La teologia del Novecento

 

 

Fulvio Ferrario, La teologia del Novecento, Carocci, 2011, pp. 304, € 24


 

Anche se il XX secolo ha conosciuto una crisi del rapporto tra Chiese e società — le grandi masse lontano dalle pratiche religiose, l’ateismo comunista al potere, la secolarizzazione — non si può dire che la teologia del Novecento sia stata debole, anzi. Quasi come una forza di reazione, essa ha saputo opporsi alle sfide del «secolo breve» e oggi ci accorgiamo che figure come Karl Barth o Dietrich Bonhoeffer, Hans Urs von Balthasar o Rudolf Bultmann restano indiscussi punti di riferimento. Quella del Novecento è stata una teologia che sino a una buona parte degli anni Sessanta ha parlato tedesco, poi ha preferito l’inglese, grazie anche ai mezzi messi a disposizione dagli istituti americani; inoltre si può dire che questa ricerca continua di Dio ha avuto alimentatori filosofici formidabili (primo fra tutti Martin Heidegger) o spazi nuovi di confronto (genetica o tecnologia), soprattutto si è trovata davanti una società che al trascendente ha chiesto soluzioni sulla terra. È insomma stato un pensiero che ha saputo riflettere sulla morte di Dio (tema già presente in Schiller e nell’Ottocento tedesco prima che in Nietzsche, divenuto però popolare nella seconda metà del Novecento) e infine sulle scoperte di Qumran e di Nag Hammadi. I testi qui ritrovati hanno avviato nuovi capitoli di storia dell’esegesi della Parola. Fulvio Ferrario ha tracciato con competenza l’avventura di questo universo ne La teologia del Novecento (Carocci, pp. 304, € 24), offrendoci un manuale utile e comprensibile.

È il ritratto dell’anima del secolo scorso, oltre che il registro di tanti pensieri sopravvissuti alle guerre e alle ideologie. Dieci decenni che con Freud hanno creduto che Dio potesse essere «un padre potenziato» (in Totem e tabù) e con Einstein si sono infine accorti che il Creatore non gioca mai a dadi con il mondo.


in “Corriere della Sera” del 5 luglio 2011

La sobrietà che fa crescere

 

«Il P.I.L. misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sul nostro Paese, ma non se possiamo essere orgogliosi di esserne cittadini».


Mi viene spontaneo tornare al discorso che Robert Kennedy pronunciò all’Università del Kansas nel marzo 1968 – solo tre mesi prima di essere assassinato – ogni volta che sento parlare di manovre fiscali, crescita economica, sviluppo sostenibile, deficit pubblico… Sì, perché credo che siano argomenti che non riguardano solo politici ed economisti.
Ma argomenti che dovrebbero aprire la riflessione alla qualità della nostra vita quotidiana e della convivenza nella società civile. E tematiche di questo genere dovrebbero essere affrontate con uno sguardo più ampio, non limitato a facili contrapposizioni tra economia di mercato e stato sociale o improbabili alternative secche tra crescita dei consumi e povertà incombente.
In particolare, varrebbe la pena di riscoprire la valenza di uno stile di vita e un atteggiamento nei confronti dei beni materiali e del loro uso che – come ha osservato il cardinale Tettamanzi – è «segno di giustizia prima ancora che di virtù»: la sobrietà. Ben più di un semplice accontentarsi di quanto si ha o della capacità di non sprecare, la sobrietà ha una dimensione interiore, abbraccia un modo di vedere la realtà circostante che discerne i bisogni autentici, evita gli eccessi, sa dare il giusto peso alle cose e alle persone.
Sobrietà a livello personale significa riconoscimento e accettazione del limite, consapevolezza che non tutto ciò che ho la possibilità tecnica o economica di ottenere deve forzatamente entrare in mio possesso: la capacità di rinuncia volontaria a qualcosa in nome di un principio eticamente più alto obbliga a interrogarsi sulla scala di valori in base alla quale giudichiamo le nostre e le altrui azioni.
La moderazione non è la tiepidezza di chi è indifferente a ogni cosa e si crogiola in un preteso «giusto mezzo», ma la forza d’animo di chi sa subordinare alcuni desideri per valorizzarne altri, di chi sa riconoscere il valore di ogni cosa e non solo il suo prezzo, di chi orienta la propria esistenza verso prospettive non ossessionate da un incessante «di più», di chi sa dire con convinzione «non tutto, non subito, non sempre di più!». Sobrietà è la forza interiore di chi sa distogliere lo sguardo dal proprio interesse particolare e allarga il cuore e il respiro a una dimensione più ampia.
La «crisi» che viviamo dal 2008 in realtà era già operante da tempo: chi osservava la situazione ecologica, chi non era cieco di fronte alle crisi  alimentari,  poteva forse prevedere la crisi finanziaria, quindi monetaria ed economica. Ma chi aveva e ha occhi capaci di discernimento poteva però rilevare una «crisi» ben più profonda, una crisi spirituale, una crisi dell’umanizzazione, un avanzare della barbarie.
Dopo la caduta del muro di Berlino c’è stato un abbaglio, una fiducia smisurata nel mercato che sembrava garantire quello stile di vita consumistico cui ci eravamo abituati da qualche decennio…
Ora non si tratta di ritornare indietro, ma di tornare al centro sì, all’asse che permette alla politica di rendere possibile ciò che è giusto, ciò che è doveroso, ciò che è necessario al «ben-essere» autentico, di tornare all’asse su cui economia di mercato e solidarietà, competitività e coesione sociale possono interagire ed essere coerenti con la ricerca della qualità della vita umana e della convivenza sociale.
Solo tenendo conto di queste istanze si può uscire dall’attuale mancanza di visione sull’avvenire ed elaborare e realizzare un progetto di società a dimensione umana, altrimenti si continuerà a inoculare germi di sfiducia soprattutto nelle nuove generazioni, che intuiscono la necessità di non ridurre l’uomo a produttore-consumatore ma che tuttavia percepiscono la loro impotenza.
In questa ricerca, giustizia e solidarietà sono elementi che trovano nella sobrietà stimolo e sostegno.
E questo, se era vero in una società rurale e dotata di scarsi mezzi, lo è paradossalmente ancora di più in un mondo e in un’economia globalizzati. Infatti, la sobrietà non è solo misura nei propri comportamenti ma anche consapevolezza del nostro legame profondo e ineliminabile con le generazioni che ci hanno preceduto, con quelle che verranno dopo di noi e con quanti, nostri contemporanei, abitano assieme a noi il pianeta.
Nell’usare dei beni di cui dispongo e nell’ambire ad altri, non posso ignorare la necessità di un’equa distribuzione delle risorse: accaparrarsi beni, sfruttare il pianeta, disinteressarsi delle conseguenze immediate e future del proprio agire significa alimentare ingiustizie che, anche se non si ritorcessero contro chi le compie, sfigurano l’umanità e offendono il creato stesso.
Solo una sobrietà così concepita può tracciare un cammino sicuro per la solidarietà umana o, per usare una terminologia cristiana, per una «comunione universale». E questa solidarietà non è tanto il serrare le file da parte di un gruppo sociale per difendersi da un nemico comune o da un’avversità condivisa, non è solo la reazione spontanea e generosa davanti a una sciagura, ma è – a monte di queste cose – la percezione che nostri sodali nell’avventura umana sono quanti ci hanno preceduto e hanno lavorato e lottato per consegnarci condizioni di vita meno precarie, sono coloro che verranno dopo di noi e ai quali riconsegneremo un patrimonio eroso dallo sfruttamento e sono anche, ben più presenti ai nostri occhi, quanti oggi stesso vicini a noi o lontani, non dispongono di beni essenziali per una vita degna e anzi pagano sulla loro pelle i privilegi di cui noi godiamo e che pretendiamo  di accrescere continuamente.
Se non dimenticassimo questa solidarietà generazionale e mondiale, la sobrietà ci apparirebbe allora come l’unico stile di vita capace di restituire, a noi stessi per primi, dignità umana e senso dell’esistenza. In questo senso sobrietà e sviluppo non sono antitetici, se per sviluppo non intendiamo la crescita ininterrotta e l’accumulo incessante ma il pieno dispiegarsi delle potenzialità dell’essere umano, un fiorire delle risorse nascoste in ciascuno di noi che la stessa «decrescita» alimenta con la sua ricerca dell’essenziale. Davvero, la sobrietà ci fornisce gli strumenti per misurare noi stessi e il nostro rapporto con «ciò che rende la vita degna di essere vissuta».

 

in “La Stampa” del 3 luglio 2011

Dove sono finiti gli scrittori cristiani

 

 

intervista a Sylvie Germain, a cura di François Thuillier


Dove sono finiti gli scrittori cristiani, in questo periodo in cui la loro voce sembra più che mai necessaria? Dove sono finiti i loro appelli alla giustizia e all’indipendenza, o, più modestamente, alla bellezza e all’intelligenza?

Sicuramente, l’epoca di scrittori, romanzieri, poeti, filosofi come M. Barrès, C. Péguy, F. Mauriac, G. Bernanos, J. Green, P. Claudel, G. Marcel, M. Blondel, E. Gilson, J. Maritain, ecc. è superata.
Ma questo cambiamento nel modo di esprimere la fede, sia che essa venga affermata o interrogata, non significa una totale scomparsa.
In Francia ci sono grandi pensatori del cristianesimo, e anche grandi romanzieri, poeti, drammaturghi. Nessuno fa “opera confessionale”, ma, ognuno a suo modo (magari con una certa distanza, o in grande libertà, o in maniera a volte parodistica) mantiene un legame con il pensiero cristiano.
L’appello “alla giustizia e all’indipendenza, alla bellezza e all’intelligenza”, di cui comunque i cristiani non detengono l’esclusiva, certo non è più diretto come in Péguy, Bernanos o Claudel, ha perso quegli accenti forti, focosi, lirici che quegli scrittori sapevano far risuonare, ma tuttavia perdura. La voce della letteratura cambia nel corso del tempo. Il timbro, il colore, l’intensità si modificano incessantemente.
La voce della letteratura “cristiana” parla ora con toni molto più bassi, in maniera più indiretta e discreta. E se si mettesse di nuovo a parlare forte, con foga e combattività, non è certo che ci sarebbero orecchie per ascoltarla; c’è perfino il rischio che le orecchie dei nostri contemporanei si chiudano ulteriormente, tanto è cresciuta la diffidenza, l’avversione, verso qualsiasi discorso “religioso” espresso in maniera troppo ardente.
E poi, nel gran frastuono della nostra epoca, dove tanti clamori si scontrano, forse è più facile farsi sentire, almeno un po’, da qualcuno, parlando (scrivendo) in toni più pacati.

 

Questo pone il problema del nostro essere “presenti al mondo”, affrontato nel suo ultimo libro. Che cosa significa per lei essere “presente all’altro”?
Essere presente, significa “esserci, restare davanti”; restare attenti, nel mondo e davanti al mondo, e davanti all’altro, ad ogni altro. Significa considerare il mondo e gli altri. La dimensione spaziale del “qui” si accompagna alla dimensione temporale: adesso, in questo momento. Significa essere attenti
e vigilanti, qui e adesso.
Ma questa pienezza della presenza/coscienza/attenzione all’altro non deve farsi opaca e diventare ostacolo – per un eccesso di affermazione, per uno sviamento dell’attenzione in indagine, in impudicizia, per una tentazione di controllo e dominazione.
Questa pienezza deve essere una posizione di fronte all’altro, senza dominio su di lui. Anch’essa ha il suo doppio: di oblio – a sé; o piuttosto, è opportuno distinguere l’“io” cosciente, responsabile, che assume l’atto di presenza, e l’“io” centripeto che tende a ricondurre tutto a sé.

 

È veramente possibile, o è ancora solo un problema di credenza, di fede nel volto dell’altro?
Non c’è esclusione, per opposizione; aver “fede nel volto dell’altro” non è un’illusione che uno cerca di darsi per consolarsi dell’impossibilità di essere presente all’altro. Questa fede si fonda sull’intuizione profonda rielaborata per innalzarla a sapere, per quanto questo sapere possa restare incompleto e fluido. E l’intuizione dell’importanza vitale del volto dell’altro, che io devo riflettere, si presenta, in un unico movimento, nel bisogno vitale che io provo che anche l’altro mi rifletta.
I pensieri di odio, di disprezzo verso un’altra persona, hanno come finalità la sua perdita, in quanto tendono ad imprigionarla non nel suo vero volto, ma, all’opposto, in una caricatura di volto, in un rifiuto a riconoscergli la dimensione di volto, di alterità, di piena dignità di vivente. Tutto dipende dal modo di pensare l’altro, dalla qualità di questo pensiero: chiuso o aperto, malevolo o benevolo, mortifero o vivificante. Più si pensa l’altro liberamente, senza nulla “che pesi o immobilizzi”, su uno sfondo di un vuoto luminoso aperto a tutte le possibilità, e più questo pensiero si fa benefico. E questo non riguarda solo il nostro pensiero dei vivi, ma anche quello dei defunti, perché perfino nella morte l’altro deve essere pensato nell’apertura e nel movimento,  considerando l’immensa parte di ignoto che lo circonda, e di insospettato, forse, che lo abita.

 

Questa presenza non può prescindere dal corpo. E il corpo, questo “mezzo”, che è stato usato da Dio una volta per tutte, non è molto semplicemente il messaggio?
Nessuna religione ha attribuito al corpo tanto riconoscimento, dignità e valore quanto quella dell’Incarnazione. Purtroppo la Chiesa, nel corso della sua storia, ha spesso, e drammaticamente, perso di vista questo messaggio, distorcendolo, tradendolo, schernendolo. Il senso profondo dell’Incarnazione è stato salvaguardato nell’aspetto della cura, della cura per l’altro sofferente, affamato, nel bisogno… e questa dimensione di misericordia attiva, di fraternità operante, è fondamentale. Ma dal lato del godimento e della gioia, del corpo in festa, assurdamente, e scandalosamente, c’è stato il rifiuto, come se ogni piacere ed ogni gioia fossero subito confusi con la sregolatezza, l’oscenità, la depravazione.
No, non si può mai prescindere dal corpo; la meraviglia e la radicale singolarità della rivelazione cristiana risiedono nella piena accettazione del corpo, nella comprensione della sua complessità fatta di pesantezza e di grazia, di fragilità e di forza, della sua folle capacità sia di soffrire che di godere e gioire. E l’ascesi praticata da Cristo (digiuni, lunghe veglie di preghiera, frugalità del modo di vivere) non significa mai disprezzo e rifiuto del corpo, ma padronanza e disciplina del corpo in vista della partecipazione ad un fantastico movimento di liberazione di tutto ciò che ostacola e appesantisce gli uomini. L’uomo Gesù è stato sensibile ad ogni segno di ospitalità, di delicatezza, perfino di sensualità, che gli è stato prodigato. E incessantemente ha guarito i malati, che si trattasse di problemi fisici o psichici, ridando a ciascuno la sua integrità corporale e mentale.
Il corpo deve essere assunto e vissuto pienamente, ai suoi albori, nel suo pieno mezzogiorno, al suo crepuscolo, e fino all’estremo limite della sua notte. Così fu la Passione, un assoluto di tenebre penetrato nel corpo e nell’anima. Ma prima c’è stato lo splendore della Trasfigurazione, e dopo,
l’invisibile bagliore della Resurrezione.

 

Ecco, come sperimenta, una scrittrice come lei, la povertà e il buio? Nel rapporto con le parole o piuttosto nella vita quotidiana?
L’esperienza della povertà e del buio la si prova nel quotidiano, in maniera confusa, spesso, e a volte diventa acuta, in un certo istante, in un pensiero che si sfilaccia, che sbatte contro un ostacolo, che può essere di comprensione (di un’idea che ci sfugge, che ci eccede) o può sorgere mentre si parla con altre persone (dalle quali non si riesce a farsi capire e/o che non si riescono a capire).
Povertà dell’intelligenza, quindi; della capacità di comprensione del mondo, sia sul piano scientifico che su quello metafisico, che resta sempre limitata, per quanto possa essere vasta; della comprensione degli altri, per quanto essi siano intimi e per quanto profonda sia la nostra empatia, e anche di noi stessi (che abbiamo dentro tante ombre e chiaroscuri, segreti, bugie, ferite nascoste, paure inconfessate, desideri clandestini, cedimenti della volontà, ma anche begli imprevisti…).
Questa esperienza si intensifica quando si scrive. Bisogna incessantemente inseguire le parole, raggirarle, a volte litigarci. Le parole sono i nostri attrezzi, insieme sublimi e risibili, per andare incontro agli altri e incontro a noi stessi, per esplorare il tempo, per affrontare l’avventura della vita e l’ignoto della morte, per interrogare il mondo, senza fine, e per vegliare sulla soglia del mistero più estremo, quello di Dio. Soglia dove il linguaggio si esaurisce,  confina nel silenzio, e dove culmina l’esperienza della nostra povertà.


intervista a Sylvie Germain, a cura di François Thuillier
in “Témoignage chrétien” n° 3450 del 23 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Il mondo vi appartiene

 

Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo,

Palazzo Grassi, 2 giugno – 31 dicembre 2011

 



Il 19 e 20 maggio, durante la Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo, ha avuto luogo presso il quartier generale dell’Unesco di Parigi, un congresso sul futuro dell’arte pubblica, una particolare declinazione dell’arte contemporanea emersa in modo evidente a metà degli anni Novanta, sull’onda lunga di quell’esigenza maturata da parte degli artisti, tra gli anni Sessanta e Settanta, di uscire dai “luoghi deputati” e di aprire la propria opera ad un pubblico sempre più numeroso e partecipe.

L’arte pubblica può rivestire nella società contemporanea e in quella futura, un’ influenza  sulla vita quotidiana della maggior parte della popolazione urbanizzata, al pari dell’architettura e delle infrastrutture di servizio? Sembra emergere una visione dell’arte pubblica calibrata sulla sua maggiore o minore disponibilità a farsi veicolo di significati, tanto storico-commemorativi quanto attuali, connessi alla specificità del luogo e di conseguenza all’identità della cittadinanza.

Angela Vettese, nel fortunato Capire l’ arte contemporanea, rileva come l’arte pubblica sia diventata il volano di un interesse reciproco tra le discipline architettonico- urbanistiche e le “arti visive”, non solo da un punto di vista teorico, ma soprattutto realizzativo.

Di questo assunto, si sono fatti partecipi i curatori della splendida Mostra di palazzo Grassi a Venezia che assieme all’equipe stampa( specie di Paola Manfredi), ha presentato( finalmente!!!) un insieme di autori, specie non europei, con qualcosa su cui pensare, oltre che vedere.

 


La Mostra: IL MONDO VI APPARTIENE

“Il Mondo vi appartiene mette in prospettiva le opere di artisti che appartengono a diverse generazioni e di differenti origini, mettendone a confronto le pratiche, le discipline, i percorsi personali ed esplorando i rapporti con la storia, il reale e la sua rappresentazione; « la mostra si sviluppa intorno ai grandi temi della storia presente, dalla disintegrazione dei simboli sino alla tentazione del ripiegamento su se stessi, passando per il fascino della violenza o della spiritualità in un mondo travagliato e globalizzato » (Caroline Bourgeois).
Gli artisti presenti:

Gli artisti correlati Adrian Ghenie, Ahmed Alsoudani, Alighiero Boetti, Boris Mikhailov, Charles Ray, Cyprien Gaillard, David Claerbout, David Hammons, El Anatsui, Farhad Moshiri, Francesco Vezzoli, Frederic Bruly Bouabré, Friedrich Kunath, Giuseppe Penone, Huang Yong Ping, Jeff Koons, Joana Vasconcelos, Jonathan Wateridge, Lee Ufan, Loris Gréaud, Louise Lawler, Marlene Dumas, Matthew Day Jackson, Maurizio Cattelan, Nicholas Hlobo, Philippe Perrot, Rudolf Stingel, Sergey Bratkov, Sigmar Polke, Sislej Xhafa, Sun Yuan & Peng Yu, Takashi Murakami, Thomas Houseago, Thomas Schütte, Urs Fischer, Yang Jiechang, Yto Barrada, Zeng Fanzhi, Zhang Huan

 


Informazioni utili

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L’albero della vita (The Tree of Life)

 

Il Film

The Tree of life è solo il quinto film in una carriera più che trentennale per il regista de La sottile linea rossa.  Malick in questo suo lavoro, è sicuro del paradiso. La natura, la vita ci hanno fatto espiare a sufficienza. Abbiamo già pagato. Certo, è bello pensarlo.
Diamogli  credito,  così come glielo ha dato Cannes, col suo massimo premio. 
Il film è stato prodotto anche da Brad Pitt, giunto in Francia con la famiglia al seguito e con la moglie Angelina Jolie.

[The Tree of Life, USA, 2011, Azione, durata 138′]   Regia di Terrence Malick
Con Brad Pitt, Sean Penn, Fiona Shaw, Pell James, Crystal Mantecon, Jessica Chastain, Lisa Marie Newmyer, Tamara Jolaine, Jennifer Sipes, Will Wallace, Kari Matchett. Uscita: mercoledì 18 maggio 2011.

 

Trama

Jack, un ragazzino di undici anni, vive nel Midwest insieme ai suoi  due fratelli e ai suoi genitori. La sua esistenza gli appare piena,  incantevole nonostante i messaggi che gli giungono dai genitori amorevoli siano dissonanti: la madre gli insegna la grazia, l’amore e la misericordia, il padre cerca invece di motivare la sua autostima e il suo individualismo. Le cose si fanno più complesse quando Jack affronterà per la prima volta la malattia, la sofferenza e la morte. Il mondo, che un tempo era per lui una cosa splendida, diventa un labirinto. Inizia così un cammino verso la consapevolezza e la comprensione dell’esistente che si compirà quando Jack sarà adulto.


Cosa dicono del film

E’ un’ opera densa e inesauribile, fuori dal tempo e che copre tutto il Tempo,.È un miracolo.


Terrence Malick e il suo affascinante The Tree of Life, ha presentato un’opera ambiziosa che ha saputo distinguersi per la sua dimensione mistica e per la maestria della messa in scena.

Texas, anni Cinquanta. Jack cresce tra un padre autoritario ed esigente e una madre dolce e protettiva. Stretto tra due modi dell’amore forti e diversi, diviso tra essi per tutta la vita, e costretto a condividerli con i due fratelli che vengono dopo di lui. Poi la tragedia, che moltiplica le domande di ciascuno. La vita, la morte, l’origine, la destinazione, la grazia di contro alla natura. L’albero della vita che è tutto questo, che è di tutte le religioni e anche darwiniano, l’albero che si può piantare e che sovrasta, che è simbolo e creatura, schema dell’universo e genealogia di una piccola famiglia degli Stati Uniti d’America, immagine e realtà.

L’attesa della nuova opera di uno degli sguardi più dotati e personali dell’arte cinematografica è ricompensata da un film tanto esteso, per la natura dei temi indagati, quanto essenziale. Popolato persino da frasi quasi fatte, che la genialità del regista riesce a spogliare di ogni banalità e a resuscitare al senso. Malick parla la sua lingua inimitabile, le cui frasi sono composte di immagini (tante, in quantità e qualità) e di parole (molte meno) in una combinazione unica, senza mai pontificare. Si ha più che mai l’impressione che con questo film, che parla a tutti, universalmente, non gli interessi comunicare per forza con nessuno, ma farlo innanzitutto per sé.

Testimone di una capacità rara di sapersi meravigliare, ha realizzato un film che non si può certo dire nuovo ma nel quale Terrence Malick si ripete come si ripropone il bambino nell’uomo adulto, per “essenza” vien da dire: ci si può vedere la maniera o, meglio, ci si può vedere l’autore.

Del film si mormorava addirittura che avrebbe riscritto la storia del cinema e in un certo senso The Tree of Life fa anche questo, senza inventare nulla ma spaziando dall’uso di un montaggio emotivo da avanguardia del cinema degli esordi ad una sequenza curiosamente molto vicina al finale del recentissimo Clint Eastwood, Hereafter. Il confronto, però, scorretto ma tentatore, non si pone: la passeggiata di Malick in un’altra dimensione è potente e infantile come può esserlo solo il desiderio struggente che nutre il bambino di avere tutti nello stesso luogo, in un tempo che contenga magicamente il presente e ogni età della vita. Ecco allora che il film non sarà nuovo ma rinnova, ritrovando un’emozione primigenia, fondendo ricordo e speranza. L’ultimissima immagine non poteva che essere un ponte(Recensione di Marianna Cappi).

I premi di Cannes 2011:
Palma d’Oro al miglior film: The Tree of Life di Terrence Malick
Gran Premio della Giuria: Il ragazzo con la bicicletta di Jean-Pierre e Luc Dardenne ad ex aequo con Once Upon a Time in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan
Premio della giuria: Poliss di Maïwenn Le Besco
Miglior attrice: Kirsten Dunst per Melancholia
Miglior attore: Jean Dujardin per The Artist
Miglior regista: Nicolas Winding Refn per Drive
Miglior sceneggiatura: Joseph Cedar per Hearat Shulayim
Camera d’Or: Las Acacias di Pablo Giorgelli


Inoltre, desideriamo ricordare  che L’albero della vita (Titolo originale:  The fountain ) di

Darren Aronofsky, fu presentato al Festival internazionale della Mostra di Venezia nel 2006 e raccontava dell’Albero della Vita, una pianta leggendaria che si racconta potesse donare la vita eterna a chi beveva la sua linfa. In un certo senso, l’assunto del film di Terence Malick che “spinge” l’umanità a fidarsi di Dio- comunque lo si invochi-  e a superare le molte prove della vita, amandosi, aiutandosi, dandosi una mano, anche se quello che ci circonda non indurrebbe a farlo.

Mai più Sanremo a Messa

 

La Chiesa e la musica di Dio “Mai più Sanremo a messa” Ora il Papa invita a cambiare partitura. Per tornare all’antico

 


È ora di mettere al bando le «armi di distruzione di messa». Nella Chiesa italiana, spesso divisa, c’è un argomento che mette d’accordo tutti, un po’ più scandalizzati i tradizionalisti, un po’ più ironici i progressisti: le canzoncine devote che si ascoltano ogni domenica in tutte le parrocchie della penisola tra l’introibo e il missa est sono quasi sempre desolanti, banali, lagnose o bizzarre, talora ridicole e a volte perfino sbadatamente eretiche. Tanto che nessuno giurerebbe che lo strepitoso rap che la regista Alice Rohrwacher, appena acclamata a Cannes, fa cantare ai catecumeni nel suo film Corpo celeste («Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta») sia del tutto inventato, e non magari ascoltato veramente in  qualche oratorio di periferia.
Non si può dire che gli allarmi non siano risuonati, è il caso di dire, molto in alto. Già venticinque anni fa l’allora cardinale Ratzinger fu spietato con la playlist degli altari: «Una Chiesa che si riduca a fare solo della musica “corrente” cade nell’inetto e diviene essa stessa inetta». Oggi, da pontefice
amante della musica, insiste sul concetto in un libro, Lodate Dio con arte, applaudito dal maestro Riccardo Muti, anche lui esasperato da «quelle quattro strimpellate di chitarre su testi inutili e insulsi che si ascoltano nelle chiese, un vero insulto». La questione sta diventando spinosa, anzi esplosiva, perché da anni è sullo stile delle celebrazioni che si gioca l’aspra contesa tra conciliaristi e restauratori, con i secondi al facile attacco di quella «eresia  dell’informe», come la definisce lo scrittore tedesco Martin Mosebach, che corrode la liturgia a colpi di «canti sguaiati». «A che serve avere belle chiese se la musica è penosa?», insorse dieci anni fa l’allora presidente del Pontificio istituto di musica sacra, il catalano Valentino Miserachs Grau.
La Chiesa francese ha risolto la questione da tempo, con piglio gallicano, stilando una lista rigorosa e vincolante di canti ammessi, una sorta di canatur, versione canora dell’imprimatur. Invece in Italia, sede del cattolicesimo ma anche patria del bel canto, l’anarchia del parrocchia’n’roll sembra ingovernabile. Ogni diocesi dovrebbe possedere un Ufficio di musica sacra tenuto a vigilare sulla serietà del sacro pop, ma di fatto quel che finisce per risuonare tra banchi e navate è quasi sempre frutto della creatività improvvisata di qualche catechista munito di iPod, o di certi sacerdoti chitarristi. La scena, un po’ dovunque, dev’essere quella frettolosa e distratta descritta dal bolognese don Riccardo Pane nel suo sconsolato pamphlet Liturgia creativa: «Prima della messa mi piomba immancabilmente in sacrestia qualcuno a chiedere: “Don, che cosa cantiamo?”, e il mio ritornello è inesorabilmente “vatti a leggere le antifone e vedi se trovi un canto che ci azzecca”».
Il risultato è nelle orecchie di tutti. Reperibile a vagonate anche sui canali di YouTube, pure in versioni medley e remix. Motivetti che non ci azzeccano proprio, incongruità (Signore scende la sera cantato alla messa delle 11 di mattina), cascami di musica di consumo, simil-Ramazzotti e para-Baglioni, esotismi world music con bonghi e maracas (come il cantatissimo Osanna-eh «africano») che sconcertano le vecchiette, azzardi stilistici estremi (c’è un Gloria hip-hop), perfino cover da grandi successi (allucinata la parafrasi del Pater sull’aria di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel: «Padre Nostro tu che staiiii / in chi ama veritàaaa…»). La ribellione è nell’aria, un gruppo Facebook frequentato da sacerdoti ha stilato perfino la classifica dei canti più disastrosi: ha vinto con 374 nomination l’Alleluja delle lampadine, ribattezzato così perché di solito è accompagnato da gesti delle mani che sembrano mimare il lavoro di un elettricista. L’arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra ha spuntato personalmente a matita rossa dai libretti parrocchiali i canti «che non devono più esserci», come Alleluja la nostra festa, visto che, semmai, la messa è la festa del Signore. Da più parti s’invocano il ripristino d’autorità del Gregoriano e la disciplina monostrumentale dell’organo a canne, o almeno dell’armonium.
Sotto queste pressioni, un paio d’anni fa la Conferenza episcopale chiese al suo consulente don Antonio Parisi, esperto di musica sacra e compositore, di mettere ordine nello sconcertante frastuono. Povero don Antonio, si trovò di fronte un oceano di quindicimila canti, canzoni e canzoncine estratti da quarantacinque anni di raccolte nazionali e locali. E c’era di tutto. Delle musiche abbiamo detto, ma i testi, i testi ancora peggio. Pieni di parole tronche, da poesiola delle elementari («Il nostro mal / sappi perdonar…»), banali, inappropriate, di orrori grammaticali («Te nel centro del mio cuor»), di espressioni rubate a qualche spot televisivo di banche («Tutto ruota intorno a Te»), quando non sono zeppi di ingenuità (definire Maria «l’irraggiungibile» non è incoraggiante per la partecipazione al rosario) e di veri e propri strafalcioni teologici, commessi sicuramente in buona fede, magari per far quadrare un verso: cantare «Tu che sei nell’universo» solo perché «nell’alto dei Cieli» non ci stava, più che riecheggiare una canzone di Mia Martini  significa circoscrivere Dio dentro la sua Creazione, e non va proprio bene.
Un compito immane, defatigante, sconsolante, da cui don Parisi riuscì meritoriamente a far scaturire un Repertorio nazionale di canti per la liturgia che ne seleziona 384 decenti e adeguati, ma che ancora non fa testo: «Non si può procedere per imposizioni», spiega, «bisogna formare, formare persone nelle diocesi, nelle parrocchie, far studiare musica ai presbiteri, agli animatori, ai catechisti, il canto liturgico non è un optional, è un segno sacro».
Giusto non voler guastare l’entusiasmo degli animatori parrocchiali, volonterosi e incolpevoli. Ma il punto è questo, che i canti durante la messa non sono un “accompagnamento”, non sono gli “stacchetti” fra un responsorio e una lettura: fanno parte della liturgia, sono cosa sacra come le parole  dell’Elevazione. Come è possibile che la stessa Chiesa che ripristina la messa in latino chiuda un occhio di fronte alla colonna sonora da X-Factor di quella in italiano? I conservatori hanno una spiegazione storica: la profanazione canora cominciò con «la deflagrazione nucleare» chiamata “Messa Beat”. Chi la ricorda? Anno 1965, Concilio appena terminato, fibrillazione del rinnovamento, il maestro Marcello Giombini accantonò le colonne sonore degli  spaghetti-western e, ispirato, scrisse una messa musicale «per i giovani». Davvero una bomba atomica. Trasmissioni Rai, concerti, tournée internazionali, benedizione del gesuita padre Arrupe, 45 giri pubblicati dall’etichetta discografica delle Edizioni Paoline. Il torrente non si fermò più, proliferarono i «complessi» da scantinato di canonica, alcune band divennero famose, Angel and the Brains, The Bumpers, per non dire delle due formazioni parallele dei Focolarini, Gen Verde e Gen Rosso, le cui audiocassette infestano ancora gli oratori. Ma fu così che la Chiesa non perse l’onda del Sessantotto.
E non fu affatto una sciagura, assicura monsignor Vincenzo De Gregorio, responsabile per la liturgia musicale della Cei: «Prima le messe erano o tutte recitate o tutte cantate, ma cantate solo dal coro, solo da ascoltare. La Messa Beat fu una sana apertura, ed era di qualità, il guaio come sempre  sono gli epigoni. Anzi, il guaio è la cultura musicale inesistente degli italiani. In questo Paese ormai si canta solo a messa».
I tradizionalisti sbagliano. Dare la colpa al Concilio è troppo facile, anche la Chiesa guardinga dell’Ottocento ebbe parecchi problemi con le hit parade da altar maggiore. Sentite come nel 1884 la Sacra congregazione dei riti elencò con disgusto quel che rimbombava tra le navate: «Polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop, controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari, erotiche o buffe,  romanze…». Il difetto della Chiesa post-conciliare semmai fu trovarsi musicalmente impreparata alla sua stessa rivoluzione liturgica.
Con l’abbandono del latino, la Cei predispose il nuovo messale in italiano, ma trascurò il rinnovamento del repertorio canoro. A disposizione c’erano solo un po’ di litanie antiquate, Mira il tuo popolo, T’adoriam ostia divina. «Ai parroci non restò che prendere le canzonette del gruppo rock che faceva le prove in oratorio, o quelle dell’ultimo campeggio scout, e portarle sull’altare», sospira monsignor De Gregorio. Risultato: un’infantilizzazione drastica dei contenuti, degli stili, dei testi.
Eppure ci sono, nel grande mondo ecclesiale, talenti da utilizzare, compositori di qualità. Don Parisi li cita con rispetto: don Marco Frisina, compositore apprezzato anche negli Usa, don Pierangelo Sequeri, autore del diffusissimo Symbolum 77, il gesuita Eugenio Costa, il camilliano Giovanni Maria Rossi, il salesiano Domenico Machetta… «Vedo il bicchiere mezzo pieno: sono passati solo cinquant’anni dalla riforma conciliare, è presto per tirare delle conclusioni». La Cei sta pensando di commissionare a loro un nuovo repertorio, finalmente di qualità. Nell’attesa, quando rintocca la campana della messa, viene ancora il sospetto che le parrocchie d’Italia, come patrono della musica, non invochino santa Cecilia, ma Sanremo.


in “la Repubblica” del 16 giugno 2011

Morire di speranza

 

Veglia di preghiera oggi a Roma per i boat people d’Europa di Redazione in Independent Catholic News del 16 giugno 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)


Si svolgerà a Roma questa sera alle ore 18.00 una veglia di preghiera, per tutti i profughi che hanno perso la vita cercando di arrivare in Europa. Dal 1990 si è a conoscenza di almeno 17.597 persone che hanno perso la vita nel corso del pericoloso viaggio dal Nord Africa alla volta di Italia, Spagna
e Malta. L’attuale crisi in Libia ha portato molte più persone a intraprendere la rischiosa traversata in mare su imbarcazioni fatiscenti e sovraccariche. Nei primi cinque mesi del 2011, 1.820 persone sono morte annegate nel Mediterraneo, di cui 1.633 con l’intenzione di rimanere in Italia. Il bilancio
reale delle vittime è probabilmente molto più alto.
Molti dei rifugiati sono originari dell’Africa sub-sahariana, e avrebbero compiuto il loro lungo viaggio via terra verso nord Africa, a piedi o in autobus, alla ricerca di un lavoro. Mentre la crisi si è andata intensificando, essi si sono trovati in una situazione ancora più vulnerabile, in situazioni di
pericolo e molti disperati sono stati costretti a fuggire con qualsiasi mezzo a disposizione.
Così per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato 2011, in calendario il prossimo 20 giugno, la Comunità di Sant’Egidio, l’Associazione Centro Astalli, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Fondazione Migrantes, la Caritas italiana e le ACLI, stanno organizzando una veglia di preghiera per tutti coloro che hanno perso la vita cercando di raggiungere l’Europa.
Con il titolo “Morire di speranza”, la Veglia di preghiera sarà guidata da mons. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, e si svolgerà nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, oggi 16 giugno alle ore 18.00.

Come si diventa un ateo credente

 

Hilary Putnam, Filosofia ebraica, una guida di vita, Carocci, 2011

intervista a Hilary Putnam, a cura di Antonio Gnoli

 

Dopo aver letto il libro – bello e intenso come un appassionato esame di coscienza – verrebbe voglia di capire perché Hilary Putnam – che per sessant’anni ha scritto di “fatti e valori” e di filosofia della scienza, con l’autorità che tutti gli riconoscono a livello internazionale – abbia deciso di aprirsi alle grandi interrogazioni religiose e al mistero che le avvolge. Putnam ha da poco pubblicato Filosofia ebraica, una guida di vita (edito da Carocci con una postfazione di Massimo Dell’Utri e Pierfrancesco Fiorato) e già il titolo mette in chiaro che non si tratta di una ricostruzione neutra del pensiero di Rosenzweig, Buber, Lévinas e Wittgenstein, ma di una vera e propria lettura che implica una scelta di campo, un’adozione e una solidarietà intima con il pensiero ebraico.
Putnam è nato a Chicago, ha 85 anni ed è considerato il più grande filosofo analitico in circolazione. Egli ha appena consegnato per la Harvard University Press una raccolta di saggi dal titolo Philosophy in the Age of Science. Di formazione è un matematico e un logico e in passato si è occupato di filosofia del linguaggio e della mente.

 

Professor Putnam da dove nasce il bisogno di misurarsi con i problemi della fede, oltretutto abbracciandone la sostanza spirituale?
«È stato Kierkegaard a parlare del salto della fede, che deve avvenire solo dopo la riflessione. Io ritengo che avere una propria vita spirituale sia una benedizione, ma senza riflessione si rischia di provocare quei disturbi o malesseri che spesso accompagnano la religione».

 

Quali malesseri?
«Kant ne ha elencati quattro: fanatismo, superstizione, delusione, stregoneria. Sono un gran pericolo per chiunque abbracci una religione».


Lei utilizza alcuni importanti pensatori ebraici come antidoto ai pericoli che una religione può rappresentare. Ma che cosa hanno in comune Rosenzweig, Buber e Lévinas?

«Sono molto diversi tra loro, ma hanno in comune il fatto di filosofare nel solco della tradizione ebraica e di essere tutti e tre dei filosofi esistenzialisti. Ossia tutti e tre sarebbero d’accordo nell’affermare che filosofi e religiosi sono tali per il loro modo di essere al mondo e non solo per la loro capacità di sviluppare una teoria. Questo aspetto, che reputo fondamentale, è un loro debito nei confronti di Kierkegaard».

 

Ma si può essere, come nel suo caso, insieme atei e credenti? Non si rischia di confondere due piani inconciliabili?
«Da un lato, non credo nel sovrannaturale e agli occhi di molta gente questo mi rende un ateo; benché preferisca personalmente usare questo termine solo per chi si oppone attivamente alla religione. D’altro canto, credo che gli ideali religiosi e morali abbiano una qualche validità. In altre parole, penso che valori e ideali sono costruzioni umane, ma le richieste che questi ci permettono di esaudire non sono state inventate da noi. Non scherzo né mento quando affermo che pregare Dio – cosa che faccio ogni giorno – , non è pregare un essere fittizio. Per alcuni questo fa di me un
credente. Ma ciò in cui credo quando dico: “credo in Dio” non è affatto quello che l’ateo nega quando dice: “Dio non esiste”. Capisce perché quello tra un ateo e un credente può diventare un dialogo tra sordi».

 

Si può ricondurre la distinzione tra atei e credenti a una più generale distinzione tra fatti e valori?
«Non penso che i valori non religiosi – morali, epistemologici ecc. – presuppongano la religione o Dio. Ci dicono, semplicemente, che esistono modi di vivere, di ragionare, di agire che sono migliori o peggiori di altri. Non vedo il naturalismo in filosofia incompatibile con il credere nella realtà normativa. Chi è scettico sulla normatività del mondo lo sarà sicuramente anche sull’idea che il modo di vita religioso possa avere un valore oggettivo».


Nella sua visione filosofica viene prima la conoscenza scientifica o quella religiosa?

«Penso che la religione non dovrebbe essere considerata una forma di conoscenza. Quando alcuni invocano l’autorità della religione per negare dei dati scientifici (per esempio l’evoluzione), ebbene essi sono semplicemente irrazionali. Inoltre la conoscenza morale – il sapere cioè che tutti noi siamo degni di rispetto e abbiamo dei diritti – non dipende dalla religione che professiamo».

 

Lei è considerato un filosofo realista. Immagino che sia una definizione che non la soddisfi più?
«Al contrario mi soddisfa pienamente, come cercherò di dimostrare con il nuovo libro che ho appena consegnato».

 

La sua idea di religione?
«Un mio amico e grande studioso delle religioni di tutto il mondo, ripeteva spesso che nessuna delle religioni era interamente buona e, per spiegare la sua piccola provocazione, aggiungeva: “potrei mostrarti altrettante differenze tra i Metodisti della Londra del 1815, quante si presuppone ce ne siano tra tutte le altre religioni del mondo”. Dal mio punto di vista, un modo di vita religioso soddisfacente deve condurre verso il fiorire, compreso il fiorire morale, dell’individuo e della comunità. Quello che la religione non deve fare è creare dei dogmi su argomenti scientifici e morali».

 

Lei ha scritto della pagine molto interessanti su Lévinas che come sa è stato un allievo di Heidegger. Cosa pensa di Heidegger?
«Credo che il pensiero di Heidegger sia stato profondamente permeato dalla sua lunga simpatia per il nazionalsocialismo. Già da prima che Hitler prendesse il potere. So che questa interpretazione è controversa. Ma è un fatto che già in Essere e Tempo Heidegger è convinto che noi scegliamo il nostro destino scegliendo il nostro eroe e aggiunge che non si sceglie solo per se stessi, ma anche per il proprio Volk. L’autenticità che egli difende non ha nulla a che vedere con l’individualità. Essa nasce dalla venerazione per il Volk e la sua presunta grandezza. Non nego che fosse un genio. Dal mio punto di vista ritengo però fosse un genio del male».

 


Lei sostiene di non credere in una vita ultraterrena e di non credere nei miracoli o in un Dio che ci salva dai disastri. Su cosa basa la sua fede?

«Come Kant, ritengo che il genere più prezioso di religiosità non riponga sull’attesa di una qualche ricompensa. E d’altronde, Kant aveva ragione quando affermava che molte persone hanno bisogno di credere nella vita eterna e in una ricompensa dopo la morte. Io no. Ma non posso disprezzare ciò che dà alla gente il coraggio di andare avanti. Purché questo non porti all’intolleranza».

 

 

in “la Repubblica” del 31 maggio 2011

“Signore da chi andremo? Pellegrini, cercatori di Dio”


 

 

il Convegno per la pastorale del tempo libero, turismo e sport si svolge da giovedì 2 a sabato 4 giugno a Fano.

 

 

“L’uomo da sempre e ancor di più oggi è alla ricerca di senso, di significato, di andare in profondità. Facendosi pellegrino verso un luogo sacro si riappropria di una modalità di incontro con Dio che lo mette in strada, riscopre la sua minorità, recuperando i valori ad essa connessi: la sobrietà, la semplicità, l’essenzialità, il gusto dell’andare verso la meta, il gusto di incontrarsi e di stare insieme, il raccontare, il pregare, contemplare, ammirare, stupire”.Con queste parole don Mario Lusek, Direttore dall’Ufficio Nazionaleper la pastorale del tempo libero, turismo e sport, presenta il Convegno “Signore da chi andremo? Pellegrini, cercatori di Dio”, che si svolge da giovedì 2 a sabato 4 giugno a Fano. “L’iniziativa – spiega don Mario Lusek, Direttore di uno degli Uffici promotori, unitamente all’Ufficio Liturgico Nazionale, alla Diocesi di Fano, al Collegamento Nazionale Santuari e al Segretariato Pellegrinaggi Italiani (SPI) – vuole recepire gli Orientamenti Pastorali emersi nel 2° Congresso Mondiale della pastorale dei Santuari e dei Pellegrinaggi promosso a Santiago de Compostela dal Pontificio Consiglio dei Migranti nel settembre 2010 e prepararci al Congresso Eucaristico Nazionale del prossimo settembre ad Ancona”.

 

I lavori della tre giorni, che sarà moderata da Giovanni Gazzaneo, coordinatore de “I luoghi dell’Infinito”, si apriranno alle ore 15.30di giovedì 2 giugno con i saluti di S. E. Mons. Armando Trasarti, Vescovo di Fano – Fossombrone – Cagli – Pergola, di Stefano Aguzzi, Sindaco di Fano, di Matteo Ricci, Presidente della Provincia di Pesaro – Urbino, di Gian Mario Spacca, Presidente della Regione Marche e di don Mario Lusek, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport.

 

La prima sessione, intitolata “Camminare, l’homo viator del nostro tempo ed il suo cammino di ricerca” sarà presieduta da Don Luciano Mainini, Segretario Generale dello SPI. Dopo una lectio divina della biblista Rosanna Virgili, S.E. Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, presenterà la “Lettera ai cercatori di Dio”. In serata, alle 21.30, presso il Teatro della Fortuna avrà luogo la rappresentazione teatrale “Il Giullare Pellegrino”, a cura del Jobel Teatro di Roma.

 

Venerdì 3 giugno alle ore 9.30 avrà inizio la seconda sessione, intitolata “Accogliere, il ministero dell’accoglienza nei Santuari” e presieduta da Mons. Marino Maria Basso, Presidente del Coordinamento Nazionale Santuari. In apertura il Prof. Maurizio Boiocchi, Dottore di ricerca presso l’Università IULM di Milano, offrirà un “Identikit del pellegrino di oggi: una lettura socio pastorale”. Sarà poi affrontato il tema “Educare all’accoglienza e all’incontro: esperienze a confronto”, con gli interventi di P. Enzo Poiana, Rettore della Basilica di Sant’Antonio di Padova, di P. Francesco Biagioli, collaboratore del Rettore del Santuario di San Gabriele dell’Addolorata (Isola Gran Sasso d’Italia – TE) e di Don Ciro Favaro, Rettore del Santuario della Madonna del Pettoruto a San Sosti (CS). A seguire Mons. Giancarlo Perego, Direttore Generale della Fondazione Migrantes, interverrà su “Il Santuario luogo di educazione alla solidarietà”, mentre su “L’accoglienza degli stranieri nel Santuario di Pietralba (BZ)” interverrà il Rettore P. Lino Pachin.

Alle ore 12.00 S. E. Mons. Luigi Conti, Arcivescovo-Metropolita di Fermo e Presidente della Conferenza Episcopale Marchigiana, presiederà una Celebrazione Eucaristica presso la Basilica di San Paterniano.

Nel pomeriggio avrà luogo la terza sessione, intitolata “Celebrare, il servizio pastorale nei Santuari”, e presieduta da S. E. Mons. Claudio Maniago, Vescovo ausiliare di Firenze e Segretario della Commissione Episcopale per la liturgia. Il primo intervento sarà di Adelindo Giuliani, dell’Ufficio Liturgico del Vicariato di Roma, su “L’animazione nei Santuari: la via dei segni”.

Seguirà quello di Mons. Timothy Verdon, Direttore Diocesano per la catechesi attraverso l’arte, arte sacra e beni culturali di Firenze, su “La via della bellezza”; infine toccherà al Prof. Franco Cardini, Storico e Docente all’Università degli Studi di Firenze, che interverrà su “La via della memoria. Le antiche vie di pellegrinaggio”.

 

Sabato 4 giugno alle ore 9.30 avrà inizio la quarta ed ultima sessione dei lavori, intitolata “Ritornare, un cammino che continua”, e presieduta da Giovanni Gazzaneo.  Su “Il ministero delle Opere Diocesane di Pellegrinaggio” interverrà, in apertura, Don Claudio Zanardini, Responsabile Ecclesiastico di Brevivet, cui farà seguito S. E. Mons. Edoardo Menichelli, Arcivescovo-Metropolita di Ancona-Osimo e Vescovo Delegato Regionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, che parlerà sul tema “Signore, da chi andremo? Pellegrini verso il Congresso Eucaristico Nazionale”.

Da ultimi, per tracciare le conclusioni (“Il ritorno, un cammino che continua”) prenderanno la parola S. E. Mons. Claudio Giuliodori, Presidente della Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, e do

Che cos’è libertà

 

 

La libertà è il fondamento della stessa possibilità della vita morale:

hanno infatti significato etico soltanto quegli atti nei quali la libertà si esercita, e la loro eticità è misurata dal grado e dalla qualità di libertà che in essi si esprime. Libertà ed eticità sono dunque grandezze direttamente proporzionali, che rinviano l’una all’altra come a criteri correlativi di definizione del significato morale dell’agire.

 

Laddove non sussiste libertà non si dà eticità; gli atti che l’uomo realizza, in condizione di totale assenza di libertà sono infatti atti che provengono dall’uomo senza che ne sia padrone e possa farsene di conseguenza responsabilmente carico. Per questo vi è chi afferma che libertà ed eticità coincidono; che l’identità del soggetto umano è data dalla libertà — è questa l’opinione di Jean Paul Sartre  —; in altri termini, che l’uomo non ha la libertà ma è libertà.

 

tra libertarismo e determinismo

Questa concezione è oggi largamente condivisa, al punto che ad essa si ispirano molti comportamenti sia individuali che sociali. La dinamica del desiderio è spesso considerata l’unica sorgente delle scelte nei vari ambiti dell’esistenza. L’economia di mercato ha assunto come paradigma una forma di liberismo selvaggio, insofferente di qualsiasi regola. La società è caratterizzata dalla presenza di logiche corporative e da una esasperata rivendicazione dei diritti alla quale non corrisponde una altrettanto seria assunzione dei doveri e della responsabilità personale. Anche la politica si è fatta sempre più autoreferenziale in presenza di capi carismatici che fanno del populismo la loro bandiera e gestiscono il potere secondo la logica dello scambio, privilegiando le corporazioni forti e l’interesse privato.
La libertà rischia perciò di essere identificata con il capriccio individuale; di assumere cioè i connotati di un libertarismo individualistico, che prescinde da ogni legame con gli altri e con il mondo dei valori. La cultura «radicale» è l’espressione compiuta di questo assunto: i pilastri su cui poggia sono l’assolutizzazione del diritto soggettivo e il riferimento al principio del piacere come parametro valutativo dell’agire: «vale ciò che vale per me, vale per me ciò che mi piace». Così concepita la libertà dà origine a un’interpretazione soggettivistica della vita dalla quale è esclusa in
partenza ogni dimensione relazionale.
A questa affermazione della libertà in termini incondizionati si oppone la drastica negazione che fa di essa chi mette fortemente l’accento sugli esiti delle scienze umane — da quelle biologiche a quelle psicologiche, da quelle sociali a quelle culturali — , le quali insistono nel rilevare i condizionamenti cui l’uomo è soggetto. I meccanismi istintuali, i dinamismi della psiche e le strutture sociali e culturali incidono profondamente sulla condotta umana; le scelte che l’uomo fa sono spesso soltanto apparentemente libere; le loro cause profonde vanno ricercate in aree della soggettività che sfuggono al controllo — si pensi al mondo del subconscio — perché le dinamiche ad esse soggiacenti non sono
oggettivabili.
La trasformazione delle scienze umane in ideologie dà luogo a un rigido determinismo: l’agire umano, lungi dall’essere espressione della libertà, si trasforma in agire meccanicistico, frutto dell’intreccio di forze interne ed esterne che condizionano radicalmente la condotta dell’uomo. Le azioni dell’uomo sono il prodotto di fattori riconducibili alla struttura originaria della persona e al successivo sviluppo della personalità, che prescindono cioè dalla responsabilità soggettiva. L’assenza di libertà implica infatti la negazione dell’eticità, se è vero — come si è detto — che libertà ed eticità sono direttamente proporzionali.

 

dalla «libertà da» alla «libertà per»

Più che il risultato di una dimostrazione razionale, la libertà è una realtà che ciascuno sperimenta di fronte alle diverse scelte della vita: da quelle più impegnative a quelle più feriali. Tutti infatti avvertiamo, quando ci troviamo a dover decidere, che siamo noi gli attori della scelta; in altre parole, che essa dipende dalla nostra volontà.
La libertà si presenta dunque anzitutto sotto la forma di «libertà da» (o «libertà di elezione»); essa coincide con l’assenza di un condizionamento totalizzante che ridurrebbe l’agire ad agire deterministico. La volontà umana, che ha per oggetto il Bene assoluto, misurando la distanza esistente tra esso e i beni particolari (sempre limitati) con cui entra in contatto nel contesto della contingenza storica, percepisce di non essere da essi radicalmente condizionata. La sproporzione tra il Bene e i beni dà origine a uno stato di indeterminazione, che può essere superato soltanto autodeterminandosi, cioè mediante la libera decisione personale. Non essendo le motivazioni fornite dalla ragione apodittiche, vi è infatti spazio per una presa di posizione della persona, che deve farle diventare le proprie motivazioni, giustificando in questo modo la propria scelta.
Per quanto estremamente importante la «libertà da» non esaurisce tuttavia l’intero contenuto della libertà: essa è soltanto il presupposto a partire dal quale è possibile attingerne il senso più profondo, costituito dalla «libertà per» (o «libertà di perfezione»), la quale ha come obiettivo il perseguimento della piena liberazione. La libertà ci è data perché ci liberiamo, perché portiamo a compimento il processo della nostra realizzazione personale; in una parola, perché, attraverso le nostre opzioni concrete, perseguiamo la nostra vocazione. A contare non è dunque la possibilità di scegliere ma la scelta fatta in modo conforme alle istanze della propria soggettività. All’inizio e al termine della libertà vi è infatti la persona; all’inizio come dato ontologico che ne fonda possibilità; al termine come fine cui essa tende e che si identifica con la completa integrazione della personalità. Non è dunque libero chi rinuncia a scegliere per mantenere aperte tutte le possibilità di scelta; è invece libero chi fa scelte autentiche, conferendo attraverso di esse un  orientamento ben definito alla propria esistenza. Ogni scelta ha i suoi costi: comporta una rottura (sempre dolorosa) con altre possibilità di scelta che vengono automaticamente escluse o almeno accantonate; ma questo risvolto negativo è compensato dalla convergenza dell’agire attorno a un polo che conferisce unità alla vita della persona.
La libertà è, in definitiva, una realtà articolata, la cui traiettoria va dalla capacità di autode terminarsi – senza il riconoscimento del libero arbitrio non si può parlare di libertà – fino all’autodeterminazione, che ha luogo quando la scelta è finalizzata alla realizzazione di sé.

 

condizionamenti e libertà morale

Ma la libertà, di cui è stata fin qui delineata la struttura portante, non è mai una libertà assoluta; è una libertà «situata», soggetta a una serie di limitazioni che ne circoscrivono il campo di azione. Se infatti è giusto rifiutare la tesi del determinismo che affiora – come si è visto – nell’ambito delle scienze umane, non si deve tuttavia misconoscere il peso dei condizionamenti che si esercitano sulla libertà e che ne limitano la possibilità di espressione. La ragione di fondo di questi condizionamenti è di natura antropologica: in quanto esse-re essenzialmente corporeo – il corpo non è nell’uomo un dato accidentale, ma un fattore costitutivo della sua soggettività – l’uomo è inserito nello spazio e nel tempo; fattori che, se danno, per un verso, consistenza reale all’agire, ne segnano, per altro verso, in partenza la direzione obbligata.
La libertà morale, che è libertà-liberazione (o, come si è detto, libertà di perfezione), si realizza pertanto all’interno di ben definite coordinate che dettano le condizioni del suo esercizio. Essa si identifica anzitutto con la scelta di fondo messa in atto dal soggetto nel momento in cui progetta l’esistenza, conferendo in tal modo un indirizzo preciso al proprio agire. È questa – come giustamente rileva Sartre – la «libertà fondamentale», che si incarna nelle scelte particolari le quali possono confermarla (e dunque rafforzarla) oppure opporsi ad essa fino a provocarne il  ribaltamento.
Tra le due forme di libertà si dà un rapporto di interdipendenza dialettica: la libertà fondamentale si costruisce mediante le scelte particolari e all’interno di esse – e questo a causa del fatto che l’agire umano è, come si è detto, un agire «situato» -; ma essa esercita, a sua volta, il proprio condizionamento sulle scelte particolari, che sono da essa in parte influenzate.
La libertà è dunque doppiamente alla radice dell’eticità: lo è in origine, come condizione preliminare: solo un atto libero è infatti un atto autenticamente umano, e solo un atto autenticamente umano è un atto morale. Ma lo è anche in relazione al fine che l’eticità persegue, il quale non consiste tanto nella perfezione dell’atto ma nella perfezione dell’agente, cioè nel progetto di vita che l’uomo si dà e che non può che essere frutto della sua libera scelta.

 

l’ apertura al valore

Nonostante la sua grande rilevanza sul piano morale, la libertà non si identifica tuttavia totalmente con l’eticità. La piena identificazione rischia di condurre a un vicolo cieco. Non avendo né origine né fine, la libertà è destinata a implodere: l’uomo infatti – osserva Sartre – in quanto non è libero di essere libero, è condannato alla libertà. È allora necessario ancorare la libertà a un dato oggettivo che stabilisca, in qualche modo, le condizioni per il suo corretto sviluppo in relazione alla autentica promozione umana.
Il concetto che viene oggi utilizzato per dare contenuto a questo dato è quello di «valore». Esso rappresenta il momento di congiunzione feconda tra l’aspetto soggettivo e quello oggettivo della moralità. Se è vero infatti che la libertà rinvia al valore come a suo necessario approdo, non è meno vero che il valore rinvia alla libertà come a condizione essenziale della sua stessa possibilità di esistere. O forse, più correttamente, è vero che la libertà, in quanto «libertà per», ha quale oggetto la piena liberazione umana, che trova realizzazione in un progetto che ha nel mondo dei valori il proprio ineludibile riferimento.

 

di Giannino Piana
in “Rocca” n. 11 del 1 giugno 2011