Celbrare pasqua fuori stagione

 

Guerra Fredda e il monastero

 


Fin dai primi anni della mia vita a Bose, la mia naturale passione per i viaggi – una passione del resto tardiva: fino all’adolescenza ero quasi terrorizzato dal dover uscire dal mio Monferrato natale
– si è orientata verso monasteri antichi e nuovi in cui scoprire le comuni radici e cogliere il senso di tradizioni e differenze. La nostra avventura di vita comunitaria a Bose era appena avviata, con le asperità e gli entusiasmi propri di ogni inizio: con il nostro lavoro faticavamo a procurarci il necessario per vivere dignitosamente nelle poche case abbandonate e prive di energia elettrica e di riscaldamento, eppure non ci facevamo mai mancare almeno un viaggio “monastico” ogni anno – Francia, Spagna, Belgio, Germania e Svizzera – per coltivare i rapporti fraterni con abazie benedettine e trappiste o con le allora giovani comunità di Taizé e Grandchamp.


Ma non solo: l’Europa orientale mi affascinava, era una terra di cui avevo imparato a conoscere le ricchezze spirituali che cercavo di tradurre, anche letteralmente, per la nostra cultura e il nostro vissuto ecclesiale occidentale. Ma era anche una terra che viveva la cattività comunista e in cui i cristiani conoscevano la persecuzione…
Così, per recarmi a Costantinopoli dall’amato patriarca Athenagoras come pure per raggiungere il Monte Athos, invece di utilizzare il traghetto da Brindisi, preferivo sempre attraversare in auto l’intera Jugoslavia, sfiorando l’Albania per giungere a Salonicco. Viaggi davvero avventurosi, con una piccola 127 che si destreggiava in mezzo ad autotrasporatori bulgari su strade spesso approssimative ma che in compenso consentiva preziose digressioni per visitare i monasteri, in particolare quelli di Serbia e Kosovo. Impresa tutt’altro che facile: non solo le indicazioni stradali erano praticamente assenti, ma era quasi impossibile per un’auto con targa occidentale passare inosservata e aggirare il divieto di sostare nei pressi di edifici religiosi. Così, diverse volte, volendomi fermare più a lungo in un monastero, dovevo nascondere l’auto al riparo da sguardi inquisitori: una volta, a Zica l’impresa non mi riuscì e, anziché trascorrere la notte in monastero, io e i miei due compagni la passammo nella cella della locale stazione di polizia, finché al mattino un commissario benevolo ci invitò a partire in fretta quand’era ancora buio senza ripassare dal monastero… Eppure erano rischi e fatiche che affrontavo con la gioia nel cuore, per poter visitare monaci e monache con cui ero andato intessendo legami fraterni. Come dimenticare i colloqui con l’igumena di Manassia o con madre Iustina di Zica, una donna forte e sapiente, autentica guida spirituale delle sue sorelle con le quali condivideva il duro lavoro?
Ogni mattina dei camion venivano a caricare le monache per portarle al lavoro nei campi di proprietà collettiva, assieme alle donne semplici dei paesi attorno al monastero. A sera, quando rientravano spossate dalla fatica, le attendeva il canto dell’ufficio notturno in chiesa: ma per loro non era una fatica supplementare, bensì l’autentico coronamento di una giornata spesa nella  ricerca di Dio e nella solidarietà fraterna.


Raramente anche in seguito ho sperimentato la stessa intensità di preghiera in un coro monastico.
E come avrei potuto non commuovermi quando, attraversando il Kosovo al confine con l’Albania al 19 di luglio, vigilia di Sant’Elia, avevo assistito alla festa di un intero villaggio ortodosso serbo dove erano convenuti anche tutti i vicini musulmani per celebrare insieme nella gioia il profeta del Dio unico? Tutti mi invitarono a restare con loro per l’intera giornata e le difficoltà di comunicazione scomparvero di fronte al linguaggio universale dell’uomo di Dio che aveva saputo ricondurre il cuore dei figli verso i padri e il cuore dei padri verso i figli.
Ma il desiderio di conoscere i cristiani e i monaci di oltre cortina mi portava a percorrere anche altre strade, spingendomi a est senza tuttavia mai poter raggiungere la Russia, terra di santi monaci che hanno alimentato la mia ricerca spirituale. Così nell’estate del 1971 vissi una delle avventure spirituali per me più memorabili.
Con il fratello e la sorella che mi accompagnavano


in quel viaggio avevamo deciso di rientrare dalla Romania attraverso la Bulgaria per conoscere qualcosa di quella terra così oscura anche rispetto agli altri Paesi socialisti. A Taizé avevo  conosciuto un giovane monaco di Sofia, che diventerà poi vescovo, e le poche notizie che avevo avuto sui cristiani di là mi erano bastate per mettere in moto la mia curiosità spirituale. Sulla vecchissima cartina stradale che avevo con me erano indicati alcuni monasteri che tuttavia apparivano privi di strade di accesso, quasi punti sperduti nella selva. Uno in particolare aveva  attirato la nostra attenzione perché apparentemente non troppo lontano dal nostro itinerario: Etropolskj. Sì, ma come trovarlo senza nessun cartello stradale, senza poter chiedere a nessuno, tanto meno a poliziotti o a chiunque indossasse una divisa e per i quali la richiesta di indicazioni per un monastero avrebbe costituito fonte di grave sospetto? Infine una semplice contadina ci mostrò  una strada sterrata, poco più di un sentiero tra i boschi, che percorremmo con fatica e trepidazione per quasi un’ora. Finalmente, ecco alcune case in una radura, ma nessun segno esteriore che  indicasse che quello era un monastero. Appena scendiamo dall’auto per chiedere informazioni, ecco tre monache che sembrano fuggire, poi una di loro viene verso di noi mentre le altre la osservano trepidanti nascoste dietro casa. La monaca – come anche le altre che vedremo dopo, una decina in tutto – ha l’abito monastico consumato, pieno di pezze rammendate, irriconoscibile; il corpo appare piegato dalla fatica, ma lo sguardo è colmo di stupore misto a paura.


Conosce qualche parola di francese, ma ci capiamo soprattutto a gesti – un segno di croce, le mani levate nell’atto di pregare – e con poche parole in greco e slavo liturgico. Ed eccole invitarci inchiesa, in quella stanza preziosa nascosta a occhi indiscreti, e intonare il tropario pasquale. Mi  chiedono se sono anche prete e posso celebrare l’eucaristia! Pasqua è passata da mesi, siamo a luglio, ma per quelle monache l’aver potuto vedere a abbracciare dei fratelli nella fede, aver ricevuto la visita di cristiani al cuore del loro nascondimento è davvero evento di risurrezione, promessa di una gioia che nessun regime può soffocare, respiro dello Spirito santo che ridà vita là dove tutto sembrava indicare un progressivo spegnimento. Ci spiegarono che da anni non avevano più  incontrato né un prete né altri cristiani, che vivevano nella paura e che per loro la nostra era una visita del Signore. Cantammo gli uni dopo gli altri canti pasquali propri delle nostre tradizioni,cattolica noi e ortodossa loro, ci abbracciammo scambiandoci la pace e l’annuncio «Cristo è risorto!», poi ci invitarono a far festa alla loro tavola: c’era solo del miele, pane, formaggio e unamarmellata di rosa canina, ma l’atmosfera era veramente pasquale, carica di gioia e di esultanza. Sì, a Etropolskj abbiamo celebrato Pasqua fuori stagione, ed è stata la Pasqua più gioiosa della miavita.

“MANIFESTO per la Buona politica e per il Bene comune”

“Manifesto per la buona politica”dalle associazioni cristiane del lavoro

 

Il Forum delle persone e delle associazioni d’ispirazione cattolica nel mondo del lavoro ha presentato oggi il “Manifesto per la buona politica e per il bene comune”. Si tratta di un’iniziativa che intende risponde agli appelli del Papa Benedetto XVI affinché “i cattolici impegnati nelle istituzioni e nel sociale si facciano classe dirigente attiva, propositiva, visibile nell’affrontare la grave crisi economica che investe il Paese”.

 

Il portavoce del Forum, Natale Forlani, ha sottolineato che il progetto vuole “contribuire al cambiamento della politica”. Il Manifesto, ha proseguito, “rappresenta la capacità del mondo cattolico di proporre e fare qualcosa insieme per affrontare i problemi dell’Italia e contribuire a costruire un’alleanza tra politica e società in grado di affrontare i problemi”. Riguardo all’ipotesi di un partito dei cattolici, ha aggiunto: “Non siamo autosufficienti nel farlo, cerchiamo interlocutori nella politica disponibili”. L’idea, quindi, non sta tanto nella realizzazione “dell’ennesimo partito”, quanto, ha continuato il portavoce del Forum, “nella costruzione delle condizioni per coalizione politiche più omogenee”.

Per Forlani, quindi, “c’è uno spazio per il protagonismo dei cattolici nella politica” e il Forum, promosso da Cisl, Mcl (Movimento cristiano lavoratori), Acli, Confcooperative, Confartigianato, Cdo (Compagnia delle opere), Coldiretti, si propone come “punto di riferimento e unità del movimento cattolico”. Alla domanda se il Forum fosse pronto a fare fronte a un’eventuale vuoto politico, Forlani ha detto “sì”. E ha spiegato: “Costatiamo che le forze politiche in campo non hanno un’autosufficienza, a livello sia di maggioranza che di opposizione, nell’affrontare problemi di oggi, come la riduzione del debito e la necessità di sostenere le famiglie”.

Sulla stessa linea il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: “La politica si rinnova mettendo al centro la persona”, ha evidenziato, precisando che serve “una nuova logica” e “non un nuovo partito”. Inoltre, il leader della Cisl, ha spiegato che la presentazione del Manifesto “non c’entra con la recente iniziativa di monsignor Mario Toso”. Il segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che, qualche giorno fa (il 14 luglio), aveva parlato di un nuovo partito dei cattolici, in occasione del convegno “Cattolici in Italia e in Europa: diaspora, unità e profezia”.

Avvenire 20 07 2011

 

 

Il testo

 

Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro


“MANIFESTO per la Buona politica e per il Bene comune”


I Promotori del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro aderiscono con convinzione, e determinazione all’appello del Papa, ribadito dai Vescovi italiani, per un impegno fecondo dei cattolici rivolto al rinnovamento morale e civile della politica
nazionale.
Per spirito di servizio, non per rivendicare primazie, ma con la finalità di contribuire alla costruzione del bene comune.
Siamo orgogliosi di essere italiani, portatori di valori, di cultura, tradizioni, apprezzati nel mondo e consapevoli di avere un destino comune nel confrontarci con nuovi protagonisti della competizione internazionale, per avviare una nuova stagione di sviluppo e per dare risposte positive alle giovani generazioni, ai territori meno sviluppati, alle persone bisognose.
La strada è quella di una grande, generosa, generale mobilitazione delle energie civili, sociali, imprenditoriali degli italiani che metta in moto le forze positive che si esprimono nella società al servizio del bene comune.
Per fare questo c’è bisogno di una buona politica e di classi dirigenti preparate, motivate, che sappiano suscitare emulazioni positive nelle nostre  comunità, sappia renderle accoglienti verso le persone che vengono da altri Paesi, aperte alla prospettiva di portare a compimento la costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Vogliamo fare un appello alla politica, al mondo intellettuale, ai protagonisti del mondo del lavoro e dell’associazionismo sociale, a partire da coloro che si richiamano e si riconoscono nei valori cristiani per condividere insieme analisi e proposte per impostare un’agenda politica che affronti, con forza, costanza e visione di lungo periodo le questioni decisive.
Sollecitiamo coloro che sono impegnati nell’attività politica a condividere ed a sostenere nel tempo le priorità decisive per il futuro dell’Italia, e che esprimono un’azione prolungata e coerente che caratterizzi il secondo decennio del secolo.


RIPARTIAMO DAI VALORI PER FARE COMUNITA’


Una comunità solidale, e proiettata al futuro, è fondata sulla condivisione di una visione positiva della persona e dell’esigenza di salvaguardarne la libertà e la dignità in ogni ambito: nella nascita, nella salute e malattia, nel benessere e nel bisogno, nell’attività economica, nell’ambiente.
Nessuna sfida è possibile senza coesione sociale, responsabilità, senso del dovere, farsi carico dei bisogni collettivi, rispettare le regole democraticamente stabilite.
Ripensiamo lo Stato per renderlo più snello ed autorevole, valorizzando le autonomie e la sussidiarietà nell’ambito di un Federalismo solidale.
Possiamo affrontare cambiamenti epocali nell’utilizzo delle risorse disponibili, negli stili di vita, e per rendere ambientalmente sostenibile lo sviluppo economico, solo ricostruendo la fiducia nel futuro e nel nostro prossimo.
E’ questo lo spirito che deve animare una nuova stagione di riforme istituzionali ed economico-sociali.


PER UNO SVILUPPO SENZA DEBITO: DIFFONDIAMO PRODUTTIVITÀ, COMPETITIVITA’ ED EFFICIENZA


Ridurre il debito pubblico è fondamentale non solo per evitare al nostro Paese rischi imponderabili per la sua sostenibilità, ma anche perché sono i ceti meno abbienti e le giovani generazioni le vittime predestinate di uno stato indebitato.
Ma il debito è sostenibile se c’è sviluppo.
Fare sviluppo senza debito significa, anzitutto, massimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili e diffondere la produttività.
Dobbiamo ridurre i costi della politica, contrastare le rendite di posizione, l’evasione e l’elusione fiscale e le forme parassitarie e assistenziali che ancora caratterizzano molti ambiti delle amministrazioni pubbliche delle politiche economiche e sociali, risparmiare energia, utilizzare al meglio le risorse disponibili.
Per questi motivi la riduzione del debito deve essere accompagnata dalle riforme. Esistono ampli margini per razionalizzare la spesa pubblica, ridurre l’evasione fiscale, far funzionare la giustizia civile, semplificare la burocrazia, premiare il merito, dando respiro e sostegno alle forze produttive ed alle famiglie che con i loro comportamenti generano sviluppo, occupazione, investimenti sociali.


SOSTENIAMO LE FAMIGLIE


Una società proiettata verso il futuro deve valorizzare il ruolo riproduttivo, educativo e di cura delle persone, svolto dalle famiglie.
La supplenza svolta dalle famiglie verso le carenze dell’intervento pubblico, sta progressivamente diventando insostenibile per gli effetti della crisi  conomica, che indebolisce i redditi e dell’invecchiamento demografico che riduce l’entità e la solidarietà interna ai nuclei familiari.
Dobbiamo favorire la crescita di un mercato di servizi sociali di qualità, con politiche che mettano al centro il ruolo delle famiglie nella crescita dei figli, nell’accesso ai servizi di cura e di conciliazione con il lavoro, per la scelta di percorsi educativi e promuova la crescita di un’offerta di servizi, e di beni relazionali, fatta di imprese, profit e no profit, e di volontariato.


MIGLIORIAMO IL SISTEMA EDUCATIVO


Investiamo in educazione, formazione e ricerca. E’ la condizione per dare un futuro ai nostri giovani e renderli protagonisti delle rivoluzioni tecnologiche e organizzative in atto nell’economia globale.
Miglioriamo il sistema di istruzione valorizzando la pluralità delle offerte formative.
Rimuoviamo gli ostacoli che separano la formazione dal lavoro, valorizziamo le iniziative promosse dalle parti sociali per offrire alle persone, alle famiglie ed alle imprese informazioni corrette ed una maggiore qualità formativa.

 

COSTRUIAMO UN AMBIENTE FAVOREVOLE PER LE IMPRESE


Il nostro sviluppo dipenderà dalla capacità di generare nuove imprese, sviluppare quelle esistenti, attrarre nuovi investimenti, soprattutto in territori meno sviluppati del Mezzogiorno Diamo un valore positivo a chi fa impresa e intraprende, con regole poche e certe, che non ne deprimano lo sviluppo, e una fiscalità sostenibile.
Consideriamo la crescita ed il coinvolgimento delle risorse umane un fattore competitivo per il successo delle imprese sul mercato e una potente leva per  la diffusione della produttività e della qualità del lavoro. Anche per questo, dobbiamo sviluppare relazioni sociali e sindacali che facciano leva sulla cooperazione, tra chi assume il rischio di impresa e chi in impresa vi lavora, e che creino un ambiente favorevole alla crescita delle imprese ed alla  partecipazione dei lavoratori ai risultati.


RIMETTIAMO IL LAVORO AL CENTRO


Riportiamo il lavoro al centro, come fondamento per lo sviluppo della persona, della famiglia, dell’economia e della coesione sociale.
Liberiamo il lavoro dai molti pregiudizi che portano a costruire assurde gerarchie tra il lavoro degli uomini e quello delle donne, degli italiani rispetto agli immigrati, tra lavori manuali e intellettuali, tra dipendenti e autonomi. Tutti i lavori hanno la medesima dignità, e da sempre la mobilità sociale è basata su percorsi che valorizzano un complesso di esperienze umane e professionali.
Attori pubblici e sociali, imprese, educatori e famiglie devono fare ogni sforzo per integrare educazione e lavoro, famiglie e produzione, flessibilità e sicurezza per favorire la crescita di un mercato del lavoro inclusivo soprattutto per i giovani , le donne e gli immigrati.
Riconosciamo i fabbisogni di flessibilità assicurando tutele e remunerazioni adeguate.


PER UN WELFARE MODERNO DIAMO SPAZIO ALLA SUSSIDIARIETÀ


Un Welfare moderno non può prescindere dall’uso efficiente delle risorse e dal concorso responsabile delle persone, delle famiglie e delle organizzazioni sociali, delle associazioni no profit e del volontariato. Diamo spazio, e fiducia, alla sussidiarietà per offrire nuove frontiere per la previdenza, la sanità, l’assistenza, la formazione e le tutele attive nel mercato del lavoro.

 

RINNOVIAMO LE CLASSI DIRIGENTI


Farsi classe dirigente significa, anzitutto, essere portatori di visione, di competenze, valori, capacità organizzative e comportamenti in grado di aggregare motivazioni e interessi generando ricadute positive verso le comunità e le persone.
Innalzare la qualità della classe dirigente del nostro Paese e promuoverne il rinnovamento qualitativo, generazionale e di genere è un obiettivo che  riguarda tutti noi e impegna il nostro modo di fare impresa, associazione, partito, istituzione.
Ci rendiamo disponibili a favorire processi di formazione e selezione di giovani per l’impegno sociale e politico.
Dobbiamo, in particolare, fuoriuscire dalla riproduzione oligarchica delle classi dirigenti alimentata da leggi che impediscono agli elettori di esprimere le proprie preferenze, valutando la credibilità e le competenze dei candidati.
Questo obiettivo può essere colto con l’adozione di una legge elettorale su base proporzionale, garantendo la rappresentanza parlamentare ai partiti politici che abbiano ricevuto un adeguato consenso e vincoli di coalizione che favoriscano la stabilità dei Governi.

L’Italia ce la può fare
Siamo un Paese dotato di grandi risorse: famiglie e comunità generose, uno straordinario tessuto di imprese, una rete di rappresentanze sociali del mondo del lavoro senza uguali, di associazioni e volontari impegnati nei nostri territori come nei paesi in via di sviluppo.
In questo ambito, il contributo dei cattolici, soprattutto delle associazioni che si ispirano ai principi della Dottrina sociale della Chiesa è stato trainante.
Le Encicliche papali hanno accompagnato il protagonismo dei cattolici in campo politico e sociale, e l’impegno ad affrontare le grandi questioni sociali del proprio tempo in modo coerente con i valori cristiani e l’aspirazione a realizzare un umanesimo universale.
Lo vogliamo fare insieme, credenti e non credenti, convinti che i valori, ed i contenuti che ispirano questo manifesto possano costituire un punto di riferimento per l’intera comunità nazionale.

 

L’INTERVISTA


 

Natale Forlani è portavoce del Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro,  promosso da Cisl, Mcl, Acli, Confcooperative, Confartigianato, Cdo, Coldiretti, che stamattina ha convocato una conferenza stampa presso The St. Regis Grand Hotel di Roma. L’obiettivo? Proporre la propria idea di società e presentare un ‘Manifesto per la buona politica e per il bene comune’.


Forlani, quando è nato il Forum?
Siamo nati due anni fa, rispondendo all’appello del Papa e dei vescovi di impegnarsi di più per il bene della nostra nazione. Ci ispiriamo ai valori della dottrina sociale della Chiesa.

Perché la scelta di un ‘manifesto’ attraverso il quale richiamare al valore del bene comune?
Oggi presentiamo il ‘Manifesto per la buona politica e per il bene comune’ perché siamo convinti che abbiamo davanti anni difficili, di trasformazioni radicali che ci porteranno a ripensare non solo stili di vita e di sviluppo: dobbiamo rimuovere gli ostacoli strutturali che impediscono uno sviluppo generazionale. E bisogna ricostruire partendo dal basso, contribuendo alla riforma della classe politica e dirigente. Ripartire dai valori è uno dei punti cardine del Manifesto: è il tempo del fare e del partecipare, più che del protestare e del manifestare

Affrontate anche il tema dello sviluppo e del debito: cosa proponete?
Sì. In questo senso occorre limitare i costi della politica, se pensiamo a uno Stato meno invadente e che orienti le capacità vitali del paese. Occorre liberare risorse per sostenere giovani e famiglia: questa è la bussola che ci guida, perché siamo in una nazione vecchia. Chiediamo anche di riconoscere il ruolo sociale delle imprese, del lavoro.
Più che uno slogan è una necessità. Non stiamo costruendo un partito, ma siamo un’alleanza sociale decisa a fare la sua parte e a ristrutturare la politica, profondamente scollata dalla società civile. Constatiamo che le attuali maggioranze di governo e opposizione non rappresentino le esigenze della gente (a proposito, il Forum è favorevole a una legge elettorale su base proporzionale), e riteniamo che le rappresentanze del mondo cattolico possano mettersi in campo.

Quali sono le vostre prossime azioni?
Il percorso avviato oggi con il Manifesto proseguirà in autunno con un seminario per studiare insieme programmi da veicolare sulla politica; seguirà un confronto con i politici disposti a sostenere le nostre proposte.

19 luglio 2011
Un commento da Avvenire


Geografia dell’Italia cattolica


 

R. CARTOCCI, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino Bologna 2011, 978-88-15-15060-8, pp. 184, Euro 15

 

 

Presentazione

Secondo un’opinione diffusa il cattolicesimo è un tratto unificante degli italiani, con una tradizionale frattura tra Lombardo-Veneto “bianco” e regioni “rosse”. Ma quanto c’è ancora di vero in questa geografia? Quanti sono i cattolici praticanti e in quali aree del paese sono più numerosi? Da alcuni interessanti indicatori (frequenza alla messa, otto per mille, insegnamento della religione, matrimoni civili, nascite fuori dal matrimonio) risulta che i praticanti sono una minoranza del 30-40% concentrata nelle regioni del Sud, la vera zona “bianca”. Per un verso, dunque, il cattolicesimo si accompagna a una sindrome meridionale fatta di minore ricchezza, inefficienza delle istituzioni e carenza di capitale sociale; per un altro, nella generale crisi della partecipazione sociale e politica, i movimenti ecclesiali costituiscono una risorsa tale da fornire alla Chiesa-istituzione un forte potere di veto.

 

 

Roberto Cartocci

è professore ordinario di Scienza politica nell’Università di Bologna. Fra le sue ultime pubblicazioni con il Mulino: “Mappe del tesoro. Atlante del capitale sociale in Italia” (2007).

Diario di una schiappa


Trasposizione filmica della serie in cinque volumi di “Diario di una schiappa” dello scrittore statunitense Jeff Kinney

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Oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo, delle quali 300.000 in Italia. Sono questi i numeri record che segnano il trionfo planetario della serie in cinque volumi firmata dallo scrittore statunitense Jeff Kinney dal titolo Diario di una schiappa. Secondo solo alla saga letteraria di Harry Potter, questo autentico fenomeno editoriale che ha appassionato milioni di giovanissimi lettori a tutte le latitudini (pubblicata in 40 paesi e tradotta in 35 lingue) non poteva non attirare l’attenzione di qualche produttore cinematografico. Arriva così l’adattamento per il grande schermo del primo volume diretto da Thor Freudenthal, nelle sale nostrane a partire dal 27 luglio e seguito a ruota nel weekend successivo dal secondo capitolo Diario di una schiappa – La legge dei più grandi, che ha visto il passaggio del testimone dietro alla macchina da presa a David Bowers.


Da parte sua, Freudenthal si limita a trasformare in immagini, grazie alla supervisione in fase di scrittura dello stesso Kinney, le divertenti e spericolate avventure fuori e tra i banchi di scuola di Greg, alle prese con i piccoli e grandi problemi dell’universo adolescenziale. La pellicola segue alla lettera lo schema narrativo del libro, vale a dire una raccolta indipendente di episodi che non ha una continuità temporale, piuttosto si sviluppa in una successione di eventi e situazioni che vedono il giovane protagonista impegnato nella ricerca della più ingegnosa delle risoluzioni alla problematica di turno. Il film, alla pari della sua matrice originale, non ha una vera e propria trama guida, ma cerca quantomeno di raccordare i singoli episodi attraverso gli spostamenti nello script effettuati nelle location dai personaggi che vanno a comporre la numerosa galleria di volti creati dallo scrittore americano, riflessi di quello che abitualmente si può ritrovare impresso nell’immaginario comune e nei ricordi di ciascuno di noi (il preside cattivo, i genitori distratti, il professore buono e quello severo, il secchione, il bullo, la bella e la brutta, l’amico del cuore sfigato). Ne nasce un collage di gag e sketch più o meno efficace che strappa di tanto in tanto anche un sorriso, supportato da una serie di frammenti animati molto elementare dal punto di vista della resa. Dietro c’è l’inconfondibile retrogusto disneyano che Kinney e gli autori della pellicola non possono scrollarsi di dosso, vuoi perché lo stesso Greg (interpretato dal bravo Zachary Gordon) e il “mondo” che lo circonda hanno troppe attinenze, corrispondenze e atmosfere simili a quelle esplorate nei decenni dalla celebre Major a stelle e strisce. Così c’è la più classica delle strizzatine d’occhio alla teen-comedy adolescenziale, che tante soddisfazioni ha dato al box office o, in alcuni casi, ossia quando ci si trova al cospetto di qualche allegra bravata, assistiamo a dejà vu che riportano alla mente Piccola peste, Gian Burrasca e Mamma ho perso l’aereo.


La trasposizione filmica di Diario di una schiappa mescola in maniera altalenante queste fonti d’ispirazioni, dando vita a una successione di momenti riusciti che si fanno largo attraverso quelli che non lo sono. Resta il fatto che non ci vuole una palla di vetro per pronosticare un certo riscontro nelle sale nostrane del primo e del secondo capitolo della serie (in preparazione il terzo); unici nemici il caldo e la voglia di mare.


Francesco Del Grosso

 

Video n.1

 

 

Video n.2



La vita non è bene disponibile (Dossier)

 

 

Un dibattito intenso e appassionato si è riacceso in Italia in seguito alla discussioone e approvazione della legge sul fine vita.


Riportimao di seguito due brevi interviste a politici cattolici, Giuseppe Fioroni e  Enzo Carra, entrambi esponenti di primo piano di partiti dell’opposizione parlamentare. Il primo del PD  partito che si è espresso contro la regolamentazione pur lasciando la libertà di voto il secoindo dell’API di F. Rutelli. Infine un estratto dell’intertvento alla camera  della cattolica Rosy Bindi,  Presidente del PD .

 

 

“Sbagliato sospendere il cibo la vita non è bene disponibile”
intervista a Giuseppe Fioroni, a cura di Maria Novella De Luca
in “la Repubblica” del 12 luglio 2011

Onorevole Fioroni, oggi lei come voterà?
«Secondo coscienza. Il Partito Democratico ha dato libertà di voto e io intendo seguire questa indicazione».


Il suo partito è fermamente contrario a questa legge, lei invece viene indicato tra quei 15-20 deputati del Pd che voteranno a favore, insieme a Pdl, Lega, Udc…

«Rispondo dicendo che questa legge non andava fatta, la fine della vita è un momento intimo che riguarda quella “comunità di destino” composta dal malato, dai familiari e dal medico, uniti dalla compassione e dal dolore. Il legislatore deve restarne fuori. Però ormai non possiamo più farne a meno».

Perché?
«Perché un terzo potere si è inserito in questo ambito, e parlo dei giudici e della sentenza Englaro.
Ma anche perché bisognava fermare leggi presentate anche da esponenti del mio partito con altre finalità».

Dunque lei voterà con la maggioranza?
«Ci sono dei punti che condivido e altri no. Sono però convinto che non si possano interrompere ad un malato né l´idratazione né la nutrizione, che sono supporti vitali, non terapie. Ma anche perché questo punto ne nasconde un altro».

Quale?
«Come si sente, mi chiedo, una persona anche gravemente malata a cui vengono tolti cibo e acqua? Quanto soffre? Sono medico e lo so: moltissimo. E allora? Cosa farà il medico che la segue? La lascerà nel suo dolore? O dovrà aiutarla a morire senza sofferenza, ipotizzando così però un suo ruolo attivo nell´accorciare la vita di qualcuno? Sono domande enormi, ma non rinviabili».

E poi?
«È un quesito finale, escatologico, che come cattolico mi riguarda in prima persona. La vita è un bene disponibile di cui noi possiamo decidere? È lecito, mi chiedo, lasciarsi morire?».

 

 

«Molto meglio non fare una regola Ma approvarla era il male minore»
intervista a Enzo Carra, a cura di Mariolina Iossa
in “Corriere della Sera” del 13 luglio 2011

«Io avrei preferito non votare alcuna legge ma una volta deciso che legge doveva esserci non potevo che approvarla», spiega il deputato cattolico dell’Api di Rutelli Enzo Carra, ex Margherita. «Speriamo bene adesso».

Lei pensa che sarà difficile mettere in pratica la legge?
«Bisognerà vedere quanto la legge reggerà alla prova dei tribunali, della Corte costituzionale, e dell’intera collettività. Questa legge è frutto di un cambiamento improvviso del dibattito su questo tema avvenuto dopo la sentenza Englaro. Sarebbe stato meglio nessuna legge».

Allora perché avete votato il testo?
«Perché si è trattato del male minore. Dopo il caso Englaro c’è stata una psicosi collettiva che ha portato all’esigenza immediata di mettersi al riparo, di mettere in sicurezza questo valore fondamentale. Soprattutto sulla questione dell’idratazione e dell’alimentazione, i veri punti sui quali c’è stato contrasto. La deriva eutanasica andava scongiurata».

Dunque è soddisfatto.
«Chi come me ha a cuore la libera scelta guarda dentro le cose e ha una maggiore sensibilità a comprendere il punto di vista dell’altro. Del resto, la maggioranza che ha approvato questa legge è molto alta, tutto il Pdl, tutto l’Udc, una parte compatta di Pd, noi e altri. Insomma, una legge votata con una stragrande maggioranza ha un grande peso politico. Tuttavia, nonostante il travaglio sia stato lunghissimo, il dibattito in aula non è stato all’altezza».

 

 

Biotestamento, avete ucciso la volontà
di Rosy Bindi
in “Europa” del 13 luglio 2011

Intervengo per annunciare il voto convintamente contrario del gruppo del Partito democratico a questo articolo, nel quale è racchiusa, potremmo dire, tutta la proposta di legge sulla cosiddetta Dat. Con quest’articolo e con gli emendamenti che avete estratto a sorpresa, come un coniglio dal cappello all’ultimo momento, di fatto vietate la dichiarazione anticipata di volontà e vanificate il lavoro di questi due anni in commissione, per il quale ringrazio l’onorevole Livia Turco, l’onorevole Miotto e tutti i membri della commissione affari sociali.
Prima di questo provvedimento la Dat nel nostro paese non era regolata, oggi è impedita. Voi prevedete, infatti, che si possa esprimere, non la volontà ma un semplice orientamento – ed è davvero difficile capire come la volontà di una persona possa diventare un orientamento – soltanto nel momento in cui c’è assenza di attività cerebrale. È come mettere la Dat in competizione con il testamento spirituale, che io mi auguro si possa ancora fare.
Tutto questo è mosso da un’ipocrisia, quella di chi dice che non avrebbe voluto alcuna legge, ma siccome è entrata in gioco un’autorità terza – il solito magistrato – allora è diventato necessario provvedere a normare questa materia.
Chi vi parla era tentata dalla suggestione di nessuna legge, ma credo che il legislatore possa anche assumersi la responsabilità di intervenire su una materia tanto delicata se lo fa in maniera mite, condivisa, non invasiva, mettendo in atto quelle norme che Leopoldo Elia chiamava facoltizzanti, ovvero che non costringono a fare e non sono autoritarie.
Chi vi parla non ha mai avuto certezze sul caso Englaro. Mi sono chiesta molte volte se la volontà di Eluana è stata violata per molti anni dall’accanimento terapeutico o è stata violata nell’ultimo momento, dall’interruzione delle terapie. Me lo sono chiesta molte volte e l’unica certezza che condivido con voi è che dobbiamo dire no all’eutanasia e all’accanimento terapeutico. Noi non siamo i padroni della nostra vita ma ne siamo i custodi. Ma se siamo i custodi, con questa proposta di legge che vi ostinate ad approvare, la domanda diventa: chi sta espropriando la persona della possibilità di esercitare questa custodia? Chi viene espropriato e da chi viene espropriato? Dal medico? Non sembra, perché gli legate le mani. Dal familiare? Neppure, perché la sua volontà è annullata da queste norme. Dal fiduciario? Ma non si capisce che ruolo abbia.
In realtà, è la persona ad essere espropriata da una legge scritta da un legislatore autoritario, distante, che non è in grado di capire davvero quello che si muove nel cuore delle persone, nella volontà delle persone.
Allora vi chiediamo, ancora una volta: siamo ancora in tempo, fermiamoci, c’è un’altra ipocrisia che si sta consumando. Voi dite che nutrizione e alimentazione devono essere sempre garantite, ma non sarete in grado di farlo con i tagli che con questa manovra vi accingete al sistema assistenziale italiano. E nello stesso tempo private di questa volontà, impegnativa come l’abbiamo definita con i nostri emendamenti, che sono in linea con la Convenzione di Oviedo, con il Comitato nazionale di bioetica, il paziente. Un paziente che, quando è in grado di intendere e di volere, può  rinunciare a questi trattamenti e che non può farlo, ora per allora, quando sarà privo di quella volontà alla quale vi volete sostituire come legislatore.
Vi chiedo – lo chiedo alla maggioranza, alla Lega e soprattutto all’Unione di centro – a quale antropologia state ispirando questa vostra legge? Non certo a quella liberale, non certo a quella cristiana: perché il fondamento del rapporto tra il Dio di Gesù Cristo e gli uomini è la libertà della persona.
(dall’intervento alla camera di ieri)


Altri articoli critici

 

“Anche chi, laicamente, aveva dubbi che l’idratazione e l’alimentazione fossero ipso facto equiparabili a una terapia, assiste attonito al modo con cui quel dubbio sacrosanto è diventato dogma inderogabile. Ciò che viene detto, firmato e vidimato quando si era coscienti diventa carta straccia”
“quel disegno di legge (sostenuto da cattolici che si dicono osservanti) esprime una concezione … ateista e biologista, derivata da un materialismo volgare che riduce l’esistenza alla mera sopravvivenza dell’organismo e non le dà altro senso e destino” “dove è finito il tema grandioso della “libertà cristiana”?” La vita è un dono e quindi indisponibile? In questo caso “si tratterebbe – come dice il filosofo cattolico Possenti – dell’unico dono nell’intera storia universale a rimanere nella piena disponibilità del donatore invece che in quella di chi lo riceva.”
” il capogruppo del Pd è tra quanti, insieme a Rosy Bindi e Margherita Miotto, hanno lavorato per arrivare a un testo che potesse essere condiviso da tutte le anime del partito. Un testo che prevede – … – il riconoscimento delle Dat e il loro carattere impegnativo, nonché la «possibilità», per chi le sottoscrive, di includere la nutrizione artificiale.”
“Se il testo sul fine vita licenziato dalla Camera diventerà legge nel prossimo settembre, dopo l’approvazione definitiva anche del Senato, nel nostro Paese verrà di fatto istituita l’obbligatorietà dell’azione sanitaria. Tale obbligo cesserà in pratica con la sola morte del paziente. Commentatori ben qualificati hanno già da tempo sottolineato i profili di incostituzionalità…”
“È triste e pericolosa una società nella quale si sente il bisogno di fare una legge sulla morte, soprattutto per proibire una buona morte, che in greco si dice eutanasia” “La Chiesa farebbe bene a non mettercisi in mezzo. Per molte ragioni.” “La ragione più spirituale è che nella riduzione della fede ad etica, cioè a casistica dei comportamenti ammissibili, si perde l’essenziale del messaggio di salvezza. … La novità del cristianesimo sta nell’aver portato l’etica, la norma dell’agire, dal dominio della verità al dominio dell’amore, dal regno dell’obbedienza al regno della libertà.”
“«È una legge assurda, inaccettabile, tutto l’impianto fin dall’inizio lo era, ma dopo il voto di ieri è stata pure peggiorata e non credo che in Senato migliorerà»”
“i contenuti. A dir poco schizofrenici, dal momento che promettono un diritto nell’atto stesso in cui lo negano. Ma l’acrobazia verbale sta nelle definizioni. In particolare questa: alimentazione e idratazione forzata non costituiscono terapie (dunque rifiutabili), bensì «forme di sostegno vitale» (dunque irrinunciabili). E perché le terapie mediche sono sostegni mortali?”
“Ho sempre pensato che il testamento biologico… potesse avere anche un valore educativo, perché obbliga ognuno ad affrontare i temi esistenziali, a dibatterli con altri e a interrogare se stesso su come vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel caso tale evento grave si realizzasse. Un dibattito utile quindi alla formazione di una personalità consapevole e cosciente sul grande tema dell’autonomia di decisione”
“Al posto della volontà della persona compare ormai, violenta e invadente, quella del legislatore.
Perdiamo il diritto all´autodeterminazione, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 438 del 2008, ha riconosciuto come diritto fondamentale della persona. Si esclude, infatti, che la persona possa liberamente stabilire quali siano i trattamenti che intende rifiutare qualora, in futuro, si trovi in situazione di incapacità.”
«Non è di certo l’antropologia cristiana ad ispirarli», …«Questa è la prova tecnica del partito dei cattolici».
Non si rendono conto di quello che stanno facendo. Come dicono giuristi e costituzionalisti, imporre per legge a un cittadino che non può più esprimersi ciò che non oserebbero imporre a chi ne ha ancora la facoltà, e imporre l’idratazione e l’alimentazione artificiali quando non si possono imporre nemmeno quelle normali, è anti costituzionale.
“Il testo approvato dal Senato nel 2009, emendato e riscritto dalla commissione Affari Sociali della Camera, appare adesso come un puzzle inestricabile di norme difficili e spesso inesplicabili. Un corpus di divieti in aperto contrasto con la normativa europea sul “fine vita”, e che apre la strada quindi ai ricorsi in tribunale… E molte perplessità arrivano anche dai medici, investiti di una responsabilità enorme, “costretti” anche a non rispettare il desiderio dei pazienti”
“Dopo questa legge nessuno potrà opporsi all’idratazione, all’alimentazione e perfino alla respirazione artificiale. Inoltre l’ultima parola, la decisione finale, spetterà sempre e solo al medico. Se le norme passeranno così, sarà stabilito a maggioranza un atto di violenza psico-fisica verso la persona, una brutale negazione del libero arbitrio”

 

 

Un terreno comune per teologi e vescovi

L’articolo riprodotto qui di seguito. È uscito su “America”, il settimanale dei gesuiti di New York che è un’espressione di punta del pensiero cattolico americano “liberal”.
L’autore, Robert P. Imbelli, è sacerdote dell’arcidiocesi di New York, insegna teologia al Boston College, è stato membro del direttivo dell’associazione dei teologi cattolici americani ed stato tra i fondatori della Catholic Common Ground Initiative promossa dal cardinale Joseph Bernardin, faro del cattolicesimo progressista americano negli anni Novanta.
Scrive inoltre su “dotCommonweal”, il blog della rivista di New York che ha tra i suoi scrittori più in vista padre Joseph A. Komonchak, storico e teologo, curatore dell’edizione in inglese della storia del Concilio Vaticano II prodotta dalla “scuola di Bologna” fondata da don Giuseppe Dossetti.

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UN TERRENO COMUNE PER TEOLOGI E VESCOVI


Il 24 marzo la commissione dottrinale della conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti ha emesso una dichiarazione critica concernente il libro “La ricerca del Dio vivente”, di suor Elizabeth A. Johnson CSJ, già presidente dell’associazione dei teologi cattolici americani. Poco tempo dopo, l’8 aprile, il direttivo di questa associazione ha risposto con una propria dichiarazione, lamentando tra le altre cose le carenze del processo attraverso il quale la commissione era arrivata a quel giudizio. Ciò a sua volta ha dato spunto, dieci giorni dopo, a una lettera del cardinale Donald Wuerl di Washington, presidente della commissione dottrinale dei vescovi. La lettera, “Il vescovo come maestro”, parla delle particolari responsabilità dei vescovi in materia di dottrina, e dei rispettivi ruoli e responsabilità dei vescovi e dei teologi nella Chiesa.

Ma a dispetto dell’apparente disaccordo, chiaramente esistono [tra vescovi e teologi] visioni e impegni condivisi. La dichiarazione dell’associazione dei teologi cattolici americani dice: “Siamo consapevoli delle vocazioni complementari ma distinte dei teologi e del magistero e siamo aperti a ulteriori dialoghi con la commissione dottrinale circa la comprensione del nostro compito teologico”. Da parte sua, il cardinale Wuerl, pur riconoscendo la presenza di inevitabili tensioni, insiste: “Nonostante tutto, quando la buona volontà c’è da ambo le parti, e quando entrambi, vescovi e teologi, sono tesi alla verità rivelata in Gesù Cristo, le loro relazioni possono essere di profonda comunione nell’esplorare insieme nuove implicazioni del deposito della fede”.

 

TRE PUNTI PER UN DIALOGO


Nello sforzo di favorire questo necessario colloquio indico tre punti che meritano la forte attenzione dei vescovi e dei teologi e che richiedono esercizio di giudizio e di dialogo.

Il primo è una rinnovata affermazione che la teologia è una disciplina ecclesiale e che la vocazione del teologo è anch’essa squisitamente ecclesiale. Il primo posto della teologia cattolica è nel cuore della comunità ecclesiale. Alla luce delle parole dei vescovi e dei teologi sopra citate, ciò dovrebbe essere evidente di per sé. Ma (per usare le parole del beato John Henry Newman) una cosa è affermarlo “speculativamente” e un’altra è “realizzare” in pienezza la sua sostanza e le sue implicazioni.

Un fattore cruciale che complica questa realizzazione è che la collocazione sociale della teologia negli Stati Uniti si è visibilmente spostata, a partire dal Concilio Vaticano II, dai seminari alle università. Pur avendo prodotto indubbi benefici, questo spostamento ha anche comportato paralleli svantaggi. Penso in particolare alla perdita di un contesto liturgico condiviso, nel far teologia.

Una iniziativa creativa potrebbe essere, per i vescovi e i teologi del luogo, incontrarsi almeno una volta all’anno nel contesto sia di una celebrazione liturgica, sia di un dialogo teologico. Un elemento distintivo della Catholic Common Ground Initiative lanciata dallo scomparso cardinale Joseph Bernardin fu il suo insistere a svolgere discussioni dentro lo spazio comune di una celebrazione liturgica.

Un secondo punto potenzialmente fruttuoso per vescovi e teologi  potrebbe essere il legame essenziale fra tre dimensioni cruciali della missione della Chiesa: il kerigma, la catechesi e la teologia. Dopo il Vaticano II il ritornello è stato spesso: “Facciamo teologia, non catechismo”. Come appello a rispettare l’originalità del compito teologico, può essere comprensibile. Ma soffre di un doppio distacco dalla realtà ecclesiale. Può insinuare un divorzio tra la teologia e la proclamazione del Vangelo. Se la teologia, come molti accettano, é “fede che cerca intelligenza”, allora essa può difficilmente prescindere dal contenuto di questa fede. Nella prima lettera di Pietro, spesso citata da papa Benedetto, leggiamo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi”. Questa ragione è sempre fondata sulla speranza che è in Cristo Gesù, anzi, che “è” Cristo Gesù.

Inoltre, il divorzio tra la catechesi e la teologia sembra essere nella presente realtà ecclesiale disperatamente astratto. Un ampio arco di commentatori, dai “tradizionalisti” ai “progressisti”, contribuiscono a questa terribile situazione di analfabetismo biblico e teologico che affligge i giovani cattolici. Il bene comune della comunità certamente richiede una rinnovata collaborazione tra i vescovi e i teologi per affrontare questa crisi. Un coro di lamenti o, peggio, una assolutoria assegnazione ad altri delle colpe sono ben lontani da una risposta promettente.

Un terzo punto, il più cruciale, deriva dai primi due. Gli importanti teologi che collaborarono con i vescovi nel produrre i meravigliosi documenti del Vaticano II affermarono a una voce sola l’unica rivelazione di Dio alla quale la Bibbia rende testimonianza. Quindi, il Concilio afferma che “lo studio delle Sacre Scritture” dovrebbe essere “l’anima di ogni teologia”. E sebbene il riferimento diretto sia alla formazione al sacerdozio, la nuova collocazione sociale della teologia, sopra richiamata, dà un’ancor maggiore rilevanza a quest’altra affermazione del Concilio: “Le discipline teologiche, alla luce della fede e sotto la guida del magistero della Chiesa siano insegnate in maniera che gli alunni possano attingere accuratamente la dottrina cattolica dalla divina Rivelazione, la penetrino profondamente, la rendano alimento della propria vita spirituale” (Optatam Totius, 16).

Il richiamo del Concilio a porre lo studio della Scrittura nel cuore del compito teologico è compromesso, tuttavia, se lo studio della Bibbia cessa di fatto di aver a che fare con la Scrittura come testimonianza privilegiata della divina rivelazione. Sfortunatamente, si osserva la tendenza in alcune cerchie degli studi biblici a che diventino il sezionamento di un affascinante e influente testo antico che non è più “sacra pagina” ma piuttosto “pagina ordinaria”. In una situazione come questa la teologia inevitabilmente si trasforma in studi religiosi e sui pochi corsi di teologia sistematica si accumulano pesi che essi sono incapaci di sopportare.

Per spingere la questione più a fondo: questa tendenza minaccia la sostanza cristologica della fede che cerca una più piena intelligenza: intelligenza, non relativizzazione, né tanto meno sostituzione.

L’eminente studioso del Nuovo Testamento Luke Timothy Johnson non si trattiene dal mettere in guardia da un “collasso cristologico” nel cattolicesimo contemporaneo. Egli ha fatto appello sia ai vescovi sia ai teologi perché rendano ragione i primi della loro negligenza pastorale, i secondi della loro capitolazione culturale. Chiaramente ciò non significa lanciare un’accusa indiscriminata. È piuttosto un “grido del cuore” che entrambi i gruppi farebbero bene ad ascoltare (Vedi il saggio di Johnson “On Taking the Creed Seriously”, in “Handing on the Faith: The Church’s Mission and Challenge”, a cura di Robert P. Imbelli, 2006).

Johnson lancia una importante raccomandazione. Insiste: “I teologi devono leggere le Scritture in altri modi, non solo dal punto di vista storico” (suppongo che tra i teologi includa i docenti cattolici di Sacre Scritture). Questo appello assomiglia alla volontà di papa Benedetto XVI nei suoi due volumi su “Gesù di Nazaret” di promuovere una “ermeneutica cristologica”. L’obiettivo e le implicazioni di tale ermeneutica – leggere tutto nelle Sacre Scritture alla luce del loro compimento nel Cristo risorto – potrebbero servire come un primo punto di giudizio, in un incontro tra vescovi e teologi.


OLTRE LA POLARIZZAZIONE


Verso la fine della sua dichiarazione, il direttivo della associazione dei teologi cattolici americani fa una persuasiva citazione della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Vaticano II. Il passaggio dice tra l’altro: “È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta” (Gaudium et spes, 44).

È un passo che esprime bene il compito comune e insieme differenziato dei vescovi e dei teologi. Ma la costituzione conciliare prosegue nel paragrafo immediatamente successivo, che fa da conclusione e sommario dell’intera sua prima parte, col dare una precisa specificazione cristologica di questa “parola di Dio” e “verità rivelata”: “Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale” (n. 45). Questa sublime visione ed impegno possono veramente unire vescovi e teologi “in medio ecclesiae”, in quanto meditano e cercano di capire più in pienezza il contenuto della loro fede comune.

La recente beatificazione di John Henry Newman può spronare a un provvidenziale rinnovamento di un serio incontro tra i vescovi e teologi. Tre aspetti del programma teologico-pastorale di Newman sono proprizi, a questo riguardo. Il primo è il suo grande rispetto per l’ufficio episcopale. Chi conosce gli scritti di Newman sa che tale rispetto non deriva da acritica adulazione, ma da convincimento teologico.

Il secondo è l’apprezzamento di Newman per il posto indispensabile della teologia nel complesso e creativo triangolo di tensioni che costituisce l’unica Chiesa di Cristo. Le dimensioni devozionale, intellettuale e istituzionale della Chiesa invariabilmente si sostengono, sfidano e integrano l’una l’altra. Ciascuna, se diventa egemonica, non può che sminuire il mistero della Chiesa.

Infine, dal momento della sua iniziale conversione alla fede all’età di 15 anni fino al termine della sua lunga vita, Newman ha insistito sul primato del “principio dogmatico” nella vita della Chiesa, non in quanto proposizione ma in quanto persona. Egli scrive: “È l’incarnazione del Figlio di Dio più che ogni dottrina tratta da una visuale parziale della Scrittura (per quanto vera e importante possa essere) l’articolo di fede su cui la Chiesa sta o cade”. Per Newman, come per il Vaticano II del quale egli è stato un precursore ed ispiratore, questa affermazione sull’identità centrata su Cristo della fede è la condizione dell’autentica integralità cattolica.

Quindici anni fa, consapevole di una crescente e debilitante polarizzazione nella Chiesa negli Stati Uniti, il cardinale Joseph Bernardin inaugurò la Catholic Common Ground Initiative. Il documento di fondazione dell’Initiative, “Chiamati a essere cattolici: la Chiesa in un tempo di pericolo”, analizzava a fondo la situazione pastorale e offriva principi e linee guida pieni di speranza per andare avanti. Il principale tra essi era il seguente: “Gesù Cristo, presente nella Scrittura e nei sacramenti, è al centro di tutto ciò che facciamo; egli deve sempre essere la misura e non il misurato”. Gesù Cristo rimane sempre l’unico fondamento sul quale sia i teologi che i vescovi possono poggiare sicuri.


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Il settimanale dei gesuiti di New York su cui è uscito l’articolo di Robert P. Imbelli, nel numero del 30 maggio 2011:

> America

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tratto da:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348630

Anche per gli Idr il concorso DS

 

2.386 posti di Dirigente Scolastico per parecchie decine di migliaia gli insegnanti che vorranno coglierre questa opportunità.

Per la prima volta, ci saranno anche gli Idr, visto che i requisiti per accedere al concorso sono: il possesso di una laurea ed un servizio di ruolo di almeno cinque anni.

 

 

di Sergio Cicatelli

 

 

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 15 luglio il bando del nuovo concorso per dirigente scolastico. Si tratta di un atto che tutto il mondo della scuola stava aspettando con legittima trepidazione, sia per l’oggettiva rilevanza di una procedura di reclutamento che costituisce l’unica possibilità di “carriera” per gli insegnanti italiani, sia per i tagli apportati proprio agli organici dei dirigenti scolastici nelle ultime settimane e che avevano messo in forse lo stesso concorso.

La cospicua quantità di posti in palio (2.386) rende ulteriormente significativa questa scadenza per tutto il mondo della scuola e si prevede che saranno parecchie decine di migliaia gli insegnanti che vorranno cimentarsi con questa opportunità. Tra di loro, per la prima volta, ci saranno anche gli Idr, visto che i requisiti per accedere al concorso sono semplicemente il possesso di una laurea ed un servizio di ruolo di almeno cinque anni. Gli Idr entrati in ruolo con il primo (2005) e il secondo contingente (2006) rispondo dunque al requisito del servizio, ma il possesso della laurea ridurrà di molto le aspirazioni di qualcuno. Occorre infatti una laurea magistrale (quinquennale) o di vecchio ordinamento (quadriennale) valida nell’ordinamento civile; e purtroppo la gran parte dei titoli ecclesiastici posseduti dagli Idr non godono di riconoscimento o equipollenza. Quindi, chi non possiede comunque una laurea civile, potrà partecipare al concorso solo se in possesso di una licenza in Teologia o Sacra Scrittura, le uniche ammesse a godere di equiparazione in base alla legislazione pattizia. I baccalaureati, i magisteri in scienze religiose o le lauree triennali non sono quindi ammessi.

A prescindere dal numero relativamente ridotto di Idr che potranno partecipare al concorso, l’occasione è importante per il riconoscimento di professionalità e per la permeabilità consentita rispetto al sistema scolastico. La legge 186/03 ha infatti escluso che gli Idr di ruolo possano transitare in altri insegnamenti, anche se in possesso dei relativi titoli di qualificazione, e il concorso per dirigente è l’unica occasione di mobilità professionale (ascensionale) all’interno del comparto scuola.

Gli Idr che riusciranno a vincere il concorso potranno così mettere al servizio della scuola l’esperienza maturata, che si distingue da quella di tanti altri docenti per il fatto di svolgere il proprio servizio in un gran numero di classi e con un gran numero di alunni, potendo quindi disporre di quel punto di vista sistemico che è specificamente richiesto a un dirigente scolastico e che difficilmente si può riscontrare in docenti abituati a guardare la scuola da un punto di osservazione molto più limitato.

Il concorso si compone di due prove scritte e un colloquio. Chi supera le prove viene ammesso a frequentare un corso di formazione e un tirocinio, al termine del quale ci sarà l’assunzione. Se la ristretta tempistica ministeriale sarà rispettata gli incarichi dei nuovi dirigenti potrebbero già essere affidati all’inizio dell’anno scolastico 2012-13, ma è lecito avere dubbi su una procedura così rapida.

Prima di arrivare al concorso vero e proprio, però, c’è da superare una prova preselettiva che è già prevista nella seconda metà del prossimo mese di settembre, e questa prova costituisce al momento la difficoltà principale con cui si andranno a scontrare tutti i candidati. Occorre infatti rispondere a 100 quesiti a risposta chiusa nel tempo di 100 minuti, spaziando tra una varietà di materie che possono facilmente disorientare chi non possa contare su una preparazione accumulata negli anni. La prova si articola infatti sulle seguenti otto aree tematiche:

a) Unione Europea, le sue politiche e i suoi Programmi in materia di istruzione e formazione, i sistemi formativi e gli ordinamenti degli studi in Italia e nei paesi dell’Unione europea, con particolare riferimento al rapporto tra le autonomie scolastiche e quelle territoriali e ai processi di riforme ordinamentali in atto;

b) Gestione dell’istituzione scolastica, predisposizione e gestione del piano dell’offerta formativa nel quadro dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e in rapporto alle esigenze formative del territorio;

c) Area giuridico-amministrativo-finanziaria, con particolare riferimento alla gestione integrata del piano dell’offerta formativa e del programma annuale;

d) Area socio-psicopedagogica, con particolare riferimento ai processi di apprendimento, alla valutazione dell’apprendimento e dell’istituzione scolastica, alla motivazione, alle difficoltà di apprendimento, all’uso dei nuovi linguaggi multimediali nell’insegnamento e alla valutazione del servizio offerto dalle istituzioni scolastiche;

e) Area organizzativa, relazionale e comunicativa, con particolare riguardo alla integrazione interculturale e alle varie modalità di comunicazione istituzionale;

f) Modalità di conduzione delle organizzazioni complesse e gestione dell’istituzione scolastica, con particolare riferimento alle strategie di direzione;

g) Uso a livello avanzato delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche più diffuse;

h) Conoscenza di una tra le seguenti lingue straniere a livello B1 del quadro comune europeo di riferimento: francese, inglese, tedesco, spagnolo.

La domanda di partecipazione al concorso, cioè alla prova preselettiva scade il prossimo 16 agosto. I tempi sono davvero brevi e i concorrenti sono tanti e agguerriti.



 

Ave Mary

Michela Murgia, Ave Mary.  E la Chiesa inventò la donna, Einaudi, Torino, 2011. € 16.00

 

 


Presentazione

La chiesa è ancora oggi, in Italia, il fattore decisivo nella costruzione dell’immagine della donna. Partendo sempre da casi concreti, citando parabole del Vangelo e pubblicità televisive, icone sacre e icone fashion, encicliche e titoli di giornali femminili, questo libro dimostra che la formazione cattolica di base continua a legittimare la gerarchia tra i sessi, anche in ambiti apparentemente distanti dalla matrice religiosa. Anche tra chi credente non è. Con la consapevolezza delle antiche ferite femminili e la competenza della persona di fede, ma senza mai pretendere di dare facili risposte, Michela Murgia riesce nell’impresa di svelare la trama invisibile che ci lega, credenti e non credenti, nella stessa mistificazione dei rapporti tra uomo e donna.

 

Da tempo si attendeva l’opera terza di Michela Murgia, dopo l’ottimo successo del suo “Acabadora” (Einaudi), caso editoriale e buona operazione di marketing che hanno ben funzionato insieme, perché, di fatto, si tratta di un bel romanzo ben promosso, e la scrittrice sarda stupisce tutti dando alle stampe un saggio: “Ave Mary” (Einaudi 16 euro) che, recita la quarta di copertina, “non è un libro sulla Madonna. È un libro su di me, su mia madre, sulle mie amiche e le loro figlie”. Un bel libro, davvero; scritto bene, con un linguaggio moderno, pop, che fa eco al new journalism americano. Il volume, insomma, si inserisce a buon titolo nel filone dei saggi redatti da scrittori attenti e impegnati (engagé come dicono i francese) che vanta nomi importanti quali Moravia, Vargas, Steinbeck, Ben Jelloun, Vargas Llosa e altri ancora. Il libro tratta del ruolo della donna nella dottrina cristiana e, soprattutto, della rappresentazione simbolica del femminile in ambito religioso. Non è un saggio femminista e la Murgia non smette di ripetere e sbandierare la sua appartenenza al mondo cattolico (è membra, da sempre, di Azione Cattolica). Si tratta di uno scritto che analizza, dal punto di vista di una credente ortodossa, ma critica in quanto donna, come la cultura cristiana e cattolica abbiano imposto a Dio di essere “solo e sempre a immagine dell’uomo, del maschio”. Il libro scorre via con uno stile mai pesante e pedante, con una struttura giornalistica d’inchiesta che è lontana dallo stile tipico del saggio teologico. Molto interessante l’ultimo capitolo dedicato al sacramento del matrimonio e a ciò che ne viene della donna al momento del fatidico si: il modello non è Adamo/Eva, neppure Giuseppe/Maria, ma Cristo/Chiesa, con tutto quello che ne consegue da un punto di vista sociale, civile e religioso. Sono pagine  da leggere, che fanno pensare. Una lettura per tutti, laici e soprattutto religiosi.  Buona lettura.

“All’Azione Cattolica col biondo Nemecsek”
intervista a Michela Murgia, a cura di Mirella Serri
in “La Stampa” del 16 luglio 2011

 

«Regalare libri è come attivare una bomba a orologeria che magari non deflagra subito ma si accende anche molto tempo dopo». Il pacco dono che ha innescato la miccia di Ave Mary polemico
saggio Einaudi di Michela Murgia su Maria di Nazareth, approdato velocemente nelle classifiche – è stato un gentile omaggio di più di dieci anni fa del teologo Lucio Casula. «Si trattava di In memoria di lei, fondamentale ricerca di Elisabeth Schüssler Fiorenza che è rimasta stampigliata nella mia memoria dando origine all’avventura di Ave Mary poiché mi ha aperto gli occhi sul rapporto tra donne e Chiesa», commenta la scrittrice che ha esordito con Il mondo deve sapere (Isbn edizioni), la prima eclatante denuncia dello sfruttamento dei lavoratori dei call center. Da cui  Paolo Virzì ha tratto il film Tutta la vita davanti .

L’anno scorso si è conquistata il Campiello con Accabadora (Einaudi) e ora è entrata nella schiera degli scrittori che – da Piergiorgio Odifreddi a Giulio Mozzi, autore con Valter Binaghi di 10 buoni motivi per essere cattolici (Laurana editore) – si cimentano con temi religiosi («Mozzi l’ho apprezzato, ma Odifreddi, che si dichiara ateo, è meglio che non si occupi di temi che possono essere di pertinenza di un cristiano critico»). Cumula successi letterari ma ha alle spalle una vita di precariato – venditrice di multiproprietà, operatore fiscale, dirigente amministrativo, portiere di notte -, una lunga militanza nell’Azione cattolica, studi di teologia all’istituto di Scienze religiose.
La narratrice di Cabras è, insomma, proprio una tipa tosta e dura al pari di quei cristalli di quarzo bianco e rosa che danno luce alle bellissime spiagge dove è vissuta e cresciuta.

 

La sua carriera di lettrice ha preso avvio tra sapori di mare e anche profumi di fritti delristorante paterno.
«Specialità pesce. Io viaggiavo con un piatto in mano e in tasca Erno Nemecsek, biondo, delicato e magro protagonista dei Ragazzi della via Paal , destinato a morire di polmonite. Nessun libro è innocente, lascia sempre un’impronta indelebile. Erno è il primo morto che incontro nella mia vita, un ragazzino che come me giocava per strada. Un trauma. A farmi compagnia c’era anche Mark Twain con Le avventure di Tom Sawyer, meraviglioso per l’invenzione linguistica. Poi è arrivata la serie degli Harmony che ha avuto un’influenza positiva. Mi identificavo con quelle giovani  donne, protagoniste semplici e sognanti che ambivano a una casa, un giardinetto, tanti bambini ma che trovavano tanti ostacoli sulla loro strada. Oggi circolano molti snobismi. Credo che non si debba disprezzare la letteratura di genere. Federico Moccia, per esempio, dà vita a cliché in cui i giovani si riconoscono, riprende la storia di Giulietta e Romeo e la cala nel presente. Tutto questo invoglia alla lettura».

In famiglia si leggeva?
«Mia madre soprattutto, e mi ha contagiato. Un virus che non sempre ha dato buoni frutti».


Cos’è successo?

«Avevamo un piccolo negozio in cui si vendevano oggetti di artigianato locale ma anche qualche manufatto di valore. E io anche lì davo una mano. Ero tutta immersa in Stephen King che mi teneva con il fiato sospeso quando, nella stanza a fianco alla mia, arrivano i ladri: così concentrata non li sento e loro si portano via un plateau di gioielli».

Un libro cambia la vita, direbbe Marzullo. Qualche volta in peggio.
«Quella della mia famiglia non c’è dubbio. Mi assolsero dalle mie colpe, ma poi arrivò anche un altro libro a mutare il corso della mia esistenza. Mi dedicavo interamente, con grande trasporto, al volontariato nell’Azione cattolica. All’epoca il mio autore preferito era Erri De Luca che mi travolgeva con lo stile semplice e per la grande profondità della riflessione. A seguire i miei corsi di religione a scuola, su Gesù, San Pietro o gli apostoli, c’erano anche allievi che non erano credenti.
Per coinvolgerli mettevo a confronto cinema, musica, arte, letteratura, mostrando le differenze tra i dissacratori Black Sabbath, gruppo heavy metal britannico, e il più tradizionale Jesus Christ Superstar ; oppure tra il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e Gesù di Nazareth di Zeffirelli. Mi cimentai anche nel confronto tra Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori e L’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis, assai discusso per il suo impegno nel dimostrare che il figlio di Dio, pur privo di peccato, era comunque oggetto di ogni forma di tentazione».


Fu galeotto di sventura?

«Venni chiamata in Curia, io che ero vicepresidente diocesano dell’Azione cattolica di Oristano. Il vescovo mi dice: “Carissima, ti seguo con stima e affetto, ma di Kazantzakis non ne devi parlare”.
L’ho vissuto come un affronto. Giro pagina e cerco altri sbocchi professionali, cominciando ad acquistare competenze come direttore del personale in una centrale termoelettrica».

Altre letture che l’hanno segnata?
«Leggevo grandi russi e grandi italiani. Passavo da Dostoevskij a Salvatore Satta, da Tolstoj a Giuseppe Dessì. Poi è arrivato Kafka e poi c’è stato il periodo della letteratura latinoamericana, da García Márquez a Isabel Allende a Borges. Gli inglesi e gli americani non me li sono mai fatti mancare: dal Grande Gatsby di Fitzgerald a Graham Greene al meraviglioso Cronin de Le chiavi del  regno , racconto delle vicende di padre Francis Chisholm, missionario in Cina. A questi si aggiunge la scoperta di italiani, Moravia, in particolare La noia , Calvino, Primo Levi e poi degli story teller Ken Follett e Wilbur Smith e anche degli ebrei americani, da Philip Roth a Paul Auster».


E’ capitato che altri libri regalati segnassero il corso della sua vita? In campo sentimentale?

«Un coetaneo che pensavo mi corteggiasse mi porta un dono: Stefano Benni Il bar sotto il mare , raccolta di racconti dove il bar è un luogo fantastico, si incontrano misteriosi avventori. Però poi la nostra storia non ha decollato: voleva un rapporto intellettuale. Alle ragazze con cui si desiderava avere un flirt si offrivano cd».


Quando lavorava come portiere di notte leggeva?

«Antropologia, sociologia, psicologia mi accompagnavano fino alle prime luci del mattino. Mi ricordo Filippo D’Arino, Manuale di sparizione , che spiega come in un momento in cui la nostra identità è al centro di reti di controllo telematiche sempre più intrusive e anche di relazioni personali sempre più vincolanti e soffocanti, forse non si vuole altro che sparire. Alternavo il Simposio di Platone e Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo che mette in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista».

Ultimi lidi su cui è sbarcata?
«Sorella di Marco Lodoli mi ha riconciliato con la narrativa. Ho alzato il telefono e anche se non lo conoscevo l’ho chiamato per dirgli quanto mi è piaciuto l’incontro tra la suora Amaranta e “il bambino speciale”, un ragazzino afflitto da una forma di autismo, raccontato con una scrittura agile, piacevole, intensa. Poi c’è Elisa Ruotolo, Ho rubato la pioggia , con il suo affresco di una  provincia campana superstiziosa, terra dove si fanno mestieri inverosimili da tempi immemorabili. E perché si smetta di utilizzare il corpo femminile come luogo simbolico, sia nel bene che nel male, mi piace ricordare il video di Lorella Zanardo dedicato al Corpo delle donne. Meditate gente davanti a certe immagini, mi viene da dire».