiesa, Benedetto XVI è stato chiaro: «Questo è il grande compito, mostrare a tutti che Dio è Dio di pace e non di violenza, di libertà e non di costrizione, di concordia e non di discordia».
La Chiesa dev’essere bella, come la Sagrada Familia, «in un’epoca in cui — ha detto — l’uomo pretende di edificare la sua vita alle spalle di Dio, come se non avesse più niente da dirgli».
C’è un messaggio al mondo, ma ce n’è un altro esigente per la Chiesa: che sia «icona della bellezza divina».
Sono due sfide in una Spagna divisa in due, per un Papa tenace.
in “Corriere della Sera” dell’8 novembre 2010