TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009.
Presentazione L’attenzione alla secolarità ha avuto un momento felice nel recente passato; ora sembra attenuarsi.
Le considerazioni che proponiamo vogliono offrire uno stimolo a ridare risonanza ad una situazione secolare che è la nostra.
Nella prima parte si propongono in un seguito di riflessioni appena organizzate, quasi un itinerario.
Tuttavia non un itinerario già fatto, ma tracce perché ciascuno se lo inventi.
Raccolgono momenti anche occasionali di riflessione, offerti dalle situazioni del vivere quotidiano.
La vita è carica di richiami che la sfiorano appena: perché non fissarli di tanto in tanto, sostarvi con attenzione e lasciarli parlare?…
Possono costituire una breve sospensione all’urgenza delle cose da fare.
C’è qualcosa di più urgente e magari appassionante dell’esplorazione di quello che siamo e più ancora di quello che vogliamo essere? Rappresentano uno spazio e un tempo sottratti al fare, dedicati all’essere per accorgerci che siamo imbarcati, per identificare il porto, per verificare se Qualcuno ci attende all’approdo, per preparare l’incontro.
La seconda parte, più teoretica, sulla creazione è offerta a conferma indispensabile per dare credibilità ad uno stile sereno di abitare il mondo, che Dio ha escogitato ed ha offerto alla nostra fatica, ma anche alla nostra contemplazione.
Collana: Spiritualità secolare – Pasqua 2009 La secolarità nell’orizzonte della creazione (Una pausa di contemplazione nel ritmo della quotidianità) Presentazione Introduzione Parte Prima: Suggestioni dall’esperienza quotidiana 1.
Passaggio all’interiorità 2.
Inquietudine 3.
Il volto 4.
Invocazione 5.
La Secolarità 6.
L’orizzonte della responsabilità.
7.
Quale approdo? Parte seconda: Suggestioni dalla ricerca teologico-biblica 8.
In principio Dio creò 9.
Bibliografia di riferimento Indice
Categoria: Novità
La sezione Novità con le sue rubriche tiene aggiornati gli educatori sulle novità che: negli eventi, nell’editoria e nel cinema interessano l’educazione religiosa.
Identità dissolta

In questa pagina pubblichiamo alcuni stralci del capitolo su «Laicità dello Stato e religioni».
L’aggettivo laikós indicava originariamente un membro della Chiesa, che fa parte del laós tou theou, il «popolo di Dio».
Ciò è ancora più evidente se si considera la traduzione latina del termine, che non è il generico populus, bensì plebs, che indicava specificamente la comunità cristiana.
L’inevitabile evoluzione del termine nei secoli successivi è specchio non solo di peculiari condizioni storiche – particolarmente, in questo caso, le divisioni provocate all’interno della comunità cattolica dalla Riforma protestante nel XVI e XVII secolo –, ma anche e soprattutto dell’orizzonte culturale a essa sotteso.
Si è così progressivamente giunti a identificare la condizione di «laicità» come uno stato di autonomia della politica dalla sfera religiosa e come indice della possibilità di raggiungere la verità tramite la sola ragione, prescindendo dalla fede.
In entrambi i casi, l’autentico significato del termine, per come si è evoluto nel corso dei millenni, è stato snaturato.
Se da una parte, infatti, non si può non concordare sul concetto di distinzione dei poteri e dei ruoli che spettano rispettivamente alla Chiesa e allo Stato, è invece difficilmente condivisibile la tesi secondo cui uno Stato è «laico» perché nel suo legiferare prescinde completamente dalla religione e dai suoi contenuti.
Questa posizione si può riassumere con la massima di Ugo Grozio, fatta propria, quasi fosse una formula magica, dal movimento secolarista, il quale però ne ha corrotto il significato originale: etsi Deus non daretur, «come se Dio non ci fosse».
Analogamente, è assurdo temere che la verità della fede possa attentare all’autonomia della ragione, oppure teorizzare che solo questa possa raggiungere la verità, e fa meraviglia che i fautori di tali posizioni non ne siano coscienti.
Se si è giunti a questa concezione moderna del termine «laicità» – è bene ribadirlo –, in ambito sia filosofico sia politico, è solo perché nel cristianesimo si erano precedentemente sviluppate le forme concettuali ed espressive che ne permisero il comune riconoscimento, nonostante l’uso ambiguo e spesso strumentale a cui il termine è soggetto.
Rivendichiamo, pertanto, la primogenitura di questa concezione, non per orgoglio – anche se avremmo tutti i diritti per farlo –, ma esclusivamente perché ci venga riconosciuto un diritto di originalità che non ci può essere sottratto, se non altro per rispetto della verità storica.
Ultimamente, si sente parlare sempre più spesso di «etica laica».
Cosa si nasconda dietro questa espressione è facile immaginarlo, alla luce di quanto abbiamo esposto in precedenza.
Di fatto, si vuole imporre questo concetto per accreditare la tesi di un’autonomia, soprattutto dalla sfera cattolica, in grado di favorire la scienza e così produrre progresso.
Quanto questa visione sia ingenua è evidente.
Per sua stessa natura l’etica non ha alcuna colorazione e ogni sua ulteriore qualificazione risulta pleonastica.
L’etica, infatti, riconosce il primato della ragione e assieme alla ratio giunge ai principi fondamentali che stanno alla base della vita personale.
Difendere in ambito politico l’esistenza di un’etica «laica» indipendente dalla «morale cattolica» è giusto e corretto, ma ciò non implica che i loro contenuti debbano essere necessariamente contrapposti.
Significherebbe non percepire il nesso costitutivo che intercorre tra etica e morale cattolica e creare artificiosamente, e con intenti strumentali, un’inesistente contrapposizione.
Per quanto possa apparire paradossale, oggi gli Stati hanno urgente bisogno di confrontarsi con la questione della verità; devono ricercarla incessantemente e proporla ai cittadini soprattutto quando questa ha a che fare con i diritti fondamentali della persona, come quelli che riguardano la vita e la morte.
Dinanzi a quei problemi etici particolarmente controversi, lo Stato deve confrontarsi con la verità e specialmente con quella proposta dalla religione, che più di ogni altra conferisce valore alla dignità della persona.
Il concetto di tolleranza, applicato oggi ai più svariati ambiti – si pensi per esempio alla tolleranza razziale, politica, etnica, sessuale, culturale –, non è di aiuto per risolvere la situazione conflittuale nella quale ci troviamo.
Lo Stato non può assestarsi in una sorta di neutralità che tutti accoglie e nessuno predilige.
Deve senz’altro adoperarsi per riconoscere e difendere le minoranze, anche quelle religiose, ma ciò non può andare a detrimento della maggioranza presente nel Paese, che ne rappresenta la storia, la tradizione e l’identità.
Infine, riteniamo che in questa sua ricerca e attuazione della verità, lo Stato «democratico» sia chiamato a tenere fede a questo suo fondamentale attributo.
In virtù del suo essere democratico, lo Stato non solo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche saperne accogliere – solo in un secondo momento temperandole – le eventuali ingerenze.
Non si tratta di una questione di laicità ma di democrazia, che dà prova di maturità accettando i rischi di tale condizione.
La Chiesa invece, richiamandosi a principi che hanno un’origine superiore a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi ingerenza dello Stato riguardo ai propri contenuti.
Ciò non rende una superiore all’altro, ma semplicemente riconosce l’autonomia e l’autoctonia di entrambe le istituzioni.
La cosa può apparire paradossale, e lo è.
La democrazia, obbligata per sua costituzione ad accogliere in sé elementi che vanno oltre la sfera della politica, trova in sé anche i mezzi per neutralizzare eventuali schegge impazzite.
La Chiesa, da parte sua, ben conosce i limiti entro cui può operare.
Gli Stati, a volte, ricorrono al Concordato per ratificare i rapporti tra le due istituzioni; si tratta comunque di uno strumento, non di un fine.
Ciò che caratterizza la presenza della Chiesa nella società è l’annuncio di un’esistenza che non si esaurisce nelle situazioni e nelle eventualità regolamentate dalle leggi emanate dagli Stati, ma va oltre.
L’irrilevanza del messaggio cristiano potrebbe sembrare segno della laicità acquisita dallo Stato, ma in realtà si tratta soltanto di un sintomo della debolezza congenita delle strutture che, in tal modo, manifestano la povertà culturale che le minaccia.
I seguaci di Voltaire storceranno il naso, ma, se vorranno essere coerenti, saranno obbligati, oggi più di ieri, a legittimare la nostra esistenza all’interno della società; eppure, non potranno esimersi dall’affermare che siamo un’anomalia, una presenza fortuita, accidentale, addirittura fastidiosa soprattutto in questi ultimi tempi, perché tanto ingombrante con le sue certezze e i suoi dogmi.
La pretesa di verità che rechiamo contraddice il loro principio di tolleranza – espressione genuina di dogmi laicisti – secondo il quale sarebbe meglio per tutti, e per il progresso della società, se fossimo confinati nel privato, senza alcuna possibilità di esprimerci pubblicamente su questioni di carattere sociale ed etico.
Non è lontano da questa stessa tentazione anche chi si richiama a una rinnovata comprensione dello Stato etico, che legifera non solo prescindendo dalla morale presente nella società, ma si arroga la facoltà di presentarsi come istanza morale assoluta, traendo dall’ideologia l’ispirazione per i propri interventi legislativi.
L’apertura degli Stati generali a Versailles il 5 maggio 1789, uno degli atti fondanti della Rivoluzione francese Rino Fisichella RINO FISICHELLA, Identità dissolta.
Il cristianesimo, lingua madre dell’Europa, Mondadori, Milano 2’009, pp.
144, euro17.
Va in libreria da oggi «Identità dissolta», il nuovo libro di monsignor Rino Fisichella su «il cristianesimo, lingua madre dell’Europa» (Mondadori, pp.
144, euro17).
L’arcivescovo rettore dell’Università Lateranense nonché Presidente della Pontificia Accademia per la Vita cerca di rintracciare nella matrice religiosa scaturita dal Vangelo un’«impronta» genetica, quasi un denominatore comune che continua ad essere utile per la crescita anche sociale e civile del Vecchio Continente, soprattutto in questo momento «gravido di sfide» in cui il pluralismo, le migrazioni, il multiculturalismo contribuiscono a rendere più vaga l’identità europea.
L’ultimo capitolo è dedicato all’«emergenza educativa», argomento dell’appena concluso Forum del Progetto culturale della Cei.
Da tempo si assiste, in Europa, a un progressivo distacco della vita e della discussione politica dalle istanze della religione, in particolare quella cristiana.
In un mondo multiculturale e multireligioso e in un contesto europeo in cui sempre più sono gli immigrati che professano fedi non cristiane e sempre più sono i laici che contestano la validità e l’importanza della religione nell’epoca moderna, sembra forse giusto e condivisibile lasciar perdere, come un relitto che viene da un tempo ormai finito, la matrice religiosa cristiana che accomuna tutti i paesi del continente.
Tuttavia, come sostiene il cardinale Fisichella, questo sarebbe un grave errore: proprio perché in difficoltà nella definizione della propria identità, l’Europa dovrebbe fare tesoro delle sue radici che affondano nella religione cristiana.
Attraverso di esse, infatti, laici e credenti di tutti i paesi europei possono rifarsi a un quadro etico e morale condiviso, a una vera concezione di rispetto e tolleranza interreligiosa, a una base filosofica naturale per i diritti umani fondamentali.
Pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo del volume Identità dissolta (Milano, Mondadori, 2009, pagine 138, euro 17).
Non mi è stato facile dare un titolo a questo saggio.
Alla fine l’idea vincente si è condensata in due parole: Identità dissolta.
L’aggettivo, però, merita di essere precisato per non dare al lettore l’impressione che l’analisi compiuta nelle pagine seguenti sia permeata di un latente pessimismo che non mi appartiene.
Spesso negli ultimi anni si è parlato giustamente di identità dell’Unione europea.
Una realtà come questa, che nasce sulla base di tradizioni culturali diverse, dovrebbe costruirsi intorno a tratti comuni che lascino percepire chi è il soggetto in questione.
E mia forte convinzione che per poter offrire un contributo significativo a questa tematica sia necessario ripercorrere un cammino che appare spesso offuscato, quando non del tutto sconosciuto.
C’è stato un tempo in cui l’identità dei popoli che costituivano l’attuale Unione europea era evidente, chiara e subito riconoscibile.
Oggi non è più così.
Negli ultimi decenni si è creata progressivamente una condizione di dissolvimento di questa identità, che appare drammatica in quanto a essere in gioco è la sorte delle giovani generazioni.
La ricchezza economica raggiunta, le sofisticate tecnologie disponibili e lo stile di vita acquisito sembrano aver favorito la disgregazione dell’identità conservata per secoli, che si è sciolta come neve al sole.
Le radici su cui era cresciuta la cultura europea sembrano essersi seccate e così la pianta non produce più i frutti sperati.
La storia di generazioni di persone che per secoli hanno vissuto con punti di riferimento normativi per la convivenza sociale viene oggi confutata e contraddetta.
Dunque, l’immagine che se ne ricava è proprio quella di un’identità dissolta.
Non sono, però, un pessimista.
E il sottotitolo del libro lo vuole in qualche modo confermare.
Prendo le mosse da una frase di Goethe: “L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il cristianesimo”.
L’immagine è limpida e, per alcuni versi, solo un poeta poteva descrivere con un unico verso la complessità della realtà.
L’Europa è nata cristiana, e soltanto nella misura in cui conserverà questa identità potrà realizzare ciò che è stata nel passato e ciò che le permetterà di sopravvivere nel futuro senza dissolversi.
Un popolo privo di religione, infatti, tende a perdere coesione e si indebolisce sempre più fino a smarrire completamente la propria identità.
La frase di Goethe coglie una verità che spesso oggi viene volutamente dimenticata da molti: l’Europa, fin dal suo nascere, ha conosciuto il cristianesimo come suo fondamento.
Le ragioni politiche che hanno portato a un serrato dibattito e al mancato inserimento delle radici cristiane nel Preambolo della nuova Costituzione europea hanno mostrato che spesso, anche contro la verità storica, prevale l’opportunismo che tende a negare perfino l’evidenza.
Non è intenzione di queste pagine entrare nel merito del dibattito politico sulle radici cristiane.
Su questo punto tanto si è parlato e poco si è fatto, preferendo cedere alla prepotenza di pochi.
Le radici cristiane dell’Europa, d’altronde, sono talmente visibili che non meritano lo sforzo di una giustificazione.
Chi è responsabile della loro esclusione dalla magna charta, in qualsiasi parte dell’Europa si trovi, sarà ricordato anche per aver ricevuto una risposta negativa quando le popolazioni sono state giustamente interpellate per dare il loro consenso.
Ciò che a noi preme è non far perdere la memoria storica.
È giusto infatti che quanti si affacciano a considerare il nuovo soggetto in questione sappiano che l’Europa non è stata inventata oggi, ma ha fondamenta radicate nei secoli passati.
In questo contesto non si può dimenticare la grande azione svolta da Papa Giovanni Paolo II.
Tra i suoi numerosi interventi in proposito, uno particolarmente significativo del 3 giugno 1997 (a Gniezno, in Polonia) merita di essere citato: “Il traguardo di un’autentica unità del continente europeo è ancora lontano.
Non ci sarà l’unità dell’Europa fino a quando essa non si fonderà nell’unità dello spirito.
Questo fondamento profondissimo dell’unità fu portato all’Europa e fu consolidato lungo i secoli dal cristianesimo con il suo Vangelo, con la sua comprensione dell’uomo e con il suo contributo allo sviluppo della storia dei popoli e delle nazioni.
Questo non significa volersi appropriare della storia.
La storia d’Europa, infatti, è un grande fiume, nel quale sboccano numerosi affluenti, e la varietà delle tradizioni e delle culture che la formano è la sua grande ricchezza.
Le fondamenta dell’identità dell’Europa sono costruite sul cristianesimo.
E l’attuale mancanza della sua unità spirituale scaturisce principalmente dalla crisi di questa autocoscienza cristiana”.
E necessario, pertanto, cercare di individuare alcune tematiche che possano permettere il mantenimento di un dialogo tra credenti e laici.
In forza della ragione comune, entrambi possono scambiarsi argomentazioni per trovare un cammino da percorrere in questa avventura che tende a ricostituire l’unità dell’Europa.
Come abbiamo ricordato, Goethe afferma che “l’Europa è nata in pellegrinaggio”.
Ma non è il solo.
“Nel paese basco c’è, nel cammino di Santiago, un monte molto alto che si chiama Passo del Cize, o perché li si trova la porta della Spagna, o perché attraverso questo monte si trasportano le cose necessarie da una terra all’altra.
La sua salita conta otto miglia e altre otto la sua discesa.
La sua altezza è tale che sembra giungere al cielo e colui che lo sale crede di poter toccare con la propria mano il cielo.
Dalla sommità si possono vedere il mare britannico e l’occidente e le terre di tre paesi e cioè di Castiglia, di Aragona e di Francia.
Sulla cima dello stesso monte v’è un luogo chiamato la Croce di Carlo, perché lì con asce, con picconi, con zappe e con altri attrezzi aprì una volta un sentiero Carlo Magno quando entrò in Spagna con i suoi eserciti e poi, inginocchiato verso la Galizia, innalzò le sue preghiere a Dio e a san Giacomo.
Per la qual cosa, piegando lì le ginocchia i pellegrini sono soliti pregare rivolti a Santiago e tutti loro piantano ognuno delle croci che lì possono trovarsi a migliaia.
Per questo lì si ha il primo luogo di preghiera a Santiago”.
Il passo è tratto dal Liber Sancti Jacobi (più noto come Codex Calixtinus) e risale al 1150.
Rileggere queste pagine, che riportano minuziosamente nomi di strade, villaggi, ospizi, monti e pianure, di re, vescovi e semplici pellegrini, insomma una vera enciclopedia dell’epoca, permette di compiere un’esperienza non comune: immergersi in un mondo che sembra non esistere più.
Il pellegrino del passato era certamente mosso nel suo intento da motivazioni religiose; eppure, queste erano solo l’inizio.
A partire da lì si aprivano spazi che permettevano di immergersi nella conoscenza della natura, dei luoghi sacri, delle città e delle diverse culture del mondo.
Certamente, arrivare fino a Santiago era un’impresa non da poco ed equivaleva a raggiungere il limite del mondo allora conosciuto, oltre il quale non esistevano altro che mare e spazi ignoti.
Il commento, pervenutoci intatto, di un cavaliere tedesco dell’epoca, Arnold von Harff, che aveva intrapreso un lunghissimo viaggio verso Gerusalemme e il Sinai, poi a Venezia e infine a Santiago, permette di consolidare questa impressione: “Per consolazione e salvezza della mia anima, io, Arnold von Harff, ho deciso di compiere un beneficioso pellegrinaggio (…) ma anche per conoscere le città, i paesi e i costumi dei popoli”.
Come si può notare, il pellegrino viveva un’esperienza religiosa e al contempo culturale di particolare valore.
Raggiungere il santuario era lo scopo ultimo, ma questo consentiva di vivere una serie di esperienze che aprivano lo sguardo e allargavano gli orizzonti.
Pellegrinaggio e cultura non erano contrapposti, ma sintetizzati in una visione armonica della vita che favoriva lo sviluppo e la crescita personale.
Curiosità e piacere di conoscere il mondo rientravano nella normale aspirazione di chi iniziava il pellegrinaggio.
A sostenerlo nella fatica e nell’impegno del viaggio, oltre che davanti ai pericoli, erano certamente motivazioni religiose, che tuttavia non gli impedivano di immergersi in profonde esperienze pienamente “culturali”, quali la conoscenza di costumi, modi di vivere e di pensare tra loro diversi anche se accomunati dalla fede in Gesù Cristo.
Il viaggio conservava per lui il particolare valore religioso, che racchiudeva in sé i tratti peculiari della fede cristiana – la carità, la solidarietà, la comprensione della vita come un passaggio attraverso questo mondo, nel quale rimaniamo, per dirla con le parole dell’apostolo Pietro, “stranieri e pellegrini” (1 Pietro, 2, 11) – ma il pellegrino era anche un uomo fortemente curioso, attento a tutto ciò che incontrava e desideroso di imparare.
In altri termini, era un personaggio che ammirava oggetti sulle bancarelle dei mercati, si incantava davanti a musici e giullari, sostava nelle fiere e ascoltava racconti e leggende di vario genere.
Così, insieme ai miracoli dei santi, imparava anche a conoscere le grandi gesta di Carlo Magno, di Orlando e dei paladini le cui tombe trovava sul suo cammino.
Non si dimentichi che questo pellegrino osservava come si costruivano le chiese e, spesso, prestava la propria opera in cambio di vitto e alloggio; nello stesso tempo, però, vedeva come si tingeva la lana e si intrecciavano i vimini, come si forgiava il ferro e si salava la carne, come cambiava, a seconda delle stagioni, l’abbigliamento delle popolazioni che incontrava o come si allevavano animali che non conosceva.
In una parola, il pellegrino imparava come si organizzavano le corporazioni e i comuni, come si strutturavano i mercati e le fiere, per quali vie si trasportavano i carichi di spezie prelibate che giungevano dall’Oriente o i prodotti in pelle provenienti dai Paesi nordici…
Diventava così, suo malgrado, testimone e interprete, protagonista di una trasmissione di tradizioni e costumi, fondamenti basilari di ogni cultura.
La relativa calma della sua casa, del suo villaggio e della sua città veniva turbata da un flusso di conoscenze, informazioni e linguaggi, che suscitavano una sete insaziabile di conoscenza.
Eppure, proprio questo suo porsi come pellegrino attraverso i vari Paesi che percorreva costituiva il punto di partenza per la formazione di un’identità che andava al di là di quella personale, per realizzarsi come fenomeno culturale che si sarebbe stabilizzato nel corso dei secoli.
In qualche modo, avveniva che il pellegrino entrasse a far parte di una “società” che travalicava la sua appartenenza territoriale e linguistica per costituire una condivisione di vita concreta.
Sentimenti, segni di identificazione, interessi e necessità diventavano un bagaglio comune, un tutt’uno facilmente riconoscibile da chi avesse vissuto la stessa esperienza che andava a formare, di fatto, una civiltà di appartenenza.
Insomma, il pellegrino – italiano o fiammingo, greco o scandinavo, ispanico o irlandese che fosse – si riconosceva in un’unica identità culturale che non teneva conto della nazionalità né della condizione sociale né della lingua.
Ciò che accomunava non era una regola scritta, ma un modo di essere, l’assunzione di consuetudini che si radicavano e di comportamenti che si trasmettevano creando una solida tradizione.
Quel tipo di tradizione che sta alla base di ogni genuina storia, di ogni cultura che voglia essere originale e senza la quale non si può capire il presente.
di Rino Fisichella Arcivescovo Rettore della Pontificia Università Lateranense
Gli amici del Bar Margherita

TITOLO del film Gli amici del Bar Margherita Regia: Pupi Avati Sceneggiatura: Pupi Avati Attori: Diego Abatantuono, Pierpaolo Zizzi, Laura Chiatti, Fabio De Luigi, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Luisa Ranieri, Claudio Botosso, Gianni Ippoliti, Gianni Cavina, Katia Ricciarelli Ruoli ed Interpreti Fotografia: Pasquale Rachini Montaggio: Amedeo Salfa Musiche: Lucio Dalla Produzione: Antonio Avati per Duea Film e Rai Cinema Distribuzione: 01 DistributionPaese: Italia 2008 Uscita Cinema: 03/04/2009 Genere: Commedia Formato: Colore Sito Ufficiale Il «mitico» Bar Margherita, in realtà, non esiste.
O meglio: ne sono esistiti d’innumerevoli.
«Erano tutti quei bar di una certa provincia italiana degli anni 50, frequentati da un insieme straordinario di sciocchi ‘eroi’, il cui atteggiamento oggi apparirebbe deplorevole ma che allora attraeva moltissimo i giovani.
I quali cercavano d’imitarli investendovi tutta la propria ‘creatività’, nel più assoluto disimpegno e nel totale disinteresse degli adulti, sperperando così con disinvoltura un’adolescenza spensierata ».
L’adolescente protagonista che frequenta questo Bar Margherita viene chiamato «Coso».
Ma potrebbe anche chiamarsi Pupi.
«Questa non è esattamente la mia storia; ma non c’è dubbio che anche in questo personaggio ci sia molto di me ragazzo – confessa Pupi Avati – Soprattutto per quel cinismo misto alla gioiosità che è tipico di una certa adolescenza.
E che ha messo insieme una stagione nella vita di quelli della mia generazione».
Gli amici del Bar Margherita, insomma – dal 3 aprile in 300 cinema – è il divertito ‘amarcord’ del grande regista, a confronto coi ‘miti’ della propria giovinezza incontrati e ammirati nel bar di via Saragozza, tra le vie della Bologna anni 50.
Testimone-alter ego di Pupi è «Coso» (cioè Taddeo, interpretato da Pierpaolo Zizzi), un diciottenne che sogna di essere ammesso tra i mitici frequentatori del Bar: il misterioso e carismatico Al (Diego Abatantuono), il fantasioso Bep (Neri Marcorè) innamorato dell’entraineuse Marcella (Laura Chiatti), il cantante Gian (Fabio De Luigi), il ladruncolo sessuofobo Manuelo (Luigi Lo Cascio); il tutto sotto il paziente sguardo tollerante della mamma (Katia Ricciarelli) e del nonno (Gianni Cavina), innamorato della prosperosa maestra di pianoforte (Luisa Ranieri).
«Per raccogliere questo gruppo eterogeneo ho messo insieme ricordi miei e dei miei amici, ripercorrendoli con sguardo divertito, leggero, collegato a certe mie commedie sentimentali per la tv, come Jazz Band.
Ma sempre attraverso i miei occhi di oggi.
Gli amici del Bar Margherita, insomma – spiega Avati – è la storia di un dicottenne.
Ma raccontata da un settantenne».
Al centro del film, fa notare il regista, c’è pro- prio l’«essere giovani» di allora, così diverso dall’esserlo oggi.
«Dalla metà degli anni 60 i giovani sono diventati gli interlocutori numero uno della politica e del commercio.
Cinquant’anni fa, invece, i ragazzi vivevano nell’indifferenza totale degli adulti, non contavano assolutamente nulla.
Così potevano compiere errori, bizzarrie, stravaganze; trovare un’identità, individuare la propria strada.
Mentre oggi, apparentemente messi al centro di tutto, si sentono ripetere continuamente che non hanno prospettive, che per loro non c’è futuro».
In un cinema italiano che «al 99,99 per cento parla del presente – considera inoltre il regista – qualcuno dovrà pur fare i conti col passato.
Così oggi mi sento un po’ la ‘vestale’ del tempo che è stato.
E il ci confronto coll’oggi può aiutarci capire meglio noi stessi».
Giacomo Vallati TRAILER E ALTRI VIDEO DEL FILM GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA Il trailer del film diretto da Pupi Avati Pupi Avati, presenta a Roma il suo nuovo film Intervista a Diego Abatantuono Il regista, Pupi Avati parla del film Intervista a Laura Chiatti e Luigi Lo Cascio Laura Chiatti e Luigi Lo Cascio, parlano del film ARTICOLI CORRELATI AL FILM GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA Gli amici del bar Margherita, intervista al cast e al regista Pupi Avati FOTOGALLERY DEL FILM GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA Guarda le foto presenti nella Photogallery Trama del film Gli amici del Bar Margherita Bologna, 1954.
Taddeo (Pierpaolo Zizzi), un ragazzo di 18 anni, sogna di diventare un frequentatore del mitico Bar Margherita che si trova proprio sotto i portici davanti a casa sua.
Con uno stratagemma, il giovane diventa l’autista personale di Al (Diego Abatantuono), l’uomo più carismatico e più misterioso del quartiere.
Attraverso la sua protezione, Taddeo riuscirà ad essere testimone delle avventure di Bep (Neri Marcorè), innamorato della entreneuse Marcella (Laura Chiatti); delle peripezie di Gian (Fabio De Luigi); delle follie di Manuelo (Luigi Lo Cascio); delle cattiverie di Zanchi (Claudio Botosso) e delle stranezze di Sarti (Gianni Ippoliti).
Ma alla fine, Taddeo che tutti chiamavano “Coso” ce la farà ad essere considerato uno del Bar Margherita?
Classe prima – Aprile

VIII unità di apprendimento: ”La festa di Pasqua” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Gesù di Nazaret, l’Emmanuele “Dio con noi”. * Cogliere i segni cristiani della Pasqua.
OBIETTIVI FORMATIVI • Individuare i segni di vita nuova presenti nell’ambiente • Scoprire i segni della festa di Pasqua Suggerimenti operativi • Riflettere sui segni presenti nella natura che ci fanno capire il cambio di stagione: siamo in primavera! Dare spazio a ogni bambino per esprimersi e raccontare le proprie esperienze.
• Scrivere, con l’ausilio del computer, la parola primavera (con carattere grassetto in modo da poter colorare l’interno delle lettere).
Individuare, insieme ai bambini, i colori che si adattano meglio alla primavera e dare la consegna di utilizzare le tinte appena scelte per colorare la scritta.
Alla fine incollare la scritta sul quaderno e decorare la pagina con altri disegni primaverili.
• Scoprire che si sta avvicinando una festa molto importante per i cristiani e lasciare spazio ai bimbi per far emergere le loro conoscenze pregresse.
Sottolineare la differenza tra i segni cristiani e quelli solo materiali; vedere i collegamenti (ad esempio: dall’uovo segno di vita ed eternità, all’uovo di cioccolato con sorpresa).
• Riprendere il vero significato della Pasqua cristiana: la risurrezione.
Scrivere sul quaderno: “Il giorno di Pasqua i cristiani dicono con gioia: Gesù è risorto”.
Fornire a ogni bambino un’immagine del risorto (si trovano sui quaderni operativi o su molti siti internet di immagini religiose).
Raccordi con altre discipline Informatica, ed.
all’immagine, scienze, italiano.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
6: ogni bambino ha diritto di vivere.
Art.
14: ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Primo biennio – Aprile

VIII unità di apprendimento: ”Pasqua ebraica e cristiana” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * La festa della Pasqua. * Rilevare la continuità e la novità della Pasqua cristiana rispetto alla Pasqua ebraica.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire la Pasqua di Gesù come il centro della fede cristiana • Conoscere le tradizioni della Pasqua ebraica • Individuare somiglianze e differenze fra la Pasqua ebraica e quella cristiana Suggerimenti operativi • Ripercorrere le vicende della storia di Mosè e sottolineare la “nascita” della Pasqua ebraica.
Leggere da una Bibbia per ragazzi il racconto dell’episodio della liberazione dall’Egitto.
• Partire dalle conoscenze pregresse dei bambini sulla festa di Pasqua.
Riconoscere nell’evento della Pasqua di Gesù il centro della fede cristiana, partendo da una discussione collettiva o attuando un brain-storming.
Al termine dell’attività fissare alcune idee sul quaderno.
• Dividere la classe in gruppi e affidare a ognuno la ricerca di somiglianze e differenze fra i racconti biblici ascoltati nelle lezioni precedenti.
Individuare la continuità tra la Pasqua ebraica e quella cristiana; sottolineare il significato di “Pesàh” = passaggio.
Raccogliere le idee emerse dai vari gruppi e fissarle in uno schema sul quaderno.
Raccordi con altre discipline Italiano, storia, ed.
all’immagine, ed.
alla convivenza.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
7: Ogni bambino ha diritto ad avere un’identità.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Secondo biennio – Aprile

VIII unità di apprendimento: ”La festa di Pasqua” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * I segni e i simboli del cristianesimo, anche nell’arte.
* Individuare significative espressioni d’arte cristiana, per rilevare come la fede è stata interpretata dagli artisti nel corso dei secoli.
OBIETTIVI FORMATIVI • Conoscere i luoghi dove si è svolta la Passione di Gesù • Comprendere che nel mondo sono presenti diverse espressioni culturali legate alla Pasqua Suggerimenti operativi • Iniziare con un brain storming sui luoghi dove Gesù è vissuto.
Partire da domande che sembrano banali “Dove è nato?”, “Dove è vissuto?” perché spesso i bambini stessi danno per scontato di conoscere queste informazioni, ma spesso non è così o c’è un po’ di confusione.
Fissare alcune notizie sul quaderno, in modo schematico.
• Assegnare a ogni bambino il compito di chiedere ai genitori un aiuto per ricercare, attraverso internet, informazioni e fotografie della Palestina di ieri e di oggi (Israele e i territori palestinesi).
• Organizzare il materiale ricercato in un cartellone da appendere in classe; mettere in evidenza soprattutto i luoghi della Passione, morte e risurrezione di Gesù.
Individuando quale episodio evangelico si è svolto in un determinato luogo.
• Preparare una scheda riassuntiva con alcune tradizioni pasquali diffuse nel mondo, a partire da quelle conosciute dai bambini, in particolare se in classe sono presenti alunni di altri paesi o confessioni cristiane.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, geografia, storia, ed.
alla convivenza, informatica.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
13: ogni bambino ha il diritto di imparare e di esprimersi per mezzo della scrittura e dell’arte.
Art.
14: ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.
V Domenica di Quaresima

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Geremia 31,31-34 Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Gesù Cristo, l’abbiamo constatato, è ormai pronto a consegnarsi al disegno del Padre, perché, come aveva in precedenza detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34).
Tutto ciò sfocia nell’atto della stipula di una nuova alleanza, di cui ai suoi tempi il profeta Geremia aveva avvertito la necessità: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore» (31,31-32).
Infatti Geremia aveva preso coscienza di quanto fosse difficile per il suo popolo vivere da popolo di Dio, nella fedeltà e nel rispetto della legge.
D’altra parte, egli stesso era stato rifiutato in qualità di messaggero di Dio da coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo.
Di che cosa allora si sente la necessità? Dio pensa a dare all’alleanza, atto con cui Egli si è «legato» e fatto «soggiogare» alla fedeltà nei confronti dei discendenti d’Abramo, una forza tale da renderla «più intima dell’intimo dell’uomo».
Si tratta di una legge di cui non ci si può accontentare di vedere scritta in codici cartacei o su tavole di pietra o altro materiale, quasi a essere rassicurati sulla sua perennità, bensì di una legge posta nel cuore stesso dell’uomo: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33).
Il profeta di Anatot non conosce certamente lo Spirito Santo come noi dopo la rivelazione di Gesù Cristo, benché in quanto profeta ne abbia fatto un’esperienza eccezionale.
Eppure è lo Spirito che sarà chiamato «nuova legge» e lo stesso profeta veterotestamentario ne sente come il forte desiderio di attingere a questa maggiore luce.
In fondo, anch’egli, come i Greci del Vangelo, domanda più chiarezza e si rallegra nella speranza che un giorno il cuore di ogni uomo, finalmente risanato dal limite del peccato e purificato da tutte le angosce, possa riconoscere in Dio il salvatore e il liberatore senza problemi: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (31,34).
Seconda lettura: Ebrei 5,7-9 Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Il brano evangelico ci presenterà un Gesù perfettamente disposto all’obbedienza di fronte alla volontà salvifica del Padre suo e Padre nostro.
Su questo medesimo tenore si situa anche la breve pericope tratta dalla Lettera agli Ebrei.
L’autore della Lettera, infatti, non trascura di segnalare quella che è una delle componenti di ogni uomo; l’angoscia di doversi consegnare alla morte, perché da essa «nullo homo vivente può scappare», come dice Francesco d’Assisi.
Di tale angoscia fu partecipe anche Gesù e «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7).
Questo senso di solidarietà è totale, perché ci viene prospettato in primo luogo un Gesù che prega e supplica il Padre durante la sua vita terrena, nella quale ha incontrato chissà quante volte il pallore della morte, lo squallore della miseria, la disperazione della malattia incurabile.
Inoltre, al suo supplicare egli aggiunse «grida e lacrime», in sequenza incessante, per rimarcare il grado dell’offerta della propria vita, in qualità di “sommo sacerdote” che s’immola a vantaggio dell’umanità.
E il Padre, che ha il potere di donare la vita e di riprenderla, esaudì il Figlio, in quanto gli era gradito tutto ciò che da Lui era compiuto.
Dunque, per questa sua relazione spirituale, Cristo è stato esaudito, come poi precisano i vv.
8 e 9: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».
L’offerta di Cristo, in realtà costituisce un sacrificio efficace che il Padre ha gradito, poiché la sua volontà è stata rispettata: la stessa disponibilità dimostrata da Cristo gli ha consentito di intervenire trasformandone la vita (Gesù «reso perfetto») in opera di completa mediazione della salvezza divina per quanti, sul modello del Maestro, si faranno “obbedienti”.
Vangelo: Giovanni 12,20-33 In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci.
Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono.
Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato».
Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi.
Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.
E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».
Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Esegesi Prima di entrare nel vivo del brano, proviamo a tracciare, seguendo il racconto dell’evangelista Giovanni, le coordinate entro le quali s’inquadra il brano di questa domenica.
Nel primo versetto del capitolo 12 leggiamo: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti».
Gesù, infatti, a quel che dice il quarto Vangelo, si recava spesso a Gerusalemme per pregare e insegnare nel Tempio, avendo «punto d’appoggio» la casa di Lazzaro, nel villaggio di Betania, distante un paio di chilometri dalla capitale.
Durante la cena che fu consumata a casa di Lazzaro, Maria, una delle sue sorelle, compì un gesto «profetico»: l’unzione dei piedi del Maestro.
La narrazione prosegue con la descrizione di un altro atto «profetico», che coinvolse parte della folla venuta per il pellegrinaggio pasquale: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (12,12-13).
In questo contesto avviene l’incontro tra Gesù e i Greci, i quali chiedono a Filippo di essere presentati al Maestro.
Il Vangelo, però, si nota subito, purtroppo non ci dice se il dialogo tra Gesù e coloro che hanno chiesto di vederlo si sia verificato, tuttavia ci riferisce le parole pronunciate da Lui appena Andrea e Filippo lo informano della richiesta espressa da questi Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12,23-28a).
Dal tenore di queste parole emerge un Gesù perfettamente cosciente non solo della morte imminente (i suoi avversari hanno tramato di ucciderlo dopo Pasqua, ma Gesù li «costringerà» ad anticipare), bensì anche del fatto che la morte non costituisce affatto una sconfitta.
Anzi, Gesù adopera termini che fanno presagire, da parte sua, l’ansia di portare a compimento quella missione, affidatagli dal Padre, di cui più volte ha parlato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17).
Che il Padre desideri salvare l’umanità attraverso suo Figlio Gesù è la «buona notizia» da annunciare, ossia la glorificazione da rendere manifesta mediante il mistero pasquale che Gesù è, in un certo qual senso, ansioso di adempiere, come dimostra l’espressione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!».
Perciò Egli, che è il Rivelatore, allude appena a una parabola, quella del chicco di grano caduto in terra: esso produce molto frutto qualora muoia.
Detto altrimenti, soltanto l’obbedienza alla volontà salvifica del Padre si rivela feconda di «risultati» positivi, che operano la trasformazione dal chicco singolo a una spiga carica di chicchi, risorgendo da quella stessa terra in cui è morto il chicco originario.
Ad accompagnare questa parabola c’è un detto che ne ricorda di analoghi presso i Sinottici.
Il senso non è difficile: di fronte a Gesù, che muore per poi risorgere, ciascun credente viene sollecitato a valutare la vita attuale in rapporto a quella eterna.
E perdere la vita significa mettersi al servizio di Gesù, per essere là dove Lui si trova, sulla croce come nella gloria, per godere della riconoscenza del Padre.
Alla fine delle parole di Gesù si sente una «voce dal cielo».
Non ci soffermiamo molto su questo, ricordando casi analoghi nella Bibbia (ad esempio in Es 19, At 2, Ap 5, i racconti del battesimo di Gesù e la trasfigurazione), in cui la voce divina, in relazione a teofanie, risulta indescrivibile e irriferibile per gli esseri umani.
Ma tale voce è proprio rivolta alla folla e non a Gesù.
È questo il motivo per cui Egli si preoccupa subito di «interpretarla»: Gesù sa già perché è venuto nel mondo, mentre chi lo circonda non si rende conto del valore e della sostanza della sua missione.
In realtà, il compimento del mistero pasquale si caratterizza per il giudizio che esprime sul principe di questo mondo, ossia su Satana e su tutto il complesso della sua negatività.
Dal desiderio espresso dai Greci di incontrarlo, dunque, emerge la prontezza di Gesù nel dichiararsi disponibile, nonostante la sofferenza che ne seguirà, a morire, perché quel desiderio è segno di un’umanità che ha sete della salvezza e della conoscenza della verità.
Meditazione «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21).
La domanda rivolta a Filippo da alcuni greci simpatizzanti dell’ebraismo, venuti a Gerusalemme per la Pasqua, può realmente esprimere il desiderio profondo con cui i testi della Scrittura (e in particolare i brani del quarto evangelo) hanno ritmato il nostro percorso quaresimale.
Siamo stati guidati a una progressiva scoperta del volto di Gesù e man mano il nostro cammino di fede è stato purificato e reso autentico attraverso la comprensione profonda del segno per eccellenza: la Croce.
Il vedere esprime un’attesa che trova compimento in un incontro faccia a faccia da cui scaturisce, attraverso un dialogo, una conoscenza progressiva dell’altro.
Ma per l’evangelista Giovanni, vedere è anche il verbo che indica il cammino della fede: un andare oltre le apparenze per raggiungere il mistero che esse nascondono; vedere Gesù vuol dire conoscerlo e credere in lui.
Allora diventa significativo porre questa domanda proprio alla fine del cammino quaresimale.
Si sente in questa richiesta tutto il desiderio contenuto nell’annuncio della nuova alleanza del profeta Geremia: «tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande…
poiché io perdonerò le loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (Ger 31,34).
Riconoscere il Dio dell’alleanza, quel Dio che perdona e dimentica il peccato, nel volto di Gesù: questa è la meta del cammino quaresimale.
Ma ancora una volta ritorna l’interrogativo: quale volto di Gesù? Potremmo rispondere con le parole della lettera agli Ebrei: il volto di colui che «pur essendo Figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Alla contemplazione di questo volto ci apre proprio la risposta data da Gesù a quei greci e riportata in Gv 12,23-33.
In questo testo di Giovanni ritornano alcuni termini caratteristici utilizzati dal quarto vangelo per esprimere l’unico mistero di umiliazione e di gloria: l’ora (vv.
23.27-28), la glorificazione (vv.
23.28), l’essere innalzato (v.
31).
Essi orientano, in prospettiva chiaramente pasquale, il vedere Gesù e offrono un progressivo cammino di comprensione del mistero di Cristo.
E possiamo cogliere la rivelazione che Gesù fa di sé stesso e del suo destino in tre momenti.
Essi ci guidano alla comprensione di quella parola con cui Gesù inizia il suo discorso: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (12,23).
E il primo momento ci lascia disorientati.
La risposta di Gesù sembra a prima vista sconcertante; sembra ignorare la domanda.
Ma in realtà va al cuore di ciò che i greci chiedono a Gesù e, rivelando anche la strada per giungere a comprendere la sua realtà più profonda, indica l’unico cammino possibile per poterlo vedere: lo vedranno quando sarà innalzato.
E Gesù esprime questa via da percorrere anzitutto con una parabola in cui chiaramente è rivelato il paradosso di questo cammino: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,24).
Per vedere chi è Gesù, bisogna nascondersi come lui; scendere sotto terra e ripercorrere la parabola del chicco di grano, la parabola di una vita abbondante che passa attraverso la morte, attraverso il dono di sé (quel perdere per conservare in vista di una pienezza: cfr.
12,25).
Nella parabola del chicco la morte è la condizione perché si sprigioni tutta l’energia vitale che il seme contiene; la vita che è racchiusa nel piccolo chicco si manifesta così in una forma nuova.
E proprio l’abbondanza del frutto (produce molto frutto) diventa immagine della glorificazione, di una vita senza fine.
La seconda tappa di questa rivelazione del Volto è espressa da Giovanni attraverso la rilettura teologica di due esperienze di Gesù, narrate dai sinottici distintamente: il Getsèmani (12,27: «adesso l’anima mia è turbata…
Padre salvami da quest’ora?») e la Trasfigurazione (12,28: «venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e ancora lo glorificherò”»).
Queste due esperienze, all’apparenza paradossalmente opposte, sono la duplice rivelazione dell’unico volto di Cristo umiliato e glorioso, calato nell’esperienza delle tenebre dell’angoscia (l’umanità del Figlio dell’uomo) e inondato dalla luce divina (la gloria del Figlio di Dio).
Ma per Giovanni le due esperienze si sovrappongono: non c’è un prima e un dopo, ma l’Umiliato è il Glorioso.
Nel volto dell’uomo angosciato di fronte alla sua ora, traspare tutta la luce del Figlio prediletto perché obbediente, di colui che «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio…
e per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7).
In continuità con la voce del Padre che proclama la glorificazione del Figlio e in parallelo con la caduta del seme nella terra, si inserisce il terzo momento della rivelazione: «io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
È la vittoria di Cristo che genera la salvezza «di tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9).
L’essere innalzato è il movimento dal basso verso l’alto: è appunto la Croce (12,33) che dà inizio a un movimento ascensionale che va oltre la Croce stessa e giunge fino al Padre (è il senso già presente in Gv 3,14).
In questo movimento verso l’alto, viene trascinata tutta l’umanità, tutti coloro che fissano lo sguardo sul trafitto.
Attirerò tutti a me: indica una comunione profonda di destino, un cammino verso il Padre che Gesù vuole fare con il discepolo, con ogni uomo, una condivisione di vita che passa oltre la morte.
È la riconciliazione, la salvezza piena, quella possibilità che l’uomo riacquista, in Cristo, di guardare verso Dio, non nella paura, ma nella libertà dei figli.
Quei greci volevano vedere Gesù.
Ecco loro indicato il cammino e lo sguardo.
Ora il vedere per credere deve trasformarsi in un conoscere che è comunione di vita e condivisione del cammino di Gesù: «se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore» (12,26).
Dov’è Gesù? È certamente presso il Padre, e questa è anche la meta del discepolo.
Ma Gesù è anche nascosto sotto terra, come chicco che muore per portare frutto: e questo è anche il luogo e il cammino del discepolo perché «chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25).
Quei greci rappresentano tutti quegli uomini e quelle donne che «crederanno senza aver veduto» (Gv 20,29) perché il loro vedere sarà un «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto».
E così nella domanda di questi greci si apre l’orizzonte del tempo della Chiesa, dove risuona senza sosta, sulle labbra di tanti uomini e donne, lo stesso desiderio: «Vogliamo vedere Gesù».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La potatura «D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino.
Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento.
Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile.
Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo.
E lí, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lí, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande.
Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Grande albero e piccolissimo grano «[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri.
E questo non è il metodo di Dio.
Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf.
Mc 4,31-32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.
Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale.
Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».
(J.
RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia.
Studi in onore del Card.
Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).
II seme delle domande Dio mio, sono venuto con il seme delle domande! Le seminai e non fiorirono.
Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte, ma il vento non le sfoglia! Dio mio, sono Lazzaro! Piena d’aurora, la mia tomba dà al mio carro neri puledri.
Dio mio, resterò senza domanda e con risposta vedendo i rami muoversi! (F.
Garcia Lorca).
Il seme e il frutto Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra nel grembo materno e aspetta devotamente: esso comincia a lottare, un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole cresce, diventa grande e forte abbraccia con la corona verde delle sue foglie finché tutto intero splende al sole diventa gemma e fiorisce un fiore.
E nella fioritura, seme dopo seme, c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.
E tu pianti nuovamente i mille semi, e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.
Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro guida verso casa i pensieri e pensa: tutto ciò era nel primo seme.
(Christian Morgenstern).
La croce “La croce -scriveva Simone Weil- è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va.
In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere.
Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.
Chi mi vuoi servire mi segua «Chi mi vuoi servire mi segua» (Gv 12,26).
Che cosa significa «mi segua», se non mi imiti? «Cristo, infatti, patì per noi», dice l’apostolo Pietro, «lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme» (1Pt 2,21).
Questo è il senso delle parole: «Chi mi vuoi servire mi segua».
E con quale frutto? con quale ricompensa? con quale premio? «E dove sono io, dice, là sarà anche il mio servo».
Amiamolo disinteressatamente e la ricompensa del nostro servizio sarà quella di essere con lui.
Come si può star bene senza di lui, o male con lui? Ascolta ciò che vien detto in maniera più chiara.
«Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26).
Con quale onore, se non con quello di poter essere suo figlio? Ciò che ha detto sopra: «Dove sono io, là sarà anche il mio servo» è la spiegazione delle parole: «II Padre mio lo onorerà».
Quale maggior onore può ricevere il figlio adottivo che quello di essere là dove è il Figlio unico, non fatto uguale a lui nella divinità, ma associato a lui nell’eternità? Dobbiamo chiederci che cosa si intenda per servire Cristo, servizio al quale viene riservata una così grande ricompensa.
[…] Servono Gesù Cristo coloro che non cercano i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo.
«Mi segua» vuol dire: segua le mie vie, non le sue, così come altrove sta scritto: «Chi dice di essere in Cristo, deve camminare come egli ha camminato» (1Gv 2,6).
Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato dalla misericordia, non per vanità, non deve cercare in quel gesto nient’altro che l’opera buona, senza che la sinistra sappia ciò che fa la destra (cfr.
Mt 6,3), in modo che l’opera di carità non debba essere sciupata da secondi fini.
Chi opera in questo modo, serve Cristo e giustamente sarà detto di lui: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Chi compie per Cristo non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona – e qualsiasi opera è buona quando obbedisce alle parole «il fine di tutta la Legge è Cristo, a giustizia di ognuno che crede» (Rm 10,4) — egli è servo di Cristo e giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nel dare la propria vita per i fratelli, che equivale a darla a Cristo.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 51,11,12, NBA XXIV, pp.
1022-1024).
Io pure sarò vigna Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.
Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K.
GIBRAN, Il Profeta).
Piccolo seme Ho imparato che non muore chi lascia dietro di sé un seme se c’è qualcuno a custodire il piccolo seme verde e a crescerlo nel cuore sotto un dolore di neve e a lasciarlo crescere ancora nel sole senza tramonto dell’amore finché diventa un albero grande che da ombra e frutti e altri semi.
Signore, vorrei lasciargli un piccolo seme verde e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.
(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).
Preghiera Anche noi ti vogliamo vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro dolore e germogli in turgida spiga, speranza di messe abbondante.
Tu sveli come è dolce morire per chi ama e si dona con gioia.
Perdere la vita con te e per te è trovarla.
Allora anche il pianto fiorisce in sorriso.
Nelle tue piaghe troviamo rifugio e in esse trova senso ogni umano patire.
Solo guardando te, troviamo la forza di un abbandono fidente nelle mani paterne di Dio.
Purifica gli occhi del nostro cuore, fino a che non come in uno specchio né in maniera confusa, ma in un eterno e amoroso faccia a faccia ti vedremo così come tu sei.
Amen.
IV Domenica di Quaresima (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23 In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro in-fedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.
Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e die-dero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, es-sa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pro-nunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Per-sia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra.
Egli mi ha incari-cato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda.
Chiunque di voi appar-tiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista.
È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio.
Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C.
al tempo del re Sedecia (vv.
14-16).
È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio.
Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato.
Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi.
La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.
Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popo-lazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria.
Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv.
19-21).
Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C.
la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio.
La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi.
Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf.
v.
18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv.
22-23).
Seconda lettura: Efesini 2,4-10 Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mo-strare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarse-ne.
Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericor-dia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v.
4).
Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa.
La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita.
Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv.
5-6).
Noi siamo solidali con Cristo.
Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà an-che ai nostri corpi (v.
6).
Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio.
Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v.
7).
Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v.
8).
L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mo-bili del peccato.
Solo la mano di Dio può risollevarlo.
L’agire di Dio è del tutto gratuito (v.
9).
Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v.
10).
Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «pre-parate» da Dio per facilitarne l’adempimento.
Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.
Vangelo: Giovanni 3,14-21 In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel de-serto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già sta-to condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giu-dizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.
Chiunque infatti fa il male, odia la lu-ce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.
Invece chi fa la ve-rità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Esegesi Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv.
14-15).
Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato».
Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso.
Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità.
L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.
Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco.
Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amo-re sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v.
16).
È un amore che si con-cretizza nel dare e nel mandare (v.
17).
Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.
Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di crede-re in Gesù.
Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che cre-dono e si salvano, o non credono e si condannano.
Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.
Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo.
È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v.
19).
Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo.
Gli uomini scelgono.
Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza.
Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, speri-menta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio.
La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le pro-prie opere cattive.
Ma c’è anche «chi fa la verità» (v.
21).
Questi è colui che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui.
Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v.
21).
Meditazione Nel cammino di purificazione e di conversione che caratterizza il tempo quaresimale, la Chiesa, attraverso la liturgia, ci guida con sapiente pedagogia, non solo orientandoci verso la Pasqua di Cristo, ma anche facendoci prendere coscienza di come la logica della morte e della vita in Cristo debba entrare concretamente nella nostra esistenza quotidiana.
Tuttavia, pur non togliendo nulla alle esigenze e alla serietà della sequela, siamo sempre richiamati dalla parola di Dio a guardare oltre le fatiche e le sofferenze di un cammino che è comunque segnato da una morte, da un esodo dal luogo della schiavitù, del peccato.
Il nostro sguardo è sempre proiettato oltre, verso il luogo della vita, il luogo della luce pa-squale, il luogo di una gioiosa comunione con quel Dio che ci è stato rivelato in Gesù.
E così le tre letture di questa quarta domenica concentrano la nostra attenzione su due realtà che formano il tessuto profondo e la dinamica non solo della storia della salvezza di un popolo, Israele, ma della storia sacra di ogni credente: l’esperienza del peccato e la fedeltà di Dio alla sua alleanza.
In 2Cr 36,14-23 scopriamo come la distruzione del tempio di Ge-rusalemme e la deportazione del popolo a Babilonia non sono l’ultima parola di Dio sulla infedeltà e sulla idolatria di Israele.
Attraverso la rilettura di questi eventi drammatici, il Cronista orienta lo sguardo verso un avvenire ricco di promesse; un re pagano sarà uno strumento nelle mani di Dio per ricostruire il tempio e il popolo potrà ritornare nella terra data ai loro padri.
È la fine dell’esilio babilonese: «chiunque di voi appartiene al suo popo-lo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23).
Attraverso questo sguardo di spe-ranza, che ha come fondamento la fedeltà di Dio e la sua misericordia, siamo orientati a contemplare il compimento: il dono di Dio a ogni uomo nel Figlio «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
L’uomo non può dimenticare che questo amore senza misura (Dio ha tanto amato il mondo…) è puro dono.
Paolo, a più ri-prese, insiste in Ef 2,4-10: «per grazia siete stati salvati».
Ma l’essere salvati per grazia da un Dio ricco di misericordia è molto di più di un semplice condono di peccati: la salvezza rag-giunge la sua pienezza nel nostro inserimento in Cristo mediante il battesimo, nella nostra partecipazione al mistero pasquale, che va dalla passione alla ascensione di Cristo.
Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che maggiormente focalizza questa dinamica tra peccato dell’uomo e fedeltà di Dio è la pericope giovannea.
Sono alcu-ni versetti del lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo.
È il primo dei vari incontri narrati da Giovanni, colloqui sapientemente condotti attraverso i quali viene tracciato un itinerario di progressiva scoperta del volto di Gesù e di una fede matura nella sua parola.
Per quanto riguarda la nostra pericope, si possono sottolineare tre momenti di rivelazione del volto di Cristo a cui corrisponde sempre una richiesta, una scelta da parte dell’uomo, un salto di fede.
Anzitutto è richiesto un movimento dello sguardo verso l’alto e la qualità di questo sguardo è la contemplazione: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14-15).
L’esperienza di Israele nel deserto diventa paradigma interpretativo del mistero pa-squale di Gesù.
Come nel segno innalzato da Mosè nel deserto si manifestava il Dio salva-tore che interviene per guarire il suo popolo dalla ferita dell’incredulità, così nel Figlio del-l’uomo innalzato, il trafitto verso il quale si volgeranno tutte le nazioni (Gv 19,37), si rivela il dono di Dio per la salvezza del mondo.
Gesù ricorderà: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
Per Giovanni, l’Innalzato e il Trafitto che dona sangue e acqua, che guarisce con le sue ferite, esprime il mistero di Gesù nella sua massima trasparenza.
È uno spettacolo drammatico, sconvolgente, davanti al quale l’uomo preferirebbe abbassare gli occhi, distoglierli, perché in questa visione si scopre tutto il male di cui l’uomo è capace, tutta la violenza e l’odio che possono abitare nel cuore dell’uomo.
Eppure sembra quasi necessario (bisogna) guardare senza paura questo spettacolo, lo spettacolo della Croce.
Per-ché? Perché in esso è racchiuso il segreto nella vita, della nostra vita, il segreto della sal-vezza.
E in questo spettacolo che si rivela tutta l’umanità del Figlio di Dio (chiamato qui Figlio dell’uomo), la sua totale obbedienza al Padre (bisogna), il suo amore giunto al limite estremo (cfr.
3,16 ss.).
Questa visione apre alla seconda rivelazione, espressa in Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna».
La prova radicale di questo amore di Dio che guarisce le ferite morta-li dell’uomo è il dono (che passa attraverso la morte, l’essere innalzato) del Figlio (colui che è espressione trasparente dell’amore di Dio, espressione esclusiva, l’Unigenito); e il dono non è per il giudizio, ma per la salvezza.
Così l’evento della Croce (3,14) ci fa penetrare più a fondo nel mistero di Dio stesso in quanto amore (ha tanto amato).
Dunque il segreto dello spettacolo della Croce, del trafitto innalzato, che altrimenti sarebbe incomprensibile e assur-do, sta in questa parola di Gesù, in questa seconda rivelazione.
In fondo a tutto, e non solo all’evento dell’Innalzato e Trafitto, ma anche al cuore della storia, c’è questa verità che il-lumina e che apre un orizzonte senza fine: la misericordia illimitata (tanto) di Dio per il mondo, per l’uomo, per ogni creatura che aspetta la redenzione e la liberazione dal pecca-to.
E infine, ed è la terza tappa in questa progressiva scoperta del volto di Gesù, Giovanni esprime questo dono del Figlio per il mondo con una realtà simbolica che caratterizza il suo linguaggio a partire dal prologo (cfr.
Gv 1,4-5) e che, d’altra parte, rivela anche il dramma della incredulità e del rifiuto da parte dell’uomo: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagio» (3,19).
Gesù è la luce che illumina e che evidenzia le tenebre; provoca una radicale chiarez-za sulla situazione dell’uomo, spesso falsa e mascherata dietro ad ambiguità e schemi (te-nebre).
Ma Gesù è la luce nel mondo (cfr.
anche Gv 8,12; 9, 5; 12,46) perché rivela in modo esclusivo e definitivo la realtà dell’uomo e di Dio; non c’è altro modo di vedere il volto di Dio e, alla sua luce, il volto dell’uomo.
Cosa è chiesto all’uomo? Credere (3,15.16), venire alla luce (3,20), fare la verità (3,21).
Solo attraverso questo credere noi possiamo raggiungere il segreto custodito nello spettacolo dell’Innalzato e Trafitto e comprendere il tanto amore di Dio per il mondo.
Veramente, pos-siamo allora dire, credere non è questione di adeguare l’agire di Dio alla nostra ragione ma guardare come Dio agisce nella nostra vita, nella storia, verso l’umanità.
Credere è conse-gnarsi, attraverso questo sguardo pieno di fiducia e di speranza, all’agire di Dio, a ciò che lui può fare per noi.
E proprio in Gesù ci è rivelato pienamente, senza ombra alcuna, ciò che Dio sente e vuole per noi.
Il miracolo sempre rinnovato Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma sare-mo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del mi-racolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.
(D.
Hammarskjold) Un ragazzo miope Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui.
Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, que-sti ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quin-di, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui.
Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia.
Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leg-gere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le le-zioni.
E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampio-ni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.
Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista.
Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive.
Trovate quelle più adatte, invitò il giova-ne a guardare fuori dalla finestra.
«Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; ve-deva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali.
Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita».
Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui i-niziai a credere in Gesù.
Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stes-so come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre.
Questa fu una gran-de svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita.
Fu come l’inizio di una vita nuova.
So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).
Ciò che fa la differenza Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta.
E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ri-tengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine.
Questo chi non crede, ma conosce il cristianesi-mo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza.
Sul resto bene o male ci si accorda.
(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).
Credo Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero che non mi seduce con un miracolo e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male, che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette a posto le cose dall’alto, che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio no risponde con un bacio silenzioso, credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e fa quello che voglio io, un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole indifeso perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo, credo in un Dio che mi si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).
Mi chiamate Redentore Mi chiamate Redentore e non vi fate redimere.
Mi chiamate Luce e non mi vedete.
Mi chiamate Via e non mi seguite.
Mi chiamate Vita e non mi desiderate.
Mi chiamate Maestro e non mi credete.
Mi chiamate Sapienza e non m’interrogate.
Mi chiamate Signore e non mi servite.
Mi chiamate Onnipotente e non vi fidate di me.
Se un giorno non vi riconosco non vi meravigliate.
(Iscrizione nel duomo di Lubecca).
II dubbio, la verità e Cristo Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo.
Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni con-trarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace.
In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo.
Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci.
Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.
(F.
Dostoevskij).
Il lungo cammino verso casa «Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio.
C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completa-mente nuovo.
Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie te-nebre sono troppo grandi per essere dissolte.
Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone.
Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere total-mente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profonda-mente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emerge-re una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento.
Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone.
Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribel-larmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga.
Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».
(H.J.M.
NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).
III Domenica di Quaresima (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 20,1-17 In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla ter-ra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla ter-ra, né di quanto è nelle acque sotto la terra.
Non ti pro-strerai davanti a loro e non li servirai.
Perché io, il Si-gnore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta genera-zione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia im-punito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo.
Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è ri-posato il settimo giorno.
Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai a-dulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asi-no, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap.
19, dalla grandiosa teofa-nia in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23).
Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3).
All’inizio del cap.
20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento di-retto quanto precede.
Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’inizia-tiva divina.
Il Decalogo Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamen-ti come sono formulati nei catechismi.
Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il De-calogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli.
Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua so-lidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo inte-riore del «cuore» alla parola di Dio.
Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può ur-tare qualcuno.
Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi.
Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della li-bertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza.
Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà.
Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf.
Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.
Note esegetiche vv.
2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizio-ne dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo.
Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto.
Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico».
La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi.
È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto».
Tutto il Decalo-go discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.
vv.
4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il raccon-to della creazione in Gn 1.
Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra.
Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sosti-tuisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani.
Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto.
Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v.
5b-6).
Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.
v.
7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia.
«Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini.
La stessa parola è usata nell’8° comanda-mento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio.
Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.
v.
8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo.
Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavo-ro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto).
Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della crea-zione.
Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un coman-damento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insi-stenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero.
Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di apparte-nenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame).
Anche qui c’è l’accen-no all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ri-condurre tutto al Creatore.
v.
12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine.
Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha pre-ceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non so-lo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione.
Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio.
Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipo-tenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.
vv.
13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani.
Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo.
Non dire falsa testimo-nianza, in parallelo con il v.
7.
v.
17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Deca-logo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio.
Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconosce-re alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro.
Al fondo, è ancora la pre-tesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio al-l’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.
Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25 Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cerca-no sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scan-dalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità.
Paolo difende con passio-ne sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con que-sto Vangelo.
A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v.
17).
L’argomentare di Paolo proce-de con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv.
18-21).
A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si colle-ga il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v.
23).
Note esegetiche v.
22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v.
23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà.
I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, pro-digi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per esse-re razionalmente convinti.
v.
23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza.
Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).
v.
24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la po-tenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza.
La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondi-zionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1).
Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G.
BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p.
143).
v.
25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza.
Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari.
Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili.
La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo.
In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.
Vangelo: Giovanni 2,13-25 Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusa-lemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una fru-sta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Rispose loro Gesù: «Distrug-gete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorge-re?».
Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusa-lemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i se-gni che egli compiva, credettero nel suo nome.
Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo.
Egli infatti co-nosceva quello che c’è nell’uomo.
Esegesi La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico.
L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predica-zione dei profeti d’Israele.
L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nel-la prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.
Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclu-sione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.
vv.
13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.
La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la si-nagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo.
Gesù è tuttavia un ebreo osser-vante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m.
di altezza.
I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio.
Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane.
Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame.
La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e pro-prio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso an-che ai non israeliti.
Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta ri-spetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.
Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni.
Il gesto di Gesù è chia-ramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spet-tacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità.
Ge-sù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.
Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf.
Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11).
Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrifi-cio dai poveri.
Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.
v.
17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento.
Sono commenti tipici di Giovanni (cf.
v.
22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione coscien-te, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.
Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «di-vorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.
vv.
18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù.
Presen-tati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo com-portamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autori-tà.
Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica.
Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità.
L’imperativo «distruggete» sta per un condi-zionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione.
La parola usata nel v.
19 non è la stessa dei vv.
14-15; naòs è la costruzio-ne al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.
I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v.
21.
v.
22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.
vv.
23-25: II sommario storico distingue i diversi livelli della fede.
Molti credettero ve-dendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica.
Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture.
La sua ve-nuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.
Meditazione Attraverso le dieci parole dell’alleanza, pronunciate da Dio sul Sinai (Es 20,1-17), al popo-lo di Israele era stato donato un cammino di libertà per raggiungere una pienezza di vita nell’umile servizio all’unico Signore.
La Legge diventava così un luogo privilegiato di in-contro e di comunione con Dio.
Ma per Israele in cammino verso la terra della promessa vi era un altro luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: la tenda, segno di un Dio che scende incontro all’uomo, cammina con lui, lo accompagna, lo guida.
La pretesa di Davide di costruire una dimora stabile per il Signore, aveva trovato resistenze in Dio stes-so che, per mezzo del profeta Natan, aveva risposto al re: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» (2Sam 7,11).
Dio non abita in un luogo fatto con pietre ma in una casa di carne viva, di cui egli stesso è garante della sua perennità.
Nonostante questo, Dio accettò un tempio costruito dalle mani d’uomo, luogo di unità e di identità per Israele, ma allargando nello stesso tempo i suoi confini: secondo l’annuncio dei profeti, esso doveva diventare re-altà simbolica dell’incontro tra Dio e ogni uomo, «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7, citato in Lc 19,49, Mc 1,17 e Mt 21,13).
La promessa fatta a Davide trova il suo com-pimento in Gesù: in lui, il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr.
Gv 1,14).
In questa prospettiva deve essere compreso il gesto di Gesù al tempio di Gerusa-lemme: esso è un segno che rivela tutta la novità che si compie nella persona di Gesù, so-prattutto in relazione a uno degli aspetti costitutivi dell’esperienza religiosa di Israele, ap-punto il tempio.
In Gesù, tempio non costruito da mani d’uomo, ognuno può incontrare il vero volto di Dio e può invocarlo come Padre.
E possiamo aggiungere che, per il quarto vangelo, l’amore di Dio che ha preso ‘carne’ in Gesù si rivelerà in tutta la sua trasparenza nel momento in cui il Figlio dell’uomo sarà innalzato; lì, volgendo lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
Gv 19,37, paradossalmente a quel tempio distrutto a cui fa allusione Gesù in Gv 2,19), ogni uomo potrà incontrare il volto di compassione di Dio, quel roveto ardente che brucia senza consumarsi.
L’annuncio di Cristo crocifisso – ci ricorda Paolo – diventa «per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci…
potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24).
Soffermandoci ora sul testo di Giovanni che riporta la cacciata dei venditori dal tempio (collocato dai sinottici al termine del ministero pubblico di Gesù, dopo l’ingresso in Geru-salemme), possiamo evidenziare alcuni aspetti presenti in questo singolare gesto di Gesù e nelle parole che lo commentano.
E l’attenzione deve essere posta non tanto sull’effetto del-l’azione di Gesù quanto piuttosto sul significato che esso racchiude e che apre alla com-prensione della persona stessa di Gesù.
Certamente, cacciando quei venditori che trasfor-mano la casa di Dio in un mercato (cfr.
2,16), Gesù compie un gesto tipicamente profetico che rimanda a un culto autentico, libero da ogni ipocrisia, un culto che parte dal cuore e si armonizza con la vita: il luogo dove l’uomo incontra Dio non può esser luogo di ingiusti-zia, di abuso, di idolatria.
Tuttavia lo sguardo del profeta va oltre, è puntato al futuro.
Leggendo il gesto di Gesù alla luce di Mal 3,1-4 e di Zc 14,21, non si afferma solo la santità della casa di Dio, ma anche l’autorità di Gesù su quel luogo: è la casa del Padre mio, il luogo di una relazione famigliare e intima.
Gesù è il Figlio che non può permettere che venga violata l’intimità profonda di questo luogo; in Gesù si manifesta lo zelo di cui parla il Sal 69,10 (testo che serve ai discepoli da interpretazione del gesto), lo zelo proprio di un figlio che si sente personalmente coinvolto a difendere il ‘luogo’ del Padre da coloro che ne at-tentato l’integrità, stravolgendone il senso.
Ma il significato di questo gesto subisce un ulteriore approfondimento alla luce delle pa-role che Gesù pronuncia in risposta alla richiesta di un segno da parte dei Giudei (la cui re-azione lascia già intravedere il dramma della passione).
L’icona del tempio assume una nuova luce ed essa emerge dal confronto tra Gesù stesso e il tempio (viene qui usato il termine naos che indica il santuario, la parte più sacra dell’edificio, il luogo simbolico in cui risiede la presenza di Dio).
Possiamo notare che in questo confronto il segno del tempio, come spazio della presenza di Dio e incontro con Lui, rimane; ma vengono sostituite le modalità e il luogo stesso.
Il richiamo alla distruzione e alla ricostruzione di questo tempio orientano a un futuro di novità, a un tempio ‘nuovo’.
Sulle labbra di Gesù questa realtà to-talmente rinnovata diventa una allusione al suo mistero di morte e risurrezione; il tempio distrutto e ricostruito è il corpo stesso di Gesù (cfr.
2,21).
È Gesù vivente il nuovo tempio, il luogo in cui si comunica con il Padre; in Gesù risuscitato dai morti, Dio è definitivamen-te presente agli uomini e gli uomini definitivamente presenti a Dio.
Come nota Léon-Dufour: «il corpo di Gesù, la sua carne, è la dimora della gloria di Dio…
In questo santua-rio, dove il Padre fa abitare il suo nome, si raduneranno tutti gli adoratori e saranno con-sumati nell’unità: tutti parteciperanno alla santità del Tempio, “perché noi verremo a loro e faremo in loro la nostra dimora”».
In questa scena notiamo infine la presenza attiva dei discepoli (presenza che manca nei sinottici), soprattutto attraverso il ricordo, dopo l’evento pasquale, delle parole e dei gesti di Gesù per comprenderne più a fondo il mistero.
In questa ‘memoria ecclesiale’ ci viene rivelata l’icona stupenda della Chiesa come luogo, tempio, in cui si rende presente e si in-contra il Padre rivelato a noi in Cristo.
Non vi è tempio, non vi è chiesa senza la presenza dei credenti.
Il racconto si apre così sul tempo della Chiesa che fa memoria del Cristo cro-cefisso e risorto nella eucaristia, luogo autentico dell’incontro tra Dio e l’uomo, in Gesù.
In questo spazio di comunione, ogni credente viene plasmato a diventare lui stesso tempio di Dio, luogo in cui dimorano, mediante lo Spirito, il Padre e il Figlio.
Come dice sant’Ago-stino: «Vuoi pregare nel tempio? Prega dentro di te; ma cerca prima di essere tempio di Dio, affinché egli possa esaudire chi prega nel suo tempio».
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Breve apologo insegnato dal Vedanta Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi.
Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro im-possibile ritrovarlo.
Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.
Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli pro-posero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!» Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».
Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le pro-fondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».
E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».
Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconde-remo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cerca-re…».
Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scava-to…
alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…
Il segreto del nostro cuore Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana.
È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente.
Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi.
Sappia-mo poco o nulla del nostro cuore.
Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura.
Ciò che è più intimo ci spaventa di più.
Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi.
È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’.
Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà.
Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.
Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra per-sonalità più profonda.
Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi.
Se ci rifletti su un istan-te, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella co-noscenza che hai di te stesso.
Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profonda-mente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).
Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore.
Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace.
Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio.
Es-so è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.
Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto.
Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.
Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce di-scorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella.
Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te.
Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23).
Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.
Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato.
Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te.
Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.
(Imitazione di Cristo).
40 giorni nel deserto Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.
Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire.
Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo.
Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua.
Tu devi tornare nella solitudine”.
L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un conven-to?” “No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.
Angeli smemorati Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato.
Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie.
Le stelle nel firmamento brillavano dando si-gnificato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli i-stintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente.
Po-veri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stel-le ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera! “Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose: “No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso.
Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro.
Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono.
Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e pas-sano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima tro-va l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi era-no … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un signi-ficato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”! Il luogo della lotta: il cuore La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’esse-re umano che la Bibbia chiama “cuore”.
Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vi-ta psicologica e morale, dunque della vita interiore.
Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” per-sonale.
Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5), la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15).
Il Cri-sto stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la rispo-sta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30).
Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le in-tenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio.
Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di com-prendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzo-gnero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14).
Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il pecca-to viene consumato nel cuore (cfr.
Matteo 5,28).
Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo.
Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo do-ve può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possi-bile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il pecca-to.
(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).
Un cuore chiuso Ti aspettavo, Signore, ma non sei venuto.
L’attesa è stata lunga, e solo tardi ho capito che non eri entrato perché il cuore non ti aspettava.
Avevi bussato alla porta: «Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei campi, la stagione del canto è tornata e si sente cantare la tortora.
Aprimi!».
Ma il cuore era chiuso, appiattito su orizzonti terreni.
Ma quando sei finalmente entrato, vincendo la mia sordità, ho capito, Signore, che il cuore si popola di idoli quando tu scompari, e che tu abiti, soltanto, dove ti si lascia entrare.
Se preghi per te soltanto, preghi per il tuo interesse.
S.
Ambrogio (Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elledici-Velar, 2005).
II Domenica di Quaresima (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La Trasfigurazione del Signore Chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni, Milano Nella tradizione cristiana, la Trasfigurazione è sempre stata letta nella chiave del mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo e come mistero centrale anche per la vita dell’uomo, in quanto anticipo di ciò che le energie della risurrezione compiranno nella nostra carne mortale: la nostra divinizzazione.
L’umanità di Gesù è realmente il luogo vivo in cui l’uomo diventa Dio, perché, da quando il Verbo ha preso un corpo, Egli è in relazione umana con il Padre e con tutti gli uomini.
“In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
E Paolo aggiunge, nel versetto successivo: “Voi avete in lui parte alla sua pienezza”.
Ormai è abolita la distanza tra la materia e la divinità.
Nel corpo di Cristo, la nostra carne è in comunione con il Signore della vita, senza confusione, ne separazione.
Di ciò che il Verbo ha inaugurato con la sua incarnazione e manifestato a partire dal battesimo con i suoi miracoli, la trasfigurazione fa intravedere la pienezza: il corpo del Signore Gesù è il sacramento che dona la vita di Dio agli uomini.
Nella misura in cui la nostra umanità acconsente ad unirsi all’umanità di Gesù, partecipa della natura divina (cf 2Pt 1,4).
Cristo nelle vesti bianche rigonfie, mosse dallo Spirito, si trova inserito nella tradizionale mandorla blu scura che indica due cose: anzitutto, che Cristo si rivela come Dio dunque è inaccessibile alla nostra mente, il mistero non si può scrutare; secondariamente, che Cristo nella luce del monte Tabor è la vera luce, il vero sole, tanto da oscurare i raggi del sole cosmico.
Le tenebre del mondo, anche quelle che sommergeranno Cristo nella passione, non resistono davanti all’assolutezza della sua luce.
La trasfigurazione, in realtà, è quella degli apostoli, che per un istante hanno ricevuto la grazia di vedere l’umanità del Cristo come un corpo di luce, grazia di contemplare la gloria del Signore nascosta sotto la sua kenosis.
Dopo questa breve irruzione dell’Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la vita quotidiana.
«Per mostrare la trasformazione dei mortali assunti nella tua gloria, o Salvatore, al momento del tuo secondo e tremendo avvento, sul monte Tabor ti sei trasfigurato.
Elia e Mosè parlavano con te; tu chiamasti tre dei tuoi discepoli, ed essi vedendo, o Sovrano, la tua gloria, per il tuo fulgore restarono sbigottiti.
O tu che un tempo su costoro hai fatto brillare la tua luce, illumina le anime nostre».
(Orthros della trasfigurazione nel rito bizantino).
Il Tabor e il Getsemani Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).
L’immagine tra luce e ombra La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione.
Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili.
Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata.
La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce.
Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte.
Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata.
L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti.
Tutto il resto deve essere svelato e illuminato.
Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre.
[…] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa.
La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile.
I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori.
Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato.
Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini.
Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore.
L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati.
È piuttosto essa a illuminare.
La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori.
L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie.
Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra.
E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra.
In ogni caso la rivelazione non è il riflettore.
La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo.
I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce.
È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E.
AFFINATI et al., Saper sperare.
Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Una sola tenda Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole.
Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno.
Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso.
Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.
Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21).
Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto.
Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva.
[…] Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui.
San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano.
Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia.
Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto.
Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui.
Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui.
Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia.
Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione.
Credeva fosse bene ciò che diceva.
Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola».
Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo.
All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi.
Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.
(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp.
576-578) Riconoscere Cristo Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte.
C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle.
Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità.
Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge.
Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.
La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura.
Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro.
Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.
(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).
Ancora e sempre sul monte di luce Cristo ci guidi perché comprendiamo il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo) Lectio – Anno B Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18 In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi.
Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.
Aspetti di esegesi Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito.
Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2).
Abramo esegue il volere divino.
«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).
La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8).
L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.
Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio.
All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza.
È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà.
Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).
Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento.
I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).
«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20).
La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21).
L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.
Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19).
In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio.
La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).
Seconda lettura: Romani 8,31-34 Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13).
Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.
Aspetti di esegesi «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).
L’insieme è un inno di fiducia.
Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente.
Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto.
L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande.
Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi.
Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso.
La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote.
Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi.
La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.
Vangelo: Marco 9,2-10 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Esegesi Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20).
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro.
È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.
Aspetti di esegesi Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù.
Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio.
Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.
Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23).
Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione.
La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione.
Gesù rimane identico mostrandosi glorioso.
Lo splendore di Gesù è celeste.
La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina.
I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.
«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4).
Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie.
Essi discorrono con Gesù.
Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati».
Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6).
È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.
«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7).
La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre.
La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.
Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo.
«E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).
Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione.
L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato.
I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”.
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).
Meditazione Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita.
In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito.
Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio.
E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana.
Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato.
Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino.
Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio.
È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.
Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli.
È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù.
Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33).
La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino.
È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29).
Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.
Notiamo solo alcuni elementi del racconto.
Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’.
Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio.
Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù.
In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).
Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte.
E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte.
Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.
Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3).
Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo.
Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza.
Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore.
È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).
Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena.
E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto.
Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4).
C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola.
E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge.
Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio.
Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola.
E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).
Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze.
La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5).
L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo.
E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia.
Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro.
Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32).
Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.
Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare.
Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme.
Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8).
Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua.
Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino.
Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31).
Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta.
Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.