L’annuario 2010 sull’IRC

L’annuario 2010 sull’IRC, curato dal Servizio Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per l’Insegnamento della Religione Cattolica, fotografa la situazione della scuola statale per l’anno 2009-10, dalla quale emerge il dato degli alunni che non si sono avvalsi dell’insegnamento RC.
Rispetto all’anno scolastico precedente sono aumentati di un punto percentuale, toccando complessivamente il 10% del totale alunni (gli avvalentesi dell’Irc sono passati dal 91% del 2008-09 al 90% del 2009-10).
Più esattamente nei diversi settori scolastici quel 10% di alunni non avvalentesi ha toccato queste percentuali: nella scuola dell’infanzia il 7,5% (+0,7 rispetto all’anno prima), nella scuola primaria il 6,3% (+ 0,5), nella secondaria di I grado l’8,4% (+ 1,0) e nella secondaria di II grado il 16,5% (+ 1,8).
Si tratta per tutti i settori delle percentuali più alte raggiunte dal 1993-94, con incrementi graduali e costanti che sono andati quasi di pari passo con l’aumento di alunni stranieri appartenenti ad altre religioni e che, in molti casi (non sempre), non si sono avvalsi dell’Irc.
Ma non avvalersi dell’Irc non significa avvalersi di attività didattiche e formative alternative.
Questa possibilità è in costante calo: 8,2%, il più basso in assoluto da anni; il resto degli studenti si è suddiviso tra studio assistito (18,5%), studio non assistito (25,5%) e poco meno della metà (47,8%) ha scelto l’uscita dalla scuola.
Prendendo in esame quel 16,5% di studenti non avvalentesi negli istituti di istruzione secondaria superiore, vi è però la sorpresa che riguarda i docenti di attività alternativa.
Infatti solo il 4% dei non avvalentesi ha partecipato ad attività didattiche e formative alternative, quelle, cioè affidate a docenti di attività alternative.
Il 4% del 16,5% vuol dire un magro 0,66% finale di studenti delle superiori che scelgono attività alternative.
E vuole dire anche che i docenti di attività alternative, proprio nel momento in cui ottengono il pieno titolo per partecipare alla valutazione degli studenti per i crediti scolastici, calano di numero e, forse, di importanza.
tuttoscuola.com  È iniziato da qualche giorno l’ultimo quadrimestre di questo primo anno scolastico di riforma delle superiori e milioni di ragazzi viaggiano già verso la conclusione del 2010-11 preparandosi ad affrontare le forche caudine dello scrutinio finale con alcune nuove regole sulla valutazione (validità dell’anno scolastico con la frequenza di almeno tre quarti del monte ore annuo), applicate per la prima volta anche per tutti gli studenti degli istituti superiori.
Recentemente il Tar Lazio, con una sentenza passata in giudicato e contro la quale il Miur non ha interposto ricorso al Consiglio di Stato, ha riconosciuto pieno titolo ai docenti di attività alternative a partecipare agli scrutini finali per la determinazione dei crediti scolastici nelle classi degli istituti superiori, allo stesso modo dei docenti di Irc (Religione cattolica).
Probabilmente, mancando i tempi necessari per correggere il Regolamento sulla valutazione (dpr 122/2009) che aveva, invece, previsto per quei docenti la non partecipazione di persona alla valutazione finale con la sola possibilità di inviare documentazione allo scrutinio, il ministero dovrà trovare un altro strumento amministrativo per recuperare il pieno titolo dei docenti di attività alternativa già dai prossimi scrutini finali.
Si parla, in proposito, di inserire il dispositivo in una prossima ordinanza sugli esami oppure in un decreto ministeriale ad hoc.
In ogni modo questo riconoscimento del pieno titolo sarà un modo per dare visibilità e riconoscimento ad una figura professionale poco definita e “semiclandestina” come il docente di attività alternative.
Attività alternative: Come? Dove? Quanti? Per saperne di più è possibile consultare l’Annuario, curato dal Servizio Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per l’Insegnamento della Religione Cattolica, da cui si rileva che per la prima volta la percentuale di alunni che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica ha toccato la percentuale complessiva del 10%.
tuttoscuola.com

Dispersione scolastica italiana: “disastro educativo”,

Recentemente il ministro del lavoro Sacconi non ha usato mezzi termini nel giudicare la dispersione scolastica italiana come un vero e proprio “disastro educativo”, quantificato, dallo stesso ministro, in 46 mila studenti all’anno, secondo fonti del ministero dell’istruzione.
Una quantità di “dispersi” che può sembrare alta, ma che, invece, purtroppo, è ben lontana dalla realtà, come ha potuto accertare Tuttoscuola, che a questo tema dedica uno speciale sul numero di marzo della rivista cartacea.
Se si prendono, ad esempio, i dati degli studenti negli istituti statali superiori degli ultimi due anni scolastici (ma il confronto si può fare anche su altre annate precedenti) e si calcola quanti di loro non risultano più presenti l’anno dopo nella classe successiva a quella frequentata, si ha questo dato: nel 2009-10 in seconda ci sono stati 71.957 studenti in meno di quelli che c’erano in prima dell’anno precedente in prima (2008-09); in terza ci sono stati 25.440 studenti in meno di quelli di seconda dell’anno 2008-09; in quarta 48.387 meno di quelli di terza dell’anno prima e, infine, in quinta 45.614 meno di quanti ce n’erano in quarta l’anno precedente, per un totale di 191.398 “dispersi”.
Tutti gli anni precedenti è stato più o meno così, tra i 208 mila e i 173 mila “dispersi”, e non ripetenti che comunque sarebbero arrivati prima o poi in ritardo.
Proprio dispersi, almeno per la scuola statale.
Di quei 190 mila che mediamente ogni anno nell’ultimo decennio scompaiono ogni anno dal percorso dell’istruzione statale, una quota non si perde del tutto, perché 60-70 mila passano alla non statale o alla formazione professionale.
Ma gli altri 120 mila (altro che i 46 mila di Sacconi!) sono usciti da qualsiasi percorso scolastico o formativo.
Volete la controprova? Prendiamo i dati Eurostat della Commissione europea, da cui emerge che nel 2008 il 19,7% dei nostri 18-24enni in possesso al massimo della licenza media si è disperso senza percorrere altri percorsi scolastici o formativi.
Nel 2008 i 18-24enni erano in tutto, secondo i dati Istat, quasi 4,3 milioni e il 19,3%, cioè i dispersi, sono stati quindi 847 mila che, distribuiti su ognuna delle annate 18-24 anni fanno una media annua di 121 mila dispersi.
Appunto.
Come abbiamo rilevato sopra con altra modalità di calcolo.
È davvero un disastro educativo, un’emergenza da allarme rosso, per il quale occorrerebbero presto riforme di strutture adeguate.
Ma il nostro Paese sembra in ben altre questioni affaccendato.
tuttoscuola.com

Lettura «distorta» dei dati relativi al numero di studenti che si avvalgono dell’IRC

Insegnamento di religione: il 90% degli studenti se ne avvale Ancora una volta l’Insegnamento della religione cattolica finisce agli onori della cronaca grazie a una lettura «distorta» dei dati relativi al numero di studenti che si avvalgono dell’insegnamento stesso.
«Un crollo» nella scelta dell’Irc, scriveva ieri il sito di un quotidiano nazionale, portando come fonte niente meno che l’annuale ricerca condotta dall’Osservatorio religione del Triveneto, l’Annuario dell’ora di religione».
Un crollo che, però, «non frena l’aumento degli insegnanti di religione».
Un fenomeno che porta addirittura una parlamentare radicale a presentare un’interrogazione al ministro della Pubblica Istruzione.
«In realtà quella ricerca andrebbe letta nella sua interezza – commenta Nicola Incampo, esperto di questioni legati all’Irc – e si scoprirebbe una situazione ben diversa».
In primo luogo l’Annuario (la cui prima edizione risale all’anno 1993/94), «ha visto crescere nel tempo la copertura del territorio nazionale, che nell’ultima edizione è salita al 92,4% delle diocesi».
Questo aumento di copertura ha comportato anche il fatto di evidenziare un fenomeno importante come quello della immigrazione e della presenza di studenti di cittadinanza non italiana, le cui famiglie spesso sono originarie di Paesi non cristiani.
«Un fenomeno che si è via via evidenziato partendo dalla scuola dell’infanzia e che ora si presenta anche in quella superiore» sottolinea Incampo.
E proprio la presenza di questi studenti porta spesso all’aumento (tra l’altro contenuto) dei non avvalentesi dell’insegnamento.
Del resto va ricordato che oggi ben il 90% complessivo degli studenti chiede di avvalersi dell’ora di religione.
Altra questione «l’incremento degli insegnanti di religione che riguarda solo la scuola primaria e quella dell’infanzia – spiega Incampo –.
Vorrei ricordare che la revisione del Concordato del 1984 ha previsto che il maestro di classe non fosse più obbligato a insegnare religione.
Questo significa che il maestro per impartire detto insegnamento, deve dichiarare la propria disponibilità all’inizio di ogni anno scolastico.
Già da qualche anno, con l’entrata in vigore della riforma della primaria, nelle classi dove il maestro dichiarava la propria indisponibilità all’insegnamento della religione cattolica entrava lo specialista di religione cattolica».
Ma anche in questo caso va ricordato che ben il 92,5% degli alunni nella scuola dell’infanzia, e il 93,7% di quella primaria si avvalgono dell’insegnamento.
Cifre che parlano da sole sull’importanza che la materia riscuote presso le famiglie, anche non italiane.
Enrico Lenzi Avvenire 18 02 2011

Dionigi Tettamanzi: «La politica è lontana dalle persone»

L’intervista «Da tempo la politica italiana appare più concentrata a far parlare di sé che non a occuparsi delle difficoltà che le persone concrete incontrano».
In un’intervista al Corriere, l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, chiede a chi governa di dare «esempio di sobrietà».
Il cardinale Tettamanzi ha da poco concluso gli incontri con gli amministratori locali: nella diocesi di Milano i temi della crisi sono al centro di molte domande, i tempi sono difficili per tutti, la fatica di vivere investe i giovani senza speranza, gli stranieri senza cittadinanza, i lavoratori senza lavoro, le famiglie divise, le persone sole.
Per chi ha una responsabilità pubblica ci sarebbe molto da fare e molto da dare, ma in questi giorni la politica nazionale sembra rovesciare priorità e necessità.
Anche dal Duomo, oltre che dal Quirinale, si vede il rischio del baratro.
Tra risse istituzionali e personalismi, certe cronache sembrano uscire da uno stagno.
E non è ancora finita.
Eminenza, lei non crede che tutto questo aumenti il senso di sfiducia nei confronti di chi dovrebbe aiutarci a uscire dalla crisi? «Quello che leggiamo da troppi mesi nelle cronache politiche nazionali non rispecchia certo i veri problemi del Paese.
Da tempo la politica italiana appare più concentrata a far parlare di sé che non a occuparsi delle difficoltà che le persone concrete incontrano.
Gli amministratori, e i politici in genere, non devono perdere il legame vitale con la gente, con il Paese.
Solo così, se la gente si sentirà realmente ascoltata e rappresentata, il senso di sfiducia sempre più marcato si trasformerà nell’affidamento responsabile dei cittadini alle istituzioni e agli uomini che le animano, le rappresentano, le governano.
Sta poi ai politici rispondere adeguatamente a questa fiducia con un’azione che abbia di mira la ricerca e la costruzione del bene comune.
Dal mondo politico però «vengono esempi negativi da figure che dovrebbero avere un’alta responsabilità morale».
Condivide le parole del cardinal Bagnasco? «Come faccio a non condividerle? Il dovere dell’esemplarità non riguarda solo i politici, bensì tutte le persone che hanno incarichi pubblici, che sono chiamati a guidare il Paese, a essere un riferimento per le persone, che rappresentano la nazione, all’interno e all’esterno.
Gli uomini che governano le istituzioni sono il volto delle istituzioni.
Per questo la sobrietà deve essere una nota di stile caratteristica e visibile.
Deve emergere dal tipo di linguaggio che si usa, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere, nello stile di vita.
I cittadini hanno il diritto di attendersi da chi li rappresenta la correttezza di comportamento, l’esemplarità nel pubblico e nel privato.
Condotta morale e vita pubblica, nel caso di chi abbia responsabilità istituzionali, non possono essere scisse.
Non c’è un po’ di disorientamento negli uomini di Chiesa davanti a certi fatti di moralità discutibile che anche una parte della stampa cattolica stigmatizza? «Compito della Chiesa in ambito sociale non è stigmatizzare o approvare, bocciare o promuovere.
La Chiesa è al servizio del bene autentico dell’uomo, desidera accompagnare ogni uomo all’incontro con Cristo, verità e pienezza dell’umano.
Un  accompagnamento che avviene mostrando i valori cui occorre tendere, testimoniandoli e vivendoli per primi, realizzando le condizioni affinché questi valori possano essere compresi, perseguiti, vissuti.
La Chiesa, quando interviene in ambito sociale, lo fa per domandare che si realizzino le condizioni affinché questi valori fondamentali dell’uomo — che gli permettono di essere quello che è — possano essere realmente perseguiti.
Quali sono queste condizioni? «Mi spiego: se una persona non gode delle condizioni minime per sostenersi, istruirsi, mantenere la propria famiglia, come potrà realmente e pienamente vivere quei valori in cui crede? Il compito che la Chiesa è bene oggi dia alla politica non è quello di un protagonismo da “soggetto partitico” bensì quello di richiamare, incoraggiare, sostenere gli uomini politici e delle istituzioni a occuparsi del bene comune, a essere veri uomini di Stato.
Il Papa ha usato un’immagine forte per dipingere questo clima di decadenza: ha evocato la caduta dell’impero romano.
Siamo davvero a un punto così basso? «Il Papa ci aiuta e ci sprona a prendere consapevolezza del momento presente, a comprendere la realtà oltre i fatti della cronaca.
La questione decisiva non è tanto misurare quanto siamo “caduti in basso”, bensì renderci conto che la situazione è grave, c’è scarsa consapevolezza del presente, non c’è una visione adeguata dei bisogni più veri delle persone, delle realtà sociali, economiche, produttive, educative… Mancando questa visione e tensione complessiva verso il bene comune il rischio è che ciascun soggetto, singolo o comunitario, si rinchiuda in se stesso, si arrangi come può, cerchi il proprio interesse a ogni costo, anche a danno degli altri, frammentando ulteriormente il Paese».
Sente il peso di un’eredità sempre più povera, anche dal punto di vista educativo, che viene lasciata ai giovani? «C’è un punto di partenza sicuro e irrinunciabile per superare questa povertà: la famiglia, il primo e potenzialmente il più potente luogo di educazione per i più giovani.
La famiglia va sostenuta: perché i genitori possano mettere al mondo i figli che desiderano, perché possano mandarli a scuola, perché possano conciliare il tempo del lavoro con quello da dedicare alle relazioni domestiche.
La Chiesa italiana per il prossimo decennio vuole porre l’attenzione proprio sulla questione educativa».
Poco più di un anno fa, lei chiedeva un sussulto morale a Milano, un cambio di marcia per reagire alla crisi economica e alla rassegnazione.
Per dare l’esempio, ha fatto qualcosa di concreto: ha creato un Fondo per i nuovi poveri.
Come ha reagito la città? «La propensione alla solidarietà dei milanesi non è una novità.
Di nuovo oggi vedo la crescente consapevolezza che tutti siamo responsabili di tutti, che la solidarietà è un dovere morale, una questione di giustizia, un’esigenza prima che un atto di bontà.
Uno dei picchi nelle donazioni al Fondo famiglia lavoro si è avuto nei giorni vicini all’ultimo Natale, proprio in corrispondenza del periodo più duro da quando siamo nella crisi economica.
I consumi si sono contratti, le spese per i doni sono diminuite, ma le offerte al Fondo sono aumentate».
Come se lo spiega? «Perché in molti è vivo il senso di responsabilità verso chi è in difficoltà, perché molti hanno capito che aiutare chi è nel bisogno non è solo compito dello Stato, ma di ciascuno.
Attorno al Fondo famiglia lavoro si sono mosse tante persone che non si sono tirate indietro e hanno voluto fare la propria parte, dimostrandosi consapevoli che la carità e la gratuità sono ciò che fonda e assicura una vita piena, vera, buona e bella.
Dal basso, Milano ha dimostrato di essere una città solidale.
C’è una società minuta che cerca di fare il proprio dovere, nonostante tutto.
Ma non le sembra che i tanti che si impegnano scarseggino di punti di riferimento? «Non mancano le persone che conducono un’esistenza all’insegna della responsabilità, verso di sé, verso la propria famiglia e verso gli altri: a ogni livello e in ogni situazione sociale.
Quello che scarseggia è la capacità di fare rete, di fare sistema, di rendere istituzione quel senso di responsabilità verso gli altri e che corre il rischio di essere solo un’ottima qualità personale.
In questo senso è da leggere la proposta di realizzare dei cantieri sociali, come proponevo nell’ultimo discorso di sant’Ambrogio».
Si parla di ricostruire i ponti, tra chi fa buone azioni e chi ha la possibilità di amplificarne la loro portata.
Ma chi sostiene oggi le tante formichine che non si arrendono? «C’è un’Italia che ce la fa, che ha coscienza della propria identità, che ha solidi legami con il territorio, che attraverso il proprio lavoro cerca la propria realizzazione, il soddisfacimento dei propri bisogni e, al tempo stesso, vuole offrire un contributo al bene complessivo del Paese.
Mi colpisce in particolare, quanto emerge da una ricerca dell’Istituto Sturzo coordinata dal professor Mauro Magatti che sta scoprendo, identificando e studiando un’Italia generativa.
Ci sono aziende, formichine ma anche leoni, che funzionano, persone che hanno idee imprenditoriali di successo, territori attivi: solo che non sono visti, non sono compresi, non entrano nelle reti sociali.
Mettiamo in relazione tra loro le forze positive del Paese.
L’Italia ha bisogno di ripartire».
Tra i suoi messaggi verso gli ultimi, c’è stata la visita al campo rom di via Triboniano, a Milano.
Il cardinale con i piedi nel fango è un’immagine forte: gli zingari sono materia che scotta.
Perché è andato in quel bivacco? «Sono stato al campo rom di via Triboniano nell’ambito di una serie di gesti che ho compiuto nei giorni di Natale per mostrare l’impegno e l’attenzione necessari nei confronti dei più piccoli.
Ho pregato in quel campo affinché si possa giungere a condizioni di vita più umane per quei bambini e per tutti i bimbi nella nostra città.
L’integrazione è possibile grazie all’impegno di tutti, nel rispetto della legge, nella tutela dei diritti di cui ogni persona è nativamente portatrice.
Ricordo in quel campo rom l’incontro con la piccola Tsara, tetraplegica dalla nascita, accudita in una baracca, che non può avere cure adeguate perché non ha accesso alla cittadinanza.
Che colpa ha lei? La questione dei rom, come le altre questioni spinose che colpiscono le nostre città, sono da affrontare insieme, responsabilmente, con tutte le parti, per iniziare a risolverle, non per agitarle strumentalmente per catturare consensi».
«Famiglia Cristiana» ha scelto lei come l’italiano del 2010: al servizio della verità, anche se costa.
Il suo impegno nel sociale le ha portato anche critiche, dal mondo politico.
Quali attacchi le hanno fatto più male? «Quando parlo dei bisognosi, degli ultimi, degli emarginati, di chi non ha una casa, di chi ha fame, non mi preoccupo di essere accusato o incensato.
Un cristiano, un vescovo deve seguire il Vangelo.
L’unico criterio del mio agire è la fedeltà alla parola del Signore, il Vangelo.
Anche quando fare ciò è scomodo, anche quando impone un prezzo da pagare».
in “Corriere della Sera” del 13 febbraio 2011

Una teologa della salvezza.

Conoscevo Adriana Zarri dai libri e dagli articoli, ma l’ho incontrata soltanto durante la campagna sul referendum contro l’aborto.
Difendeva la libertà per una donna di rifiutare la gravidanza non perché la condividesse, ma per avvertire le credenti che nulla nelle scritture poteva essere invocato contro di essa.
Ricordo la sua persona nel mio studio, nell’unica sfondata poltrona del «manifesto», esile, diritta, i capelli rialzati, in un pomeriggio romano.
Poco dopo – veniva spesso a Roma – m’invitò al Molinasso, dove è stato scritto Erba della mia erba, e la prima volta che salii a Torino mi presi un giorno di piú per raggiungerla.
Il Molinasso era una cascina, forse un vecchio mulino, appena fuori della strada fra le colline attorno a Ivrea.
Stava su un poggio, isolato, lontano qualche chilometro dall’aggregato piú prossimo, in vista di un’unica altra cascina che si presumeva abitata per avervi intravvisto qualche luce.
Vi si accedeva da un sentiero tra l’erba, qualche rovo e un ruscello, era un’antica costruzione contadina, semplice, armoniosa, con un portone ancora orlato di marmo, e subito la scala che saliva al piano.
La scala finiva in una stanza abbastanza grande, con una stufa a legna e un gatto e le finestre che si aprivano su un orizzonte ondulato fin alla linea azzurra delle montagne.
Non si vedeva anima viva.
Adriana aveva lasciato le scarpe e gli abiti di città per gli zoccoli, un vasto grembiule su una vasta gonna, scuri come quelli delle contadine, e mi guidò nei suoi domini chiamando con il loro nome le piante, gli ortaggi e gli animali – i morbidi conigli che si lasciavano tirar su per le orecchie e i rumorosi polli, fra i quali pescò qualche uovo.
In quel silenzio e nel calare della sera parlammo a lungo, e cosí fu sempre quando potevo arrivare.
Prima di cena mi chiedeva se volevo assistere a una sua preghiera, che era di solito una lettura di qualche passo dell’antico Testamento, di quelli dove Dio è indulgente, al massimo un poco geloso – vuoi leggere tu? e io leggevo – qualche minuto di silenzio (lei non amava la parola che mi parve giusta, raccoglimento) e poi a tavola, non senza gustare un bicchiere di vino.
Attorno, verso il buio, vecchi mobili contadini, qualche arnese agricolo ormai fuori uso, qualche vaso con fiori o foglie o bacche delle prime brume dell’autunno.
Era la povertà della quale i poveri diffidano, perché non c’era nulla che non avesse una sua bellezza.
Ricordo di un trauma Del Molinasso m’era rimasta la persuasione che sarebbe stato per sempre, e che era tutto quel che ad Adriana occorreva, né molto né poco.
Lo aveva trovato, credo, nel 1975 e non so quante volte vi salii, almeno una volta l’anno per molti anni, per uno o due giorni di pace.
Né lei cercava di convertirmi, anche perché convinta che tutti saremo salvati, ci piaccia o no, né io di dissuaderla da quel che non provavo; ognuna ascoltava l’altra; solo una volta, dicendomi quanto amava questo mondo fatto da Dio (si doleva che lo scrivessi con la minuscola), aggiunse che non avrebbe potuto ccettare la morte se non avesse creduto alla resurrezione.
Ma restammo là, e d’altronde c’era poco da commentare.
La notte mettevamo fuori il micio, chiamato Malestro per qualche giovanile misfatto, e ci ritiravamo presto, io a leggere e lei a scrivere perché di giorno non aveva tempo.
L’orto, le piante e gli animali cui badare, la corrispondenza, le telefonate, il riporre o pescare dal cassone refrigerato le provviste, il muoversi ordinatamente in uno spazio vasto e che a me pareva disordinato, insomma soltanto a ora tarda era in grado di lavorare.
A quel tempo non la aiutava nessuno.
Quando doveva mettersi nella sua vecchia macchina o saltare in un treno per combattere il nemico principale, che era allora Comunione e Liberazione, chiudeva approssimativamente tutto, badava che al micio non mancasse né un rifugio né il cibo oltre alle lucertole e ai topi forniti dalla provvidenza, e trovava tutto uguale al ritorno.
Il Molinasso era la quiete e pareva che sarebbe stato cosí sempre.
Ma per la campagna piemontese correvano dei disperati che una notte le sfondarono la porta.
Dovevano averla sorvegliata, era una donna sola, palesemente non contadina, palesemente non miserabile, e non capirono perché non tirasse fuori i soldi che esigevano.
Non potevano immaginare che Adriana di soldi non ne avesse affatto, forse non ne aveva mai avuti, urlarono, la minacciarono e alla fine, dopo avere buttato all’aria tutto, la lasciarono legata a terra, e fu la postina a trovarla due giorni dopo.
(…) La sua inconfessata aristocrazia Fu un trauma, fra il terrore, il malessere, il freddo, quelle ore fra vita e morte e una perdita della quale non riusciva a consolarsi.
Dove poteva andare? Poteva mantenersi ma non aveva denaro per comprare niente, tanto meno un’altra cascina, e in una solitudine meno deserta e pericolosa.
Non le mancarono le proposte, di venire qui o andare là, di amici che ne aspettavano le parole e gli scritti, ma naturalmente non erano eremiti.
Vagò per un certo tempo senza nido, fin che parve rassegnata a fermarsi nel cuneese, dove una famiglia generosa deteneva il dorso di una collina fra i carpini.
Vi si scorgevano qualche rada costruzione e un borgo nel fondovalle.
La coppia ospitava dei tossicodipendenti.
Ricordo il volto smarrito di Adriana alla tavola comune, fra due adulti calorosi e alcuni giovani risentiti, incapaci di muovere un dito, infelicissimi e tetri.
Ho pensato allora, con qualche malizia, che delle virtú teologali la mia amica ne aveva in sovrabbondanza due, fede e speranza, mentre frequentava a modo suo la carità, il suo amore essendo tutto per Dio e qualche grande causa, ma poco incline alla sofferenza dei singoli, che in verità non ha nulla di splendido.
I suoi occhi spalancati su quelle infelicità ne vedevano la bruttezza e non riusciva, come i suoi amici, a tendere le braccia.
Non sarebbe mai stata come madre Teresa e le sue seguaci, delle quali diffidava e, come capii piú tardi, non a torto.
Il suo bisogno di solitudine veniva anche, credo, da una inconfessata aristocrazia del modo di essere.
Intanto era una gran pena e si stava già rassegnando a far planare sul terreno dei suoi ospiti, come la casa di Loreto portata dagli angeli, un prefabbricato norvegese minimo, munito di una poderosa stufa.
Me lo descrisse con voce ottimista.
Addio viste e orizzonti aperti, orto e rose.
Doveva mettersi da qualche parte dove poter chiudere una porta.
Fu allora che qualcuno, penso Luigi Bettazzi che allora era vescovo di Ivrea, la salvò, offrendole in comodato, che deve essere una sorta di affitto a termine, una proprietà diocesana abbandonata, che aveva il vantaggio di stare proprio sull’orlo di un paesino del torinese, un lato sulle ultime case e l’altro su una sconfinata campagna.
Un miracolo.
Adriana rifiorí, vi si insediò subito e io salii a vedere.
Avevo in mente il Molinasso e rimasi di stucco, era un luogo bruttissimo.
Un gran cancello arrugginito, fra due santi antipatici, immetteva a sinistra su una cascina disabitata e a destra su n’altra cascina appena meno sbrindellata, cui si accedeva da un’erta scala di legno, a sua volta collegata a uno sgarbato casone giallo, forse degli anni Trenta, che dava sulla campagna e un giardinetto ad aiuole.
Il quarto lato era indeciso fra una costruzione informe e un arruffato boschetto.
In mezzo uno spazio interrotto da un alto muro, inteso a dividere una delle due cascine e il casone dall’altra.
Adriana si era collocata al primo piano della cascina di destra, che era poi uno stanzone affacciato in fondo verso il paese, e per me aveva collocato un letto giú al pianterreno.
C’era dappertutto una polvere decennale, dappertutto tracce di immemoriali abbandoni, sgomberi frettolosi e confusi, mi misi a scopare e riordinare inutilmente, e quando ci lasciammo dopo una breve cena afferrai una coperta e scesi quella scala da vertigini giú in cortile dove, saltata la lampadina, sbagliai di porta e mi infilai a tastoni in una stanza dove mi parve di individuare un letto di legno.
La mattina dopo scoprii che avevo dormito su un catafalco, con i suoi bravi manici davanti e dietro, e un cespo di rose di pezza coperto di falso filo d’oro rimasto attaccato dall’ultima cerimonia.
Ero in una sorta di magazzino dove era stato ammucchiato tutto quel che una sacrestia povera poteva lasciare di non sacro dietro di sé.
(…) in “il manifesto” del 12 febbraio 2011

Youcat : il catechismo per i giovanissimi.

“VI CONSIGLIO LA LETTURA DI UN LIBRO STRAORDINARIO” di Benedetto XVI Cari giovani amici! Oggi vi consiglio la lettura di un libro straordinario.
Esso è straordinario per il suo contenuto ma anche per il modo in cui si è formato, che io desidero spiegarvi brevemente, perché si possa comprenderne la particolarità.
“YouCat” ha tratto la sua origine, per così dire, da un’altra opera che risale agli anni ’80.
Era un periodo difficile per la Chiesa così come per la società mondiale, durante il quale si prospettò la necessità di nuovi orientamenti per trovare una strada verso il futuro.
Dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965) e nella mutata temperie culturale, molte persone non sapevano più correttamente che cosa i cristiani dovessero propriamente credere, che cosa insegnasse la Chiesa, se essa potesse insegnare qualcosa “tout court”, e come tutto questo potesse adattarsi al nuovo clima culturale.
Il cristianesimo in quanto tale non è superato? Si può ancora oggi ragionevolmente essere credenti? Queste sono le domande che ancora oggi molti cristiani si pongono.
Papa Giovanni Paolo II si risolse allora per una decisione audace: decise che i vescovi di tutto il mondo scrivessero un libro con cui rispondere a queste domande.
Egli mi affidò il compito di coordinare il lavoro dei vescovi e di vegliare affinché dai contributi dei vescovi nascesse un libro: intendo un vero libro, e non una semplice giustapposizione di una molteplicità di testi.
Questo libro doveva portare il titolo tradizionale di “Catechismo della Chiesa cattolica”, e tuttavia essere qualcosa di assolutamente stimolante e nuovo; doveva mostrare che cosa crede oggi la Chiesa cattolica e in che modo si può credere in maniera ragionevole.
Rimasi spaventato da questo compito, e devo confessare che dubitai che qualcosa di simile potesse riuscire.
Come poteva avvenire che autori che sono sparsi in tutto il mondo potessero produrre un libro leggibile? Come potevano uomini che vivono in continenti diversi, e non solo dal punto di vista geografico, ma anche intellettuale e culturale, produrre un testo dotato di un’unità interna e comprensibile in tutti i continenti? A questo si aggiungeva il fatto che i vescovi dovevano scrivere non semplicemente a titolo di autori individuali, ma in rappresentanza dei loro confratelli e delle loro Chiese locali.
Devo confessare che anche oggi mi sembra un miracolo il fatto che questo progetto alla fine sia riuscito.
Ci incontrammo tre o quattro volte all’anno per una settimana e discutemmo appassionatamente sulle singole porzioni di testo che nel frattempo si erano sviluppate.
Come prima cosa si dovette definire la struttura del libro: doveva essere semplice, perché i singoli gruppi di autori potessero ricevere un compito chiaro e non dovessero forzare in un sistema complicato le loro affermazioni.
È la stessa struttura di questo libro.
Essa è tratta semplicemente da un’esperienza catechetica lunga di secoli: che cosa crediamo; in che modo celebriamo i misteri cristiani; in che modo abbiamo la vita in Cristo; in che modo dobbiamo pregare.
Non voglio adesso spiegare come ci siamo scontrati nella grande quantità di domande, fino a che non ne risultò un vero libro.
In un’opera di questo genere molti sono i punti discutibili: tutto ciò che gli uomini fanno è insufficiente e può essere migliorato, e ciononostante si tratta di un grande libro, un segno di unità nella diversità.
A partire da molte voci si è potuto formare un coro poiché avevamo il comune spartito della fede, che la Chiesa ci ha tramandato dagli apostoli attraverso i secoli fino ad oggi.
Perché tutto questo? Già allora, al tempo della stesura del “Catechismo della Chiesa cattolica”, dovemmo constatare non solo che i continenti e le culture dei loro popoli sono differenti, ma anche che all’interno delle singole società esistono diversi “continenti”: l’operaio ha una mentalità diversa da quella del contadino, e un fisico diversa da quella di un filologo; un imprenditore diversa da quella di un giornalista, un giovane diversa da quella di un anziano.
Per questo motivo, nel linguaggio e nel pensiero, dovemmo porci al di sopra di tutte queste differenze, e per così dire cercare uno spazio comune tra i differenti universi mentali.
Con ciò divenimmo sempre più consapevoli di come il testo richiedesse delle “traduzioni” nei differenti mondi, per poter raggiungere le persone con le loro differenti mentalità e differenti problematiche.
Da allora, nelle giornate mondiali della gioventù (Roma, Toronto, Colonia, Sydney) si sono incontrati da tutto il mondo giovani che vogliono credere, che sono alla ricerca di Dio, che amano Cristo e desiderano strade comuni.
In questo contesto ci chiedemmo se non dovessimo cercare di tradurre il “Catechismo della Chiesa cattolica” nella lingua dei giovani e far penetrare le sue parole nel loro mondo.
Naturalmente anche fra giovani di oggi ci sono molte differenze; così, sotto la provata guida dell’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, si è formato uno “YouCat” per i giovani.
Spero che molti giovani si lascino affascinare da questo libro.
Alcune persone mi dicono che il catechismo non interessa la gioventù odierna; ma io non credo a questa affermazione e sono sicuro di avere ragione.
Essa non è così superficiale come la si accusa di essere; i giovani vogliono sapere in cosa consiste davvero la vita.
Un romanzo criminale è avvincente perché ci coinvolge nella sorte di altre persone, ma che potrebbe essere anche la nostra; questo libro è avvincente perché ci parla del nostro stesso destino e perciò riguarda da vicino ognuno di noi.
Per questo vi invito: studiate il catechismo! Questo è il mio augurio di cuore.
Questo sussidio al catechismo non vi adula; non offre facili soluzioni; esige una nuova vita da parte vostra; vi presenta il messaggio del Vangelo come la “perla preziosa” (Matteo 13, 45) per la quale bisogno dare ogni cosa.
Per questo vi chiedo: studiate il catechismo con passione e perseveranza! Sacrificate il vostro tempo per esso! Studiatelo nel silenzio della vostra camera, leggetelo in due, se siete amici, formate gruppi e reti di studio, scambiatevi idee su Internet.
Rimanete ad ogni modo in dialogo sulla vostra fede! Dovete conoscere quello che credete; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer; dovete conoscerla come un musicista conosce il suo pezzo.
Sì, dovete essere ben più profondamente radicati nella fede della generazione dei vostri genitori, per poter resistere con forza e decisione alle sfide e alle tentazioni di questo tempo.
Avete bisogno dell’aiuto divino, se la vostra fede non vuole inaridirsi come una goccia di rugiada al sole, se non volete soccombere alle tentazioni del consumismo, se non volete che il vostro amore anneghi nella pornografia, se non volete tradire i deboli e le vittime di soprusi e violenza.
Se vi dedicate con passione allo studio del catechismo, vorrei ancora darvi un ultimo consiglio: sapete tutti in che modo la comunità dei credenti è stata negli ultimi tempi ferita dagli attacchi del male, dalla penetrazione del peccato all’interno, anzi nel cuore della Chiesa.
Non prendete questo a pretesto per fuggire il cospetto di Dio; voi stessi siete il corpo di Cristo, la Chiesa! Portate il fuoco intatto del vostro amore in questa Chiesa ogni volta che gli uomini ne hanno oscurato il volto.
“Non siate pigri nello zelo, lasciatevi infiammare dallo Spirito e servite il Signore” (Romani 12, 11).
Quando Israele era nel punto più buio della sua storia, Dio chiamò in soccorso non i grandi e le persone stimate, ma un giovane di nome Geremia; Geremia si sentì investito di una missione troppo grande: “Ah, mio Signore e mio Dio, non riesco neppure a parlare, sono ancora così giovane!” (Geremia 1, 6).
Ma Dio non si lasciò fuorviare: “Non dire: ‘Sono ancora così giovane’.
Dove ti mando, là tu devi andare, e quello che io ti comando, quello devi annunciare” (Geremia 1, 7).
Vi benedico e prego ogni giorno per tutti voi.
 La fede nella lingua dei giovani Trecento pagine, strutturate in quattro sezioni.
Con una premessa scritta da Benedetto XVI.
S’intitola Youcat il sussidio al Catechismo della Chiesa cattolica per i giovani, nato in seno alla Conferenza episcopale austriaca in vista della Giornata mondiale della gioventù di Madrid 2011.
Frutto del lavoro di un’équipe di teologi, esperti di catechesi e di un nutrito gruppo di giovani, Youcat si è avvalso della supervisione internazionale dell’arcivescovo di Vienna, il cardinale Christoph Schönborn.
Verrà pubblicato almeno in sette lingue diverse.
L’edizione italiana, che uscirà per i tipi di Città Nuova, ha la supervisione del patriarca di Venezia, il cardinale Angelo Scola.
I titoli delle quattro sezioni: «Che cosa crediamo»; «La celebrazione del mistero cristiano»; «La vita in Cristo»; «La preghiera nella vita cristiana».
Il testo, strutturato in domande e risposte, è impreziosito da immagini e corredato da elementi complementari – come le citazioni della Scrittura, o di santi e dottori della fede.
Il testo integrale della prefazione del Papa viene pubblicato in anteprima esclusiva sul numero di febbraio del Messaggero di Sant’Antonio.
Pubblichiamo, per gentile concessione del «Messaggero di Sant’Antonio», ampi stralci della prefazione del Papa a «Youcat», sussidio al «Catechismo della Chiesa cattolica» (Cec) per i giovani preparato in vista della Gmg 2011 di Madrid.
Il testo integrale appare sul «Messaggero» di febbraio.
Cari giovani amici! Oggi vi consiglio la lettura di un libro straordinario.
Esso è straordinario per il suo contenuto ma anche per il modo in cui si è formato (…) Youcat ha tratto la sua origine, per così dire, da un’altra opera che risale agli anni ’80.
Era un periodo difficile per la Chiesa così come per la società mondiale, durante il quale si prospettò la necessità di nuovi orientamenti per trovare una strada verso il futuro.
Dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965) e nella mutata temperie culturale, molte persone non sapevano più correttamente che cosa i cristiani dovessero propriamente credere, che cosa insegnasse la Chiesa, se essa potesse insegnare qualcosa tout court, e come tutto questo potesse adattarsi al nuovo clima culturale.
Il cristianesimo in quanto tale non è superato? Si può ancora oggi ragionevolmente essere credenti? Queste sono le domande che ancora oggi molti cristiani si pongono.
Papa Giovanni Paolo II si risolse allora per una decisione audace: decise che i vescovi di tutto il mondo scrivessero un libro con cui rispondere a queste domande.
Egli mi affidò il compito di coordinare il lavoro dei vescovi e di vegliare affinché dai contributi dei vescovi nascesse un libro (…) Questo libro doveva portare il titolo tradizionale di Catechismo della Chiesa cattolica, e tuttavia essere qualcosa di assolutamente stimolante e nuovo; doveva mostrare che cosa crede oggi la Chiesa cattolica e in che modo si può credere in maniera ragionevole.
Rimasi spaventato da questo compito, e devo confessare che dubitai che qualcosa di simile potesse riuscire.
Come poteva avvenire che autori che sono sparsi in tutto il mondo potessero produrre un libro leggibile? Come potevano uomini che vivono in continenti diversi, e non solo dal punto di vista geografico, ma anche intellettuale e culturale, produrre un testo dotato di un’unità interna e comprensibile in tutti i continenti? (…) Devo confessare che anche oggi mi sembra un miracolo il fatto che questo progetto alla fine sia riuscito.
(…) Come prima cosa si dovette definire la struttura del libro: doveva essere semplice (…).
È la stessa struttura di questo libro; essa è tratta semplicemente da un’esperienza catechetica lunga di secoli: che cosa crediamo/in che modo celebriamo i misteri cristiani/ in che modo abbiamo la vita in Cristo/ in che modo dobbiamo pregare.
(…) In un’opera di questo genere molti sono i punti discutibili: tutto ciò che gli uomini fanno è insufficiente e può essere migliorato, e ciononostante si tratta di un grande libro, un segno di unità nella diversità.
A partire da molte voci si è potuto formare un coro poiché avevamo il comune spartito della fede, che la Chiesa ci ha tramandato dagli apostoli attraverso i secoli fino ad oggi.
Perché tutto questo? Già allora, al tempo della stesura del Ccc, dovemmo constatare non solo che i continenti e le culture dei loro popoli sono differenti, ma anche che all’interno delle singole società esistono diversi «continenti» (…).
Per questo motivo, nel linguaggio e nel pensiero, dovemmo porci al di sopra di tutte queste differenze, e per così dire cercare uno spazio comune tra i differenti universi mentali; con ciò divenimmo sempre più consapevoli di come il testo richiedesse delle «traduzioni » nei differenti mondi, per poter raggiungere le persone con le loro differenti mentalità e differenti problematiche.
Da allora, nelle Giornate mondiali della gioventù (Roma, Toronto, Colonia, Sydney) si sono incontrati da tutto il mondo giovani che vogliono credere, che sono alla ricerca di Dio, che amano Cristo e desiderano strade comuni.
In questo contesto ci chiedemmo se non dovessimo cercare di tradurre il Catechismo della Chiesa cattolica nella lingua dei giovani e far penetrare le sue parole nel loro mondo.
Naturalmente anche fra i giovani di oggi ci sono molte differenze; così, sotto la provata guida dell’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, si è formato un Youcat per i giovani.
Spero che molti giovani si lascino affascinare da questo libro.
Alcune persone mi dicono che il catechismo non interessa la gioventù odierna; ma io non credo a questa affermazione e sono sicuro di avere ragione.
Essa non è così superficiale come la si accusa di essere; i giovani vogliono sapere in cosa consiste davvero la vita.
Un romanzo criminale è avvincente perché ci coinvolge nella sorte di altre persone, ma che potrebbe essere anche la nostra; questo libro è avvincente perché ci parla del nostro stesso destino e perciò riguarda da vicino ognuno di noi.
Per questo vi invito: studiate il catechismo! Questo è il mio augurio di cuore.
Questo sussidio al catechismo non vi adula; non offre facili soluzioni; esige una nuova vita da parte vostra; vi presenta il messaggio del Vangelo come la «perla preziosa» (Mt 13,45) per la quale bisogna dare ogni cosa.
Per questo vi chiedo: studiate il catechismo con passione e perseveranza! Sacrificate il vostro tempo per esso! Studiatelo nel silenzio della vostra camera, leggetelo in due, se siete amici, formate gruppi e reti di studio, scambiatevi idee su Internet.
Rimanete ad ogni modo in dialogo sulla vostra fede! Dovete conoscere quello che credete; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista di informatica conosce il sistema operativo di un computer; dovete conoscerla come un musicista conosce il suo pezzo; sì, dovete essere ben più profondamente radicati nella fede della generazione dei vostri genitori, per poter resistere con forza e decisione alle sfide e alle tentazioni di questo tempo.
Avete bisogno dell’aiuto divino, se la vostra fede non vuole inaridirsi come una goccia di rugiada al sole, se non volete soccombere alle tentazioni del consumismo, se non volete che il vostro amore anneghi nella pornografia, se non volete tradire i deboli e le vittime di soprusi e violenza.
(…) Benedetto XVII  A breve la pubblicazione in 13 lingue di un catechismo “giovane”, con premessa del papa, testo per la GMG 2011.
Città nuova editrice curerà l’edizione italiana.
Intervista a Manfred Lütz, uno degli ideatori A guardarlo sembra un libro di quelli che porteresti tranquillamente per una lettura sul treno, eppure, come dice papa Benedetto XVI nella premessa: «un romanzo criminale è avvincente perché ci coinvolge nella sorte di altre persone, ma che potrebbe essere anche la nostra; questo libro è avvincente perché ci parla del nostro stesso destino e perciò riguarda ciascuno di noi».
  Si tratta di YouCat, acronimo di Youth Catechism.
Uno strumento di 300 pagine creato e pensato “da e per” i giovani che vogliono approfondire la fede della Chiesa.
Nato nell’ambito della Conferenza episcopale austriaca, il lavoro ha avuto la supervisione del cardinale di Vienna Christoph Schönborn, coinvolgendo teologi, esperti di catechesi e un gruppo di cinquanta giovani.
Tredici le lingue in cui verrà pubblicato, il testo verrà accompagnato dalla premessa di papa Benedetto XVI – di cui abbiamo offerto uno stralcio in anteprima-, riunendo idealmente nella condivisione della propria fede i giovani di diverse culture e di diverse parti del mondo.
  L’editrice Città nuova è coinvolta in prima fila in questo grande progetto per la traduzione e la pubblicazione italiana, disponibile da marzo e che avrà, la supervisione del card.
Angelo Scola. Uno strumento agile che andrà, per le principali lingue, nella “sacca del pellegrino”, dei giovani che prenderanno parte alla GMG di Madrid dal 16 al 21 agosto 2011.
Il volume, dalla copertina di colore giallo ed una “Y” composta da croci di diverse fogge, è suddiviso al suo interno in quattro sezioni: «Che cosa crediamo»; «La celebrazione del mistero cristiano»; «La vita in Cristo» e «La preghiera nella vita cristiana».
  Una sfida alla diffusa opinione che troppo spesso considera i giovani ovattati dalla superficialità e intorpiditi dalla modernità.
Sono in molti, invece, i ragazzi che si interrogano sulla ricerca autentica di un senso delle vita, sulla fede, e conoscere può aiutare a restare saldi e ad avere forza di fronte alle sfide del tempo: «dovete conoscere quello che credete – continua Benedetto XVI nella premessa -; dovete conoscere la vostra fede con la stessa precisione con cui uno specialista conosce il sistema operativo di un computer».    A questo proposito abbiamo intervistato Manfred Lütz, medico psichiatra, membro della Pontificia accademia per la vita, del Pontificio consiglio per i laici, consultore della Congregazione per il clero e tra gli ideatori di YouCat.
  Perché un giovane che va alla GMG dovrebbe aprire YouCat… «La Giornata mondiale della Gioventù non è solo un evento fatto di sentimenti e di emozioni, ma è anche un’occasione per i giovani per apprendere la fede della Chiesa.
Il Santo Padre spesso ripete che “è importante conoscere la fede della Chiesa”, ma occorre una «porta» al catechismo della Chiesa cattolica e questo è YouCat.
Il compendio era stato già dato ai giovani alle GMG di Colonia o di Sidney, ma i giovani avevano difficoltà nel comprenderlo perché poco adatto a loro.
Un giovane non si chiede, ad esempio, se “ la Madonna è l’icona escatologica della Chiesa”…
Incentivati da questa costatazione, abbiamo iniziato a lavorare con 50 giovani per capire quali erano le domande che loro si pongono e con l’aiuto di qualche teologo si sono date delle risposte e delle spiegazioni in un modo, in un linguaggio più vicino a quello dei ragazzi.
YouCat dà rilevanza anche all’aspetto visivo, attraverso disegni, foto ecc.
ma allo stesso tempo, i giovani vi troveranno tutta la fede della Chiesa cattolica»   Mi faccia un esempio di domanda che è stata fatta dai giovani a proposito della fede… «Una domanda che i giovani si pongono è: ”perché la sessualità prima del matrimonio per un cattolico non è possibile?” ed è importante dare una spiegazione, non solo in modo  formale ma anche con delle argomentazioni»   Giovani di che età sono stati coinvolti fattivamente nell’ideazione? «Dai 14 anni ai 20 anni circa e YouCat ha anche un po’ questo linguaggio, anche se non è  esclusivo dei giovani, perché penso che sia uno strumento adatto anche agli adulti che spesso possono avere qualche problema nella lettura del compendio che è più teorico»   Città nuova ha accolto una sfida coraggiosa… «Penso che YouCat diventi un bestseller.
In Germania avrà una distribuzione ampia, si prevedono 300.000 copie, e altrettanta importanza avrà in Italia.
Uno strumento utile anche per la preparazione alla prima comunione, della confermazione, per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e per gli eventi legati ai giovani.
Oggi viviamo in una società che non è più cristiana, ma che si configura come una società “secolare” e YouCat ha le risposte a questi quesiti.
Un testo importante perché è l’età dai 14 ai 20 anni quello in cui si sviluppano le  decisoni nell’ambito della fede»   Penso che lei per professione abbia maturato una grande esperienza nel conoscere l’animo umano.
Ho visto che oltre alla parte dottrinale del catechismo avete scelto di accompagnare il testo dando la parola ai testimoni.
Perché? «È importante che un testo della fede della Chiesa sia un testo teorico, ma abbiamo raccolto anche citazioni di santi, di filosofi, anche non cristiani che rivestono di “carne queste ossa” perché i giovani possano vedere quanto la fede sia penetrata nell’umanità e nella storia»   A proposito della testimonianza.
Il papa insiste molto nella prefazione sul fatto che i giovani comincino a studiarlo, a leggerlo con gli amici anche attraverso i networks.Le sembra utopico? «No, penso che la prefazione del Santo padre dica una cosa molto importante.
Il papa ha accompagnato questo progetto fin dagli inizi con parole molto incoraggianti.
Spero che molti giovani accolgano questa sfida leggendo questo testo e trovare occasione poi per spiegare la fede ai loro coetanei e ai propri genitori»

La tradizione europea delle grandi chiese

Dagli angoli della vita al cerchio dell’eternità  Tra le caratteristiche distintive del cristianesimo occidentale vi è la volontà di costruire grandi chiese: ancor oggi, in un’Europa che non vuole riconoscere ufficialmente le sue radici cristiane, gli edifici storici più imponenti delle città sono cattedrali, chiese monastiche o santuari.
Come nasce questa tradizione? L’idea cristiana del luogo di culto subisce una prima fondamentale trasformazione in Italia e specificamente a Roma a partire dall’epoca costantiniana.
Precedentemente, come apprendiamo dalle lettere di san Paolo, a Roma come in altre città evangelizzate, la Chiesa era strutturata in piccole comunità identificabili in base alle case private in cui i membri si riunivano.
Nella sua lettera ai Romani, ad esempio, salutando i suoi amici Aquila e Prisca, Paolo saluta anche “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Romani, 16, 3-5).
Tra le case utilizzate a Roma nel I secolo, c’erano però anche delle domus patrizie e forse perfino il palatium imperiale: scrivendo da Roma ai credenti di Filippi tra il 61 e il 63, san Paolo dirà: “Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare” (Filippesi, 4, 22).
Con la conversione alla nuova fede dei massimi ceti sociali tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, alcune “case” vennero destinate permanentemente al servizio della ecclesia erano poi grandi e lussuose: tra queste c’era un’aula di rappresentanza della residenza dell’imperatrice madre Elena, il Palazzo Sessoriano, nota poi col nome di basilica di Santa Croce in Gerusalemme.
 Sarà soprattutto il figlio di Elena, l’imperatore Costantino, a dare dignità ufficiale a questa tendenza, esaltando la nuova fede mediante la costruzione di una vera e propria rete di grandi chiese sul modello architettonico delle aule pubbliche o regie dell’impero: le basiliche.
Come per trecento anni le comunità cristiane avevano celebrato i riti in sale ordinarie in case private e nelle insulae delle città greco romane, senza avvertire una particolare necessità di distinguere i loro luoghi di culto dal mondo che li circondava, così, anche dopo l’ascesa sociale della Chiesa le grandiose strutture fatte costruire dal governo imperiale s’inserivano nell’esistente tessuto architettonico delle città in cui si trovavano.
Le fondazioni costantiniane e quelle del V secolo erano molte e molto grandi: San Giovanni in Laterano, forse già avviata nel 312-13, aveva dimensioni titaniche: 98 per 56 metri; la basilica cimiteriale di San Sebastiano, sulla via Appia, era lunga 75 metri; l’originaria basilica di San Lorenzo sulla via Tiburtina era lunga 98 metri.
C’era una basilica sulla via Labicana, attigua al martìrion dei santi Marcellino e Pietro contenente il mausoleo dell’imperatrice Elena, e un’altra sulla via Nomentana, vicino alla memoria di sant’Agnese, dove la figlia di Costantino, Costanza, aveva fatto costruire il suo mausoleo (l’attuale chiesa di Santa Costanza).
Soprattutto l’antica basilica di San Pietro era colossale, con una facciata larga circa 64 metri e un portico profondo 12.
Le navate (esclusa l’area presbiteriale) erano lunghe 90 metri e quella centrale larga 23,50 con un’altezza di 32,50, mentre le navatelle laterali avevano altezze, rispettivamente, di 18 e 14,80 metri.
Nell’ambito della corte imperiale viene fatto poi un passo carico di significato per la storia dell’architettura cristiana: l’adattamento a scopi liturgici dell’edificio circolare o cilindrico tipico nel mondo tardo-antico dei mausolei di personaggi illustri.
Per la sensibilità greco romana, la forma cilindrica-chiusa infatti suggeriva il mistero della morte; proprio questa configurazione era stata usata nel IV secolo a Gerusalemme per la struttura costantiniana dell’Anastasis, contenente la tomba vuota di Cristo; la stessa forma venne poi utilizzata dalla figlia di Costantino per il proprio mausoleo sulla via Nomentana, accanto all’antica basilica cimiteriale di Sant’Agnese.
Simili strutture circolari hanno un simbolismo particolare.
Mentre le più comuni basiliche longitudinali implicano un cammino – dall’ingresso all’altare – la forma circolare, senza inizio e senza fine, ha dell’infinito: giungere al suo centro connota la fine della ricerca, l’arrivo nel porto sospirato.
Al Santo Sepolcro gerosolimitano, dove prima si passava per una basilica longitudinale per poi – attraversato un cortile – penetrare nella struttura circolare, l’esperienza spaziale complessiva era quasi una metafora di ricerca e scoperta: del cammino di fede e della certezza con cui Dio pone fine alla ricerca dell’uomo, ammettendolo nella luce infinita.
Nel V secolo la più grande chiesa romana a pianta centrale, Santo Stefano Rotondo, proporrà un’esperienza nuova.
La basilica longitudinale diventa un immenso cortile rettangolare intorno all’elemento circolare, che a sua volta diventa un labirinto concentrico con più ingressi.
Dalle cappelle si passa successivamente nel penultimo anello, più alto di quelli esterni e più luminoso, che infine dà accesso all’altissimo spazio cilindrico centrale, un pozzo di luce al cuore dell’edificio.
A Santo Stefano Rotondo il senso del cammino cristiano veniva cioè articolato in termini mistagogici: non più come movimento lineare e neanche come semplice arrivo, ma nell’esperienza di una penetrazione per gradi: dall’esterno verso il centro, dalle tenebre verso la luce, metafora forse, questa, per la vita di una Chiesa che ormai trovava la ragione della sua comunione non solo nella radice storica di una condivisa romanitas, ma nella convergenza verso Colui che è luce degli uomini.
È suggestivo infatti mettere la pianta circolare di questa chiesa a confronto con una coeva immagine di Cristo che ascende nel circolare clipeus simboleggiante la luce, in uno dei pannelli lignei delle porte della Basilica di Santa Sabina, sull’Aventino.
 È il Cristo dell’Apocalisse, l’Alfa e l’Omega della storia umana, presentato tra i simboli dei quattro evangelisti, con – sotto di lui – i santi Pietro e Paolo che innalzano un serto sulla testa di una donna.
Questa, che con le braccia alzate in preghiera, simboleggia la stessa Chiesa che anela al suo Sposo.
A Roma per la prima volta la Chiesa si è identificata plasticamente con Colui che, immolato, è ora “degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (Apocalisse, 5, 12); ha occupato spontaneamente, trasformandoli, gli spazi architettonici e concettuali dell’antico impero, persuasa che Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d’Israele, s’era manifestato anche nello splendore materiale di Roma.
La marmorea magnificenza della città un tempo pagana fu letta come adombramento della città dell’Apocalisse, la Gerusalemme celeste le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose.
Roma è infatti la città dell’Apocalisse – dello svelamento del senso nascosto della storia – e dal V secolo in avanti i messaggi comunicati nei programmi iconografici delle più importanti chiese romane sono “apocalittici”.
Cristo nella toga dorata rivelato come Dominus dominantium, Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l’adorano, versando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi: sono queste le immagini realizzate nei presbiteri delle grandi nuove basiliche.
In diverse di queste poi, le scene rivelatrici dell’eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come risoluzione della vicenda terrestre.
Al Vaticano questo messaggio verrebbe anticipato già all’esterno, con un monumentale mosaico che ricopriva la parte superiore della facciata della basilica (conosciuta in una delineazione in un codice del XI secolo proveniente da Farfa e attualmente conservato all’Eton College di Windsor) mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l’Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide” (Apocalisse, 7, 9).
Pure questa caratteristica della vita dell’antica capitale, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana.
La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventerà la Roma papale che regolarmente accoglie uomini e donne “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Apocalisse, 7, 9).
Fenomeno, questo, che spiega la creazione – prima al Laterano e poi al Vaticano – di spazi adeguati ad accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo, spazi che esprimono continuità con l’antico impero: la basilica San Pietro ed antistante piazza infatti ricoprono un circo realizzato nel I secolo dagli imperatori Caligola e Nerone.
I giganteschi teatri e anfiteatri dell’Urbe, che ancor oggi testimoniano la capacità dell’impero di convogliare folle oceaniche verso un punto, fanno parte dell’esperienza della primitiva Chiesa di Roma.
Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.
Ciò significa che non solo l’idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo – di raduni per vedere insieme eventi che uniscano mediante l’emozione condivisa da centinaia di migliaia di persone – faceva parte del bagaglio culturale ed umano della primitiva Chiesa romana.
(©L’Osservatore Romano – 10 febbraio 2011)

Ecumenismo: A che punto è il cammino?

Nonostante gli innegabili successi degli ultimi 50 anni di dialogo ecumenico – ha detto il 15 novembre mons.
Kurt Koch (cardinale dal 20) aprendo l’Assemblea plenaria del 50° anniversario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, che presiede da luglio –, «ci ritroviamo, in un certo senso, al punto di partenza del concilio Vaticano II».
Il punto oggi più critico e prioritario, so prattutto nel dialogo con le Chiese na te dalla Riforma, attiene alla questione ecclesiologica, rispetto alla quale il neo-cardinale riscontra una maggiore vicinanza, viceversa, con le Chiese or todosse (salvo quanto al tema del primato del vescovo di Roma; cf.
in questo numero a p.
34).
Ne deriva una divergenza di fondo sull’obiettivo finale del movimento ecumenico: «È inevitabile giun gere… alla conclusione che le Chiese e comunità ecclesiali nate dalla Riforma abbiano rinunciato all’obiettivo ecumenico originario di un’unità visibile e lo abbiano sostituito con il concetto di un mutuo riconoscimento come Chiese, possibile fin da oggi».
Regno-doc.
n.1, 2011, p.23 Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo

Atei e credenti uniti dalla speranza

L’intervista T eologo della speranza e della croce, Jürgen Moltmann chiede ai cristiani di «riversarsi » nel mondo dei non credenti per annunciare quel Dio «che sta con i senza Dio».
Il pensatore protestante saluta come «urgente e necessaria» l’apertura di un confronto fra laici e cristiani su Dio, come suggerito da Benedetto XVI.
La sua riflessione si è incentrata sulla speranza.
Come essa può interagire nello scambio tra credenti e non credenti? «Non esiste una chiara linea di confine fra credenti e non credenti, come fra cristiani e musulmani.
La fede è universale come l’incredulità.
In ogni credente si trova l’incredulità ed in ogni ateo la fede.
In ciascun essere umano si svolge un dialogo fra fede e incredulità: ‘Signore, io credo, ma tu aiutami nella mia incredulità’, grida il padre del giovane malato nel Vangelo di Marco.
Nessuno è soddisfatto della propria incredulità.
La speranza è più ampia perché legata all’amore per la vita.
Speriamo finché respiriamo e, se dubitiamo e diventiamo tristi, la speranza persa ci tormenta.
Dove viene distrutta la speranza nella vita inizia la violenza e la morte».
Cosa offre «in più» la fede cristiana? «Il cristianesimo costituisce la ‘religione della speranza’: chi spera in Dio ha sempre aperti nuovi orizzonti.
La fede è fiduciosa speranza: il futuro non è estrinseco al cristianesimo, bensì l’elemento della sua fede, la nota su cui si accordano le sue canzoni, i colori con cui sono dipinti i suoi quadri.
Una speranza viva risveglia ogni nostro senso per il nuovo giorno e ci riempie di un meraviglioso amore per la vita, poiché sappiamo che siamo attesi e, quando moriremo, ci attende la festa della vita eterna.
La speranza abbraccia credenti e atei perché Dio spera in noi, ci accoglie e non abbandona nessuno ».
Lei ha scritto molto sulla Croce, che sembra non interessare più l’Europa.
Il Crocifisso può tornare ad essere eloquente? «La questione di Dio e del dolore è il punto di partenza del moderno ateismo europeo.
Muore un bambino, migliaia di persone vengono uccise, innocenti cadono per mano terroristica.
E dov’è Dio? All’antico interrogativo della teodicea non vi è risposta: se Dio è buono e onnipotente, perché la sofferenza? Se Dio vuole il bene ma non impedisce il dolore, non è buono.
La giustificazione migliore di Dio, dice chi lo denigra, è di non esistere.
Ma l’ateismo è una risposta? Se Dio non esiste, perché la sofferenza sulla terra? Non ci serve un Dio da accusare? Questa discussione mi è sempre parsa teorica».
Come affrontare tale scandalo? «Per chi è tormentato dal dolore non si tratta di avere una risposta a un perché: egli cerca un aiuto e una speranza per uscire dal dolore.
Quando ero in pericolo di vita non mi sono chiesto perché mi trovassi in quella situazione: ho domandato aiuto urlando.
Una divinità buona ed onnipotente non può aiutarci.
Al centro del cristianesimo si trova la passione di Dio sulla croce di Cristo.
In ciò si palesa una passione per la vita colma di compassione per le devastazioni della vita.
‘Solo il Dio sofferente può aiutare’ scrisse Bonhoeffer in cella guardando il Dio crocifisso.
Nel Cristo moribondo il dolore di Dio ha trovato la sua espressione umana: Dio soffre le nostre pene.
Cristo viene per cercare ciò che è perduto e lui stesso si dà per perso per trovare i persi.
Chi si avvicina a Cristo prende parte al dolore di Dio e percepisce la sua desolazione.
È successo a Giovanni Paolo II e a Madre Teresa».
Come valuta l’invito di Benedetto XVI per un nuovo dialogo tra credenti e atei? «L’iniziativa del Papa è eccellente, urgente e necessaria.
Se la teologia si ritira in spazi chiusi, la gente perde interesse verso Dio.
Non è solo un problema religioso, ma anche una questione pubblica.
Dopo il 1945 era molto viva la ricerca di Dio rispetto ad Auschwitz.
L’ateismo venne dibattuto così aspramente tanto che lo scrittore Heinrich Boll disse: ‘Non mi piacciono questi atei, parlano sempre di Dio’.
Dopo il riflusso nella felicità privata l’interesse verso Dio è scomparso.
Da allora è aumentato il numero di quanti lo hanno perso e non sentono la mancanza della fede.
Per instaurare un dialogo con costoro i cristiani devono lasciare le mura della Chiesa e andare nel mondo.
I preti operai francesi andarono nelle fabbriche, i teologi della liberazione andarono fra la gente oppressa e ne condivisero il destino.
Ora gli accademici vanno tra i colti e condividono i loro dubbi ».
«Lumi, religioni e ragione comune » è il titolo del Cortile dei gentili a Parigi.
Come affrontare tali tematiche? «Quando Paolo ad Atene si riallacciò al ‘Dio sconosciuto’ non ebbe un grande successo.
Non si può pregare un Dio sconosciuto: non si sa se sia buono o cattivo.
Ma si può chiamare il ‘Dio nascosto’ e urlare.
Gli ebrei chiamano Hester panim il volto nascosto di Dio.
Chi lo percepisce, chiama a sé il volto manifesto di Dio.
Non so se l’espressione ‘dialogo’ sia giusta: un dialogo ha lo scopo di far conoscere meglio i dialoganti.
Esso finisce quando un interlocutore viene convinto.
Ciò non accade invece riguardo alle esperienze di Dio.
Perciò il discorso con i non credenti è molto diverso dal dialogo interreligioso.
Il confronto fra fede e incredulità esige che la Chiesa volga il suo cuore all’esterno.
Lo deve a tutti gli atei sinceri: di’ ciò che credi e credi a ciò che dici.
Prendi sul serio le domande e le accuse di chi non può credere, e cerca con lui una risposta da Dio.
Già troppo a lungo la gente ha relegato il cristianesimo nell’angolo della fede ed esaltato il dialogo fra le religioni per proseguire indisturbata la secolarizzazione.
È tempo che la fede cristiana esca dall’angolo: Cristo non ha fondato una nuova religione, ma ha portato una vita nuova!».
Lei ha scoperto Cristo durante l’ultima guerra.
Di solito si considerano le esperienze di male come cause di allontanamento da Dio.
Come tali realtà possono avvicinarci a lui? «A16 anni volevo studiare matematica; la religione era molto distante dalla ‘laicità’ di casa mia.
Nel 1943 mi arruolai come soldato, sopravvissi alla tempesta che distrusse Amburgo con 40.000 morti.
Quando l’amico accanto a me venne dilaniato da una bomba, per la prima volta urlai a Dio.
Sperimentai come lui celasse il suo volto.
Fatto prigioniero, ricevetti una Bibbia: i Salmi delle lamentazioni esprimevano ciò che provavo.
Capii che Cristo è colui che ci capisce e che è venuto a cercare chi è perduto: è colui che ci trova.
Per volontà di Cristo ho cominciato ad aver fiducia in Dio.
Non sarei arrivato all’idea che esiste un Dio e che Dio è amore appassionato e disposto a soffrire.
In guerra ho sperimentato cosa sia l’abbandono di Dio.
Perciò credo che Dio sia con i senza Dio.
E che lo si possa trovare fra di loro.
In essi Dio attende coloro che credono».
in “Avvenire” del 3 febbraio 2011

L’apprendistato per i quindicenni

Il governo intende dare, come noto, piena operatività alla norma contenuta nel Collegato lavoro alla Finanziaria 2010, che consente ai giovani di completare l’ultimo anno dell’obbligo di istruzione anche con un contratto di apprendistato.
L’opposizione in Parlamento ha votato contro conducendo una polemica serrata, e duramente contraria è stata anche la posizione assunta dalla Flc Cgil.
L’opinione pubblica che guarda a sinistra non sembra però così graniticamente schierata contro il provvedimento voluto dal governo e in particolare dal ministro del welfare Sacconi, sostenitore del valore educativo delle esperienze pratiche.  La rivista telematica Education2.0, diretta dall’ex ministro Luigi Berlinguer, ha effettuato in proposito un sondaggio tra i propri lettori, verosimilmente orientati in buona parte a sinistra, con un esito sorprendente: la più alta percentuale dei rispondenti (30%) si è espressa a favore del contratto di apprendistato, in alternativa alla frequenza scolastica, come misura idonea a prevenire la dispersione scolastica “per gli studenti più deboli e meno motivati”, mentre solo il 24% ha dato la risposta più nettamente negativa, ma anche più allineata con quella della sinistra tradizionale e della Cgil: nessuna forma di apprendistato prima dei 16 anni di età.
Un altro 28% si è invece espresso per il potenziamento di tirocini e stage per gli “studenti più deboli e meno motivati” sia pure all’interno della scuola, mentre il residuo 17% ha optato per il potenziamento dei percorsi di alternanza scuola-lavoro “per tutti gli studenti in obbligo di istruzione”.
Nel complesso, dunque, il 58% dei rispondenti si è espresso per soluzioni differenziate per le fasce deboli (30% fuori della scuola, con l’apprendistato, 28% all’interno della scuola, con tirocini e stage), mentre il 42% è rimasto fermo al tradizionale modello unitario-inclusivo.
Una spiegazione dell’esito abbastanza inaspettato del sondaggio può essere costituita dal fatto che ad esso abbiano partecipato molti insegnanti che hanno vissuto in prima persona la difficoltà di attenersi a una didattica rigorosamente indifferenziata per tutti gli studenti del biennio iniziale di scuola secondaria superiore.  tuttoscuola.com