Le catechesi dei Vescovi italiani alla GMG di Madrid


In questa pagina, dedicata alle Catechesi dei Vescovi italiani a Madrid, è possibile scaricare i testi giorno per giorno.
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Intimidazione e disinformazione sui cattolici


 

 

La chiesa e le tasse.

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Che la denuncia del cardinale Angelo Bagnasco delle «impressionanti cifre dell’evasione fiscale» provocasse questa reazione da parte del segretario dei radicali italiani («il cardinale non può stigmatizzare l’evasione fiscale se prima non rinuncia alle agevolazioni ….») può non sorprendere, ma sorprende che sia stata ripresa in modo così clamoroso dalla rete e da tanta stampa. Mi sarei atteso invece parole di apprezzamento per una posizione netta e giusta, in un momento in cui il Paese sente di dovere preliminarmente condividere un giudizio morale solido su cui poggiare scelte e responsabilità politiche non elusive in primo luogo del dato di realtà.


Ne è seguita al contrario una aggressione alla Chiesa, di carattere oggettivamente intimidatorio, per di più fondata su una vera e propria disinformazione, utilizzata e intenzionalmente indotta. Intanto facendo confusione fra Vaticano e Chiesa italiana, ben sapendo che la competenza dello Stato italiano riguarda solo la seconda, essendo il primo un altro stato su cui non può interferire l’ordinamento tributario italiano.


Entriamo nel merito. Per quanto riguarda l’Ici si contesta la norma che prevede l’esenzione per gli immobili nei quali gli enti non commerciali svolgono attività «destinate esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, ….. (articolo 7, c1, lettera I del d.lgs. 30dicembre 1992, n. 504)». Gli immobili sono dunque esenti solo se utilizzati da enti non commerciali e se destinati totalmente all’esercizio esclusivo di una o più tra le attività indicate.


Si tratta di un’esenzione riservata non solo alla Chiesa cattolica, ma a tutte le confessioni e a tutti gli enti non commerciali come ad esempio le associazioni sportive dilettantistiche, le organizzazioni di volontariato, le onlus, le fondazioni, le proloco, le aziende sanitarie, e gli enti pubblici territoriali in genere. L’esenzione richiede che l’intero immobile sia destinato ad attività non commerciali (sono esclusi quindi alberghi, ristoranti, negozi, librerie) pena la perdita dell’agevolazione: non è vero dunque che basti inserire una cappella in un immobile per godere del beneficio.


Lo stesso discorso vale per l’Ires, nel senso che l’articolo 6 del dpr 60/1973 prevede l’esenzione per: a) gli enti di assistenza sociale, gli enti ospedalieri, eccetera; b) le scuole, le fondazioni, le accademie, gli istituti scientifici, eccetera; c) gli istituti per le case popolari.


Analogo ragionamento si deve fare per la stampa cattolica non destinataria di un contributo specifico ma di quanto è previsto per tutte le pubblicazioni dalla legge di sostegno all’editoria.


Ho voluto intenzionalmente rinunciare ad ogni valutazione sull’utilità sociale delle numerose attività assistenziali beneficiarie delle agevolazioni come la Caritas (mense, centri di assistenza, solidarietà internazionale) o la fittissima rete delle parrocchie (scuole per l’infanzia, assistenza agli anziani, o – per dire solo di un servizio divenuto oggi indispensabile per la generalità delle famiglie che non sanno a chi rivolgersi per la cura dei figli nel tempo  extrascolastico – i campi gioco estivi), che sollevano gli enti locali e lo Stato da spese ben superiori alle esenzioni di cui abbiamo parlato.


Mi sono limitato a contestare l’assurdità di una polemica costruita sul presupposto falso di un “privilegio” che non vedo, poiché le agevolazioni concesse a taluni immobili, come ho dimostrato, non riguardano solo gli enti ecclesiastici, ma la generalità delle istituzioni che non svolgono attività commerciali. E, allora, di cosa si sta discutendo?


in “l’Unità” del 22 agosto 2011

 

 

Contributi da Avvenire


Agevolazioni, ecco la verità
di Patrizia Clementi


Quelli che l’Ici
e la Chiesa cattolica

di Umberto Folena


Ici e Ires, i Radicali
insistono a sbagliare

di Umberto Folena

Un terreno comune per teologi e vescovi

L’articolo riprodotto qui di seguito. È uscito su “America”, il settimanale dei gesuiti di New York che è un’espressione di punta del pensiero cattolico americano “liberal”.
L’autore, Robert P. Imbelli, è sacerdote dell’arcidiocesi di New York, insegna teologia al Boston College, è stato membro del direttivo dell’associazione dei teologi cattolici americani ed stato tra i fondatori della Catholic Common Ground Initiative promossa dal cardinale Joseph Bernardin, faro del cattolicesimo progressista americano negli anni Novanta.
Scrive inoltre su “dotCommonweal”, il blog della rivista di New York che ha tra i suoi scrittori più in vista padre Joseph A. Komonchak, storico e teologo, curatore dell’edizione in inglese della storia del Concilio Vaticano II prodotta dalla “scuola di Bologna” fondata da don Giuseppe Dossetti.

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UN TERRENO COMUNE PER TEOLOGI E VESCOVI


Il 24 marzo la commissione dottrinale della conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti ha emesso una dichiarazione critica concernente il libro “La ricerca del Dio vivente”, di suor Elizabeth A. Johnson CSJ, già presidente dell’associazione dei teologi cattolici americani. Poco tempo dopo, l’8 aprile, il direttivo di questa associazione ha risposto con una propria dichiarazione, lamentando tra le altre cose le carenze del processo attraverso il quale la commissione era arrivata a quel giudizio. Ciò a sua volta ha dato spunto, dieci giorni dopo, a una lettera del cardinale Donald Wuerl di Washington, presidente della commissione dottrinale dei vescovi. La lettera, “Il vescovo come maestro”, parla delle particolari responsabilità dei vescovi in materia di dottrina, e dei rispettivi ruoli e responsabilità dei vescovi e dei teologi nella Chiesa.

Ma a dispetto dell’apparente disaccordo, chiaramente esistono [tra vescovi e teologi] visioni e impegni condivisi. La dichiarazione dell’associazione dei teologi cattolici americani dice: “Siamo consapevoli delle vocazioni complementari ma distinte dei teologi e del magistero e siamo aperti a ulteriori dialoghi con la commissione dottrinale circa la comprensione del nostro compito teologico”. Da parte sua, il cardinale Wuerl, pur riconoscendo la presenza di inevitabili tensioni, insiste: “Nonostante tutto, quando la buona volontà c’è da ambo le parti, e quando entrambi, vescovi e teologi, sono tesi alla verità rivelata in Gesù Cristo, le loro relazioni possono essere di profonda comunione nell’esplorare insieme nuove implicazioni del deposito della fede”.

 

TRE PUNTI PER UN DIALOGO


Nello sforzo di favorire questo necessario colloquio indico tre punti che meritano la forte attenzione dei vescovi e dei teologi e che richiedono esercizio di giudizio e di dialogo.

Il primo è una rinnovata affermazione che la teologia è una disciplina ecclesiale e che la vocazione del teologo è anch’essa squisitamente ecclesiale. Il primo posto della teologia cattolica è nel cuore della comunità ecclesiale. Alla luce delle parole dei vescovi e dei teologi sopra citate, ciò dovrebbe essere evidente di per sé. Ma (per usare le parole del beato John Henry Newman) una cosa è affermarlo “speculativamente” e un’altra è “realizzare” in pienezza la sua sostanza e le sue implicazioni.

Un fattore cruciale che complica questa realizzazione è che la collocazione sociale della teologia negli Stati Uniti si è visibilmente spostata, a partire dal Concilio Vaticano II, dai seminari alle università. Pur avendo prodotto indubbi benefici, questo spostamento ha anche comportato paralleli svantaggi. Penso in particolare alla perdita di un contesto liturgico condiviso, nel far teologia.

Una iniziativa creativa potrebbe essere, per i vescovi e i teologi del luogo, incontrarsi almeno una volta all’anno nel contesto sia di una celebrazione liturgica, sia di un dialogo teologico. Un elemento distintivo della Catholic Common Ground Initiative lanciata dallo scomparso cardinale Joseph Bernardin fu il suo insistere a svolgere discussioni dentro lo spazio comune di una celebrazione liturgica.

Un secondo punto potenzialmente fruttuoso per vescovi e teologi  potrebbe essere il legame essenziale fra tre dimensioni cruciali della missione della Chiesa: il kerigma, la catechesi e la teologia. Dopo il Vaticano II il ritornello è stato spesso: “Facciamo teologia, non catechismo”. Come appello a rispettare l’originalità del compito teologico, può essere comprensibile. Ma soffre di un doppio distacco dalla realtà ecclesiale. Può insinuare un divorzio tra la teologia e la proclamazione del Vangelo. Se la teologia, come molti accettano, é “fede che cerca intelligenza”, allora essa può difficilmente prescindere dal contenuto di questa fede. Nella prima lettera di Pietro, spesso citata da papa Benedetto, leggiamo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi”. Questa ragione è sempre fondata sulla speranza che è in Cristo Gesù, anzi, che “è” Cristo Gesù.

Inoltre, il divorzio tra la catechesi e la teologia sembra essere nella presente realtà ecclesiale disperatamente astratto. Un ampio arco di commentatori, dai “tradizionalisti” ai “progressisti”, contribuiscono a questa terribile situazione di analfabetismo biblico e teologico che affligge i giovani cattolici. Il bene comune della comunità certamente richiede una rinnovata collaborazione tra i vescovi e i teologi per affrontare questa crisi. Un coro di lamenti o, peggio, una assolutoria assegnazione ad altri delle colpe sono ben lontani da una risposta promettente.

Un terzo punto, il più cruciale, deriva dai primi due. Gli importanti teologi che collaborarono con i vescovi nel produrre i meravigliosi documenti del Vaticano II affermarono a una voce sola l’unica rivelazione di Dio alla quale la Bibbia rende testimonianza. Quindi, il Concilio afferma che “lo studio delle Sacre Scritture” dovrebbe essere “l’anima di ogni teologia”. E sebbene il riferimento diretto sia alla formazione al sacerdozio, la nuova collocazione sociale della teologia, sopra richiamata, dà un’ancor maggiore rilevanza a quest’altra affermazione del Concilio: “Le discipline teologiche, alla luce della fede e sotto la guida del magistero della Chiesa siano insegnate in maniera che gli alunni possano attingere accuratamente la dottrina cattolica dalla divina Rivelazione, la penetrino profondamente, la rendano alimento della propria vita spirituale” (Optatam Totius, 16).

Il richiamo del Concilio a porre lo studio della Scrittura nel cuore del compito teologico è compromesso, tuttavia, se lo studio della Bibbia cessa di fatto di aver a che fare con la Scrittura come testimonianza privilegiata della divina rivelazione. Sfortunatamente, si osserva la tendenza in alcune cerchie degli studi biblici a che diventino il sezionamento di un affascinante e influente testo antico che non è più “sacra pagina” ma piuttosto “pagina ordinaria”. In una situazione come questa la teologia inevitabilmente si trasforma in studi religiosi e sui pochi corsi di teologia sistematica si accumulano pesi che essi sono incapaci di sopportare.

Per spingere la questione più a fondo: questa tendenza minaccia la sostanza cristologica della fede che cerca una più piena intelligenza: intelligenza, non relativizzazione, né tanto meno sostituzione.

L’eminente studioso del Nuovo Testamento Luke Timothy Johnson non si trattiene dal mettere in guardia da un “collasso cristologico” nel cattolicesimo contemporaneo. Egli ha fatto appello sia ai vescovi sia ai teologi perché rendano ragione i primi della loro negligenza pastorale, i secondi della loro capitolazione culturale. Chiaramente ciò non significa lanciare un’accusa indiscriminata. È piuttosto un “grido del cuore” che entrambi i gruppi farebbero bene ad ascoltare (Vedi il saggio di Johnson “On Taking the Creed Seriously”, in “Handing on the Faith: The Church’s Mission and Challenge”, a cura di Robert P. Imbelli, 2006).

Johnson lancia una importante raccomandazione. Insiste: “I teologi devono leggere le Scritture in altri modi, non solo dal punto di vista storico” (suppongo che tra i teologi includa i docenti cattolici di Sacre Scritture). Questo appello assomiglia alla volontà di papa Benedetto XVI nei suoi due volumi su “Gesù di Nazaret” di promuovere una “ermeneutica cristologica”. L’obiettivo e le implicazioni di tale ermeneutica – leggere tutto nelle Sacre Scritture alla luce del loro compimento nel Cristo risorto – potrebbero servire come un primo punto di giudizio, in un incontro tra vescovi e teologi.


OLTRE LA POLARIZZAZIONE


Verso la fine della sua dichiarazione, il direttivo della associazione dei teologi cattolici americani fa una persuasiva citazione della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Vaticano II. Il passaggio dice tra l’altro: “È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta” (Gaudium et spes, 44).

È un passo che esprime bene il compito comune e insieme differenziato dei vescovi e dei teologi. Ma la costituzione conciliare prosegue nel paragrafo immediatamente successivo, che fa da conclusione e sommario dell’intera sua prima parte, col dare una precisa specificazione cristologica di questa “parola di Dio” e “verità rivelata”: “Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l’uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale” (n. 45). Questa sublime visione ed impegno possono veramente unire vescovi e teologi “in medio ecclesiae”, in quanto meditano e cercano di capire più in pienezza il contenuto della loro fede comune.

La recente beatificazione di John Henry Newman può spronare a un provvidenziale rinnovamento di un serio incontro tra i vescovi e teologi. Tre aspetti del programma teologico-pastorale di Newman sono proprizi, a questo riguardo. Il primo è il suo grande rispetto per l’ufficio episcopale. Chi conosce gli scritti di Newman sa che tale rispetto non deriva da acritica adulazione, ma da convincimento teologico.

Il secondo è l’apprezzamento di Newman per il posto indispensabile della teologia nel complesso e creativo triangolo di tensioni che costituisce l’unica Chiesa di Cristo. Le dimensioni devozionale, intellettuale e istituzionale della Chiesa invariabilmente si sostengono, sfidano e integrano l’una l’altra. Ciascuna, se diventa egemonica, non può che sminuire il mistero della Chiesa.

Infine, dal momento della sua iniziale conversione alla fede all’età di 15 anni fino al termine della sua lunga vita, Newman ha insistito sul primato del “principio dogmatico” nella vita della Chiesa, non in quanto proposizione ma in quanto persona. Egli scrive: “È l’incarnazione del Figlio di Dio più che ogni dottrina tratta da una visuale parziale della Scrittura (per quanto vera e importante possa essere) l’articolo di fede su cui la Chiesa sta o cade”. Per Newman, come per il Vaticano II del quale egli è stato un precursore ed ispiratore, questa affermazione sull’identità centrata su Cristo della fede è la condizione dell’autentica integralità cattolica.

Quindici anni fa, consapevole di una crescente e debilitante polarizzazione nella Chiesa negli Stati Uniti, il cardinale Joseph Bernardin inaugurò la Catholic Common Ground Initiative. Il documento di fondazione dell’Initiative, “Chiamati a essere cattolici: la Chiesa in un tempo di pericolo”, analizzava a fondo la situazione pastorale e offriva principi e linee guida pieni di speranza per andare avanti. Il principale tra essi era il seguente: “Gesù Cristo, presente nella Scrittura e nei sacramenti, è al centro di tutto ciò che facciamo; egli deve sempre essere la misura e non il misurato”. Gesù Cristo rimane sempre l’unico fondamento sul quale sia i teologi che i vescovi possono poggiare sicuri.


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Il settimanale dei gesuiti di New York su cui è uscito l’articolo di Robert P. Imbelli, nel numero del 30 maggio 2011:

> America

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tratto da:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1348630

Nucleare addio, parola di teologo


Intervista a Robert Spaemann a cura di Guido Kalberer

 


La Germania abbandona l’energia atomica. Cosa ne pensa?
«Meglio tardi che mai. Ma l’uscita è solo in una legge e non al 100%. Se ci saranno difficoltà di approvvigionamento energetico la legge potrà cambiare o si potrà rimandare lo spegnimento dei reattori. L’unico modo di prevenire queste eventualità è prescrivere l’abbandono dell’energia atomica nella Costituzione».

È ciò che lei propone?
«Sì, benché io non sia favorevole a scrivere nella Costituzione obiettivi politici di attualità. Ma in questo caso la posta in gioco supera ogni normale metro di paragone umano».

Le energie alternative potranno soddisfare il fabbisogno?
«Se non riusciamo a coprire in modo alternativo il fabbisogno energetico, dovremmo ridurre il fabbisogno.
Non possiamo dare per scontato di avere a disposizione in qualunque momento qualunque quantità di energia. È desiderabile ma non possiamo pretenderlo. Se possiamo produrre energia solo con  una tecnologia che minaccia il genere umano, allora è necessario disporre diversamente».

Quindi dobbiamo fare rinunce?
«Sì. Solo quando l’uomo è con le spalle al muro diventa inventivo. È stato sempre così. Finché si pensa che in caso di emergenza si può fare affidamento su ciò che già esiste, non si mobilitano tutte le forze. Solo la certezza che l’energia atomica non è più in gioco attiverà l’ingegno creativo».

Come risponde a chi dice che non è possibile vivere senza energia atomica?
«Questa sarebbe una costrizione oggettiva, ma non è un argomento: le costrizioni sono oggettive quando vogliamo un certo risultato. Allora si è obbligati a fare una cosa e non altre. Se però questa cosa si rivela impraticabile, bisogna cercare alternative. Chi non lo fa è ostile a innovare».

Occorrono disastri per spingere l’uomo a pensare diversamente?
«Sembra di sì. Questo immenso pericolo avrebbe potuto essere riconosciuto molto prima, considerando che nessuna assicurazione è disposta ad assumersene il rischio».

A cosa serve che Svizzera e Germania abbandonino l’energia atomica se la Russia ha in programma 30 nuovi reattori?
«In primo luogo, abbiamo un beneficio locale spegnendo i nostri reattori. È diverso se un reattore va fuori controllo nel nostro Paese o in Giappone. Si può ridurre il rischio locale, senza dover risolvere il problema globale. Poi possiamo essere un esempio. Qualcuno deve pur cominciare; se la Germania saprà fare a meno dell’energia atomica, ciò avrà ripercussioni sul mondo intero».

Quali sono gli argomenti contro l’energia atomica?
«Soprattutto l’incontrollabilità. Chi assicura che si può fare un uso pacifico dell’energia atomica pone sempre condizioni: per esempio che non avvengano guerre o attentati.
Ma il porre condizioni dimostra che l’uomo non sa controllare questa tecnologia. Si immagina un mondo perfetto in cui le maggiori fonti di pericolo vengono nascoste. E ciò che resta lo si dichiara sicuro. Ma ci sono anche argomenti filosofici. Cosa fa l’uomo quando si serve dell’energia atomica?
L’energia degli atomi è alla base della nostra esistenza materiale. Serve a mantenere la realtà quale essa è. E lo fa pacificamente e senza il nostro intervento. Quando sottraiamo questa energia alla sua funzione naturale, quando scindiamo i nuclei degli atomi e ne liberiamo la forza, tocchiamo qualcosa che ci trascende. È arroganza dire che ce la faremo».

L’uomo si sopravvaluta?
«Sì. C’è una situazione analoga in cui i miei argomenti sono altrettanto categorici: è la manipolazione del genoma umano. Proprio come con l’atomo, anche qui tocchiamo una struttura di base della nostra realtà non come materiale, ma come esseri viventi. Con la costruzione di nuove combinazioni genetiche possiamo mettere in moto processi di cui perdiamo il controllo».

Lei argomenta qui come Jürgen Habermas. L’uomo non può progettare il risultato della sua procreazione.
«Su questo siamo d’accordo.
L’umanità si dividerebbe in due classi: chi fa e chi è fatto. E ciò avrebbe conseguenze imprevedibili».

Lei è contrario anche perché ciò sarebbe una manipolazione del Creato?
«Si deve condurre il dibattito su basi puramente razionali. Ma l’argomento diventa più forte se si evoca il concetto di Creato: permette di imbrigliare la superbia dell’uomo che crede di poter fare
tutto».

Hans Jonas prescrive un’etica della responsabilità verso le generazioni future. Condivide il concetto?
«Sì. In relazione alle generazioni future c’è soprattutto il problema dei rifiuti radioattivi. I responsabili delle tecnologie atomiche dicono sempre: troveremo un deposito definitivo.
Qui si fa della suggestione basandola in modo irresponsabile su un ‘principio speranza’.
Sembrerebbe che Dio abbia il dovere di metterci sempre a disposizione ciò che risponde ai nostri bisogni momentanei. Oltre al dovere di considerare i rischi immediati posti da una centrale atomica, vi è l’obbligo di non costruire un reattore, prima di aver trovato un deposito definitivo per le scorie radioattive».

Dove vede il problema principale dei rifiuti radioattivi?
«Come si può oggi garantire per migliaia di anni la sicurezza di un deposito radioattivo definitivo?
Non abbiamo alcuna responsabilità positiva per le persone che popoleranno il pianeta nel futuro, ma non ci è permesso di rovinare la loro esistenza in modi già prevedibili, per esempio con la contaminazione atomica in aree che diventano così invivibili. Abbiamo l’ingenua e diffusa idea che, a differenza del passato, la nostra civiltà scientifico-tecnologica continuerà all’infinito. È assurdo. Il nostro sapere attuale sarà interamente tramandato e sarà a disposizione delle generazioni future?
Oggi non sappiamo più come sia stato possibile realizzare Stonehenge (sito neolitico con megaliti posti in circolo, ndt). Forse i nostri discendenti non conosceranno più i pericoli ai quali noi consapevolmente li esponiamo.
Non può essere questa la nostra eredità. È sconsiderato aumentare con l’energia atomica il potenziale di pericolo che la natura già contiene».

Lei non riesce a trovare niente di buono nell’energia atomica.
«La prima fissione nucleare servì ad annientare esseri umani. Non è un caso che con la prima applicazione dell’energia atomica si siano sterminate centinaia di migliaia di persone a Hiroshima. ‘Funziona davvero’, fu la prima reazione di Carl Friedrich von Weizsäcker (fisico nucleare e filosofotedesco). L’orrore venne più tardi. Se gli scienziati sono solo scienziati, non saranno capaci di aiutarci».

Per lei non c’è progresso, ma progressi. Cosa vuol dire?
«L’Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. Progresso vuol dire: migliore, più veloce, più brillante.
Sono cresciuto nel periodo nazista e fui assillato fino alla nausea con lo slogan ‘Con noi avanza la nuova era’. L’ideologia del progresso la proclamavano anche i nazisti. Il mio scetticismo verso il progresso risale a quel periodo buio: essere poco progressivo mi sembrava meglio che mettere le persone in campi di concentramento e ucciderle. Il progresso può essere meraviglioso, ma anche terribile. Da una parte ci sono progressi nella tecnica anestetica, dall’altra progressi della bomba atomica. A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?».

Il pensiero cristiano ci porterebbe avanti?
«Certo! In tempi in cui la religione cristiana è stata dominante, non si pensava a un futuro infinito, come si fa oggi. Si aspettava la fine del mondo. Come descritto nel Nuovo Testamento, la storia termina con il ritorno di Cristo. Sì, credo che l’esistenza dell’umanità non durerà così a lungo; e ciò più per ragioni immanenti che non religiose. Il mio scetticismo sul fatto che l’umanità  sopravviverà è alimentato dal modo in cui l’uomo prende ora in mano il suo destino».

Come cristiano lei crede all’Apocalisse. Se siamo destinati a finire, a cosa serve lottare contro l’energia atomica?
«La sua domanda si basa sull’idea erronea che se una cosa accade in natura possiamo farla anche noi: se in natura ci sono vulcani, possiamo anche noi fare vulcani; se in natura un ramo cade su un uomo, allora anche noi possiamo fare lo stesso.

Non sappiamo cosa vuole la natura e quali siano i piani di Dio. Siccome Lenin credeva di conoscere il fine della storia, diceva che coloro che lavorano a rendere felice l’umanità non possono essere sottomessi a regole morali. L’arroganza è nel credere che qualcuno conosca quale sia il fine della storia. La concezione cristiana del termine della storia invece implica un’irruzione dall’esterno e non un immanente paradiso come risultato di uno sviluppo continuo. Il regno di Dio è la conseguenza di una fine improvvisa della storia precedente».

(traduzione di Marco Morosini)

in “Avvenire” del 19 lulgio 2011

Sì all’abbronzatura finta, no a interventi al naso

 

 

Un teologo morale inglese spiega perché si dovrebbe riflettere attentamente prima di chiedere interventi di chirurgia estetica.



Ornare il proprio corpo è una cosa antica quasi quanto l’umanità stessa. Essere come Dio ti ha fatto, storicamente parlando, non è stato mai abbastanza per la maggior parte delle culture del pianeta.
Invece di accontentarsi di star bene così, la gente da tempo immemorabile si è abituata a perforare, tatuare, rimuovere chirurgicamente certe estremità, anche tutte, si presume nella convinzione che queste azioni potessero migliorare il proprio corpo.


Molto prima che si giungesse all’età moderna con la sua capacità di trasformare le fattezze umane mediante la chirurgia plastica ed estetica, le culture primitive stavano già facendo questo. Ötzi, l’Uomo rinvenuto dal ghiaccio in Tirolo, il cui cadavere risale al Neolitico, ha dei tatuaggi, così come molte mummie dell’antico Egitto, risalenti a circa 2.000 anni fa. Anche in questo caso, ci sono prove che le mutilazioni genitali femminili (come si chiamano ora) risalgano ad almeno due millenni fa, e la circoncisione maschile deve essere ancora più antica. E non si sa chi fu il primo a bucare il lobo dell’orecchio per indossare gli orecchini. Queste sono solo alcune comuni modifiche del corpo, diffuse ancora oggi da noi: per fortuna l’idea di indossare anelli al collo per allungarlo non è andata diffondendosi oltre la cosiddetta “donna giraffa” della regione del Paudang in Myanmar.


Ma è nella nostra epoca che l’ornamento del corpo decolla sul serio. Con la chirurgia moderna poi si può fare molto di più. Lifting, miglioramenti al seno, riduzione del seno, interventi al naso, tutti questi sono diventati non solo possibili, ma vengono considerati persino di routine. E sappiamo tutti di chi ha intrapreso queste procedure troppo lontano nel tempo. Basta andare a vedere su Google le immagini di Michael Jackson da giovane per constatare gli interventi chirurgici cui è andato incontro, producendo quell’aspetto che i giornalisti amavano definire “bizzarre”. Lo stesso vale per quella signora chiamata “la sposa di Wildenstein”, una donna che si è letteralmente rovinata il volto con il ripetersi di procedure cosmetiche.


Prima di soccombere di fronte all’orrore di tutto questo – e questi esempi estremi sono davvero agghiaccianti – è importante sottolineare la differenza tra la chirurgia plastica e chirurgia estetica. La chirurgia plastica si occupa del recupero di forma e funzione di alcune parti del corpo. Molto di tutto questo è davvero essenziale – il trattamento delle vittime di ustioni e la ricostruzione, per esempio, di volo e mani dopo un incidente. Gli interventi di chirurgia cosmetica – alle volte chiamati chirurgia estetica – sono invece interventi chirurgici volti a migliorare l’aspetto di una persona. Questo a volte può anche essere lodevole: se qualcuno ha una deformità che deteriora gravemente la qualità della propria vita, è perfettamente accettabile: se il rischio di un intervento chirurgico è proporzionato al beneficio che si otterrà, per correggere la deformità, è positivo.


L’idea di proporzionalità costi/benefici è uno strumento importante dal punto di vista morale nel considerare se tali operazioni debbano andare avanti. Qualcuno la cui vita è stata resa difficile per via di un naso troppo grande potrebbe giudicare l’intervento chirurgico un piccolo prezzo da pagare,
nel caso che la rinoplastica possa migliorare in qualche modo la socializzazione. Qui, un chirurgo e uno psicologo avrebbero bisogno di consultare il paziente circa la strada migliore da intraprendere.
Ma cosa accade quando qualcuno vuole soltanto ottenere un aspetto esteticamente migliore, e pensa che il modo migliore per ottenerlo sia un naso più piccolo o un seno più prosperoso? Si può dire che il problema della chirurgia sia giustificato dalle ragioni avanzate sopra?


Come regola generale, la chirurgia non deve essere mai intrapresa senza un motivo serio. I motivi psicologici possono anche essere anche di grave entità, ma il desiderio di un aspetto migliore è immediatamente da ritenersi sospetto. Le apparenze sono per loro natura molto superficiali.
Cambiamo i nostri vestiti regolarmente, e alteriamo il nostro “look” – questo è un fatto che riguarda la moda in sé – ma possiamo davvero, ritenerci nel giusto se consideriamo il desiderio di cambiare, anche di molto, la nostra stessa carne ? Questa sembrerebbe essere non solo una misura estrema, ma fondamentalmente sbagliata. Il modo con cui si guarda a questioni di natura fisica – sarebbe sciocco negarlo – non dovrebbe importare più di tanto. Guardiamo a quanti mezzi abbiamo per indossare il make-up o sfoggiare un’abbronzatura, anche finta, ma risparmiamo il bisturi su noi stessi.
Indossare il make-up, anche andare dal parrucchiere, è un po’ come arrendersi alla pressione sociale per un aspetto più attraente, ma il ridurre chirurgicamente il proprio naso per apparire migliori davvero alla lunga ha il sapore di una resa. A questo punto potrebbe essere utile ricordare le parole
del grande Ann Widdecombe: “Ho trentadue denti, mi sento losca, brutta, sovrappeso, una zitella: che diavolo?”. Eppure lei era come Dio l’ha fatta, e noi siamo tutti quanti nelle sue stesse condizioni.


Ora il desiderio di modificare il proprio aspetto di per sé non è sbagliato, ma occorre valutarne anche la proporzionalità, vale a dire ci sono alcune altre considerazioni morali da valutare. Prima di tutto, si vuole davvero operare un cambiamento? Questo desiderio è il frutto di una decisione matura e deliberata? O in questo si è solo costretti dalla pressione esterna? A volte questo tipo di pressione è fin troppo facile da riconoscere (come nei casi di ragazze forzatamente sottoposte a mutilazioni genitali femminili), a volte, come in Occidente, è molto più sottile, ma comunque reale.
In secondo luogo, alcune procedure chirurgiche sono semplicemente sbagliate. Le mutilazioni genitali femminili costituiscono un buon esempio di questo: si tratta di un comportamento intrinsecamente negativo, sbagliato in sé, a prescindere dalle circostanze. Il motivo è che tale procedura non può mai essere per il bene della persona che viene “tagliata” in questo modo. Dal punto di vista medico può portare a complicazioni future, in modalità diverse: è impossibile pertanto vedere questo come qualcosa che sia un bene per la ragazza che lo riceve, ma piuttosto è qualcosa che la ragazza si vede imporre dalla società per un suo presunto bene. La circoncisione maschile, che può anche avere benefici per la salute, non è sbagliata di per sé, e può essere anche  giusta, a patto però che si svolga nelle condizioni adatte. Alcune procedure cosmetiche sono banali, nel senso che sono facilmente reversibili – come il taglio dei capelli, o la rasatura. Altre sono gravi, e se non ci sono motivi seri che le giustifichino, sono da ritenersi sbagliate.


Le donne (perché accade quasi sempre alle donne) devono resistere alla pressione a conformarsi a una forma particolare del corpo, di solito una forma del corpo che esse stesse, se fossero lasciate loro a decidere di loro stesse, non si sarebbero mai sognate di scegliere. Pensate alla figura della clessidra, così popolare nel XIX secolo. Alcune donne hanno una figura a clessidra naturale, ma altre hanno fatto interventi innaturali per ottenerne l’aspetto, come l’ingestione di tenie o la rimozione chirurgica di alcune costole. Questo non solo è contrario alla virtù della prudenza, ma rappresenta anche uno sforzo sproporzionato e, a guardare bene, rappresenta una pericolosa forma di ossessione del sé, del proprio aspetto fisico.


Francamente, il nostro modo di presentarci non è poi così determinante. La bellezza è solo una cosa esteriore e, come dice San Paolo: “Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma come si conviene a donne che onorano Dio con opere buone” (1 Tim 2,9-10). Questo dell’Apostolo non è il pensiero di un musone o un guastafeste, ma di uno che parla con buon senso. E’ il come sei dentro, ciò che conta veramente. Così che l’eccessiva enfasi sull’apparenza rappresenta quasi una forma di idolatria.


La maggior parte delle persone che leggono questo articolo probabilmente hanno dedicato anche oggi parte del loro tempo al proprio aspetto: anch’io ho spazzolato i capelli e mi sono lavato i denti, questa mattina, non solo per il mio bene, ma anche per quanti mi stanno intorno. Non sto sostenendo l’idea di vestire in maniera spartana, come messo in mostra dalla defunta moglie di Mao. Sto solo dicendo che abbiamo bisogno di mantenere una proporzione nelle cose, e che questo potrebbe riguardare soprattutto quanti si sentono sotto pressione per cercare di rispondere a diverse “presunte” necessità dettate dal costume sociale.

 


Padre Alexander Lucie-Smith è un teologo morale e autore di Narrative Theology and Moral
Theology (Ashgate, 2007).


in “Catholic Herald” del 4 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)

Geografia dell’Italia cattolica

 

 

Cartocci Roberto, Geografia dell’Italia cattolica, Il Mulino, Bologna 2011, EAN 9788815150608, pp. 200 , Euro 15,00.

 

Descrizione

 

 

Secondo un’opinione diffusa il cattolicesimo è un tratto unificante degli italiani, con una tradizionale frattura tra Lombardo-Veneto “bianco” e regioni “rosse”. Ma quanto c’è ancora di vero in questa geografia? Quanti sono i cattolici praticanti e in quali aree del paese sono più numerosi? Da alcuni interessanti indicatori (frequenza alla messa, otto per mille, insegnamento della religione, matrimoni civili, nascite fuori dal matrimonio) risulta che i praticanti sono una minoranza del 30-40% concentrata nelle regioni del Sud, la vera zona “bianca”. Per un verso, dunque, il cattolicesimo si accompagna a una sindrome meridionale fatta di minore ricchezza, inefficienza delle istituzioni e carenza di capitale sociale; per un altro, nella generale crisi della partecipazione sociale e politica, i movimenti ecclesiali costituiscono una risorsa tale da fornire alla Chiesa-istituzione un forte potere di veto.

 

 

Il Dio personale degli italiani. Al Sud la messa non è finita
di Michele Smargiassi
in “la Repubblica” del 7 luglio 2011


A Verona si celebrano più matrimoni civili che a Modena. A Belluno nascono più bambini da coppie non sposate che a Lucca. I goriziani negano il loro otto per mille alla Chiesa più dei pisani. A Venezia la quota di studenti che “non si avvalgono” dell’ora di religione cattolica è identica a quella di Ravenna. Ma dove sono finite le “regioni bianche”, il Triveneto devoto, il Nord-Est cattolico, fabbrica di papi e serbatoio di voti democristiani? Certo, i veneti vanno ancora a messa (uno su tre) molto più dei toscani (uno su cinque); ma lontano dal sagrato, nelle scelte individuali, intime, familiari, private, l’etica dell’Italia che per decenni fornì un modello di modernità credente, antagonista di quello scristianizzato ed edonista delle “regioni rosse”, ormai appare definitivamente omologata al resto del Nord. Dove al massimo si declina il comportamento religioso su modelli personali. La pratica più intensa della fede è colata giù, lungo i meridiani, di parecchie centinaia di chilometri. Basta una sola occhiata ai colori stesi da Roberto Cartocci, docente di Scienze politiche
a Bologna, sulla mappa che riassume la sua Geografia dell’Italia cattolica, per rendersi conto che negli ultimi anni è avvenuto, silenziosamente, un terremoto nei costumi religiosi nazionali. Un travaso di coscienze, una decantazione, un’elettrolisi che hanno spezzato in due il paese: al Nord la secolarizzazione, al Sud la devozione.


Lo studio che Cartocci e la sua équipe hanno realizzato per l’Istituto Cattaneo di Bologna (e pubblicato in volume da Il Mulino) mettendo a confronto tutti gli sparsi indicatori dei comportamenti in qualche modo legati alla morale cristiana, a prima vista non offre sorprese particolari. Tutti i trend che ci si potrebbe attendere dall’avanzata della società del disincanto sono rispettati: calano pian piano i matrimoni all’altare, si spopolano via via le navate, soprattutto di adulti in età attiva (25-44 anni), le coppie di fatto salgono in dieci anni dal 3,5% al 5,5%, e tutto questo avviene specialmente nelle grandi città, tra le classi più istruite e ricche, tra i maschi adulti, eccetera. Un lento processo in corso da almeno mezzo secolo, che erode però soltanto quello che i
sociologi chiamano “cattolicesimo di maggioranza”, quella massa di italiani pari grosso modo al cinquanta per cento della popolazione che si limita a rispettare i precetti più generali, a far capolino in chiesa a Natale e Pasqua. Resiste invece, almeno da un ventennio, attorno al trenta per cento, il “cattolicesimo di minoranza” di chi va a messa tutte le domeniche, al cui interno si rafforza addirittura, ed è un’eredità della spinta di Wojtyla, un dieci per cento di “cattolicesimo militante” fatto di animatori di parrocchia e di membri attivi dei movimenti ecclesiali.


Sulla base di questi indicatori è difficile dare una risposta univoca alla domanda fondamentale: gli italiani sono ancora cattolici? Ma certo, è quel che mostrano di essere nei loro comportamenti maggioritari: sei coppie su dieci si sposano all’altare, otto bambini su dieci nascono dopo le nozze, nove contribuenti su dieci regalano l’otto per mille alla Cei (e quindi lo fa anche la metà di quel venti per cento che non mette mai piede in chiesa), e nove ragazzi su dieci frequentano l’ora di religione a scuola. Ma questi parametri definiscono la fede o il conformismo sociale? Se è cattolico chi obbedisce almeno al precetto di santificare le feste (lo fa il 32,5%), bisognerà ammettere che in Italia i credenti sono solo una robusta minoranza, poco più di 18 milioni di persone, bambini compresi. E tuttavia «sono l’unica minoranza attiva e coesa che sia sopravvissuta alla crisi delle grandi ideologie», precisa Cartocci: dall’altra parte infatti non c’è un’organizzata, crescente e nuova moralità laica, ma solo un patchwork frutto della somma tra agnosticismo più o meno ideologico, materialismo distratto e consumista e religioni importate, dove i non-praticanti per convinta scelta non aumentano: sono il 15% da dieci anni.


Messo nel conto il disincanto generale della modernità, le cifre assolute di questa ricerca non dovrebbero dunque allarmare troppo i vescovi italiani. Le quantità, no. Ma la distribuzione territoriale invece sì, e parecchio. Perché il processo di secolarizzazione se non è travolgente, non è affatto omogeneo. Una polarizzazione fortissima è emersa: un confine antico che ricalca quello del regno borbonico, tagliando lo Stivale a metà. La più “laica” delle province meridionali, Latina, nella graduatoria dell’indice generale di secolarizzazione messo a punto dall’inchiesta, non raggiunge il punteggio della più “clericale” di quelle settentrionali, Vicenza.
Una delle spiegazioni è interna alla logica della statistica: il Nord-Est non si è affatto “sconvertito” in massa, piuttosto la base di credenti praticanti si è trovata diluita dall’arrivo di una popolazione non indifferente di immigrati di altre fedi. È probabilmente per effetto di questa redistribuzione demografica che in Friuli i non praticanti hanno sorpassato di recente i praticanti regolari. Ma gli immigrati ci sono anche nel Meridione. Dove  evidentemente è intervenuta una compensazione di altro genere. A sud di Roma la secolarizzazione ha rallentato, in molti casi si è arrestata (in Campania il record di frequenza alla messa domenicale, 42,8%, a Palermo quello delle nozze religiose, 76,1%), a volte si è ribaltata di segno, come nel caso clamoroso di Napoli, che fino al 1961 era la metropoli italiana col il numero più alto di matrimoni civili (17,7% nel ’51, quando a Milano erano il 5,4%), e che dagli anni Ottanta è passata in coda, scavalcata dall’irruenza laicista delle altre metropoli, anche meridionali (ora le nozze civili sono il 26,3 a Napoli contro il 57,6% di Milano e il 32,2% di Catania). Una “conversione” strepitosa che attende ancora una spiegazione, che però data dagli anni del dopo-terremoto e corre parallela al sorgere dell’impero di Gomorra: e le mafie sono sempre molto affezionate al rispetto delle tradizioni.
Devono essere allora contenti i vescovi della risorgenza al Sud dell’Italia “bianca” ormai estinta al Nord? Niente affatto, sostengono i ricercatori. Il Veneto cattolico aveva costruito una società ad alto “capitale sociale”, fondata su una rete di parrocchie che erano la trama vivificante del territorio, nuclei di partecipazione non solo religiosa ma anche civile e politica e verosimilmente non estranei al miracolo economico territoriale del Nord-Est oggi sofferente. La mappa della nuova Italia cattolica è invece sovrapponibile a quella dell’Italia del sottosviluppo economico, dell’inefficienza pubblica e del degrado civile. «Coincidenza non significa rapporto di causa ed effetto», è la cautela dello studioso, ma una coincidenza così perfetta invoca una richiesta urgente di spiegazioni. È un fatto, dimostrato dati alla mano nel volume: si prega di più dove c’è meno raccolta differenziata dei rifiuti, si va più a messa dove si emigra di più verso gli ospedali del Nord. La devozione meridionale tradizionale convive con una socialità disgregata, incapace di produrre più di un coinvolgimento puramente formale e rituale dei parrocchiani, di contrastare la corruzione delle istituzioni, il dilagare dell’illegalità, il degrado del senso di comunità, il deficit di Stato. Solo quando e dove la Chiesa si ribella a tutto questo, di colpo diventa incompatibile: è nel Meridione devoto, non riesce a non ricordare Cartocci spogliandosi dei panni dell’analista, che sono stati ammazzati due preti scomodi, don Pino Puglisi e don Peppino Diana. I vescovi questo lo sanno: e negli ultimi anni sfornano documenti sulla “questione meridionale” come mai prima. La “borbonizzazione” della pratica religiosa inquieta i pastori di un pezzo di Paese in cui risuona ancora, senza risposte, il furente grido di Giovanni Paolo II a Palermo: “Convertitevi!”.

“Bombardare è sempre un atto immorale”


Il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli si rivela una fonte inattesa di controversia internazionale.

 


Da più di un quarto di secolo, il pacato padre con un volto luminoso quasi beato e una certa qual somiglianza con papa Giovanni Paolo II è alla guida della chiesa cattolica romana di San Francesco d’Assisi.
Così il vescovo di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli ha fornito con discrezione la sua assistenza alla piccola comunità cattolica dal maestoso edificio di pietra bianca costruito al culmine del dominio coloniale italiano all’epoca di Benito Mussolini, coi suoi 100 metri di campanile che svetta in un orizzonte di minareti.
Ma dal momento che le bombe occidentali hanno cominciato a essere sganciate sulla Libia di Muammar Gheddafi, Martinelli, 69 anni, è diventato una fonte inattesa di controversia internazionale.
La sua critica persistente alla campagna guidata dalla NATO ha portato alcuni a considerarlo un pacificatore nei confronti di Gheddafi, e a suggerirgli che sarebbe stato meglio per lui il dedicarsi a questioni spirituali.
Martinelli, nato in Libia e figlio di colonizzatori italiani, respinge l’idea che si debba mettere a tacere la sua voce, usando la conoscenza da lui posseduta sia di questa nazione del Nord Africa che dell’Occidente per perorare la sua causa.
“Gheddafi è un beduino. Non si può fargli cambiare idea bombardandolo. Non è possibile annientare i beduini così”, ha dichiarato di recente il vescovo Martinelli nel patio ombreggiato di un albergo a cinque stelle a Tripoli, mentre detonazioni fragorose scuotevano la capitale, fatto che sembra accentuare il suo punto di vista.
“E’ un uomo orgoglioso. Provate a parlare con un beduino. Esiste una sorta di sublime nel beduino, l’uomo del deserto”, ha detto, scivolando dall’inglese alla sua lingua nativa, l’italiano.
Il vescovo, che ha incontrato Gheddafi e che ammette il suo “rispetto” per il leader, si posiziona come un sostenitore della pace e del negoziato.
“Bombardare è sempre un atto immorale”, ha detto all’agenzia ufficiale del Vaticano, Fides. “Io rispetto le Nazioni Unite, rispetto la NATO, ma devo anche dichiarare che la guerra è immorale. Se ci sono violazioni dei diritti umani, non posso utilizzare lo stesso metodo per fermarle”.
Papa Benedetto XVI ha invocato il dialogo e la diplomazia per porre fine al conflitto libico. Ma da molto tempo il vicario apostolico della Santa Sede a Tripoli è andato molto più in là, e a quanto pare con la benedizione del Vaticano.
Il vescovo è in contatto quotidiano con le agenzie cattoliche in Europa, e manda sempre lo stesso messaggio: i bombardamenti della NATO sembrano avranno il risultato di arrecare più vittime fra i civili che indurre la capitolazione del regime.
Mentre condanna in modo inequivocabile il bombardamento occidentale, Martinelli ha eluso le domande riguardo agli attacchi del regime contro i civili. Ha detto che aborrisce ogni forma di violenza, spostando il tema verso quello che lui chiama i risultati positivi di Gheddafi: un welfare sociale, la parità relativa per le donne e, più puntualmente, una libertà di culto in questo Paese a stragrande maggioranza musulmana.
La rivoluzione del 1969, guidata da un allora oscuro tenente dell’esercito di nome Gheddafi, ha portato alla espulsione della maggior parte degli italiani rimasti e la chiusura delle chiese, simbolo della colonizzazione brutale dell’Italia del XX secolo. Una ex cattedrale è diventata qui ora una moschea; la cattedrale, nella città dei ribelli di Bengasi, con le sue doppie cupole che si ergono davanti al porto, è avvolta da ponteggi e in cattivo stato di conservazione. Altre chiese sono state convertite in palestre e sale riunioni, e, in almeno un caso, persino in un caffè.
Ma Gheddafi, rivoluzionario laico, ha permesso ben presto ai cristiani di praticare liberamente la loro religione, restituendo la chiesa di San Francesco e quella del centro di Bengasi, in una strada ancora denominata Via Torino. Lo stato vieta però il proselitismo e limita le attività di beneficenza all’interno dei locali della chiesa, ma suore cattoliche sono all’interno degli ospedali, centri per disabili, orfani e anziani. Giovanni Paolo II aveva anche ripreso le relazioni diplomatiche con Tripoli nel momento in cui il regime era considerato un paria internazionale a motivo dei legami di Gheddafi con il terrorismo.
“Gheddafi ci ha concesso libertà come Chiesa”, ha detto il vescovo Martinelli, citando altri esempi nel mondo arabo, dove i cristiani subiscono invece severe restrizioni e, nel caso del post-Saddam Hussein anche in Iraq, per lui emblema di un massacro. “Guardate l’Iraq – ha detto – hanno distrutto Saddam Hussein, ma è ancora molto difficile organizzare la vita da quel momento”.
Non dimentica neppure l’attuale dispiegarsi della cosiddetta “Arab Spring” (Primavera araba) dove gli autocrati secolari della regione – Hussein, la dinastia Assad in Siria, Hosni Mubarak in Egitto – sono stati tolleranti nei confronti delle minoranze cristiane.
Nato durante la seconda guerra mondiale in una famiglia di agricoltori italiani a sud-est di Tripoli, Martinelli era andato in Italia da giovane e lì è stato ordinato sacerdote francescano a Salerno nel 1967. Poi è stato rinviato nel Maghreb per guidare una piccola residua comunità italiana in una regione dove era fiorita la chiesa primitiva, generando uno dei maggiori luminari intellettuali del cattolicesimo, Sant’Agostino di Ippona, nativo di quella che oggi è l’Algeria. Le invasioni arabe avevano cancellato il cristianesimo in Libia per secoli, fino a quando i commercianti italiani e i colonizzatori non vi hanno riportato la fede se pure in modo limitato.
Fin dall’inizio dei bombardamenti, Gheddafi ha cercato di invocare il periodo precedente al conflitto tra cristiani e musulmani, inquadrando la guerra come un’alleanza stile “crociata” di aggressori fanatici di Al Qaeda.
“Perché volete morire sotto la croce?”, così Gheddafi ha schernito i ribelli in un recente messaggio audio.
Il vescovo ammette che Gheddafi è lento a rispondere alle esigenze della popolazione e ha trascurato per troppo tempo la Libia orientale, dove è covata la ribellione. Molto prima che le proteste scoppiassero nel mese di febbraio, Martinelli sottolinea come fra i libici si avvertisse già la nostalgia per una maggiore libertà, maggiore giustizia e migliori opportunità economiche.
Gheddafi “non era in grado di ascoltare i giovani di Bengasi, non era in grado di capirli” – ha riconosciuto con un certo rammarico Martinelli, che ha prestato il suo servizio di sacerdote per una dozzina di anni a Bengasi – il che implica che la guerra avrebbe potuto essere evitata se il regime avesse destinato maggiori investimenti nella parte orientale del paese. La violenza è diventata quasi una malattia allergica a Bengasi”.
Il vescovo ha scelto con cura le sue parole che di solito sono conformi con la linea del governo: “Sì, Gheddafi ha commesso degli errori, ma il regime è ormai pronto a negoziare un cessate il fuoco e la transizione verso elezioni democratiche. I capi dei ribelli, e anche quelli dei governi occidentali, affermano però che questo non si può comprare, ma piuttosto che Gheddafi deve andarsene dopo più di quattro decenni al potere.
Martinelli, naturalmente, parla da una posizione precaria. Ogni straniero che critichi il regime rischia l’espulsione, o peggio, di finire alla mercé della polizia di Gheddafi. Dire la cosa sbagliata potrebbe avere conseguenze catastrofiche per un gregge estremamente vulnerabile e per di più notevolmente diminuito dopo i disordini scoppiati nel paese, da cui molti cristiani sono partiti con voli aerei, altri a bordo delle navi sgangherate per navigare l’imprevedibile mar Mediterraneo.
In questo angolo della capitale, la messa settimanale è una delle poche consolazioni dei suoi parrocchiani, una singolare fonte di conforto spirituale.
“Ci dà coraggio”, ha detto Alex Attisso, nativo del Togo che dirige un coro composto da persone provenienti dall’Africa occidentale, una serie di splendidi cantori che in un recente servizio liturgico hanno mostrato i loro abiti viola con berretti piatti carichi di fiocchi.
Tempo e difficoltà hanno trasformato l’antica fortezza spirituale dei maestri costruttori coloniali libici in qualcosa di diverso: un rifugio per immigrati in ansia, tra cui lavoratori dell’Africa subsahariana, operatori sanitari delle Filippine e artigiani dell’Asia del Sud, tutti attratti da posti di lavoro di un pese ricco di petrolio come la Libia.
I fedeli frequentano ancora perlopiù la domenica, anche se il giorno con la frequenza più massiccia ai servizi liturgici è il venerdì, giorno della preghiera musulmana, quando la maggior parte non deve recarsi al lavoro. Alla chiesa di San Francesco, uscieri africani indicano ai partecipanti i loro posti a sedere, danno loro in mano i fogli stampati per la preghiera e ricordano loro di spegnere i cellulari, prima di indirizzarli ai banchi.
In un recente venerdì, il vescovo stava accogliendo gli ospiti prima della Messa. Tra loro c’era una donna del Bangladesh che stava cercando di organizzare il battesimo della figlia. Una famiglia senza tetto dall’Eritrea che chiedeva rifugio. Un gruppo di filippini che comunicava tra le lacrime lapartenza.
“Vanno via dopo 25 anni”, ha detto il vescovo, con un tono malinconico in questi giorni tristi di distacco.
Nella parrocchia di San Francesco, l’inquietudine del momento ha accentuato la dimensione metaforica della Bibbia. Un passaggio, quello riguardo  all’uomo cieco che riacquista la vista, rappresenta un po’ “un simbolo di questa umanità, accecata dalla guerra, ma senza perdere mai la speranza che la luce della ragione venga riacquistata”, aveva confidato Martinelli ad un giornalista vaticano.
La chiesa in Libia, ha detto, deve essere “purificata” di nuovo, sopportando l’ultimo passaggio in un dramma millenario che l’ha vista lievitare a grandi altezze, scomparire dalla vista e poi di nuovo rinascere.
Il vescovo è fiducioso riguardo alla sopravvivenza della sua Chiesa qui in Libia, anche se il destino di questa nazione in frantumi rimane il vero punto interrogativo.

 

(McDonnell è stato recentemente in missione a Tripoli).


di Patrick J. McDonnell
in “Los Angeles Times” del 3 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)

Solo la bellezza ci salverà

 

Il prossimo mese di luglio Benedetto XVI incontrerà di nuovo degli artisti, meno di due anni dopo il precedente incontro nella Cappella Sistina (vedi foto).

Che l’arte, assieme ai santi e più ancora della ragione, sia “la più grande apologia della fede cristiana” è una tesi che Benedetto XVI ha sostenuto più volte.

Per lui la bellezza è “la via più attraente ed affascinante per giungere ad incontrare ed amare Dio”.

Ma questa tesi non ha affatto vita facile oggi, cioè almeno da quando, un paio di secoli fa, “si è spezzato il filo dell’arte sacra”: come ha titolato lo storico dell’arte Timothy Verdon un suo saggio su “L’Osservatore Romano” del 28 marzo 2008.

Enrico Maria Radaelli, filosofo dell’estetica, nel suo ultimo libro pone una domanda paradossale:

“Che cosa imparerebbero i milioni di fedeli che visitano la Cappella Sistina se le sue nobili pareti e la sua celebre volta, invece che da Michelangelo, fossero state dipinte da un Haring, un Warhol, un Bacon, un Viola, un Picasso?”.

Il nuovo saggio di Radaelli ha per titolo: “La bellezza che ci salva”. E il sottotitolo è tutto un programma: “La forza di ‘Imago’, il secondo Nome dell’Unigenito di Dio, che, con ‘Logos’, può dar vita a una nuova civiltà, fondata sulla bellezza”.

Sono trecento pagine di alta metafisica e di teologia, avvalorate da una prefazione del filosofo del “senso comune” Antonio Livi, sacerdote dell’Opus Dei e professore alla Pontificia Università Lateranense.

Ma sono pagine anche di critica sferzante alla deriva che ha travolto un fecondo rapporto durato secoli tra arte e fede cristiana. Senza risparmiare le alte gerarchie della Chiesa, che Radaelli accusa di aver abdicato al loro ruolo magisteriale, di faro della fede e quindi anche dell’arte cristiana.

Per invertire la rotta, Radaelli scrive che non basta qualche sporadico incontro tra il papa e gli artisti. A suo giudizio è necessario convocare nella Chiesa “un dibattito universale, non meramente artistico, ma teologico, liturgico, ecclesiologico, filosofico, un simposio pluriennale e multidisciplinare, il cui nome potrebbe essere il semplice ma chiaro ‘Stati generali della bellezza’”.

Radaelli fa i nomi di coloro che da lui interpellati, in Vaticano e fuori, hanno aderito all’idea: il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio della cultura; il cardinale Mauro Piacenza, prefetto della congregazione per il clero; il cardinale Albert Malcolm Ranjith, arcivescovo di Colombo ed ex segretario della congregazione per il culto divino; l’abate Michael John Zielinski, vicepresidente della pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa; Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani; Valentino Miserachs Grau, preside del pontificio istituto di musica sacra; Timothy Verdon, presidente dell’ufficio per la catechesi nell’arte dell’arcidiocesi di Firenze; Roberto de Mattei, storico, vicepresidente del Centro Nazionale delle Ricerche; Nicola Bux,  consultore della congregazione per il culto divino e dell’ufficio delle celebrazioni liturgiche pontificie; Ignacio Andereggen, membro della pontificia accademia di san Tommaso d’Aquino.

Con piglio polemico, Radaelli osserva che “ci vuole più coraggio” a organizzare questi “Stati generali della bellezza” che un Cortile dei Gentili. Perché – spiega – dialogare fuori del tempio col mondo profano sarà anche giusto e meritorio, ma prima ancora le gerarchie della Chiesa dovrebbero provvedere a far sì che la cattedrale della dottrina non vada in rovina, “piena com’è di inconsci ma non meno veri luterani, ariani, gnostici, pelagiani”.

Ma non è detto che nel Cortile dei Gentili la questione messa a fuoco da Radaelli sia taciuta. Nel primo di questi incontri di dialogo voluti da Benedetto XVI e attuati dal cardinale Ravasi, tenuto a Parigi nel marzo del 2011, c’è stato un oratore che l’ha proposta all’attenzione di tutti in forma bruciante.

Questo oratore è Jean Clair, storico dell’arte di fama mondiale, membro dell’Accademia di Francia e conservatore generale del patrimonio artistico francese.

Inoltre, il 2 giugno, festa dell’Ascensione di Gesù al Cielo, su “L’Osservatore Romano” il teologo Inos Biffi ha sviluppato il tema della “bellezza della verità di Dio” con accenti consonanti a quelli del saggio di Radaelli: altro segnale di attenzione autorevole alla questione.

Ecco qui di seguito alcuni passaggi degli interventi di Jean Clair e di Inos Biffi.

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CULTO DELL’AVANGUARDIA E CULTURA DI MORTE

di Jean Clair

Parigi, Cortile dei Gentili, 25 marzo 2011

[…] Ci sono nella storia della Chiesa episodi singolari come, nel XII e XIII secolo, la stupefacente moda dei Goliardi, chierici itineranti che scrivevano poesie erotiche e canzoni da taverna parecchio oscene, e che si dedicavano a fare parodie burlesche di messe e sacramenti della Chiesa. Ma i goliardi agivano così per criticare una Chiesa di cui denunciavano gli errori. Nulla di tutto ciò, oggi, negli artisti d’avanguardia, che non hanno rapporti con la Chiesa, e neanche voglia di burlarsene. Il movimento dei goliardi era legato a un’epoca di grande religiosità e di grande misticismo, non a una manifestazione di indifferenza.

Potrebbero essere solo le singolari deviazioni di qualche bello spirito, se la proliferazione di queste incursioni estetiche nelle chiese di Francia, e la comunanza della loro natura, esibizionista e spesso coprolalica, non inducesse a interrogarci sulla relazione che il cattolicesimo intrattiene oggi con la nozione di Bellezza.

Mi limiterò a pochi esempi:

– In una piccola chiesa della Vandea nel 2001, accanto alla cassa di un santo guaritore per il quale si viene da lontano in pellegrinaggio, si installa un’altra cassa colma di antibiotici.

– Più recentemente, nel battistero di una grande chiesa a Parigi si installa un’immensa macchina che fa colare liquido plastificante, lo sperma di Dio, su enormi certificati di battesimo, venduti sul posto a 1500 euro l’uno.

– A Gap, il vescovo presenta un’opera di un artista d’avanguardia, Peter Fryer, che rappresenta Cristo nudo con le braccia distese, legato su una sedia elettrica, come una Deposizione dalla Croce.

– Nel 2009, in una piccola chiesa di Finistère, una spogliarellista, Corinne Duval, nell’ambito di un happening di danza contemporanea, sovvenzionata dal ministero della cultura, termina danzando nuda sull’altare. […]

Quel che vedo rinascere e svilupparsi in questi culti libertini così simili a quelli che praticano certe sette gnostiche del secondo secolo mi sembra effettivamente una nuova gnosi, secondo la quale la creatura è innocente, il mondo è malvagio e il cosmo imperfetto.

Non sono un teologo, ma come storico delle forme sono colpito, in queste opere culturali dette “d’avanguardia” che oggi pretendono di far entrare nelle chiese la gioia della sofferenza e del male – mentre un tempo il culto tradizionale le combatteva con la sua liturgia –, dalla presenza ossessiva degli umori del corpo, privilegiando lo sperma, il sangue, il sudore, o il marciume, il pus nella frequente evocazione dell’aids. Naturalmente anche l’urina che – a proposito del “Piss Christ” dell’artista Andres Serrano, “imprescindibile star del mondo dell’arte e del mercato” secondo M. Brownstone – viene proclamata “portatrice di luce” in un’omelia del sacerdote, Robert Pousseur, allora incaricato di iniziare il clero francese ai misteri dell’arte contemporanea. […]

La Chiesa si è lasciata affascinare dalle avanguardie fino al punto di presumere che l’immondo e gli abomini offerti alla vista dai suoi artisti siano le migliori porte d’accesso alla verità del Vangelo. Nel frattempo sono state segnate diverse tappe che non oso definire come una deriva.

Negli anni ’70, la Chiesa non voleva conoscere dell’arte contemporanea altro che l’astrazione. Dopo le vetrate di Bazaine a Saint Séverin ci furono le vetrate di Jean Pierre Reynaud all’Abbazia di Noirlac, poi quelle commissionate a Morellet e a Viallat per Nevers, e di Soulages per l’abbazia di Conques, Il volto non esisteva più, il corpo non esisteva più, il crocifisso stesso fu allora sostituito da due pezzi di legno o di ferro saldati. Le lotte sanguinose dell’iconoclasmo sembravano non essere mai accadute. L’iconoclastia ormai era un fatto normale. […]

Quante sono, nei musei di Stato, le opere che riguardano l’iconografia cattolica? 60 per cento? 70 per cento? Dalle crocifissioni alle deposizioni nel sepolcro, dalle circoncisioni ai martiri, dalle natività ai San Francesco d’Assisi… Contrariamente agli ortodossi che si inginocchiano e pregano davanti alle icone, anche quando esse si trovano ancora nei musei, è raro, nella Grande Galleria del Louvre, vedere un fedele fermarsi e pregare davanti a un Cristo in croce o davanti a una Madonna. Bisogna rimpiangerlo? A volte lo penso. La Chiesa dovrebbe domandare la restituzione dei suoi beni? Mi capita di pensare anche questo. Ma la Chiesa non ha più alcun potere, contrariamente ai Vanuatu o agli Indiani Haida della Colombia Britannica, che hanno ottenuto la restituzione degli strumenti della loro fede, maschere e totem… La Chiesa si vergognerebbe di essere stata all’origine dei più prodigiosi tesori visivi che si siano mai avuti? Non potendo riaverli indietro, non potrebbe almeno prendere coscienza dell’obbligo che non li si può lasciare senza spiegazione davanti a milioni di visitatori dei musei? […]

La religione cattolica mi è apparsa per molto tempo come la più rispettosa del senso, la più attenta alle forme e ai profumi del mondo. È in essa che si incontra anche la più profonda e la più avvincente e sorprendente tenerezza. Il cattolicesimo mi sembra innanzitutto una religione non del distacco, né della conquista, né di un Dio geloso, ma una religione della tenerezza.

Non ne conosco altra che per esempio abbia a tal punto esaltato la maternità. […] Quale religione ha dipinto tante volte, da Giotto a Maurice Denis, il bambino in tutte le posizioni dell’infanzia, gesti, sguardi, passioni di bambino, con le sue golosità e curiosità, quando è in piedi sulle ginocchia della madre? Come la Chiesa attuale ha potuto voltare le spalle a una tale ricchezza? […]

Nell’opera d’arte nata dal cristianesimo c’è anche altro, rispetto alla felicità visiva e alla pietà. C’è anche un approccio euristico del mondo. […] L’artista è al servizio di Dio, non degli uomini, e se dipinge la creazione, conosce le meraviglie del creato, custodisce nel suo spirito il fatto che queste creature non sono Dio, ma la testimonianza della bontà di Dio, e che sono lode e canto di allegrezza. Mi domando dove questa allegria si possa ancora sentire, quella che si sentiva in Bach o in Haendel, in queste manifestazioni culturali, così povere e così offensive per l’orecchio e per l’occhio, alle quali ormai le chiese aprono il loro culto.

Qui senza dubbio è stata e rimane oggi la grandezza della Chiesa: essa è nata dalla contemplazione e dall’adorazione di un bambino che nasce, e si fortifica con la visione di un uomo che risuscita. Tra questi due momenti, la Natività e la Pasqua, non ha smesso di lottare contro la “cultura della morte”, come dice così giustamente.

Questo coraggio, questa ostinazione rendono ancor più incomprensibile la sua tentazione di difendere opere che, ai miei occhi, alle “porte della mia carne”, sanno soltanto di morte e di disperazione.

Un Dio senza la presenza del Bello è più incomprensibile di un Bello senza la presenza di un Dio.

(Traduzione di Flora Crescini ed Enrica Zaira Merlo, a cura del Centro Culturale di Milano).

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QUANDO SI RESPIRA IL SOFFIO DELLA BELLEZZA

di Inos Biffi

Da “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2011


[…] La teologia per definizione “dice Dio”. E questo “dire” la verità di Dio ha una sua bellezza. […] Ne era persuaso sant’Agostino che parlava di “splendore della verità”, e al quale faceva ripetuta eco Tommaso d’Aquino, […] attribuendo la prerogativa di essere “splendore e bellezza” al Verbo, che nel mistero della sua trasfigurazione e della sua ascensione l’ha effusa e riversata nella sua stessa umanità gloriosa, termine inesausto della contemplazione dei beati. […]

Si dice che i dogmi sono veri. Bisogna continuare, e dire che i dogmi sono belli. […] Occorre proseguire e osservare che la bellezza del mistero non è solo quella che traspare dal discorso teologico, come estetica intellettuale, tramite l’”ordinamento architettonico delle idee”, ma anche […] quella che si effonde dalle “cattedrali di pietra”, ossia nell’estetica della visibilità e, aggiungiamo, della poesia, della musica.

Si trovano allora attratte dalla divina bellezza la “sensibilità”, l’emotività, l’immaginario e l’estaticità che, sotto l’impulso attraente del mistero, a loro volta lo manifestano e lo espandono.

Richiamiamo gli inni di Ambrogio o di Manzoni, o le Laudi di Jacopone da Todi, ma soprattutto la “Divina commedia” di Dante, che non è un corso di teologia dogmatica, eppure equivale alla più alta, e si direbbe inarrivabile, versione poetica della fede e dei suoi dogmi: è il “bello” cristiano, portato ai vertici sublimi della poesia.

Con questo il dogma non è solo dichiarato e “affermato” come bello, e ad apparire tale non è solo la verità esposta e commentata, ma è diventato bello nel modo originale della poesia.

In questa linea dell’estetica, potremmo anche richiamare quanto il mistero sia stato e sia ancora reso “incantevole” dalla musica sacra, liturgica e non liturgica, che inizia al mistero stesso, proponendolo e facendolo gustare nella forma del canto e della melodia. I repertori musicali della Chiesa, un immenso patrimonio di messe, di oratori, di mottetti, sono a loro volta cattedrali musicali. […]

È quello che è sempre avvenuto nella tradizione cristiana, che ha guardato al mistero con “illuminati gli occhi del cuore” (Ef 1, 18). […] E proprio per l’esercizio della verità e della bellezza della fede è sorta la cultura cristiana, frutto più che di amabile e ossequioso dialogo, di sorprendente e inedita creatività. […]

 


Una proposta per i cinquant’anni del Vaticano II

LA VIA SOPRANNATURALE PER RIPORTARE PACE TRA PRIMA E DOPO IL CONCILIO

di Enrico Maria Radaelli

La discussione che si sta svolgendo sul sito internet di Sandro Magister tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel Concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la Tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro “La bellezza che ci salva”.

Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali – vero, uno, buono, bello – che san Tommaso d’Aquino dice essere i nomi dell’Unigenito di Dio: identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, vale a dire il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.

Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per chi vuole ricostruire quella “Città della bellezza” che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa è la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.

Completerò il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con monsignor Brunero Gherardini  che nel 2015 cadrà il cinquantesimo anniversario del Concilio (cfr. “Divinitas”, 2011, 2, p. 188), la Chiesa tutta approfitti di tale straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel “munus docendi”, di quel magistero, sospeso cinquant’anni fa.

Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: “Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio”.

Il domenicano si avvede infatti che la necessità è di “rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?”. E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, padre Cavalcoli le gira nelle domande opposte, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica “aletica”, veritativa, insegnataci dalla filosofia.


Prima domanda: È ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso?

Caro padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: “Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso”. Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una o più conclusioni false, tant’è che in tutti i Concili del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio a motivo di tale possibilità. Per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità rivelate per grazia non basta essere teologi, vescovi, cardinali o papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo solo a quei Concili che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la sono garantita formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come veritiero tanto quanto sono già state divinamente garantite come veritiere le sue premesse.

Ciò non è avvenuto all’ultimo Concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel III grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando di temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente “religioso ossequio”) se non “addirittura errate”, come riconosce anche padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, “e comunque non infallibili”, e che dunque “possono essere anche mutate”, sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma “solo” moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto vincolanti obbligatoriamente l’obbedienza del fedele.

D’altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la realtà prima, con la realtà divina rivelata cui si riferiscono, ed è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (I grado), tali come le dottrine loro connesse se presentate attraverso definizioni dogmatiche o atti definitivi (II grado). Sia le prime che le seconde si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo gruppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Vincenzo di Lérins (“quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est”), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio. Tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del “munus”, del magistero dogmatico.

La differenza tra le dottrine di I e II grado e quelle di III è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel terzo gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il “munus” dogmatico è: 1) un dono divino, dunque 2) un dono da richiedere espressamente e 3) un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità, mancanza di garanzia che sgancia il magistero da ogni obbligo di esattezza e i fedeli da ogni obbligo di obbedienza, pur richiedendo loro religioso ossequio. Nel III grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale può compiersi solo ponendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.

È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al secondo gruppo. Fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartennero al gruppo delle dottrine opinabili, al terzo, alle quali si doveva nient’altro che “religioso ossequio”, pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962. Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali “ab initio” già erano nella loro più intima realtà: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il secondo) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste. Felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare che fu riconoscimento degli astanti, del papa in primo luogo, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, dopo averla esaminata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.

Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.


Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?

Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun “nuovo campo dogmatico”, come si esprime padre Cavalcoli, anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario “campo pastorale”. Nessuno dei documenti richiamati da dom Basile Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del Concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d’anatema alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali (come sottolinea il professor Roberto de Mattei nel suo “Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”) furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della “théologie nouvelle” come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull’indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno: 1) dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi; 2) dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio “Summorum Pontificum”. “Lex orandi, lex credendi”: se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos’è allora?

Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è “tutti i giorni” sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 (“Portæ inferi non prævalebunt”) e di Matteo 28, 20 (“Ego vobiscum sum omnibus diebus”) e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo.

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il “Novus Ordo Missæ” in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il “corpus theologicum” posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.

Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità (cfr. le pp. 70ss, 205 e 284 del sopraddetto mio libro “La bellezza che ci salva”), restando così tutte in pericoloso e “fragile borderline tra continuità e discontinuità” (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.

Terza domanda: Se noi neghiamo l’infallibilità degli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?

Certo che la indebolite, caro padre Cavalcoli, anzi: la annientate. E date forza alla tesi opposta, come è giusto che sia, che continuità non c’è.

Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio (1905-1997) con quella che l’autore di “Iota unum” definisce “la legge della conservazione storica della Chiesa”, ripresa a p. 41 del mio saggio, per la quale “la Chiesa non va perduta nel caso non ‘pareggiasse’ la verità, ma nel caso ‘perdesse’ la verità”. E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, o la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima) dal Concilio a oggi. E quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la colpisse d’anatema, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il papa e solo il papa, se (nella metafisicamente impossibile ipotesi che) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore. Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo.

Qui si avanzano delle ipotesi, ma – come dico nel mio libro (p. 55) – “lasciando alla competenza dei pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra” negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in specie come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte, almeno nell’arte sacra, non si riesce se non lavorando nel vero dell’insegnamento e dell’atto liturgico.

Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da monsignor Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso – a partire dal discorso d’apertura del Concilio “Gaudet mater ecclesia” – in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma, detta, con ricercata imprecisione teologica, “pastorale”. Si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee ecumeniche di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne in alcun modo la veste metafisica, per natura sua dogmatica (cfr. p. 62), per natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel campo del suo magistero che inferisce unicamente sulla sua “conservazione storica”.

In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di II livello le dottrine di III che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (cfr. p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i papi, persino in occasione di un Concilio, si sono formalmente rifiutati sia di dogmatizzare le nuove dottrine sia di colpire d’anatema le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse.

Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Matteo 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò “deviare dalla rettitudine che l’atto – cioè ‘l’‘insegnamento educativo alla retta dottrina’ – deve avere” (Summa Theologiae I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76). Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo del mio libro. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di “omissione della dogmaticità propria alla Chiesa” (pp. 60ss), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.

Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa, ovvero la Chiesa nella sua componente storica), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento “favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto ‘pastorale’, che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli” (pp. 67s).

Per restituire alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, altra via non c’è che tornare alla pienezza del suo “munus docendi”, facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come “habitus” del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: “trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo”) l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli.

Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica virtualmente sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.

Per concludere, una proposta

Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, cinquantesimo anniversario del Concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto della Chiesa affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte tradizionista, e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Le preghiere e le intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.

Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini “fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è”, l’altra negli uomini il cui spirito è più teso al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e audacia. Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.

Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino “munus docendi” nella sua pienezza.

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Il libro di Enrico Maria Radaelli “La bellezza che ci salva” (prefazione di Antonio Livi, 2011, pp. 336, euro 35,00) può essere richiesto direttamente all’autore (enricomaria.radaelli@tin.it) o alla Libreria Hoepli di Milano (www.hoepli.it).

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POST SCRIPTUM 1 / LA REPLICA DI FRANCESCO ARZILLO


L’appello del professor Enrico Maria Radaelli, accorato e sofferto, suscita simpatia ma anche qualche perplessità sia di contenuto sia di metodo.

Partirei dalla coda, ossia dai tempi. Radaelli pone l’anno 2015 quale orizzonte temporale di riferimento per un pronunciamento di carattere dogmatico sulle questioni pendenti. Tuttavia egli richiama quale esempio la proclamazione dogmatica dell’Immacolata, per la quale la Chiesa ha invece atteso non pochi secoli. Gli storici del dogma conoscono le resistenze dei domenicani, che solamente nell’Ottocento furono definitivamente superate: il plurisecolare lavoro teologico e spirituale favorì in tal modo una proclamazione quasi unanimemente condivisa nella Chiesa.

È da ammirare questo modo di procedere, che fa della Chiesa cattolica – per dirla paradossalmente – l’opposto di quella monarchia autoritaria che non pochi tra i non cattolici immaginano. Una cosa è infatti il potere del Magistero supremo, un’altra cosa è la questione del modo e dei tempi del suo esercizio, che sono soggetti a ovvi canoni prudenziali.

C’è quindi da chiedersi: se ci sono voluti secoli per una proclamazione dogmatica in un contesto caratterizzato ancora da una certa omogeneità di linguaggio e di formazione teologica, come si può pensare che le odierne dispute possano risolversi con atti dogmatici nel giro di pochi anni, in un contesto di radicale pluralismo culturale ed epistemologico? La definizione dogmatica presuppone infatti, di regola, una preparazione niente affatto semplice.

La linea di Benedetto XVI appare diversa: seminare – come nel caso del ripristino del rito antico – e attendere che la semina porti frutto a suo tempo.

Un secondo punto. Si potrebbe di certo – dopo attenta indagine – riconoscere che alcune delle nuove dottrine conciliari e postconciliari siano collocate nel II livello, come sostiene il padre Giovanni Cavalcoli. Ma anche se ciò non fosse, la cosa non dovrebbe turbare più di tanto il fedele cattolico, anche se teologo. È bene ribadire che lo Spirito Santo non assiste i pastori solamente nel momento della definizione (di I o di II livello, per esprimersi secondo la nota scala di durezza richiamata dal professor Radaelli). Lo Spirito li assiste sempre, anche nei pronunciamenti di III livello, ai quali, come Radaelli stesso riconosce, è dovuto un “religioso ossequio dell’intelletto e della volontà” (art. 752 del codice canonico).

La necessità di questo assenso anche interno è il punto più trascurato, oggi, sia dai neomodernisti sia dai tradizionalisti. Il fatto che si tratti di pronunciamenti non irreformabili non significa che i fedeli non debbano seguirli come espressione della via più sicura. Ciò non esclude la possibilità che le persone competenti sollevino qualche dubbio nelle forme e nei modi propri, tali da non turbare l’ordinato svolgimento della vita ecclesiale. Ma ciò non può di certo comportare l’instaurarsi di magisteri paralleli, neppure sul fronte tradizionalista: effetto che sarebbe paradossale, dopo le giuste polemiche contro il consolidato magistero parallelo dei teologi progressisti sui mass-media.

Un terzo punto, infine. Il bel dibattito in corso su www.chiesa e sul blog Settimo Cielo dimostra che è possibile approfondire la portata dell’ermeneutica della continuità solamente entrando nel merito dei singoli problemi. La discussione sulla libertà religiosa lo ha rivelato assai chiaramente. È evidentemente fruttuoso lo sforzo volto a capire e a individuare esattamente il nocciolo che attiene all’essenza della dottrina sotto la mutevolezza degli accidenti storici: fermo restando, ovviamente, che questo nocciolo ci deve essere e deve essere mantenuto fermo, per evitare il rischio di cadere nel relativismo.

Questo esame delle dottrine “al microscopio”, ma anche “al telescopio” della profondità storica, riserverebbe piacevoli sorprese, nel senso auspicato dall’ermeneutica della continuità. Esso potrebbe mostrare che lo Spirito Santo non ha abbandonato la Chiesa cinquant’anni fa. E che non è certo venuta meno la promessa del Signore:  “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 16-20).

Roma, 16 giugno 2011

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POST SCRIPTUM 2 / LA REPLICA DI GIOVANNI CAVALCOLI

Caro professor Radaelli,

ho letto con molto interesse le sue considerazioni e le sue proposte circa l’autorevolezza delle dottrine nuove del Concilio Vaticano II, che lei pone, con dom Basile Valuet, al III grado, mentre io, almeno per alcune, la porrei al II.

Il III grado contiene sia dottrine “de fide et moribus” che disposizioni pastorali. Qui il Magistero, trattando materia di fede o prossima alla fede, non intende definire che quanto insegna è di fede, per cui non definisce se si tratta di dottrine definitive o infallibili oppure no. La dottrina della fede è di per sé è infallibile perché assolutamente e perennemente vera, ma qui la Chiesa, pur trattando di materia di fede o prossima alla fede, non chiede, come Lei ben riconosce, un vero assenso di fede, ma un semplice “ossequio religioso della volontà” per il fatto che qui la materia trattata non appare con certezza essere di fede. Questo ovviamente non vuol dire che possa essere sbagliata.

Viceversa, al II grado la Chiesa richiede un vero e proprio atto di fede, benchè non si tratti ancora della fede divina e teologale con la quale aderiamo alle dottrine del I grado, che sono i veri e propri dogmi definiti. La fede richiesta al II grado si chiama “fede ecclesiastica” o anche semplicemente “cattolica” ed è quella fede che abbiamo nell’infallibilità del Magistero della Chiesa in quanto assistito dallo Spirito Santo.

Qui aderiamo con la fede, perchè qui appare con chiarezza, magari per mezzo di opportune dimostrazioni, che si tratta di materia di fede e, se si tratta di dottrine nuove, è possibile mostrarle come chiarificazione, esplicitazione o deduzione di o da precedenti dottrine definite o dati rivelati. È questo il caso delle dottrine nuove del Concilio, se non tutte, almeno di alcune, le principali, come per esempio la definizione della liturgia, della rivelazione, della Tradizione o della Chiesa.

Quanto alla “pastoralità” del Concilio, è vero, è stato un Concilio pastorale, ma non solo pastorale, bensì anche dottrinale e addirittura dogmatico: basterebbe citare il titolo di due suoi documenti, chiamati appunto “Costituzioni dogmatiche”. Questo i papi del postconcilio lo hanno detto più volte, anche se hanno detto con altrettanta chiarezza che il Concilio non ha definito dichiaratamente o esplicitamente nuovi dogmi, quindi è indubbio che la sua dottrina non si pone al I grado.

È importante questa distinzione tra il dottrinale e il pastorale, perché, quando un Concilio presenta un insegnamento dottrinale, attinente benchè indirettamente alla Rivelazione, non può sbagliare. Anche se si tratta di dottrine nuove, non può tradire o smentire la Tradizione. Viceversa, le direttive o disposizioni di carattere pastorale o lo stesso stile pastorale di un Concilio non sono mai infallibili, a meno che non si tratti di contenuti di fede concernenti l’essenza dell’azione pastorale, ed anzi sono normalmente mutevoli e rivedibili, possono essere meno opportune o addirittura sbagliate, per cui devono essere abrogate. Questa può essere la “paglia” del III grado, ma non certo eventuali pronunciamenti dottrinali! Questi, accostati al “fuoco” del dogma, splendono di maggiore bellezza!

Anche certe disposizioni pastorali del Concilio potrebbero essere “paglia”. Ed anzi, secondo me e non solo secondo me, lo sono state e lo sono per il fatto che, messe alla prova dei fatti, dopo quarant’anni, richiedono di essere riviste o corrette per i cattivi risultati che hanno dato. Mi riferisco per esempio a quanto anche lei dice: l’eccessiva indulgenza del Magistero nei confronti degli errori o l’eccessivo ottimismo nei confronti del mondo moderno, nonché l’eccessiva esaltazione dei valori umani e la debole esaltazione dei valori cristiani, soprattutto cattolici.

Ciò ha consentito la penetrazione dappertutto, anche nella gerarchia, di queste tendenze, ulteriormente esasperate da una ben concertata macchina pubblicitaria internazionale organizzata dal centro-Europa (per esempio la rivista “Concilium”). I vescovi, come osservò a suo tempo padre Cornelio Fabro, ne restarono intimiditi, sicchè oggi è assai difficile liberarsi da questa situazione, perché chi dovrebbe intervenire è egli stesso connivente con l’errore.

Altro errore pastorale del Concilio è stato quello di indebolire il potere del papa rafforzando eccessivamente quello dei vescovi, col risultato che si è verificata quella “breviatio manus” del papa, della quale parlava Amerio: il pontefice è rimasto isolato nello stesso episcopato. Ovviamente, grazie all’assistenza dello Spirito santo, egli conserva ed applica il suo ruolo di maestro della fede e nemico dell’errore; ma purtroppo spesso gli interventi della Santa Sede in questo campo – che non mancano affatto – hanno scarsa per non dire scarsissima eco nell’episcopato e fra i teologi, quando a volte non si hanno addirittura delle opposizioni, ora subdole, ora sfrontate.

Su questa materia occorre recuperare un certo stile precedente il Concilio, che portava buoni risultati, ovviamente senza cadere in certi eccessi di severità e di autoritarismo del passato. I papi del postconcilio sono papi crocifissi, abbandonati come Cristo dai suoi. Altro che “trionfalismo”! È uso dei prepotenti fare le vittime.

Sono d’accordo con lei nel sostenere o meglio nel constatare con Amerio che dall’immediato periodo postconciliare a tutt’oggi il Magistero dice sì la verità – e come non potrebbe? – ma non la dice tutta. Tace alcune verità per un eccessivo timore dei non-cattolici e di non apparire abbastanza moderno. Le preoccupazioni ecumeniche, e peraltro di ecumenismo troppo pacifista e accondiscendente, sembrano prevalere sul dovere di evangelizzare e di correggere chi sbaglia, invitandolo all’unità “cum Petro e sub Petro”.

Occorre allora recuperare verità dimenticate, delle quali dò solo qualche esempio, sapendo bene, con lei, di sfondare una porta aperta: il valore realistico della verità, il valore intellettuale-concettuale della conoscenza di fede, il valore sacrificale, espiativo e soddisfattorio della redenzione, la natura e le conseguenze del peccato originale, la congiunzione della giustizia e della misericordia divine, gli attributi divini dell’impassibilità e dell’immutabilità, la distinzione fra natura e grazia, la predestinazione, l’esistenza di dannati nell’inferno, la possibilità di perdere la grazia col peccato mortale, l’esistenza dei miracoli e delle profezie, il dovere di lavorare per la conversione dei non-cattolici al cattolicesimo.

Vorrei dirle, però, caro professore, che non deve credere che dottrine conciliari come quelle della prospettiva universale della salvezza, del dialogo con la modernità, dell’ecumenismo, della libertà religiosa o delle verità contenute nelle altre religioni contrastino con le precedenti verità, anche se si tratta di dimostrare la continuità. Si tratta solo di una migliore conoscenza o di aspetti nuovi di quelle medesime verità che vengono insegnate in quelle dottrine.