Un popolo e una fede da riconoscere


Il Papa incontra i rom in Vaticano, alla vigilia della Pentecoste.

 

È un incontro storico. Mentre oggi cresce anche nell’opinione pubblica la marginalizzazione sociale di questo popolo, ancora non riconosciuto tra le minoranze linguistiche in diversi Paesi europei compreso il nostro, il Papa apre le braccia a una rappresentanza di almeno 1.400 persone rom, ma anche sinti, caminanti e di altre tradizioni, provenienti da dieci regioni e da una cinquantina di città italiane. I rom vengono da Roma e Milano, Cosenza, Torino, Firenze, Messina, Reggio Calabria, Pescara, Avezzano che sono alcune delle città da cui sono emerse – in questi ultimi mesi – storie di discriminazione, di sgomberi, di violenze e purtroppo anche di tragiche morti innocenti, ma anche storie belle di prossimità, di percorsi educativi e sociali straordinari, che vedono spesso protagoniste tra i rom altre famiglie italiane, parrocchie, insegnanti e associazioni. Il cosiddetto popolo ‘nomade’ – una galassia di popoli e un mondo di mondi diversi – in Italia è composto da circa 170mila persone, almeno la metà delle quali bambini e ragazzi. Spesso si sottovaluta il fatto che più o meno il 70% di loro è italiano, un buon gruppo è europeo (soprattutto originario della Romania) e solo una minoranza è di provenienza extracomunitaria. Meno del 20% vive nei campi, la stragrande maggioranza vive nei condomini, nelle case rurali, in paesi e in città. In prevalenza sono di fede cristiana (il 70%), soprattutto cattolici, presenti in 100 città italiane, seguito da oltre 180 operatori pastorali, molti dei quali provenienti dalle stesse famiglie rom e sinti. Ci sono anche comunità di evangelici e ortodossi.


Si tratta di un’esperienza cristiana che alcune volte sa anche interpretare in maniera originale la liturgia, la festa, la vita familiare, il ricordo dei defunti, la devozione mariana. Le migrazioni più recenti dalla Bosnia, Romania, Serbia, Macedonia e dai Paesi dell’est in genere, ha portato alla formazione di comunità musulmane. Non sempre si conosce e riconosce questo popolo complesso e la sua storia, la sua tradizione di fede aperta anche al dialogo ecumenico e interreligioso. È importante cogliere questa ricchezza di esperienza religiosa, perché alla marginalizzazione sociale dei rom non si accompagni anche un’impensabile marginalità sul piano ecclesiale. La figura del beato Zefirino, il rom spagnolo massacrato e ucciso durante la guerra civile solo perché osò difendere un prete e la propria fede semplice e popolare. Il suo rosario – a 150 anni dalla sua nascita e a 75 anni dal suo martirio – ci ricorda l’importanza e il valore di tutti nella Chiesa, anche le persone più semplici e ‘differenti’. A Pentecoste, con il dono dello Spirito, che aiuta a parlarsi, a conoscersi, a capirsi il Papa invita a riconoscere il popolo rom come Chiesa. Ci chiede di guardare a queste persone – uomini e donne – che oggi faticano più di altre a ‘entrare’ dentro la città, e ad accompagnare il loro cammino con la fantasia dell’amore, della carità. A Pentecoste, il Papa chiede a noi un ‘supplemento d’anima’, perché evitiamo l’omologazione che politica, cultura, mezzi di comunicazione talora rischiano di insinuare nella lettura di storie e mondi differenti e altri.

A Pentecoste, Benedetto XVI ha scelto di invitare a riconoscere l’altro come la persona da cui ripartire in questo cammino di nuova evangelizzazione, che fugge da ogni forma di chiusura, di distanza, di separazione, di esclusione. L’incontro del Papa con i rom ci ricorda che non si può pensare di costruire Chiesa e città senza di loro. Tutti siamo responsabili di tutti. Nessuno escluso.

 

* Direttore generale Migrantes.


in “Avvenire” dell’11 giugno 2011

Il Concilio Ecumenico Vaticano II: contrasti nella storia del concilio

Dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha fatto l’esperienza, nei paesi occidentali, di un profondo declino relativamente alla frequenza alla messa, alla decimazione degli ordini religiosi e alle vocazioni presbiterali, e di una seria crisi dell’autorità della Chiesa istituzionale, in seguito alla reazione alla Humanae Vitae.


Alcuni diedero la colpa di questo all’evidente rapporto del concilio con la modernità, che prima del concilio era stata chiaramente condannata. Un piccolo numero di questo gruppo alla fine promosse uno scisma, guidato dal defunto arcivescovo Lefebvre. Altri ritennero il collasso inevitabile, date le profonde correnti secolarizzatrici nelle culture occidentali. Altri ancora attribuirono il declino ad una mancata applicazione degli insegnamenti del concilio e all’azione dilatoria di “conservatori centralizzanti” che hanno bloccato la Chiesa ad una roccia premoderna, senza più credibilità né responsabilità.


Questo è solo un campione delle posizioni assunte sull’argomento, ma rende ampiamente evidente il fatto che l’interpretazione del Concilio Vaticano II (1963-1965) è ancora profondamente contestata.
I dibattiti sui lavori del concilio sono stati spesso dipinti come dibattiti tra “conservatori” e “liberal”, termini in un certo senso superati con cui sono stati definiti anche gruppi di studiosi impegnati nell’interpretazione del concilio. Agostino Marchetto, giustamente, deplora queste etichette, ma il suo libro può certamente essere letto come una seria critica “conservatrice”, storica e metodologica, di circa 20 anni di cultura “liberal” sul concilio.


Quando il cardinal Ruini presentò il libro dell’arcivescovo Marchetto ad un pranzo ufficiale a Roma, paragonò, come fa Marchetto, la recente storia del concilio scritta da vari autori ed edita da Giuseppe Alberigo, alla famosa storia del Concilio di Trento scritta da Paolo Sarpi. Nessuno disse che Sarpi era stato inserito nell’Indice dei Libri Proibiti – ma lo sapevano.

L’accusa fatta alla Scuola di Bologna, di cui Alberigo era un leader intellettuale, è che gli studiosi coinvolti nello studio della storia hanno letto i documenti e gli eventi vaticani del concilio con un atteggiamento di sistematica prevenzione.


La prevenzioni fondamentali erano: il fatto di non fidarsi soprattutto sui 62 volumi che presentano il modo di procedere dell’ambiente del concilio, e sui documenti stessi del concilio; il fatto di essere decisamente anti-curia; il fatto di sottolineare la novità e la differenza piuttosto che la continuità; il fatto di sminuire l’importanza dei documenti finali di tipo autoritario a favore del fatto di vedere il concilio come “evento” (ci sono diversi significati dati a questo termine, ma fondamentalmente sposta l’attenzione lontano dall’interpretazione testuale dei documenti conciliari, preferendo concentrarsi su diari privati, e teorie letterarie, storiche e sociologiche); il fatto di vedere una profonda separazione tra papa Giovanni XXIII, che aveva una visione positiva, e papa Paolo VI, che sempre più si allontanava dalla visione di papa Giovanni man mano che il concilio procedeva sotto la sua guida. A causa di queste prevenzioni, dichiara Marchetto, questa storia smisurata oscura gli insegnamenti del concilio.


Il libro di Marchetto è importante in quanto sviluppa la critica che papa Benedetto fa a varie interpretazioni del concilio. La maggior parte delle 723 pagine sono occupate nel passare in rassegna sotto vari titoli tematici le pubblicazione tra il 1992 e il 2003 che si occupano del concilio, della sua preparazione, delle sessioni effettive, delle storie alternative del concilio, dell’autorità episcopale e papale (trattate in uno dei precedenti libri di  Marchetto, uno dei suoi temi preferiti), una recensione di diari e fonti alternative e, alla fine, tre saggi che riassumono l’argomento base del libro.
Secondo Marchetto, che cosa costituisce una corretta interpretazione? Innanzitutto, l’accettazione della continuità della dottrina: riforma e cambiamento avvengono solo all’interno di quella continuità dottrinale. Marchetto cita spesso Newman, ma non sviluppa nei dettagli la visione di Newman rispetto allo sviluppo dottrinale. Né c’è discussione su ciò che costituisce una dottrina riformabile o una dottrina irriformabile, su quello che sono opinioni teologiche probabili o certe, talvolta viste come dottrine. In secondo luogo, la lettura dei testi del concilio e dei documenti ufficiali del modo di procedere nell’ambiente del concilio, così come dei commenti ufficiali ai testi, oltre ai documenti ufficiali emanati, come le lettere di papa Paolo durante il concilio. Questi sono i “fatti” che dovrebbero formare la base per la nostra comprensione del concilio, non gli eventi prima, durante e dopo, come costruiti da altre fonti.


Marchetto ha ragione nell’ammonire che abbiamo appena cominciato ad interpretare il concilio, d ato che i 62 volumi editi da Vincenzo Carbone sono stati conclusi solo recentemente. Ma questo ammonimento dovrebbe ugualmente essere applicato alla lettura di Marchetto dei documenti e del c ontesto del concilio, il che richiederebbe maggiore argomentazione di quella che egli talvolta presenta. Parla spesso di giudizi non equilibrati e di espressioni eccessive, presumendo che il lettore condivida questo modo di vedere. Anche se, per essere giusti, recensendo più libri, come scrive spesso Marchetto, si deve spesso rimanere entro limitazioni.


Alla fine, Marchetto indica alcuni segnali positivi di letture alternative rispetto alla tradizione dominante che ha criticato in alcuni punti. Indica Leo Scheffczyk, Annibale Zamberi, Vincenzo Carbone, il lavoro dell’Istituto Paolo VI di Brescia, J.-M. R. Tillard, Massimo Faggioli, Giovanni Turbanti e, in parte, Hermann J. Pottmeyer. Si potrebbero aggiungere i bei saggi editi da Matthew Levering e Matthew Lamb per l’ambito di lingua inglese.


È un libro importante in un dibattito che è appena iniziato. Il futuro della Chiesa cattolica sarà nutrito dal concilio solo se esso sarà correttamente interpretato.



in “The Tablet” del 9 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

La Francia e i frutti del Concilio


Sono diversi anni che la “ricezione” del Concilio è oggetto di dibattito tra i cattolici. Dopo 40 anni e una nuova generazione di storici, è venuto il momento di uno sguardo spassionato su quegli anni fecondi. Alla pubblicazione di “La crise catholique, 1965-1978” di Denis Pelletier (2002) hanno fatto seguito due convegni, i cui atti, recentemente pubblicati, rivelano l’ampiezza del cambiamento conosciuto dalla Chiesa cattolica in Francia. Vi scopriamo i dibattiti che, sulla scia del Vaticano II, hanno contribuito a costruire la Chiesa attuale.


Un nouvel âge de la théologie? 1965-1980 si pone l’obiettivo di decriptare le evoluzioni del pensiero religioso. In effetti, la generazione dei teologi post-conciliari si apre ampiamente agli apporti delle scienze sociali, delle esperienze militanti… Anche dei laici vi partecipano.
Questa disciplina sembra esplodere di fronte alla moltiplicazione delle proposte, perché il mondo cattolico accetta (temporaneamente) questo pluralismo. Il dialogo con il marxismo, a cui Témoignage chrétien ha partecipato, vive di diversi contributi, come la ricerca di un pensiero compatibile con gli impegni di sinistra. Gli autori non ignorano le resistenze al cambiamento, che trionferanno nella normalizzazione avvenuta dopo il 1980, ad opera di un certo Joseph Ratzinger.


L’église de France après Vatican II (1965-1975) si inscrive come complemento dell’opera precedente, sforzandosi di offrire un panorama ampio e rigoroso delle trasformazioni che hanno riguardato la Chiesa francese. Difficile per coloro che hanno vissuto quel periodo affrontarlo in maniera spassionata. Le testimonianze (abbastanza concordi) permettono di risentire il vigore dei dibattiti dell’epoca, appena attenuato.


Gli ambiti osservati sono insoliti ma si dimostrano pertinenti. Ad esempio la nascita della conferenza episcopale che era un’assoluta novità. Come i contributi relativi alla formazione dei preti, di cui si mostrano sia le sperimentazioni che le resistenze. Nel suo intervento sulla “tentazione gauchiste nella Chiesa francese”, François Grèzes-Rueff difende l’idea che i cristiani furono i “cofondatori” del gauchisme francese, e che la loro presenza avrebbe evitato la deriva verso una violenza politica (come in Italia o in Germania).

 



I contributi più originali trattano delle trasformazioni liturgiche, cioè le più visibili per i fedeli. La lettura parallela di queste due opere rivela la capacità di innovazione che è stata necessaria ai protagonisti dell’epoca. Capacità che oggi sembra spegnersi.

 

Un nouvel âge de la théologie ? 1965-1980, Karthala (2009)

L’Église de France après Vatican II, Parole et Silence (2011)

(traduzione: www.finesettimana.org)

 

in “www.temoignagechretien.fr” del 14 giugno 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

Assemblea CEI, il Comunicato finale

“La comunione nello Spirito Santo è la condizione del giusto discernimento”.

Queste parole, pronunciate dal Card. Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, nell’omelia della Concelebrazione eucaristica in San Pietro, individuano con efficacia i tratti caratterizzanti la 63ª Assemblea Generale della CEI (Roma, 23-27 maggio 2011).
in San Pietro

A essa hanno preso parte 231 membri e 18 Vescovi emeriti, a cui si sono aggiunti 22 rappresentanti di Conferenze Episcopali europee, i delegati dei religiosi, delle religiose, degli Istituti secolari, della Commissione Presbiterale Italiana e della Consulta Nazionale delle aggregazioni laicali, nonché alcuni esperti, in ragione degli argomenti trattati.
Uno spirito di comunione ha contraddistinto anzitutto la prolusione del Presidente, il Card. Angelo Bagnasco, che ha riletto, a partire dalla recente beatificazione, la figura e il magistero di Giovanni Paolo II, riproponendo la forza rigenerante dell’originalità cristiana, anche in un clima culturale segnato dal dilagare del secolarismo e del relativismo. Con fermezza, esprimendo “dolore e incondizionata solidarietà” alle vittime e alle loro famiglie, ha ribadito il dovere di affrontare l’infame piaga degli abusi sessuali perpetrati da sacerdoti; la preoccupazione per la crisi della vita pubblica e per l’individualismo indiscriminato che porta a ignorare le urgenze sociali; il bisogno di tutelare la persona in ogni momento della vita e la famiglia, come nucleo primario della società; la necessità di qualificare la scuola e di una politica del lavoro che abbia a cuore il futuro dei giovani. L’anelito alla comunione ha indotto a varcare i confini del nostro Paese, per soffermarsi sullo situazione del Medio Oriente e del Nordafrica, con particolare attenzione alla Libia, chiedendo un “cessate il fuoco” che apra la strada alla diplomazia e a un diverso coinvolgimento dell’Unione europea.

 

nella Basilica di S. Maria Maggiore

La comunione si è manifestata visibilmente nella celebrazione mariana del 26 maggio nella Basilica di S. Maria Maggiore, nella quale i Vescovi, riuniti in preghiera intorno al Santo Padre, hanno rinnovato l’affidamento dell’Italia alla Vergine Madre, nell’anno in cui ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’unità politica.
L’Assemblea Generale ha esercitato il suo discernimento in particolare riflettendo sulle modalità secondo cui articolare nel decennio corrente gli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo, approvati nel 2010. In quest’opera i Vescovi sono stati guidati da due relazioni magistrali, l’una volta ad approfondire cosa significhi introdurre e accompagnare all’incontro con Cristo nella comunità ecclesiale, e l’altra imperniata sulla sfida che il secolarismo pone all’universalità cristiana. Continuando l’opera iniziata nella precedente Assemblea Generale, tenuta ad Assisi nel novembre scorso, i Vescovi hanno esaminato e approvato la seconda parte dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
Fra gli adempimenti di natura amministrativa, spicca l’approvazione della ripartizione e dell’assegnazione delle somme derivanti dall’otto per mille.
A integrazione dei lavori, sono state svolte comunicazioni e date informazioni su alcune esperienze ecclesiali di rilevanza nazionale e sui prossimi eventi che coinvolgeranno le Chiese in Italia.

 

 

 

Comunicato finale – 27 maggio 2011.doc

La Settimana Sociale sul passo dei giovani

concluso il forum nazionale dei giovani  che si è svolto a Milano il 21 e 22 maggio con la partecipazione di più di 90 giovani provenienti da tutte le regioni d’Italia e da molte aggregazioni laicali nazionali.

 

Non dobbiamo lasciarci strumentalizzare come semplici portatori di acqua verso mulini che spesso macinano grano inquinato; dobbiamo essere portatori di vino, di quell’acqua trasformata da Gesù a Cana, il buon vino del Vangelo; dobbiamo essere capaci di assumerci nuove responsabilità sociopolitiche, cominciando dai livelli più bassi, nei comuni, nei municipi, nelle istituzioni, nelle piccole associazioni.

 

Così il vescovo Mons. Miglio ha introdotto il Forum nazionale dei giovani dopo le Settimane Sociali di Reggio Calabria che si è svolto a Milano il 21 e 22 maggio; al Forum hanno partecipato più di 90 giovani provenienti da tutte le regioni d’Italia e da molte aggregazioni laicali di livello nazionale.

 

Edoardo Patriarca, Segretario del Comitato scientifico per le Settimane sociali della CEI, ha concluso i lavori nelle conclusioni, ha presentando l’Italia come un paese da “stappare”; in Italia ci sono troppi “tappi”, ben sigillati.; ha quindi chiesto ai giovani presenti di impegnarsi per levare il tappo alla bottiglia “Italia” affinchè possano uscire un po’ di “bollicine”, di entusiasmo, di brio, di novità. Patriarca ha incoraggiato i giovani a non lasciarsi intimorire qualora fosse necessario dire parole o fare gesti scomodi.

 

La scelta di Milano va a completare il percorso attraverso l’Italia che ha toccato precedentemente Roma e Reggio Calabria. Al Forum sono intervenuti sei adulti esperti, alcuni provenienti da associazioni ecclesiali, che hanno animato i lavori delle aree tematiche medico-sanitaria, imprenditoriale-commerciale, giudirico-legislativa, culturale-massmediale, artistico-urbanistica, educativa-formativa; un modo concreto di realizzare quell’incontro intergenerazionale auspicato dagli Orientamenti pastorali “educare alla vita buona del Vangelo”. Il Forum si inserisce in un impegno che il Servizio nazionale per la pastorale giovanile sta portando avanti per la conoscenza presso i giovani della Dottrina sociale della chiesa. Il Santo padre Benedetto XVI, il card Bagnasco ed altri vescovi italiano ripetutamente hanno chiesto ai giovani un rinnovato impegno nel servizio al bene comune, auspicando la nascita di “una nuova generazione di politici italiani”.

 

Il cammino, dice don Nicolò Anselmi, continuerà certamente negli anni a venire, già a partire dal 2012; molte diocesi e associazioni si stanno già muovendo; i giovani si stanno riavvicinando alla politica, desiderano prendere in mano il proprio futuro; siamo fiduciosi che il mondo adulto li aiuterà a crescere anche in questo ambito e, a tempo opportuno lascerà loro spazio. L’Italia ha bisogno della freschezza e della passione dei giovani, soprattutto della loro capacità di costruire comunione, rete, senza prevenzioni ideologiche.

 

Nei prossimi giorni sarà possibile trovare il materiale del Forum su www.chiesacattolica.it/giovani in cui c’è un link al Sito delle Settimane Sociali.

L’Assemblea generale dei Vescovi

 

la prolusione del Cardinale Presidente, Angelo Bagnasco, all’Assemblea generale dei vescovi italiani

 

 

“In un tempo facilmente catturabile dall’apparenza e dall’effimero, si è assistito all’esaltazione di un autentico uomo di Dio, la cui santità è stata riconosciuta col dovuto rigore dall’autorità della Chiesa, la quale ha così intercettato un consenso sorprendente, più ampio dei confini cattolici”.

 

Il primo pensiero del Cardinale Presidente è stato per Giovanni Paolo II; alla luce della sua testimonianza ha riletto, tra l’altro, la stessa responsabilità che è affidata ad ogni Vescovo: “Egli ha accettato il pontificato ma non ha chiesto di scendere dalla croce… Giovanni Paolo II ha cesellato la propria vita secondo la forma pasquale, e dimostrando a tutti che cosa può diventare l’esistenza di una persona quando si lascia afferrare da Cristo”. Ha quindi evidenziato “il legame spirituale intenso e amico che correva, benefico per la Chiesa intera, tra Giovanni Paolo II e colui che − nel disegno della Provvidenza – sarebbe stato il suo successore”; un legame che è più della semplice continuità: “C’è una perdurante ammirazione spirituale che diventa stupefacente lezione di stile, di umiltà e di candore, dalla quale noi sentiamo di dover imparare”.

 

Tra i motivi di gratitudine a Benedetto XVI, il Cardinale ha posto anche “la «lettera circolare», inviata ad ogni Vescovo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in vista della preparazione di necessarie «linee guida» per i casi di abusi sessuali perpetrati da chierici ai danni di minori”. Tali abusi costituiscono, secondo il Presidente, “un’infame emergenza non ancora superata, la quale causa danni incalcolabili a giovani vite e alle loro famiglie, cui non cessiamo di presentare il nostro dolore e la nostra incondizionata solidarietà”. Tra le iniziative messe in campo dalla Chiesa ha annunciato che “da oltre un anno, su mandato della Presidenza CEI, è al lavoro un gruppo interdisciplinare di esperti proprio con l’obiettivo di “tradurre” per il nostro Paese le indicazioni provenienti dalla Congregazione”.

 

Tra gli altri temi affrontati nella Prolusione, la Giornata Mondiale della Gioventù che si svolgerà a Madrid, dal 16 al 21 agosto (“La formula ha dato tono a tutta la pastorale, inducendola ad uscire allo scoperto, andare incontro alle persone, adottare i loro linguaggi, per far comprendere a tutti, specialmente ai giovani, che Cristo c’entra con la vita, con tutti i suoi ambiti”) e il Congresso Eucaristico Nazionale, in programma ad Ancona dal 3 all’11 settembre (“il suo tema, «Signore, da chi andremo?», vuol rigenerare il nostro sguardo grazie all’energia del Risorto”).

 

Sulla situazione nazionale il Presidente dei Vescovi italiani ha sottolineato che “l’Italia non è solo certa vita pubblica” e che “se, nonostante tutto, il Paese regge è perché ci sono arcate, magari non immediatamente percepibili, che lo tengono in piedi”. Sono “arcate” gettate sopra “un individualismo indiscriminato” che sta determinando “in alcuni ambienti, che forse si ritengono per altri versi i più emancipati ed evoluti, la tendenza ad una chiusura ermetica rispetto all’istanza sociale”. Dopo aver ricordato che “dalla crisi oggettiva in cui si trova, il Paese non si salva con le esibizioni di corto respiro, né con le slabbrature dei ruoli o delle funzioni, né col paternalismo variamente vestito, ma solo con un soprassalto diffuso di responsabilità che privilegi il raccordo tra i soggetti diversi e il dialogo costruttivo”, ha risposto indirettamente ad una critica diffusa: “Se non parliamo ad ogni piè sospinto, non è perché siamo assenti, anzi, ma perché le cose che contano spesso sono già state dette… Crediamo che vi siano tante forze positive all’opera, che non vanno schiacciate su letture universalmente negative o pessimistiche”.

 

Il Card. Bagnasco ha dedicato l’ultima parte della Prolusione ad alcune urgenze: la legge sul fine vita (“Ci si augura cordialmente che il provvedimento − al di là dei tatticismi che finirebbero per dare un’impressione errata di strumentalità − non si imbatta in ulteriori ostacoli, ottenendo piuttosto il consenso più largo da parte del Parlamento”), la famiglia (“sull’analisi delle carenze e delle debolezze che riguardano l’assetto dell’istituto familiare ci sia ormai nel Paese una larga convergenza. Ciò che serve, ed è quanto mai urgente, è passare alla parte propositiva, agli interventi strutturali efficaci per dare dignità e robustezza a questa esperienza decisiva per la tenuta del Paese e il suo futuro. Nulla è davvero garantito se a perdere è la famiglia”), l’occupazione (“Il lavoro che manca, o è precario in maniera eccedente ogni ragionevole parametro, è motivo di angoscia”). L’analisi non ha concesso spazio ad alcun catastrofismo: “nell’animo degli italiani non sta venendo meno la voglia di migliorarsi, di crescere, di impegnarsi. La maggioranza non si è staccata dalla vita concreta, ha resistito al canto delle sirene che continuano a veicolare modelli di vita facile, di successo effimero, di mondi virtuali, del tutto e subito”).

 

In conclusione, lo sguardo del Cardinale Presidente si è soffermato su alcuni contesti nazionali di crisi: la Siria, il Libano, l’Egitto e, in particolare, la Libia. In merito a quest’ultima ha osservato: “la non chiarezza emersa al momento dell’ingaggio, ha continuato a pesare sullo sviluppo temporale e strategico delle operazioni che avrebbero dovuto avere la forma dell’ingerenza umanitaria, e hanno ugualmente causato gravissime perdite umane, anche tra i civili. Difficile oggi non convenire che nel concreto non esistono interventi armati “puliti”. È, questo, allora un motivo in più per intensificare gli sforzi che portino ad un cessate il fuoco, e quindi a sveltire la strada della diplomazia”.

 

 

Prolusione.doc

 

 

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“All’assemblea generale dei vescovi, il presidente della Cei, Angelo Bagnasco propone alla vita pubblica una serie di accorati «vorremmo», chiede alla politica un soprassalto di responsabilità, lancia l’allarme-disoccupazione giovanile e critica le strategie sull’immigrazione («soldi per i missili e non per i profughi»)… Perciò rilancia l’appello papale per una nuova generazione di politici cattolici e indica i temi chiave: biotestamento, scuola, famiglia… Con l’auspicio che la legge sul fine vita… non trovi ulteriori ostacoli” [ndr…….]

 

“«da oltre un anno, su mandato della presidenza Cei, è al lavoro un gruppo interdisciplinare di esperti proprio con l’obiettivo di “tradurre” per il nostro Paese le indicazioni provenienti dalla Congregazione della Dottrina della Fede». Un obiettivo che… «oggi viene autorevolmente richiesto a tutte le Conferenze episcopali del mondo»… anche con la necessità di raccogliere dati e informazioni a livello nazionale. Fino all’anno scorso i vescovi italiani non avevano ritenuto di procedere in tal senso”

 

 

Due messe per un’unica Chiesa

 

 

Un solo rito romano in due forme, antica e moderna.

È la medicina di Benedetto XVI per sanare un disordine liturgico arrivato “al limite del sopportabile”.

Per chi non si fida, è uscito un nuovo documento con le istruzioni

 

Per capire il perché della liberalizzazione della messa in rito romano antico, decisa da Benedetto XVI col motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007 e confermata con l’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi, la guida più sicura continua a essere la lettera ai vescovi con cui papa Joseph Ratzinger accompagnò quel motu proprio:

> “Cari fratelli nell’episcopato…”

In essa, Benedetto XVI descriveva la situazione “al limite del sopportabile” che intendeva sanare. Se non solo i lefebvriani – la cui volontà di rottura era “però più in profondità” – ma anche molte persone fedeli al Concilio Vaticano II “desideravano ritrovare la forma, a loro cara, della sacra liturgia”, cioè tornare all’antico messale, il motivo era il seguente, a giudizio del papa:

“In molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.

La convinzione di Benedetto XVI è invece che “le due forme dell’uso del rito romano possono arricchirsi a vicenda”. Il rito antico potrà essere integrato da nuove feste e nuovi testi. Mentre “nella celebrazione della messa secondo il messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso”.

Il che è proprio ciò che avviene, sotto gli occhi di tutti, ogni volta che papa Ratzinger celebra la messa: col rito “moderno” ma con uno stile fedele alle ricchezze della tradizione.

Nell’istruzione “Universæ Ecclesiæ” diffusa oggi con la data del 30 aprile 2011, festa di san Pio V, è citato quest’altro passaggio della lettera di Benedetto XVI del 2007:

“Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del ‘Missale Romanum’. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

E viceversa – ribadisce l’istruzione al n. 19 – i fedeli che celebrano la messa in rito antico “non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della santa messa o dei sacramenti celebrati nella forma ordinaria”.

Ecco dunque il link all’istruzione diffusa il 13 maggio 2011 sull’applicazione del motu proprio “Summorum Pontificum” del 2007.

> Universæ Ecclesiæ

Mentre questa è la nota di sintesi curata dal direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi:

> “L’Istruzione sull’applicazione del motu proprio…”

Sia l’istruzione che la nota sono state diffuse nelle principali lingue. Così come si trova tradotta in più lingue, nel sito del Vaticano, anche la lettera di Benedetto XVI ai vescovi del 2007.

Curiosamente, però, il motu proprio “Summorum Pontificum” continua ad essere presente nel sito della Santa Sede soltanto in due lingue, e tra le meno conosciute: la latina e l’ungherese:

> Summorum Pontificum

Intanto, il prossimo 15 maggio, IV domenica di Pasqua, sarà celebrata nella basilica papale di San Pietro in Vaticano, all’Altare della Cattedra, per la prima volta, una messa solenne in rito antico.

Il celebrante sarà il cardinale Antonio Cañizares Llovera, prefetto della congregazione per il culto divino.

Dirigerà il coro, con musiche di Giovanni Pierluigi da Palestrina, il cardinale Domenico Bartolucci, già maestro perpetuo della Cappella Musicale Sistina.

La messa concluderà un convegno sul motu proprio “Summorum Pontificum”, tra i cui relatori figurano lo stesso cardinale Cañizares, il vescovo Athanasius Schneider e monsignor Guido Pozzo, segretario della pontificia commissione “Ecclesia Dei” che ha emesso l’istruzione “Universæ Ecclesiæ”.

Il programma del convegno:

> “Una speranza per tutta la Chiesa”

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Notizie, analisi documenti sulla Chiesa cattolica a cura di Sandro Magister

 

 

Vogliamo di seguito dare una sintetica documentazione sul dibattito in atto:


“Per poter assorbire la… contestazione [dei lefebvriani], il Vaticano ha moltiplicato le concessioni… Ma il risultato finora visibile è di averli incoraggiati a ulteriori appetiti… Sembra che la Chiesa di Ratzinger accetti di farsi liquida, se non babelica. In nome del principio dell’accoglienza ammette che gruppuscoli di cattolici arcaici con preti di loro gusto, anzi, che preti nomadi di passaggio si presentino occasionalmente in una parrocchia per far messe in latino. Le norme prescrivono ora che vengano accontentati… non si ricordava un simile grado di contestazione dell’autorità dei vescovi”
“Torna la messa in latino, per i fedeli che d’ora in poi la chiederanno. I vescovi dovranno mostrare «generosa accoglienza» nel concederla a chi la pretenderà… Ma i fedeli tradizionalisti che vogliono seguire la messa in latino… «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa messa o dei sacramenti celebrati con il rito del Concilio Vaticano II». E devono inoltre «riconoscere il Romano Pontefice come pastore supremo della Chiesa universale»”
“«Generosa accoglienza» verso quanti chiedono il messale precedente alla riforma liturgica, spiega il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, per garantire «la legittimità e l’effettività dell’uso del messale antico e lo spirito di comunione ecclesiale: la finalità papale di riconciliazione non va ostacolata o frustrata, ma favorita e raggiunta»” (ndr.: si continua a non tener conto delle gravi obiezioni alla reintroduzione dell’antico rito, sul rapporto tra lex credenti e lex orandi, sul fatto che la liturgia rinnovata è espressione della nuova consapevolezza di sé della chiesa espressa nel concilio, che in particolare la celebrazione liturgica è una celebrazione della comunità, la maggiore attenzione all’importanza della proclamzione e ascolto della Parola…)
“L’«istruzione… insiste… sulla finalità di riconciliazione» del Papa, ha spiegato padre Federico Lombardi: e infatti da una parte invita alla «generosa accoglienza» dei fedeli che chiedessero la forma extraordinaria, cioè la vecchia messa; dall’altra avverte che questi fedeli «non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria»”
Universae, anzi Controversae Ecclesiae. Maggiori incertezze dopo la infelice Istruzione Universae Ecclesiae della Commissione “Ecclesia Dei” “Anche l’ultimo anello della catena – la Istruzione Universae Ecclesiae – risulta schiacciato da un problema strutturalmente insolubile: come si fa a “istruire” intorno ad una contraddizione patente? Più si istruisce e meno si capisce” ” Se all’improvviso – … – un rito “non più vigente”, superato dalla versione riformata dello stesso, torna magicamente in vigore e pretende di valere in parallelo rispetto a quello che lo aveva intenzionalmente emendato, rinnovato e superato, tutto subisce una sorta di deformazione irrimediabile”
“La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica.
“Ma come fai a non considerare che le affermazioni della Istruzione contribuiscano ad aprire il varco proprio alla “indifferenza” verso la Riforma liturgica, verso la chiesa comunione, verso la articolazione ministeriale della liturgia e della Chiesa, verso il canto come patrimonio comune, verso la partecipazione attiva, verso la iniziazione cristiana degli adulti, verso la corresponsabilità laicale nella offerta…” “A me pare, francamente, che se si deve lamentare una carenza grave in tutta questa vicenda è proprio una mancanza di stile. Precisamente di quello cattolico.”

 

Interessante editoriale del settimanale cattolico inglese”il clericalismo è ancora molto in voga e rappresenta una chiave di lettura per analizzare le motivazioni culturali che hanno dato origine allo scandalo degli abusi sessuali dei preti all’interno della Chiesa stessa.” ” al clericalismo era stato inferto un duro colpo dall’enfasi con cui il Concilio aveva parlato di sacerdozio comune dei fedeli come conseguenza del comune sacramento del battesimo. Ma è del tutto evidente oggi una reazione clericale tra quanti stanno percorrendo il cammino di formazione al sacerdozio o tra quelli di recente ordinazione” “Il Vaticano continua ad aggiungere munizioni nelle mani della lobby pro-Tridentino all’interno della Chiesa, come è accaduto anche con l’ultima istruzione, Universae Ecclesiae”

 

 

 

 

Da Giordano Bruno alla Shoah quei «mea culpa» a sorpresa

 

 

Papa audace in tante direzioni — dalla lotta al comunismo alla predicazione del Vangelo «fino ai confini della terra» — in nessuna Wojtyla fu sorprendente quanto nel «mea culpa» che culminò nella «Giornata del perdono» del 12 marzo 2000.

Nei confronti di quell’eredità Benedetto XVI si pone come prudente continuatore: in due occasioni ha fatto sua la richiesta di perdono per la Shoah formulata dal predecessore e in un’altra ha formulato un proprio «mea culpa» per il peccato della pedofilia del clero.

«Confessione delle colpe e richiesta di perdono» era intitolata la speciale liturgia che si celebrò in San Pietro la prima domenica di Quaresima dell’anno 2000. Sette rappresentanti della Curia romana leggevano altrettanti «invitatori», ai quali rispondeva il Papa con sette «orazioni», riguardanti i «peccati in generale», le «colpe nel servizio della verità», i «peccati» che hanno diviso la Chiesa, le «colpe nei confronti di Israele», le «colpe commesse con comportamenti contro l’amore, la pace, i diritti dei popoli, il rispetto delle culture e delle religioni», i «peccati che hanno ferito la dignità della donna e l’unità del genere umano», i «peccati nel campo dei diritti fondamentali della persona». Ecco la seconda confessione di peccato, riguardante «le colpe nel  servizio della verità», che fu letta dal cardinale Ratzinger: «Preghiamo perché ciascuno di noi, riconoscendo che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità, sappia imitare il Signore Gesù, mite e umile di cuore». Così suonò la quarta delle sette «confessioni», riguardante la persecuzione degli ebrei: «Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il
tuo nome fosse portato alle genti; noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti nel corso della storia hanno fatto soffrire questi tuoi figli e, chiedendo perdono a Dio, vogliamo impegnarci in un’autentica fraternità con il popolo dell’alleanza». A conclusione di quella liturgia penitenziale, Giovanni Paolo pronunciò cinque «mai più» che suonano come una delle utopie evangeliche più forti che siano state affermate nella nostra epoca disincantata: «Mai più contraddizioni alla carità nel servizio della verità, mai più gesti contro la comunione della Chiesa, mai più offese verso qualsiasi popolo, mai più ricorsi alla violenza, mai più discriminazioni, esclusioni, oppressioni, disprezzo dei poveri e degli ultimi». Dal riesame del caso Galileo (impostato nel novembre del 1969) all’ultimo pronunciamento autocritico, riguardante i tribunali dell’Inquisizione (arrivato il 15 giugno 2004, con la lettera di accompagnamento della pubblicazione degli atti del simposio storico sull’Inquisizione dell’ottobre del 1998) sono oltre un centinaio le circostanze in cui Giovanni Paolo ha riconosciuto «errori» e «colpe» del passato e del presente, o ha invitato i cattolici ad applicarsi a questo «esame». Ai temi già detti vanno aggiunti— tra i principali— la tratta dei neri, il maltrattamento degli indios, la strage degli Ugonotti, il saccheggio di Costantinopoli da parte dei «crociati» nel 1204, il rogo di Giordano Bruno nell’anno 1600. Più volte Benedetto in questi sei anni si è richiamato all’atto penitenziale del  predecessore e in due occasioni (il 12 febbraio del 2009 e il 17 gennaio 2010, durante la visita alla sinagoga di Roma) ha fatto sua e ripetuto alla lettera la richiesta di perdono riguardante gli ebrei. L’ 11 giugno 2010 abbiamo invece avuto una richiesta di perdono formulata in proprio dal Papa teologo e proposta a nome della Chiesa per una colpa dei suoi «figli»: lo ha fatto per un «peccato» di oggi—gli abusi sessuali del clero— e non della storia, come invece tante volte aveva fatto Papa Wojtyla ma come lui ha accompagnato il «mea culpa» con l’impegno a fare in modo che quel misfatto non si verifichi «mai più» . Appare dunque chiaro come in questa pedagogia della penitenza e della purificazione Papa Ratzinger segua le orme del predecessore e nello stesso tempo se ne distingua”.

 

in “Corriere della Sera” del 1 maggio 2011

Essere cristiani nell’Italia unita

 

 

Rivolta al passato dal ciglio del presente, avida di comprendere il perché del proprio tempo e delle cose umane nelle res gestae d’altri, anche la storia dell’esperienza cristiana, delle istituzioni e delle dottrine che ne emanano, è tenuta tesa da due forze contrapposte.

Anch’essa, come ogni altra storia, ha sentito la sirena che voleva farla diventare giudice d’un tribunale tutto moderno che le consegnerebbe l’uomo, imputato del mancato bene e del male procurato, e che — proprio come accadeva a Dio nella teodicea, secondo Odo Marquard non potrebbe che assolverlo davanti
all’abilità con cui egli sa appellarsi alla nequizia dei tempi, alla superficialità del suo intelletto, alla fragilità della «natura». D’altro canto la storia della vita cristiana ha dovuto anche misurarsi con la richiesta di fungere da garante di una ideologia delle origini, di un mitico passato a volte primitivo a volte concentrato in una più vicina stagione, al quale pretende di tornare sia chi invoca uno scatto riformatore sia chi impugna l’identità fra sé e un passato chiamato in causa per giustificare assetti di potere. Nella sua declinazione disciplinare tutta moderna di cui Reinhart Koselleck ha sviscerato le origini, la comprensione storico-critica di ciò che accade nel tempo a causa e all’interno dell’esperienza cristiana s’è collocata in molteplici modi nel paesaggio culturale europeo. Per capire storicamente ciò che i cristiani sono effettivamente stati, generazione dopo generazione, dentro una durata o uno spazio politico, con gli strumenti e i limiti propri di questo sapere critico, i sistemi di ricerca d’Occidente hanno prodotto modelli tra loro più distanti di quanto non siano i risultati di conoscenza ai quali hanno poi saputo giungere. La vicenda delle facoltà teologiche tedesche, delle divinity americane, della ricerca sul fatto religioso di stampo francese è ben diversa da quella italiana: espulsa la teologia dalla università, la ricerca è tornata attraverso la storia religiosa: e a questa è stato chiesto, nel secondo dopoguerra, di fornire le genealogie del «partito cristiano al potere», secondo la formula Baget Bozzo. È stata la storia del «movimento cattolico» — una chiave che trent’anni fa ha dato il meglio di sé e che altri hanno tentato di superare. Mentre si raccontava un’Italia volta a volta neutra, o sacra o religiosa, il lavoro di scavo ha formato una leva di studiosi (che per qualche decennio ha popolato il mondo universitario nazionale), accedendo ad una realtà più limpida e più profonda. Nell’Italia diventata Stato non orbitavano due mondi — uno di cittadini
da un lato e uno di cristiani dall’altro — condannati a narrarsi per contrapposizioni o per sintonie irreali. Esistevano più semplicemente dei soggetti capaci di legarsi e di sciogliersi, portatori d’una formazione spirituale attivata o anche solo residua, di un’educabilità alla Scrittura o ai sacramenti, osservanti o autoemancipati rispetto a discipline morali e dottrinali. Insomma: cristiani. Cristiani delle «Chiese di Dio che sono in Italia», si dovrebbe dire mutuando quella decisiva espressione di Paolo (1 Cor. 1,2) da cui discende la tradizione che vede nei fedeli d’una città la parrocchia orante in attesa della propria patria, secondo la formula dell’epistola a Diogneto così cara a grandi patrologi come Michele Pellegrino e Giuseppe Lazzati. Ma la consapevolezza ecclesiologica d’essere una «Chiesa di Dio che è in», gli italiani che confessano la loro fede in Gesù Cristo, non l’hanno ancora avuta, se non per qualche sprazzo legato alle grandi figure dei vescovi santi, a qualche testimone capace di coagulare attorno a sé una stagione spirituale, a storie comunitarie durate abbastanza per segnare una vita, a qualche momento alto della pratica sinodale. Spaventati
dalle prove del tempo o esaltati dalle mediazioni politiche, i cristiani si sono sentiti l’armatura che protegge il Papa o la spina protestante rimasta conficcata nel Paese che l’Inquisizione avrebbe voluto «liberare» dalla riforma. E, dunque, cristiani d’Italia di cui studiare le grande linee e le minoranze, le tensioni e le eredità, cogliere la complessità, i miti e le autocomprensioni che hanno segnato la storia che conosciamo. Quando questa si sarà distanziata, ci si potrà  domandare di nuovo — come faceva Giuseppe Donati nel 1929 — se sia stato il clericalismo di secoli «a rendere gli italiani quali furono e quali, purtroppo, sono sempre» o se viceversa non siano stati gli italiani a rendere il clericalismo qual è. Forse si vedrà con maggiore chiarezza se l’assioma dossettiano dei primi anni Cinquanta (per cui l’incapacità della Chiesa di sovraordinarsi alle svolte epocali della civiltà la rende responsabile dei mali che da quei mutamenti si producono) si possa applicare ad altri momenti della storia italiana. Per ora, di quelle letture e di quelle speranze che hanno mosso la storia che possiamo studiare è necessario tentare un inventario che le protegga dalle semplificazioni.

 

in “Corriere della Sera” del 5 maggio 2011

Si è identificato con la Chiesa perciò ne può essere la voce

Dal volume Giovanni Paolo II pellegrino per il Vangelo (Cinisello Balsamo – Torino, Edizioni Paoline – Editrice Saie, 1988) pubblichiamo integralmente l’articolo nel quale il cardinale Joseph Ratzinger ripercorreva e faceva emergere gli aspetti fondamentali dei primi dieci anni di pontificato di Karol Wojtyla.

Giovanni Paolo II è senz’altro colui che, ai nostri tempi, si è incontrato personalmente con il maggior numero di esseri umani. Innumerevoli sono le persone a cui egli ha stretto la mano, a cui ha parlato, con cui ha pregato e che ha benedetto. Se il suo elevato ufficio può creare distanza, la sua personale irradiazione crea invece vicinanza. Anche le persone semplici, incolte, povere non hanno da lui l’impressione della superiorità, dell’irraggiungibilità o del timore, quei sentimenti che colpiscono così sovente chi si trova nelle camere d’aspetto dei potenti, delle autorità. Quando poi si hanno contatti personali con lui, è come se lo si conoscesse da lungo tempo, come se si parlasse con un parente prossimo, con un amico. Il titolo di “Padre” (= Papa) non appare più solo un titolo, ma l’espressione di quel rapporto reale che si prova veramente davanti a lui.
Tutti conoscono Giovanni Paolo II: il suo volto, il suo modo caratteristico di muoversi e di parlare; la sua immersione nella preghiera, la sua spontanea letizia. Certe sue parole si sono incise in maniera indelebile nella memoria, a cominciare dall’appassionato richiamo con cui egli si è presentato all’inizio del suo pontificato: “Spalancate le porte a Cristo, non abbiate paura di lui!”. Oppure queste altre: “Non si può vivere per prova, non si può amare per prova!”. In parole come queste si condensa tutto un pontificato. È come se egli volesse aprire dappertutto vie d’accesso a Cristo, come se desiderasse rendere accessibile a tutti gli uomini il varco verso la vita vera, verso il vero amore. Se, come Paolo, lo si ritrova instancabilmente sempre in cammino, fino “ai confini della terra”, se vuol essere vicino a tutti e non perdere alcuna occasione per annunciare la Buona Novella, non è per scopi pubblicitari o per sete di popolarità, ma perché si realizzi in lui la parola apostolica: Charitas Christi urget nos (II Corinzi, 5, 14). Accanto a lui lo si avverte: gli sta a cuore l’uomo perché gli sta a cuore Dio.
Molto probabilmente si conosce meglio Giovanni Paolo II quando si è concelebrato con lui e ci si è lasciati attirare nell’intenso silenzio della sua preghiera, più che non quando si sono analizzati i suoi libri o i suoi discorsi. Giacché, proprio partecipando alla sua preghiera, si attinge ciò che è proprio della sua natura, al di là di qualsiasi parola. A partire da questo centro ci si spiega anche perché egli, pur essendo un grande intellettuale, che nel dialogo culturale del mondo contemporaneo possiede una voce sua propria e importante, ha conservato anche quella semplicità che gli permette di comunicare con ogni singola persona. Qui si manifesta anche un altro elemento di quella grande capacità di integrazione, che contrassegna il Papa che viene dalla Polonia: l’aver cambiato il classico “noi” dello stile pontificale con l'”io” personale e immediato dello scrittore e dell’oratore. Una simile rivoluzione stilistica non è da sottovalutare. A tutta prima può sembrarci l’ovvia eliminazione di un’usanza antiquata, che non si intonava più ai nostri tempi. Ma non si deve dimenticare che questo “noi” non era solo una formula di retorica cortigiana. Quando parla il Papa, egli non parla a nome proprio. In quel momento, in ultima analisi, non contano niente le teorie o le opinioni private che egli ha elaborato nel corso della sua vita, per quanto alto possa essere il loro livello intellettuale.
Il Papa non parla come un singolo uomo dotto, con il suo io privato o, per così dire, come un solista sulla scena della storia spirituale dell’umanità. Egli parla attingendo dal “noi” della fede di tutta la Chiesa, dietro il quale l’io ha il dovere di scomparire. Mi viene in mente a questo proposito il grande Papa umanista Pio II, Enea Silvio Piccolomini, il quale da Papa doveva talvolta dire, attingendo appunto dal “noi” del suo magistero pontificio, cose in contraddizione con le teorie di quel dotto umanista che precedentemente era stato lui stesso. Quando gli venivano segnalate simili contraddizioni soleva rispondere: Eneam reicite, Pium recipite (“Lasciate stare Enea, prendete Pio, il Papa”).
In un certo senso non è dunque un fenomeno innocuo se l'”io” rimpiazza il “noi”. Ma chi fa la fatica di studiare attentamente tutti gli scritti di Papa Giovanni Paolo II, capisce ben presto che questo Papa sa distinguere molto bene tra le opinioni personali di Karol Wojtyla e il suo insegnamento magisteriale in quanto Papa; egli però sa anche riconoscere che le due cose non sono reciprocamente eterogenee, ma riflettono un’unica personalità imbevuta della fede della Chiesa. L’io, la personalità, è entrata interamente al servizio del “noi”. Non ha degradato il “noi” sul piano soggettivo di opinioni private, ma gli ha semplicemente conferito la densità di una personalità tutta plasmata da questo “noi”, tutta dedita al suo servizio.
Io credo che tale fusione, maturata nella vita e nella riflessione di fede, tra il “noi” e l'”io” fondi in modo essenziale il fascino di questa figura di Papa. La fusione gli consente di muoversi in questo suo sacro ufficio in maniera del tutto libera e naturale; gli consente di essere come Papa interamente se stesso, senza dover temere di far scivolare troppo l’ufficio nel soggettivo.
Ma come è cresciuta questa unità? In che modo una strada personale di fede, di pensiero, di vita conduce a tal punto nel centro della Chiesa? Questa è una domanda che va ben oltre la semplice curiosità biografica. Giacché proprio tale “identificazione” con la Chiesa senza velo alcuno di ipocrisia o di schizofrenia sembra impossibile oggi a molti uomini che sono in travaglio per la fede.
Nella teologia è diventato, nel frattempo, quasi civetteria di moda il muoversi in distanza critica a riguardo della fede della Chiesa e far sentire al lettore che lui, il teologo, non è poi così ingenuo, così acritico e servile da porre il suo pensiero del tutto al servizio di questa fede. In tal modo mentre la fede viene svalutata, le frettolose proposte di questi teologi non ne traggono alcuna rivalutazione; invecchiano in fretta come in fretta sono nate. Nasce allora di nuovo un grande desiderio non solo di ripensare intellettualmente la fede in modo leale, ma anche di poterla vivere in modo nuovo.
La vocazione di Karol Wojtyla maturò quando egli lavorava in un’azienda di produzione chimica, durante gli orrori della guerra e dell’occupazione. Egli stesso ha de-finito questo periodo di quattro anni, vissuto nell’ambiente operaio, come la fase formativa più determinante della sua vita. In tale contesto egli ha studiato la filosofia, apprendendola faticosamente dai libri, e il sapere filosofico gli si presentava di primo acchito come una giungla impenetrabile.
Il suo punto di partenza era stato la filologia, l’amore per la lingua, combinata all’applicazione artistica della lingua, in quanto rappresentazione della realtà in una nuova forma di teatro. È sorta così quella specie particolare di “filosofia” caratteristica del Papa attuale. È un pensiero in dialettica con il concreto, un pensiero fondato sulla grande tradizione, ma sempre alla ricerca della sua verifica nella realtà presente. Un pensiero che scaturisce da uno sguardo artistico e, nello stesso tempo, è guidato dalla cura del pastore: rivolto all’uomo per indicargli la via.
Mi sembra interessante scorrere per un momento la serie cronologica degli autori determinanti nei quali egli si imbatté lungo l’iter della sua formazione. Il primo era stato, come lui stesso riferisce nella sua intervista ad André Frossard, un manuale d’introduzione alla metafisica. Se altri studenti tentano solo di comprendere in qualche modo l’intera logica della struttura concettuale esposta nel testo e di fissarsela in mente in vista dell’esame, in lui ebbe inizio invece la lotta per una reale comprensione, cioè per cogliere il rapporto tra concetto ed esperienza, ed effettivamente si accese, dopo due mesi di duro impegno, il cosiddetto “lampo”: “Scoprii quale senso profondo aveva tutto ciò che io avevo prima solo vissuto e presagito”.
Poi arrivò l’incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza. Questa precisione del vedere, questa intelligenza dell’uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell’amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa. Infine egli scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l’opera di san Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell’interiorità, “dell’anima maturata nella grazia”. L’elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un’unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli. La crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici. La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva; le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica. Ma, quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto i piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l’uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare.
Così pare a me che sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un “filosofo”, che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall’incontro con l’uomo che cerca e che domanda. Wojtyla è stato ed è l’uomo. Il suo interesse scientifico fu sempre più contrassegnato dalla sua vocazione di pastore. Di qui si comprende come la sua collaborazione alla Costituzione conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, il cui testo è determinato in modo centrale dalla preoccupazione per l’uomo, è diventata un’esperienza decisiva per il futuro Papa.
“La via della Chiesa è l’uomo”. Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Ne è risultato che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico. Anche questa era una importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa. Giacché la crisi dell’orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale. Qui si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull’uomo e il compito teologico, ed è così evidente, che non è possibile sottrarvisi.
Dove crolla l’antica metafisica, anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale. Wojtyla aveva imparato da Scheler a indagare, con una sensibilità umana finora ignota, l’essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, il linguaggio del corpo e, di conseguenza, l’essenza dell’amore. Egli ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo, ma proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci delinea le vie da percorrere: il pensiero dell’età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova, e Wojtyla l’ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d’esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l’ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.
Un altro elemento ancora è stato importante per questo cammino di vita e di pensiero, per l’unità di esperienza, pensiero e fede. Tutta la battaglia di quest’uomo non si è svolta dentro un cerchio più o meno privato, unicamente nello spazio interno di una fabbrica o in un seminario. Essa era circonfusa dalle fiamme della grande storia.
La presenza di Wojtyla in fabbrica fu conseguenza dell’arresto dei suoi professori universitari. Il tranquillo corso accademico fu interrotto e sostituito da un durissimo tirocinio in mezzo a un popolo oppresso. L’appartenenza al seminario maggiore del cardinal Sapieha era già, in quanto tale, un atto di resistenza. E così la questione della libertà, della dignità e dei diritti dell’uomo, della responsabilità politica della fede, non penetrò nel pensiero del giovane teologo come un semplice problema teorico. Era la necessità, molto reale e concreta, di quel momento storico.
Ancora una volta la situazione particolare della Polonia, situata nel punto d’intersezione tra est e ovest, era diventata il destino di questo Paese. I critici del Papa osservano con frequenza che egli, come polacco, conosce veramente solo la pietà tradizionale, sentimentale, del suo Paese e non può quindi comprendere pienamente le complicate questioni del mondo occidentale.
Nulla è più insensato di una simile osservazione, che tradisce un’ignoranza completa della storia. Basta leggere l’enciclica Slavorum apostoli per derivarne l’idea che precisamente di questa eredità polacca aveva bisogno il Papa per poter pensare all’interno di una molteplicità di culture. Essendo la Polonia un punto di intersezione delle civiltà, in particolare delle tradizioni germaniche, romaniche, slave e greco-bizantine, la questione del dialogo delle varie culture proprio in Polonia è, per molti aspetti, più ardente che altrove. E così proprio questo Papa è un Papa veramente ecumenico e veramente missionario, preparato provvidenzialmente anche in tale senso per affrontare le questioni del tempo successivo al concilio Vaticano II.
Rifacciamoci ancora una volta all’interesse pastorale e antropologico del Papa. “La via della Chiesa è l’uomo”. Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell’enciclica sul “Redentore dell’uomo” si può veramente capire se ci si ricorda che per il Papa “l’uomo” in senso pieno è Gesù Cristo. La sua passione per l’uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente. Qui l’antropocentrismo è aperto verso l’alto.
Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio come concorrente dell’uomo si è già da tempo capovolto in noia dell’uomo e per l’uomo. L’uomo non può più considerarsi centro del mondo. Ed ha paura di se stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva. Quando l’uomo viene collocato al centro escludendovi Dio, l’equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della lettera ai Romani (8, 19. 21-22), in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell’uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa della comparsa dei figli di Dio, della loro liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l’uomo, egli vorrebbe aprire le porte a Cristo. Giacché unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l’uomo e la creazione entrare nella loro libertà.
L’antropocentrismo del Papa è quindi, nel suo nucleo più profondo, teocentrismo. Se la sua prima enciclica è apparsa tutta concentrata sull’uomo, le sue tre grandi encicliche si coordinano naturalmente tra di loro in un grande trittico trinitario: l’antropocentrismo è nel Papa teocentrismo, perché egli vive la sua vocazione pastorale a partire dalla preghiera, fa la sua esperienza dell’uomo nella comunione con Dio e a partire da qui egli ha appreso a comprenderla.
Un’ultima osservazione. Il profondo amore del Papa a Maria è certamente, innanzitutto, un’eredità che gli viene dalla sua patria polacca. Ma l’enciclica mariana dimostra quanto questa pietà mariana è stata in lui biblicamente approfondita nella preghiera e nella vita. Nello stesso modo in cui la sua filosofia era stata resa più concreta e vivificata mediante la fenomenologia, ossia attraverso lo sguardo alla realtà che appare, così anche il rapporto con Cristo non rimane per il Papa nell’astratto delle grandi verità dogmatiche, ma diventa un concreto umano incontrarsi con il Signore in tutta la sua realtà e in tal modo logicamente anche un incontrarsi con la Madre, nella quale l’Israele credente e la Chiesa orante sono diventati persona. Ancora una volta è sempre e solo a partire da questa concreta vicinanza, in cui si vede il mistero di Cristo in tutta la ricchezza della sua pienezza divino-umana, che il rapporto col Signore riceve il suo calore e la sua vitalità. E naturalmente è qualcosa che si ripercuote su tutta l’immagine dell’uomo il fatto che questa risposta della fede ha preso figura per sempre in una donna, in Maria.
Che cosa voglio dire con tutto ciò? Il mio scopo era quello di dimostrare l’unità fra mistero e persona nella figura di Papa Giovanni Paolo II. Egli si è realmente “identificato” con la Chiesa, e ne può quindi essere anche la voce. Tutto ciò non è detto per glorificare una creatura umana, ma per dimostrare che il credere non estingue il pensare e non ha bisogno di mettere fra parentesi l’esperienza del nostro tempo. Al contrario: soltanto la fede dona al pensiero la sua apertura e all’esperienza il suo significato. L’uomo non diventa libero quando diviene un solista, ma quando riesce a trovare il grande contesto al quale appartiene. Dieci anni di pontificato di Giovanni Paolo II. L’ampiezza del suo messaggio appare già ora quasi incalcolabile, immensa. Ho voluto tentare di accennare in pochi tratti alle energie portanti che ne costituiscono la forza profonda, e, insieme, rendere così meglio comprensibile la direzione che egli ci indica. Il Signore voglia conservarci a lungo questo Papa, perché ci sia di guida sulla strada verso il terzo millennio della storia cristiana.

(©L’Osservatore Romano 1° maggio 2011)