V DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 6,1-2.3-8


        
Nell’anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti». Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!».  
  • Vocazione e mandato, ovvero affidamento di un compito da svolgere, nell’Antico Testamento sono sempre strettamente congiunti. Talvolta tuttavia la chiamata è semplicemente supposta ed è indicato solo il mandato di Dio all’uomo: è questo ciò che accade ad Abramo (Gn 12,1). Nel caso di Mosè, la chiamata e il mandato vengono ampiamente e di-stintamente descritti, nella lunga e drammatica cornice di una teofania (Es 3,2-4,17). Altre volte la vocazione non è affatto descritta, ma è soltanto ricordata dall’interessato (Amos 7,14-15) oppure dallo stesso Dio, p. es., nella scena che descrive ampiamente il mandato affidato al profeta Geremia (1,4-5: «La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini: Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto…»).

     La chiamata di Isaia al ministero profetico richiama in qualche modo la chiamata e il mandato di Mosè descritti nel libro dell’Esodo, ma con un ritmo e un linguaggio molto più concentrati ed essenziali. Nell’uno e nell’altro caso, tutto comincia con una teofania, che sorprende gli interessati. Essi si dichiarano profondamente turbati dalla manifestazione di Dio e consapevoli della loro personale indegnità. Da questo punto in poi, le due situazioni hanno però un diverso sviluppo: Mosè continua a protestare la sua incapacità di assolvere il mandato, mentre Isaia, purificato dai carboni ardenti dell’altare, si offre con slancio come

inviato del Signore. Diverso anche, nei due casi, è il contenuto del mandato: in quello di Mosè sta in primo piano l’annunzio della vicina liberazione dalla schiavitù, in quello di Isaia sta in primo piano un annunzio di sventura, mentre è solo appena intravista la fine della sventura medesima.

     Nel v. 1, il profeta ci dice che il suo ministero profetico ebbe inizio «Nell’anno in cui morì il re Ozìa (nelle traduzioni dato talvolta come Uzzia e nel libro dei Re è chiamato Azaria), cioè probabilmente tra il 740-739. Subito dopo è descritta la teofania, fino al v. 4. Emerge in questa descrizione la santità di Dio, cioè la sua trascendenza, sperimentata come incommensurabilità (i lembi del suo manto riempivano il tempio), maestà reale (seduto su un trono) e santità proclamata a cori alterni dai misteriosi serafini. Il termine «santità», oltre l’idea della trascendenza, include anche l’idea della suprema rettitudine. Ciò è indicato esplicitamente dal v. 5, nel quale è descritta la reazione del profeta, il quale dalla stessa visione di Dio è indotto a riconoscere la sua indegnità di peccatore, partecipe dei peccati del suo popolo.

     Se la teofania si chiudesse con la confessione del peccato, suo effetto sarebbe la disperazione. Essa invece prosegue, nei vv. 5-7, con la descrizione di una purificazione, che è anche una santificazione aperta alla speranza.

     Nel v. 8, è detto come è bastato al profeta purificato sentire che Dio cercava qualcuno da inviare come suo portavoce, perché egli si offrisse con slancio per quel compito.

     Non sono poche le analogie tra questo testo del profeta Isaia e la nostra lettura evangelica.

Seconda lettura: 1Corinzi 15,1-11

    Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.          
  • Il brano della prima lettera ai Corinzi che costituisce la nostra seconda lettura contiene l’inizio della risposta di Paolo a quello che probabilmente era l’ultimo quesito postogli da quella comunità, riguardante il problema della risurrezione dei morti.

     Nei vv. 1-2 c’è un moderato elogio dei Corinzi, per avere essi accolto il vangelo che egli stesso aveva loro presentato e per avere resistito a quelli che avrebbero voluto corromperlo o deformarlo. Essi hanno anche sperimentato la forza salvifica che c’è in quel vangelo.

     Nei vv. 3-7, l’apostolo riassume l’insegnamento centrale del Vangelo, che egli predica, in piena concordia con la predicazione della Chiesa: che Gesù Cristo è morto per la remissione dei peccati, che fu sepolto e fu risuscitato, conformemente alle affermazioni delle Scritture, che finalmente è apparso a quelli che poi hanno testimoniato quella risurrezione: rispettando l’ordine gerarchico, vengono nominati Cefa, i Dodici, più di cinquecento fratelli e Giacomo (rappresentante dei «fratelli del Signore»). Per questo condensato del kèrigma primitivo, sono adoperati i termini tecnici ricevere e trasmettere. A questo patrimonio comune, nei vv. 8-10, Paolo aggiunge la sua personale testimonianza: anch’egli, ultimo (quasi un aborto, avendo egli prima perseguitato la Chiesa), ha visto il Signore risorto e questa apparizione ha radicalmente cambiato la sua vita, facendolo diventare un apostolo infaticabile.

     La conclusione del brano, nel v. 11, è brevissima e solenne: questa e non altra è la fede di tutta la Chiesa, la fede che ha reso cristiani i destinatari della lettera di Paolo. Solo partendo da questa fede egli potrà affrontare e discutere il problema della risurrezione dei morti.

Vangelo: Luca 5,1-11

         In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.           

Esegesi

     Questo testo di Luca utilizza certamente il racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, che si trova in Mc 16-20 e Mt 18-22, ma non è semplicemente lo stesso racconto con qualche variazione. Direttamente, il tema del nostro brano è preannunzio del ministero apostolico di Pietro, che egli avrebbe poi svolto insieme agli altri apostoli, qui rappresentati da Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. In tal modo, il terzo vangelo ci assicura che il ministero apostolico, guidato dal gruppo dei dodici, è stato voluto e preordinato da Gesù fin dall’inizio della sua vita pubblica e non è scaturito solo dall’entusiasmo del tempo post-pasquale. Si può pensare che sia questo il motivo per cui nel terzo vangelo non si trova il mandato con cui il Signore risorto affida agli undici la diffusione del vangelo nel mondo (Mt 28,19-20; cf. Mc 16,15) e il potere di rimettere i peccati (Gv 20,21-23).                                                          

     Le parole con cui Gesù esprime la sua volontà e preannunzia il ministero apostolico di Pietro e dei suoi collaboratori sono preparate da una scena d’insegnamento dello stesso Gesù e dal racconto di un miracolo.

     Nella scena di insegnamento (vv. 1-3), Gesù è presentato circondato dalla folla, che vuole ascoltare da lui «la parola di Dio». Perché a tutti più facilmente arrivi quella «parola», Gesù chiede a Simone di poter utilizzare la sua barca.

     Nei vv. 4-7 è raccontato il miracolo di una pesca straordinaria ottenuta su indicazione di Gesù. Il fatto appare come prodigioso, perché avvenuto su semplice segnalazione di Gesù, in condizioni normalmente sfavorevoli, cioè in pieno giorno (mentre di solito la pesca si fa di notte) e in quantità del tutto inusuale: in tal modo Gesù dimostra di avere autorità sul mare e sui pesci. Non pare che l’evangelista abbia voluto dare un valore simbolico all’avvenimento della pesca, quasi per assicurare in anticipo la fecondità dell’attività apostolica della Chiesa. Il prodigio sembra avere soltanto lo scopo di dare autorevolezza a Gesù e alle parole che egli, subito dopo, dice a Pietro. Nei vv. 8-10a, è descritto l’effetto che il prodigio produce su Pietro e i suoi collaboratori: tutti avvertono in Gesù il potere misterioso di Dio e prendono coscienza della loro fragilità peccatrice.

     Nel v. l0b il racconto evangelico tocca il suo culmine, nelle parole di Gesù: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Qui propriamente non è espresso un comando o una chiamata: piuttosto, è pronunziata una profezia. È detto però che essa comincia già a realizzarsi subito, a partire da quel preciso momento. La chiamata appare così inclusa nella profezia, estendendosi anche ai collaboratori di Pietro. Si può anche notare che il termine greco adoperato per pescatore è zogròn, a cui talvolta viene dato il senso di salvare dalla morte: ciò vorrebbe dire che la profezia annunzia per Pietro e i suoi compagni una attività misteriosa al servizio della vita degli uomini.

     Il v. 11 col minimo di parole, descrive l’effetto delle parole sovrane di Gesù: «E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Non si può evitare di confrontare questo testo di Luca con il racconto della apparizione di Gesù risorto presso il lago di Tiberiade, con relativa pesca prodigiosa e conclusivo mandato pastorale affidato a Pietro, che si trova nel c. 21 di Giovanni. Sono tali e tanti gli elementi di somiglianza tra i due racconti, che si è costretti a pensare di avere davanti due trasmissioni indipendenti dello stesso avvenimento. Pur con persistenti esitazioni, si può pensare che il testo di Giovanni conservi la formulazione più antica del fatto e che sia stato Luca a spostarlo dai racconti di apparizione all’inizio del ministero pubblico di Gesù. Per l’appunto nel testo di Giovanni, alla fine, appare assai chiaramente che il culmine della storia sta nel mandato affidato a Pietro di pascere, cioè curare e custodire i credenti in Cristo.

Meditazione

     Sempre nella storia Dio ha chiamato uomini fragili e peccatori per affidar loro la sua parola da annunciare e per renderli partecipi del suo progetto sull’umanità. I contesti di una chiamata possono essere molto differenti e, in un certo senso, anche le modalità con cui Dio chiama sanno adattarsi all’uomo. Tuttavia nella dinamica di una vocazione ci sono delle costanti e nel narrare una chiamata la Scrittura sembra quasi seguire uno schema. C’è sempre un’esperienza di Dio da parte del chiamato che passa attraverso l’incontro con il suo volto e la sua parola. Questa esperienza, questo ‘contatto’ con Dio coinvolge totalmente colui che è chiamato, il quale sente la sua radicale lontananza da Colui che è il ‘totalmente altro’. Ma Dio quando chiama ha la potenza di cambiare radicalmente il cammino e la vita di una persona: ogni vocazione è sempre una conversione. E questo cambiamento è in vista di una missione. Possiamo scorgere questi elementi, che caratterizzano, secondo la Scrittura, la dinamica di una chiamata, nei due testi che la liturgia della Parola di questa domenica accosta e che ci fa leggere in parallelo. Si tratta del testo di Is 6,1-8, la vocazione profetica di Isaia e il suo invio al popolo di Israele, e del racconto della chiamata dei primi discepoli di Gesù, secondo la narrazione di Lc 5,1-11. In due contesti molto diversi, la stessa parola di Dio entra nella vita dell’uomo, con essa inizia un dialogo che si trasforma in chiamata e in missione. Isaia vede qualcosa allo stesso tempo affascinate e tremendo: «vidi il Signore seduto su un trono alto… i lembi del suo manto riempivano il tempio… Santo, santo, santo il Signore degli eserciti…» (Is 6,1-3). Gesù, tra la folla che «fa ressa attorno a lui per ascoltare la parola di Dio» (Lc 5,l), vede due barche e dei pescatori. Isaia sperimenta smarrimento e lontananza da questo Dio così al di là di ogni possibilità umana: «io sono perduto, perché uomo dalle labbra impure» (Is 6,5). Di fronte alla potenza della parola di Gesù, in Pietro avviene una presa di coscienza della propria povertà, del peccato che abita in lui: «Signore, allontanati da me perché sono un peccatore» (Lc 5,8). L’incontro con Dio cambia in profondità Isaia: è chiamato ad essere profeta e le sue labbra vengono purificate per una missione che Dio stesso gli affida (cfr. 6,6-8). Proprio Pietro, il peccatore, e i suoi compagni sono chiamati a diventare discepoli di Gesù e annunciatori del Regno in mezzo agli uomini: da pescatori di pesci diventano «pescatori di uomini» (Lc 5,10). Di fronte alla potenza e alla gratuità di Dio, Isaia si arrende: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). I quattro pescatori «tirate le barche a terra, lasciarono tutto e seguirono Gesù» (Lc 5,11). Tenendo con-to di questa lettura parallela, ci soffermiamo ora su alcuni elementi del racconto di Luca. Luca inquadra la scena focalizzando l’attenzione su Gesù che insegna, che annuncia la parola di Dio, mentre molta folla si accalca attorno a lui per ascoltarlo. Due barche sulla riva, accanto alle quali ci sono quattro pescatori, attirano l’attenzione di Gesù: possono diventare il mezzo per rendergli più agevole la predicazione. E così sale su una barca e invita il proprietario, Simone, a scostarsi un po’ dalla riva (cfr. Lc 5,1-3). In questa descrizione emergono alcuni elementi che inquadrano la successiva scena, e soprattutto orientano la dinamica della chiamata. Tutto sembra occasionale, ma lo sguardo di Gesù guida invece ogni momento. È lui che vede le barche e i quattro pescatori. Così in mezzo a questa folla anonima, grazie allo sguardo di Gesù emergono quattro volti che entrano in relazione più diretta con lui. E tra questi volti, uno in particolare sembra catturare l’attenzione di Gesù: quello di Simon Pietro. Ma fin da questa prima scena c’è un altro elemento che farà poi da legame a vari momenti dell’episodio: è la parola di Gesù. Gesù infatti sta annunciando la parola di Dio (cfr. v. 1); è sulla parola di Gesù che Simon Pietro getterà le reti al largo (cfr. v. 5); e infine, ancora sulla parola di Gesù i quattro pescatori lasceranno tutto per seguirlo (cfr. vv. 10-11).

     L’incontro diretto di Gesù con questi pescatori è caratterizzato da un ordine perentorio e apparentemente assurdo: «Prendete il largo e gettate le vostre reti per la pesca… Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (vv. 4-5). Sembra quasi che Gesù voglia fare sperimentare a questi uomini un paradosso, il quale può diventare esperienza e incontro con Dio: ciò che all’uomo è impossibile è invece possibile a Dio. Per entrare in questo ‘paradosso’, all’uomo è richiesta fede radicale e obbedienza. Infatti ciò che viene richiesto a Simon Pietro può avvenire solo sulla parola di Gesù. E il pescatore accetta questa sfida: «sulla tua parola getterò le reti. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci» (v. 5-6).

     Questo passaggio dall’impossibile al possibile e, più concretamente, da una pesca senza risultati alla vista di una pesca così abbondante e impensata, provoca una reazione in Simon Pietro: la presa di coscienza della distanza tra lui, peccatore, e Gesù. È il timore di fronte alla santità e alla potenza di Dio che costringe Simone a inginocchiarsi di fronte a Gesù e a riconoscere una sorta di impossibilità a stargli vicino: «si gettò alle ginocchia… allontanati da me; perché sono un peccatore» (v. 8).

     Ma proprio una nuova parola di Gesù supera questa distanza, altrimenti incolmabile per l’uomo. Gesù non solo non si allontana da Simon Pietro, ma si avvicina e con la sua parola lo chiama a stare con lui: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). La parola di Gesù opera una conversione di Simon Pietro e dei suoi compagni, cambiandone l’identità (‘pescatori di uomini’) e il cammino (‘d’ora in poi sarai’). Anche qui a Pietro e agli altri viene richiesta obbedienza e fede (‘non temere…’) che passano attraverso un radicale distacco da ogni certezza, da un passato conosciuto, per camminare dietro a Gesù fidandosi solo di lui e della sua parola: «e, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

     Ma forse uno dei cambiamenti più paradossali sta proprio nella missione che Gesù affida a questi pescatori: «d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (v. 10). Simon Pietro e gli altri restano ancora pescatori; ma non cattureranno più pesci ma «prenderanno uomini per la vita» (questo è il significato letterale dell’espressione usata da Luca). Come Gesù e con Gesù, saranno chiamati a incontrare uomini e a comunicare loro la vita mediante l’annuncio dell’evangelo. «A voi infatti ho trasmesso – dirà Paolo ai Corinzi – quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che è apparso a Cefa e quindi ai dodici» (1Cor 15,3-5).

     Questi ‘pescatori di uomini’ dovranno andare sempre di più al largo (e Luca narra questo straordinario viaggio al largo nel libro degli Atti) e continuare a gettare le reti ‘sulla parola di Gesù’. In questo simbolico viaggio in mare aperto, tanti altri uomini e donne si uniranno a questo piccolo gruppo. E questa comunità senza confini non è altro che la Chiesa di ogni tempo che continua a prendere nelle reti della parola l’umanità per consegnarla alla vita.

Don Bosco commenta il Vangelo

Quinta domenica del tempo ordinario

Don Bosco ci parla di Pietro

Gesù sceglie la barca di Pietro per parlare alle folle, nota don Bosco con compiacenza: “Gesù vide due barche accostate alla sponda. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca”. Nella sua Vita di san Pietro, don Bosco racconta che “per dare a Pietro un novello attestato della stima che aveva per la sua persona scelse la barca di lui e non quella di Zebedeo” (OE8 308). Poi continua ricordando che “i santi Padri nella nave di Pietro ravvisano la Chiesa di cui è capo Gesù Cristo, in luogo del quale Pietro doveva essere il primo a farne le veci, e dopo lui tutti i papi suoi successori” (OE8 311).

Spetta al solo Pietro di condurre la nave in alto mare. Infatti, dopo aver insegnato alle folle dalla barca, Gesù disse a Simone: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Gesù si rivolge prima a Pietro e poi a tutti. Su questa distinzione si basa questo piccolo commento offerto da don Bosco sempre nella sua Vita di san Pietro:

Le parole dette a Pietro “conduci la nave in alto mare”, e le altre dette a lui e a tutta la comitiva “spiegate le vostre reti per prendere pesci”, contengono pure un nobile significato. A tutti gli apostoli, dice sant’Ambrogio, comanda di gettare nelle onde le reti, perciocché tutti gli apostoli e tutti i pastori sono tenuti a predicare la divina parola, e a custodire nella nave, ovvero nella Chiesa, quelle anime che avrebbero guadagnato colla loro predicazione. Al solo Pietro poi si ordina di condurre la nave in alto mare, perché egli solo a preferenza di tutti vien fatto partecipe della profondità dei divini misteri; solo riceve da Cristo l’autorità di sciogliere le difficoltà che possono insorgere in cose di fede. Onde è che nella venuta degli altri pescatori alla nave di lui viene riconosciuto il concorso degli altri pastori, i quali unendosi a Pietro lo aiutano a propagare e conservare la fede nel mondo, e guadagnare anime a Cristo (OE8 311s).

Pietro ebbe fiducia nella parola di Gesù, rileva don Bosco nel capitolo secondo della Vita di san Pietro prima di raccontare la storia della pesca miracolosa:

Dopo la predica ordinò a Pietro di condurre la nave in alto mare, di gettare la rete e pescare. Pietro aveva passata tutta la notte precedente a pescare in quel medesimo luogo, e non aveva preso niente, e quasi pieno di stupore voltosi a Gesù: “Maestro, gli disse, noi ci siamo affaticati tutta la notte pescando e non abbiamo preso neppure un pesce; contuttociò sulla vostra parola getterò in mare la rete”. Così egli fece, e contro ad ogni aspettazione la pesca fu tanto copiosa e la rete così piena di grossi pesci che tentando di trarla fuori dalle acque stava per lacerarsi. Tanto è vero che coloro i quali confidano in Dio non sono mai confusi (OE8 308s).

La pesca miracolosa fatta da Pietro è diventata uno dei simboli della Chiesa. Nel primo capitolo della Vita de sommi pontefici S. Lino, S. Cleto, S. Clemente intitolato “Della Chiesa e dei suoi vari nomi”, don Bosco cita infatti “la pesca copiosa che il Salvatore fece fare ai suoi apostoli”, per significare “la grande estensione della Chiesa, la sua unità, la moltitudine e la differenza dei membri che la compongono, cioè i buoni ed i cattivi” (OE9 343).

In seguito alla reazione di Pietro dopo la pesca miracolosa, don Bosco sottolinea le qualità di quest’uomo apprezzate da Gesù stesso:

Gesù gradì la semplicità di Pietro e l’umiltà dei suoi sentimenti, e volendo che egli aprisse il cuore a più grandi speranze, per confortarlo gli disse: “Deponi ogni timore, da qui innanzi non sarai più pescatore di pesci, ma sarai pescatore di uomini”. A questo parlare Pietro riprese animo e quasi cambiato in un altro uomo condusse la nave al lido, abbandonò ogni cosa, e si pose perfettamente alla sequela del Redentore (OE8 310).

A ciascuno di noi don Bosco sembra voler dire di imitare i sentimenti di Pietro, di seguire Gesù come lui e di aver fiducia nei suoi successori a capo della Chiesa. 

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

PARCO DELLE VALLI (CONCA D’ORO-ROMA)     –   2021  

«Amami quando meno lo merito, perché sarà quando ne avrò più bisogno».

(Gaio Valerio Catullo)

Casella di testo: Isaia 6,1-2.3-8
1Corinzi 15,1-11
Luca 5,1-11

L’odierna pagina evangelica ci presenta l’incontro di Gesù con alcuni uomini che diverranno suoi discepoli: tra questi Pietro e i due fratelli Giacomo e Giovanni. Non è un racconto di vocazione (sebbene il titolo editoriale di questo episodio nella Bibbia di Gerusalemme parli di “Chiamata dei primi quattro discepoli”). Qui Gesù non dice a nessuno: “Vieni e seguimi”. Siamo invece di fronte a un incontro. Spesso anche per noi la “vocazione” passa attraverso incontri. E l’incontro tra Gesù e Pietro porta quest’ultimo a scoprire dimensioni profonde di sé e a cogliersi davanti al Signore: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” (Lc 5,8). L’incontro con il Signore è al tempo stesso conoscenza di Lui e di sé stessi.

La profondità di questo incontro risalta anche dal fatto che Simone ha già conosciuto Gesù. Nel capitolo precedente, Luca ha mostrato Gesù che parla con autorevolezza nella sinagoga di Nazaret (4,16-30), che insegna, scaccia demoni e compie guarigioni mostrando così la sua potenza di profeta e di inviato escatologico di Dio (4,31-44). Tra le guarigioni che compie vi è anche quella della suocera di Simone, nella cui casa Gesù è entrato (4,38-39). Dunque Simone ha già una conoscenza di Gesù, della potenza della sua parola e della sua azione taumaturgica, e ha confidenza con lui tanto da farlo entrare in casa sua. Eppure non l’ha ancora conosciuto a sufficienza e, soprattutto, non ha ancora conosciuto se stesso alla luce del Signore. Sì, la conoscenza del Signore è un cammino, è in divenire: è il percorso di una vita. È così anche per noi: si è alla sequela di Gesù, magari da tempo, eppure può avvenire che non si conosca ancora a fondo chi è il Signore e che non si sia andati abbastanza in profondità nella conoscenza di sé davanti a Lui.
(Luciano Manicardi)

Preghiere e racconti

Chiamati a qualcosa di più

L’insuccesso mostra all’uomo lo scarto tra l’infinità dei suoi desideri e la possibilità di realizzarli. La pesca infruttuosa suscita nei discepoli l’amara sensazione che non basta dire di andare a pescare per riuscire a pescare. C’è uno scarto tra la potenza dei desideri e la loro realizzazione effettiva. Quanti sogni di gioventù restano castelli in aria proprio per lo scarto tra ciò che noi vorremmo essere nella vita e ciò che poi si realizza! Vorremmo essere come il tale o il tal’altro, il nostro “io ideale” si proietta e alla fine vediamo che c’è una differenza enorme; l’insuccesso mostra la distanza tra l’infinità dei desideri e la possibilità di realizzarli.

La pesca infruttuosa diventa il simbolo di questo scarto, ed è una delusione salutare perché ci permette di riappropriarci con ordine dei nostri desideri. Ma può essere anche molto pericolosa: scatena reazioni negative e drammatiche.

Ricordo il caso di un uomo molto per bene che non riuscì ad accettare l’umiliazione di essere retrocesso nella carriera e per questo giunse a uccidere. L’insuccesso aveva provocato in lui lo scatenamento di desideri, che c’erano ma che prima riusciva a dominare perfettamente. È un’immagine di ciò che l’insuccesso provoca, per la violenza delle forze che si agitano dentro di noi, e che gli antichi chiamavano le passioni dell’uomo. Le passioni non sono soltanto la sensualità; sono anche l’invidia, l’ambizione, l’orgoglio e i risentimenti più forti; come pure sono passioni l’amore, la fedeltà, l’impegno, il coraggio, l’entusiasmo e la perseveranza. Queste sono le forze dell’uomo che dobbiamo imparare a conoscere e a dominare.

Anche se non arriviamo a casi drammatici, dobbiamo però dire che la pesca infruttuosa si ripete spesso nella nostra vita. Viene ad esempio, magari in giovanissima età, una malattia che immobilizza ed ecco tutta una serie di sogni che crollano. E uno passa due, tre, quattro anni prima di riuscire, se riesce, a ricomporre la profondità dei suoi desideri con la realtà che sta vivendo. Conosco situazioni in cui da questa ricomposizione è venuta fuori una forza speculare formidabile. Ma quanta fatica per arrivare a questa ricomposizione! Anche un’amicizia che sfuma è spesso fonte di grande delusione; un posto non ottenuto, un posto di lavoro sul quale avevamo puntato, soprattutto in situazioni in cui c’è una carriera quasi obbligata. È la notte sul lago di Tiberiade. E il Vangelo non dice tutto; ma quando cominciavano a tirar su la rete vuota, sarà cominciata la litania delle colpe: «È colpa tua, quanto mai siamo venuti, chi ci ha fatto uscire, chi ha avuto questa idea». Cioè vengono fuori tutti i sentimenti negativi.

Dobbiamo riflettere per capire, come gli apostoli, che in fondo l’importante non è “andare a pescare”, che si è chiamati a qualcosa di più grande e che il Signore può farci conoscere quel “qualcosa di più” attraverso l’insuccesso.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 42-43).

Da peccatore a pescatore (Lc 5,1-11)

Quando finisce di parlare, Gesù da un ordine a Simone: « Prendi il largo e calate le reti per la pesca » (Lc 5, 4). E Simone risponde: «Signore, avendo faticato tutta la notte nulla abbiamo preso» (Lc 5,5): il verbo usato da Luca è kopiasantes (part. aor. di kopiao), che in Atti si riferisce alla fatica apostolica, la fatica di annunciare il Vangelo. È la fatica di chi, pur avendo speso molte energie, pur avendo messo in opera tutte le proprie forze, non ottiene alcun risultato. E Simone decide di rischiare ancora una volta, di ignorare la fatica che lo opprime, di rischiare il ridicolo: «ma sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5, 5). È l’immagine dell’Apostolo che supera la prova di fiducia, che non cade nella delusione e nella disperazione, ma trova la forza di provarci ancora una volta… «sulla tua parola».

Simone diventa immagine dell’uomo che rischia se stesso anche in situazioni piccole ma che esigono decisione e coraggio. Santo è colui che sa rischiare, che si butta fuori, che non agisce in base a ragionamenti soltanto di convenienza. Non  sarà la sola fatica umana, neanche il calcolo o gli interessi ma l’amore che permetterà a Pietro di buttarsi, di andare fuori, di saper rischiare con e per Gesù. E Gesù ripaga la fatica di Simone: «E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano» (Lc 5,6).

Giunti a riva, Simone davanti a tutta la folla «si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”» (Lc 5,8). La potenza della parola di Gesù gli ha aperto gli occhi sulla propria condizione di peccatore. Posto dinanzi alla potenza di Gesù, Simone riconosce la propria fragilità e trova la sua autorealizzazione. E Gesù, accogliendo il peccatore, lo trasfigura in… pescatore di uomini!

La chiamata dei primi discepoli

Nella liturgia odierna, il Vangelo secondo Luca presenta il racconto della chiamata dei primi discepoli, con una versione originale rispetto agli altri due Sinottici, Matteo e Marco (cfr Mt 4,18-22; Mc 1,16-20). La chiamata, infatti, è preceduta dall’insegnamento di Gesù alla folla e da una pesca miracolosa, compiuta per volontà del Signore (Lc 5,1-6). Mentre infatti la folla si accalca sulla riva del lago di Gennèsaret per ascoltare Gesù, Egli vede Simone sfiduciato per non aver pescato nulla tutta la notte. Dapprima gli chiede di poter salire sulla sua barca per predicare alla gente stando a poca distanza dalla riva; poi, finita la predicazione, gli comanda di uscire al largo con i suoi compagni e di gettare le reti (cfr v. 5). Simone obbedisce, ed essi pescano una quantità incredibile di pesci. In questo modo, l’evangelista fa vedere come i primi discepoli seguirono Gesù fidandosi di Lui, fondandosi sulla sua Parola, accompagnata anche da segni prodigiosi. Osserviamo che, prima di questo segno, Simone si rivolge a Gesù chiamandolo «Maestro» (v. 5), mentre dopo lo chiama «Signore» (v. 7). E’ la pedagogia della chiamata di Dio, che non guarda tanto alle qualità degli eletti, ma alla loro fede, come quella di Simone che dice: «Sulla tua parola getterò le reti» (v. 5).

L’immagine della pesca rimanda alla missione della Chiesa. Commenta al riguardo sant’Agostino: «Due volte i discepoli si misero a pescare dietro comando del Signore: una volta prima della passione e un’altra dopo la risurrezione. Nelle due pesche è raffigurata l’intera Chiesa: la Chiesa come è adesso e come sarà dopo la risurrezione dei morti. Adesso accoglie una moltitudine impossibile a enumerarsi, comprendente i buoni e i cattivi; dopo la risurrezione comprenderà solo i buoni» (Discorso 248,1). L’esperienza di Pietro, certamente singolare, è anche rappresentativa della chiamata di ogni apostolo del Vangelo, che non deve mai scoraggiarsi nell’annunciare Cristo a tutti gli uomini, fino ai confini del mondo. Tuttavia, il testo odierno fa riflettere sulla vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata. Essa è opera di Dio. L’uomo non è autore della propria vocazione, ma dà risposta alla proposta divina; e la debolezza umana non deve far paura se Dio chiama. Bisogna avere fiducia nella sua forza che agisce proprio nella nostra povertà; bisogna confidare sempre più nella potenza della sua misericordia, che trasforma e rinnova.

Cari fratelli e sorelle, questa Parola di Dio ravvivi anche in noi e nelle nostre comunità cristiane il coraggio, la fiducia e lo slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Gli insuccessi e le difficoltà non inducano allo scoraggiamento: a noi spetta gettare le reti con fede, il Signore fa il resto. Confidiamo anche nell’intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli. Alla chiamata del Signore, Ella, ben consapevole della sua piccolezza, rispose con totale affidamento: «Eccomi». Col suo materno aiuto, rinnoviamo la nostra disponibilità a seguire Gesù, Maestro e Signore.

(Benedetto XVI, Prima dell’Angelus,10.02.2013).

Come Pietro i cristiani credono nell’amore del Signore

Un gruppetto di pescatori delusi da una notte intera di inutile fatica, ma proprio da là dove si erano fermati il Signore li fa ripartire. E così fa con ogni vita: propone a ciascuno una vocazione, con delicatezza e sapienza, come nelle tre parole a Simone:

– lo pregò di scostarsi da riva: Gesù prega Simone, chiede un favore, lui non si impone mai;- non temere: Dio viene come coraggio di vita; libera dalla paura che paralizza il cuore;- tu sarai: lo sguardo di Gesù si dirige subito al futuro, intuisce in me fioriture di domani; per lui nessun uomo coincide con i suoi limiti ma con le sue potenzialità.

Sono parole con le quali Gesù, maestro di umanità, rimette in moto la vita ed è per questo che è legittimato a proporsi all’uomo, perché parla il linguaggio della tenerezza, del coraggio, del futuro. Simone è stanco dopo una notte di inutile fatica, forse vorrebbe solo ritornare a riva e riposare, ma qualcosa gli fa dire: Va bene, sulla tua parola getterò le reti.

Che cosa spinge Pietro a fidarsi? Non ci sono discorsi sulla barca, solo sguardi. Per Gesù guardare una persona e amarla erano la stessa cosa. Pietro in quegli occhi ha visto l’amore per lui. Si è sentito amato, sente che la sua vita è al sicuro accanto a Gesù, che il suo nome è al sicuro su quelle labbra. I cristiani sono quelli che, come Simone, credono nell’amore di Dio (1Gv 4,16). E le reti si riempiono. Simone davanti al prodigio si sente stordito, inadeguato: Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore.

Gesù risponde con una reazione bellissima, una meraviglia che m’incanta. Trasporta Simone su di un piano totalmente diverso, sovranamente indifferente al suo passato e ai suoi peccati, lui non si lascia impressionare dai difetti di nessuno, pronuncia e crea futuro: Non temere. Sarai pescatore di uomini. Li raccoglierai da quel fondo dove credono di vivere e non vivono; mostrerai loro che sono fatti per un altro respiro, un altro cielo, un’altra vita! Li raccoglierai per la vita.

Quando si pescano dei pesci è per la morte. Ma per gli uomini no: pescare significa catturare vivi, è il verbo usato nella Bibbia per indicare coloro che in una battaglia sono salvati dalla morte e lasciati in vita (Gs 2,13; 6,25; 2Sam 8,2… ). Nella battaglia per la vita l’uomo sarà salvato, protetto dall’abisso dove rischia di cadere, portato alla luce.

E abbandonate le barche cariche del loro piccolo tesoro, proprio nel momento in cui avrebbe senso restare, seguono il Maestro verso un altro mare. Senza neppure chiedersi dove li condurrà. Sono i «futuri di cuore». Vanno dietro a lui e vanno verso l’uomo, quella doppia direzione che sola conduce al cuore della vita.

(Ermes Ronchi)

“Duc in altum!”

Siamo sempre agli inizi della predicazione e dell’attività di Gesù e anche Luca colloca in questo esordio del ministero pubblico del profeta di Galilea la chiamata dei primi discepoli. Rispetto però al vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,16-20), ripreso negli stessi termini da Matteo (cf. Mt 4,18-22), Luca dà una lettura più teologica della vocazione. Il racconto si arricchisce di particolari, è espresso con un’ottica diversa, sicché già qui vi è un messaggio che riguarda la teologia della chiesa.

Gesù svolgeva il suo ministero soprattutto nelle città e nelle campagne attorno al lago di Tiberiade (o di Gennesaret), quale profeta continuava a dispensare la parola di Dio ad ascoltatori che aumentavano ogni giorno, fino a diventare una vera e propria folla che faceva ressa, premendo per stargli vicino e raccogliere le sue parole. In quella calca, Gesù vede due barche ormeggiate sulla spiaggia, perché i pescatori erano scesi e stavano pulendo le reti dai detriti risaliti dalle acque del lago insieme ai pesci.

Pensa allora di salire su una delle due barche, quella appartenente a Simone, e lo prega di allontanare un po’ la barca da riva, così da farne una sorta di ambone da cui proclamare la parola di Dio. La scena è di per sé eloquente: Gesù “parla la Parola” e come seme la getta verso terra (la spiaggia) nel cuore degli ascoltatori lì radunati (cf. Lc 8,4-15); ciò che nella sinagoga è un ambone solenne, una cattedra, qui è la barca di Simone…

Non appena ha terminato quell’omelia, quell’insegnamento, Gesù passa dalle parole all’evento: chiede a Simone di “prendere il largo” (“Duc in altum!”, nella Vulgata) – cioè di abbandonare con coraggio e speranza le acque quiete dell’insenatura per inoltrarsi in mare aperto – e di gettare le reti in mare. Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha tentato la pesca senza ottenere risultati.

Tuttavia quel Gesù che ha parlato lo ha impressionato per la sua exousía; è un uomo affidabile – pensa –, che merita obbedienza, dunque gli risponde: “Maestro, … sulla tua parola getterò le reti”. Eccolo dunque avanzare verso le acque profonde, verso l’abisso (eis tò báthos), senza timore, munito solo della fiducia nella parola di quel profeta.

Il risultato è immediato, sbalorditivo: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”. Da dove viene questo successo, se per tutta la notte questi uomini hanno faticato invano? Dalla fede-fiducia nella parola di Gesù!

C’è qui una profezia per ogni “uscita”, per ogni missione della chiesa: deve essere sempre fatta su indicazione di Gesù, va eseguita con fede piena nelle sua parola, altrimenti risulterà sterile e inutile. Non era bastata la loro competenza di pescatori, non era risultata feconda la loro fatica, ma tutto muta se è Gesù a chiedere, a guidare, ad accompagnare la missione.

Questo segno stupisce Simone, che subito cade ai piedi di Gesù in atto di adorazione; nello stesso tempo, percependosi nella condizione di uomo peccatore, chiede a Gesù di stare lontano da lui. Accade cioè nel cuore di Pietro la rivelazione che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Kýrios, il Signore, mentre egli è solo un misero, un peccatore, indegno di tale relazione con Gesù.

È la stessa reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” (cf. Is 6,1) e si sente costretto a gridare: “Guai a me, uomo dalle labbra impure!” (Is 6,8; Is 6,1-2a.3-8 è la prima lettura di questa domenica); è la reazione di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso.

Qui c’è Gesù, un uomo, un profeta su una barca, eppure Pietro ha compreso la sua identità: Gesù è “il Santo di Dio” – come Pietro stesso confessa esplicitamente altrove (Gv 6,69) –, mentre egli è un peccatore e dovrà sentirsi tale per tutta la vita, in tante occasioni. E quando dimenticherà di essere peccatore, il canto del gallo glielo ricorderà: il gallo canterà tre volte, così come lui tre volte aveva gravemente peccato, dicendo di non avere mai conosciuto né avuto rapporti con l’uomo (cf. Lc 22,54-62) di cui qui riconosce la santità e che più tardi confesserà “Messia di Dio” (Lc 9,20).

Stupore e tremore per Pietro, dunque, ma anche per i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Si intravede già quel gruppetto di tre che saranno i più vicini a Gesù: erano discepoli amati, non prediletti, non amati più degli altri, perché l’amore, quando è vivo ed è in azione, non è mai uguale nel manifestarsi.

Certo, amati da Gesù come gli altri, ma partecipi all’intimità della sua vita in modo diverso, poiché muniti di doni diversi rispetto agli altri: non a caso saranno scelti da Gesù quali testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,51-55), testimoni della gloriosa trasfigurazione dell’aspetto di Gesù sull’altro monte (cf. Lc 9,28-29), testimone della sua de-figurante passione nel giardino degli Ulivi (secondo Mc 14,33 e Mt 26,37).

Saranno coinvolti con Gesù nella sua gloria e nella sua miseria, dunque sempre in ansia, sempre chiamati alla vigilanza, di cui non sono capaci (cf. Lc 22,45-46 e par.), sempre chiamati a una fedeltà che però viene meno, a causa del rinnegamento (cf. Lc 22,54-62) o della fuga (cf. Mc 14,50; Mt 26,56).

Secondo Luca qui Gesù consegna a Pietro la vocazione: “Non temere, d’ora in poi tu prenderai, catturerai vivi degli uomini”. Ovvero, “d’ora in poi è tuo compito andare negli abissi, al largo, per salvare uomini preda del male, per salvarli da abissi infernali, da strade perdute. I pesci muoiono, gli uomini sono invece destinati alla vita eterna!”.

Non si pensi subito alla missione come a un causare la conversione, ma a un annuncio di salvezza, quello che Gesù aveva illustrato di sé nella sinagoga di Nazaret, leggendo un brano del profeta Isaia e dichiarando realizzata quella profezia: liberare i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, redimere gli oppressi, annunciare ai poveri la buna notizia del Vangelo (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2).

La chiesa, quando va in missione, non va innanzitutto per fare cristiani, per aumentare il numero dei suoi membri, per battezzare, ma in primis per un’azione di liberazione dei bisognosi. Se fa questo, annuncerà il Signore Gesù e, se Dio vorrà, ci saranno conversioni e partecipazione ecclesiale. Attenzione però a non capovolgere la realtà determinata dal Signore, cercando risultati, opere visibili delle nostre mani. Ecco allora avvenire il mutamento decisivo:

“Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”.

Ormai non sono più addetti alla barca, alla pesca, al loro mestiere, ma tutte queste cose sono abbandonate per sempre sulla riva del lago. Ora è avvenuto il “sì”, l’“amen” al profeta Gesù, affidabile e dunque autorevole: vale la pena seguirlo e fondare la propria vita sulla sua parola. Luca ha utilizzato la metafora della pesca – come accade altre volte nei vangeli – per dirci una cosa semplice: quando Gesù chiama, trasforma quello che facciamo, e questa trasformazione richiede un abbandono di ciò che eravamo e una novità di vita, di forma di vita, nel futuro che si apre davanti a noi.

(Enzo Bianchi)

Sono pronta a partire

«Sono pronta a partire,

e il mio desiderio con vele spiegate aspetta il vento.

Solo un altro respiro respirerò in quest’aria calma,

solo un altro sguardo d’amore

volgerò all’indietro,

e poi sarò tra voi, un navigante tra naviganti.

E tu vasto mare, madre insonne,

unica pace e libertà per fiumi e rivi

solo un’altra svolta farà questa corrente,

solo un altro mormorio in questa radura,

e poi io verrò da te,

una goccia sconfinata in uno sconfinato oceano»

Tuffati profondo!

La perla di gran prezzo

giace nascosta giù nel profondo.

Come un pescatore di perle,

anima mia, tuffati,

tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo e cerca!

Può darsi che non trovi nulla

la prima volta,

Come un pescatore di perle, anima mia,

senza stancarti, persisti e persisti ancora,

tuffati profondo, sempre più profondo,

e cerca!

Quelli che non conoscono il segreto

si prenderanno gioco di te

e tu ne sarai rattristata.

Ma non perderti di coraggio,

pescatore di perle, anima mia!

La perla di gran prezzo

è proprio nascosta là

nascosta proprio in fondo.

E’ la tua fede

che ti aiuterà a trovare il tesoro,

è essa che permetterà

che ciò che era nascosto

sia finalmente rivelato.

Tuffati profondo,

tuffati ancora più profondo,

come un pescatore di perle, anima mia,

e cerca, cerca senza stancarti.

(Swami Parmánanda).

«Amore»

Il Signore ha bisbigliato una parola all’orecchio di un fiore e questo si è aperto in tanti petali colorati.

Il Signore ha bisbigliato una parola ad una pietra, e questa ha assunto i colori iridescenti e le sfumature del diamante.

Il Signore ha bisbigliato una parola al ruscello, ed esso è sgorgato con la freschezza di una sorgente d’acqua viva e perenne.

Il Signore, alla fine, si è chinato all’orecchio dell’uomo e gli ha sussurrato dolcemente una sola parola: amore.

(Gilal Ed-Din Rumi, monaco sufita del XIII secolo).

Solo Gesù può liberarmi totalmente

Nel Nuovo Testamento

la presenza di Gesù

con le sue parole e i suoi gesti

diviene una fonte inesauribile

d’ispirazione per la preghiera:

è Gesù che mi si accosta e m’interpella.

Gesù è il Buon Pastore

alla ricerca della pecora smarrita,

e io lo seguo.

Gesù è la vigna;

Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati

perché io possa dare buoni frutti.

Alla moltiplicazione dei pani,

è Gesù che m’invita

a offrirgli la mia povertà

– cinque pani e due pesci –

perché egli se ne serva

per compiere meraviglie.

Alla pesca miracolosa,

è Gesù che mi chiede

una fiducia assoluta nella sua parola

più che nei miei mezzi umani.

In occasione di numerose guarigioni,

Gesù mi rammenta                                             

che lui solo può liberarmi totalmente.

(Jean -Jacques Gareau).

Preghiera

Signore Gesù,                                           

Tu ci chiami a seguirTi,                                    

nel Tuo cammino di croce;                                      

Tu sconvolgi i nostri sogni                                           

e i nostri progetti:                                                   

eppure, Tu sei la nostra pace…                                       

Accettaci con le nostre paure

e le esitazioni del cuore;

accogli il nostro umile amore,

capace di darTi soltanto

il poco che siamo.

ConvertiTi a noi, Signore,

e noi ci convertiremo a Te,

lasciandoci condurre

dove forse non avremmo voluto,

ma dove Tu ci precedi

e ci attendi,

perforo delle povere storie

della nostra vita

e del nostro dolore

la Tua storia con noi.

Amen. Alleluia.

(Bruno Forte)

La Settimana con don Bosco

2. (Presentazione del Signore) La festa della Candelara “si celebra il due febbraio in onore della presentazione di Gesù Cristo al tempio; così detta dalle candele che in quel giorno si benedicono e si portano in processione” (OE24 396).

3. (S. Ansgario) (S. Biagio) “Pregate san Biagio che vi liberi da tutti i mali di gola materiali e spirituali” (MB8 32). 

4. “Recitiamo cinque Pater alle piaghe di Gesù Cristo, affine di ottenere che niuno di quelli che muoiono in questo giorno vada all’inferno” (OE3 467).

5. (S. Agata) Questa santa vergine “confessò con gran coraggio la fede di Gesù Cristo, e protestò di non conoscere nobiltà più gloriosa, né libertà più vera di quella di essere serva di Gesù Cristo” (OE12 25).

6. (S. Paolo Miki e comp.) “Sarà sempre caro alla memoria dei fedeli il giorno 8 giugno 1862, nel quale 26 eroi della fede, martirizzati nel Giappone, furono innalzati agli onori degli altari” (OE24 358).

7. (B. Pio IX) “Oh Pio IX! Sublime e cara figura di Pontefice! Chi è di noi che dopo essere stato rapito per lo spazio di quasi trentadue anni allo splendore di tue angeliche virtù, possa ora ripetere il venerato tuo nome senza sentirsi tutto commosso nel più profondo del cuore?” (OE30 434).

8. (S. Giuseppina Bakhita) (S. Girolamo Emiliani) “Chi fu che cominciasse a radunare fanciulli poveri ed abbandonati, a dar loro col pane del corpo il pane dell’intelligenza e dell’anima se non un prete cattolico, san Gerolamo Emiliani?” (OE15 450). 

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO

CHIESA, DOVE VAI?

Recensione a cura di don Cesare Bissoli


Greshake Gisbert, Chiesa dove vai? Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica, Queriniana, Brescia 2023, pp. 301, euro 34.

CHIESA, DOVE VAI? È questo titolodi un recente libro del noto teologo tedesco cattolico, Gilbert Greshake che merita un breve approfondimento per capire l’originalità dell’opera. L’Autore ha costantemente mostrato nella sua visione e riflessione teologica una sensibilità pastorale squisita. Le sue opere, tradotte anche in italiano, hanno ricevuto unanime consenso. Tra le più note ricordiamo: il Dio unitrino (2000); La vita più forte della morte. La speranza cristiana (2009); Maria è la Chiesa (2020).

Nel presente volume Greshake riflette sulla Chiesa nell’ attuale situazione allarmante bene espressa dall’interrogativo del titolo Chiesa, dove vai? Badando al resto del titolo, è possibile cogliere anche il taglio originale della risposta espressa nel sottotitolo: Guardare al futuro in prospettiva real-utopistica.

Il volume ne tratta in quattro parti, ciascuna articolata in diversi punti.

Nell prima parte intitolata Prolegomeni, l’A. presenta la sua visuale globale sintetizzabile così: la Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione. Invece, è necessario chiedersi di ricominciare da capo, guidati da una “real-utopia” ecclesiale in cui la riforma sia orientata “non a preservare il passato tramandatoci, ma immaginare il futuro promesso”. In quest’ottica, l’A. sviluppa un’analisi non superficiale, ma approfondita e aperta alla speranza.

            La seconda parte espone I fattori determinanti l’odierna situazione della Chiesa. Sono proposte tre ragioni a loro volta bene articolate. La prima ragione viene espressa come La fine della cosiddetta “chiesa di popolo”, soffocata tra l’altro da una invadente “clericalizzazione”. Come si può notare, si segnala, come dato negativo, una concezione agli antipodi della “chiesa di popolo” di Papa Francesco. La seconda ragione deprimente è vista nelle Sfide della società secolare e post-secolare che spinge alla dittatura del relativismo circa la verità e i valori della vita. Dall’insieme scaturisce la terza pericolosa ragione affermata come Una concezione ristretta della fede, carente di fondazione biblica ed esposta a “processi di riduzione”. Un breve riepilogo esprime con chiarezza i motivi che fanno pensare al problematico e negativo futuro della Chiesa.

Nella terza parte sono proposte Le linee fondamentali di una forma di chiesa futura. Non sono poche né automaticamente realizzabili. Possiamo parlare di una visione di speranza motivata da una serie di riforme anche radicali (in prospettiva real-utopistica). È interessante conoscere i cinque punti della riforma che l’A. propone come i lineamenti-base della Chiesa del futuro. Eccoli in breve, secondo le parole dell’A.:

– “Essere sacramento” sarà il centro permanente della chiesa futura.

– La Chiesa del futuro sarà una piccola minoranza in rappresentanza di tutte le altre.

– La Chiesa del futuro assumerà un aspetto più “spirituale”, non come “gruppo industriale”, connotando così meglio il futuro della vita consacrata.

– La Chiesa del futuro sarà una chiesa dei laici, riconoscendo il sacerdozio comune di tutti i battezzati e la specificità del ministero sacerdotale.

– La Chiesa del futuro assumerà un’altra forma sociale, con nuove forme comunitarie e parrocchiali e con una diversa incidenza nelle nomine vescovili.

Fa da conclusione una citazione biblica presa dall’ avvenimento dell’esodo: Levate l’accampamento e dirigetevi (Dt 1,19s.). Si vuole così esprimere il “futuro della Chiesa” in una visuale per nulla facile, automatica, ma certamente positiva. Merita, infatti, notare che la parte dedicata alla Chiesa del futuro è due volte tanto la parte precedente dedicata all’odierna situazione della chiesa. Non è un caso che l’A. non usi mai la parola “crisi”, semmai fa risuonare la parola “speranza”. Appare così adombrata la figura del cammino sinodale oggi proposto, che esprime bene il desiderio non tanto nascosto dell’Autore.


Collana: Giornale di teologia 456
ISBN: 978-88-399-3456-7 
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 312
Titolo originale: Kirche wohin? Ein real-utopischer Blick in die Zukunft
© 2023

In breve

«Qui non mi occupo di “leggere il futuro nei fondi di caffè”, di indovinare le condizioni e prevedere la forma ventura della chiesa, di fanstasticare su come essa dovrebbe apparire. L’oggetto a cui mirano le mie riflessioni è, in fondo, il presente della chiesa».

Descrizione

La Chiesa cattolica sta attraversando una fase di radicale indebolimento e di ricostruzione. Ai suoi vertici non sono pochi coloro che si propongono di “salvare il salvabile”: si aggrappano a quel che ancora regge, puntando gli occhi sul passato, con un misto di nostalgia e rassegnazione.
Greshake chiede, invece, di ricominciare da capo, attuando un rinnovamento assolutamente più profondo, radicale, sostanziale. Il teologo tedesco rivendica con fermezza una «real-utopia» ecclesiale, in cui l’agire sia orientato non a preservare il passato tramandatoci, ma a immaginare il futuro promessoci. Egli scopre e fa emergere quelle tendenze che già oggi sono proiettate sul domani, prefigurandolo, ed elabora alcune linee guida di una Chiesa a venire che sia capace di reinventarsi. È la visione di una Chiesa che, in quanto minoranza, prende di nuovo coscienza del suo mandato e della sua forma vitale, una Chiesa dei laici, una Chiesa spirituale con una mutata forma sociale.
Proposte pertinenti, coraggiose, efficaci per affrontare la crisi odierna, senza cedere al pessimismo, ma adottando sempre uno sguardo positivo.

PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

Lectio – Anno A

Prima lettura: Malachia 3,1-4

          Così dice il Signore Dio: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia. Allora l’offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani».         
  • Malachia, che in ebraico significa «messaggero del Signore», è il profeta che annuncia «il giorno del Signore» (cioè della sua venuta e del suo giudizio di salvezza o di condanna) e che ravviva la speranza messia­nica. Il Messia va atteso con le migliori disposizioni. Il suo avvento e l’incontro con lui vanno preparati. Malachia esprime tutto ciò attraverso le immagini del «preparare la via», del «fuoco» che purifica e «dell’oro e dell’argento affinati».

«Preparare la via» è un tema caro ai profeti. Il secondo Isaia (cc. 40-55) esorta il popolo biblico ad avere fiducia in JHWH, perché egli aprirà a Israele una strada nel deserto per facilitarne il ritorno nella terra promessa dopo l’esilio babilonese. E anche un tema caro ai Vangeli sinottici, che vedono nel Battista colui che «prepara» (con la sua predi­cazione e il suo severo stile di vita) la strada al Messia che viene. Il messaggio di questa immagine è chiaro: per incontrare il Messia occorre convertirsi, cambiare stile di vita, assumere comportamenti e atteggia­menti ispirati alla Parola del Signore, che orienta tutta la vita del cre­dente.

L’immagine del «fuoco» esprime un duplice significato: da una parte esso è il simbolo della presenza di Dio, che illumina e riscalda l’uomo e il suo mondo; dall’altra esprime, con la forza intensa del suo calore, l’incapacità dell’uomo di stare davanti a Dio, quasi venisse respinto dal suo fulgore a motivo della propria indegnità («Chi resisterà al suo ap­parire?»).

L’affinamento dell’oro e dell’argento indica, nel suo simbolismo, il processo di purificazione e di conversione che la Parola di Dio sa operare nel cuore dell’uomo. I peccati, i vizi, le incorrispondenze, le chiusure dell’uomo sono tanti, ma la Parola di Dio come ha la forza di denunciarli, così sa anche eliminarli e annientare come scorie, per far apparire la luminosità dell’uomo che sa vivere secondo Dio.

Il brano si conclude con il richiamo all’«oblazione secondo giusti­zia». Questo è un richiamo frequente nei Profeti. L’uomo che si converte, che prepara la via al Signore, che accoglie il programma di vita a lui offerto dalla Parola di Dio, che agisce per amore e respinge ogni egoismo è veramente in grado di offrire un culto e una preghiera graditi a Dio.

Seconda lettura: Ebrei 2,14-18

      Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita. Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.      
  • La lettera agli Ebrei è una intensa omelia che intende rafforzare nei credenti la fiducia verso il Signore Gesù che, nella sua umanità, è stato in tutto solidale con noi, e, nella sua divinità, ha il potere di vincere tutto il male e tutte le angosce del credente. Secondo l’autore di questo scritto il culmine della solidarietà con la condizione dell’uomo si ha nell’accet­tazione, da parte di Gesù, della morte stessa. Ciò lo ha reso «in tutto simile ai fratelli». È con la sua morte, infatti, che Gesù libera anche noi dalla paura della morte, dalla schiavitù di dover morire, perché con la Pasqua essa non è più un non senso o un qualcosa di fatale e ineludibile, ma è superata e trasformata dalla risurrezione.

Secondo l’autore, inoltre, Gesù incarna l’ideale del «sommo sacer­dote». Questa figura, centrale in Israele, trova la sua pienezza in Gesù, perché la sua morte ha espiato il peccato del mondo definitivamente (mentre in Israele l’espiazione con il sangue degli animali e con i loro sacrifici non era in grado di espiare definitivamente) e perché nella sua sola persona di Sacerdote-Crocifisso-Risorto avviene il vero culto gradito a Dio.

I credenti, perciò, devono dare piena fiducia a Cristo Gesù: egli è in tutto solidale con loro e, solamente sapendosi inserire nella sua persona glorificata, è possibile rendere a Dio il culto più gradito e perfetto.

Vangelo: Luca 2,22-40    

         Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
 

Esegesi

Nel suo contesto storico il brano evangelico è da collocare nella tradizione religiosa della famiglia ebraica. Come tutte le madri, anche Maria obbedisce alla prescrizione biblica che imponeva un rito di puri­ficazione, dopo 40 giorni dal parto. Infatti si legge in Lv 12,2-5: «Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà im­monda per sette giorni. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatrè giorni a purificarsi del suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma se partorisce una femmina sarà immonda due settimane… resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue».

Questo rito è da collegare alla mentalità degli antichi, i quali vede­vano nel parto qualcosa che produceva un impedimento (non morale, ma rituale) al culto.

Al rito della purificazione seguiva il riscatto del primogenito. Se­condo la fede biblica il figlio primogenito era ritenuto proprietà di Dio; i genitori lo «riscattavano» con un sacrificio di un agnello o con l’offerta di una coppia di tortore o giovani colombi, se poveri (Lv 12,6.8: «Quando i giorni della sua purificazione per un figlio o una figlia saranno compiuti, porterà al sacerdote, all’ingresso della tenda del convegno un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacri­ficio di espiazione. Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espia­torio»). Così potevano considerare il figlio come loro proprietà (Es 13,12- 13: «Tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore… Riscatterai ogni primogenito dell’uomo tra i suoi figli»).

Applicato a Gesù il termine «primogenito» (protòtokos in greco; mentre Giovanni usa l’inequivocabile monoghenés, «unigenito») non deve far pensare che Maria abbia avuto altri figli, ma rimanda alla grande considerazione che la tradizione ebraica ha per il figlio che avrebbe continuato il nome dei genitori e garantito l’inserimento della famiglia nella linea delle promesse e delle benedizioni messianiche.

Nel contesto del Vangelo di Luca, questo brano è da leggere alla luce di alcuni temi che caratterizzano il terzo evangelista.

Innanzitutto il tempio. Gesù viene offerto da piccolo nel tempio, anticipando così la sua continua offerta al Padre, compiendone sempre la volontà. Poi Gerusalemme, intesa non tanto come luogo geografico, ma come «luogo» della salvezza definitiva, punto di arrivo del nuovo esodo compiuto da Gesù. Vi è inoltre il tema dello Spirito Santo che, nel Vangelo di Luca e negli Atti, è la guida della storia della salvezza e il vero protagonista dei momenti che più la caratterizzano (come i gesti e le parole di Simeone e Anna). E infine il tema della croce. Il Bambino che entra nel tempio è già il Crocifisso e il Risorto, che addita ai discepoli e a Maria per prima la via della croce, del sacrificio e della rinuncia, per entrare nella vita che nasce dalla Pasqua.

Meditazione

La prima lettura dà uno spunto molto importante per leggere in profondità il mistero della Presentazione al tempio di Gerusalemme del Bambino Gesù, da parte di Maria e Giuseppe, in ossequio ai canoni della Legge di Mosè. Il testo, preso dal libro di Malachia, dice: «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate». Dall’insieme dei Vangeli, noi sappiamo bene chi è il Precursore che Dio ha inviato davanti a Sé per preparare la via: è san Giovanni Battista, del quale sappiamo anche che nacque sei mesi prima di Gesù. Mettendo insieme questi dati evangelici, noi comprendiamo le parole di Malachia in questo modo: il Signore Dio preannuncia che verrà tra noi e che, prima di ciò, manderà un Precursore che gli prepari la via. Siccome tra la nascita di Giovanni e di Gesù trascorrono solo sei mesi, è chiaro che nell’oracolo profetico si dica che subito dopo il Precursore, verrà il Signore stesso. Così, subito dopo la venuta del Battista, Dio è entrato nel suo tempio. Ecco quanto è avvenuto nel giorno della Presentazione al tempio di Gesù. Il Dio fatto uomo entra nel tempio, si rende disponibile a coloro che proprio in quel tempio lo cercavano.

Il Vangelo del giorno ci mette davanti diversi personaggi ed avvenimenti e, con ciò stesso, fornisce numerosi insegnamenti e propone temi per l’ulteriore riflessione. Innanzitutto appaiono Maria e Giuseppe, che rispettano i doveri legali prescritti da Mosè. Il loro sacrificio è quello previsto per i poveri: due tortore o due colombi.

Appaiono anche Simeone ed Anna, due venerandi anziani, dediti alla preghiera ed al digiuno, i quali proprio per questo loro spirito fortemente religioso sono capaci di riconoscere il Messia. In questo senso, possiamo vedere nella Presentazione di Gesù al tempio quasi un prolungamento della Giornata pro orantibus, che si celebra nel giorno della Presentazione di Maria (21 novembre), Giornata in cui la Chiesa manifesta la propria gratitudine a tutti coloro che nella Comunità si dedicano in maniera privilegiata al ministero della preghiera, con particolare distinzione per le vocazioni religiose e di vita contemplativa. Anche la Presentazione di Gesù al tempio ci ricorda, nelle figure dei due pii vegliardi, che la preghiera e la contemplazione non sono affatto una perdita di tempo, un ostacolo alla carità. Al contrario, non c’è tempo speso meglio di quello trascorso in preghiera, come non c’è una vera carità cristiana che non sia conseguenza di una solida vita interiore. Solo chi prega e fa penitenza, come Simeone ed Anna, è aperto al soffio dello Spirito: sa riconoscere perciò il Signore in qualunque circostanza Egli si manifesti, perché possiede un più ampio sguardo interiore e impara ad amare con il cuore di Colui il cui nome è Carità!

Infine, il Vangelo valorizza la profezia di Simeone sulla sofferenza di Maria. San Giovanni Paolo II insegna a questo proposito che «quello di Simeone appare come un secondo annuncio a Maria, poiché le indica la concreta dimensione storica nella quale il Figlio compirà la sua missione, cioè nell’incomprensione e nel dolore» (Redemptoris Mater, n. 16). L’annuncio dell’arcangelo era stato fonte di indicibile gioia, perché riguardava la regalità messianica di Gesù e il carattere sovrannaturale del suo concepimento verginale. L’annuncio dell’anziano nel tempio, invece, parla dell’opera della redenzione, che il Signore compirà associando a Sé, nel suo dolore come già nella sua nascita umana, la Madre sua. La dimensione mariana di questa festa è dunque molto forte, motivo per cui nel calendario liturgico della «forma straordinaria» del Rito Romano essa viene indicata come Purificazione della Beata Vergine Maria, dicitura che mette in evidenza l’altro aspetto della Presentazione, consistente nella purificazione rituale delle donne ebree dopo il parto. Nel caso di Maria, tale purificazione, per Lei non necessaria, indica il rinnovamento della sua offerta totale al piano di Dio.

Simeone, nel suo oracolo profetico, annuncia anche che Cristo sarà segno di contraddizione. In una sua omelia (cf. PG 77, 1044-1049), san Cirillo di Alessandria interpreta le parole del santo anziano in questo modo: «Per “segno di contraddizione” intende la nobile croce, come scrive il sapientissimo Paolo: “Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23) […] Ed è segno di contraddizione nel senso che in quelli che si perdono appare come follia, mentre in quelli che riconoscono la sua potenza si rivela salvezza e vita».

La festa della Presentazione nella liturgia attuale

Secondo le indicazioni del Vangelo, allo scadere del quarantesimo giorno dopo Natale, la Chiesa celebra oggi la Festa della Presentazione di Gesù al Tempio. Per molti secoli essa era dedicata alla Purificazione di Maria. Ma la riforma liturgica l’ha ricondotta al suo significato origina­rio, sottolineando l’aspetto cristologico.

Luca racconta: «Quando furono compiuti i giorni della loro purifica­zione, portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore» (Lc 2,22). La legge prescriveva, insieme, la purificazione della donna, che aveva dato alla luce un bambino, e l’offerta del bambino, introducendolo nel Tempio del Signore. Quando si trattava del primogenito, era pre­scritto anche un riscatto, con il versamento di cinque sicli d’argento. In tale circostanza era d’obbligo anche un sacrificio a Dio con l’offerta di un agnello di un anno e di una colomba o una tortora, ovvero, per i più poveri, di due colombe, come fece Maria.

La legge non prescriveva la presenza del Bambino. Nel racconto di Luca, invece, Gesù e sua Madre appaiono strettamente congiunti. Egli unisce ambedue nel rito. Tuttavia, invece di descrivere il rito della puri­ficazione, Luca parla della Presentazione del Bambino Gesù e del gesto compiuto per il suo riscatto.

Questa Presentazione ha un significato liturgico e comporta una offerta sacrificale, che aveva il significato di una consacrazione attraverso uno spogliamento. Dunque con il rito del riscatto e dell’offerta per il sacrificio, Maria presenta Gesù al Tempio in quanto lo offre e lo consacra a Dio, spogliandosi dei suoi diritti di proprietà materna sul Figlio (Thu­rian).

Perciò la purificazione, di cui parla Luca e che interessava non solo Maria, ma anche il Figlio, voleva esprimere non tanto la purificazione da una impurità — di cui Maria non aveva bisogno — ma la donazione a Dio, che assumeva l’aspetto di una offerta sacrificale di Gesù tramite la Madre, e coinvolgeva anche Lei.

Il significato profetico svelato nell’incontro con Simeone

Gli incontri, che Luca descrive in questa circostanza all’interno del Tempio, vogliono proiettare una luce su tutto l’evento. I personaggi intro­dotti nella scena sono Simeone, giusto e timorato ad Dio, a Anna fedele nella sua lunga vedovanza alla memoria del marito e dedita alla pre­ghiera e al digiuno.

Questi due spiriti eletti sono in attesa della «consolazione di Israele e della «redenzione di Gerusalemme», cioè del Messia Salvatore. L’attesa o appuntamento era nel Tempio del Signore. Di lui, infatti, Malachia aveva presagito l’ingresso nel Tempio per purificare i sacrifici dei sacer­doti e rendere gradite le loro offerte «secondo giustizia» (cf. Mal 3,1-4; I Lett.). Simeone ed Anna, benché carichi d’anni, sono anime intatte nella fede e colme di speranza.

Simeone aveva avuto assicurazione «che non avrebbe varcato la morte senza prima avere visto li Messia del Signore». Essi erano dotati del carisma profetico, cioè possedevano lo Spirito in sovrabbondanza, quasi a coronamento di una esistenza intensa e sovrabbondante di pietà.

Proprio nel momento in cui Maria e Giuseppe presentano il Bam­bino Gesù nel Tempio, lo Spirito Santo muoveva loro incontro nella persona del santo Simeone. Egli prende in braccio il Bambino e, grato al Signore, esprime i suoi sentimenti in un breve Cantico per dare un sereno addio alla vita, nella esultanza della meta raggiunta.

Saluta il Sole che sorge all’orizzonte del mondo, pago di vederlo spuntare. Questo Sole era Gesù. Il Bambino, che stringe tra le braccia, è la luce di tutti i popoli e la gloria di Israele che gli ha dato i natali. Egli delinea l’identità di quel Bambino e fa intravvedere la sua missione. Le sue parole sono rivelative di un mistero nascosto. Perciò Maria e Giu­seppe restano impressionati e stupiti.

La meraviglia cresce quando Simeone si rivolge in particolare alla Madre per predirgli la sorte del Figlio. Dice: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).

Gesù è pietra di contraddizione, al cui urto «i pensieri di molti cuori saranno rivelati». Dinanzi a Cristo, cioè, gli uomini dovranno prendere posizione, con Lui o contro di Lui: per chi lo respinge, diventa pietra di inciampo e di rovinosa caduta; per chi lo accoglie, diventa sostegno e principio di salvezza e di vita.

Le parole del profeta, a questo punto, diventano significative e am­monitrici anche per noi. La presenza di Cristo impegna l’uomo in ma­niera decisiva. Non si può rimanere indifferenti o neutrali. Il dono viene offerto, ma non imposto. Ognuno deve decidersi, andando incontro alle inevitabili conseguenze di tale accoglienza o rifiuto. Gesù è segno di contraddizione in quanto oggetto di contraddizione, cioè infinitamente amato, ovvero infinitamente odiato. Simeone annuncia profeticamente un futuro di opposizione e quindi di sofferenza e di morte. In ciò è coinvolta anche la Madre «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35).

Così, fin dagli inizi della sua esistenza, è delineato il dramma salvi­fico del futuro doloroso e glorioso di Cristo. Maria è presente e ne partecipa.

Il nostro coinvolgimento al dramma salvifico di Cristo

La festa odierna si pone tra il Natale e la Pasqua, e vuole farci comprendere il senso della sua venuta tra noi. Egli viene ed è ricono­sciuto e accolto. A riconoscerlo sono Simeone e Anna, e i loro cuori esultano di gioia. In questi due personaggi ci siamo tutti noi e la gioia di tutta la Chiesa. Ma l’incontro con Cristo non è ancora definitivo. La vita del cristiano è un itinerario salvifico in cui si operano continuamente altri incontri. Essi avvengono nella nostra storia e vicenda umana, nella quale la presenza del peccato non è mai completamente superata. Perciò la venuta del Signore fa esplodere le contraddizioni della nostra esistenza cristiana.

Il Signore è luce e rivela in profondità le nostre situazioni, facendo emergere le nostre concessioni al male e svelando i nostri continui com­promessi e ambiguità. Perciò le contraddizioni si nascondono nella nostra vita e noi rimaniamo delusi e spesso irritati. Le cose non vanno come noi ci attendiamo e gli uomini ci deludono. Siamo, quindi, portati a formu­lare giudizi di condanna contro la vita; diciamo che essa non è giusta e ci rammarichiamo di tutto. Questo giudizio coinvolge Dio, la religione, la fede, Cristo. Vi proiettiamo le contraddizioni e le incoerenze nella vita cristiana di cui facciamo esperienza.

Difronte alla confusione, alle difficoltà e alle ambiguità del nostro esistere, si svelano allora i nostri segreti pensieri. In effetti, se noi ci lasciassimo portare da Cristo, la fede rimarrebbe una forza che ci con­sentirebbe di accettare e di sperare oltre le nostre vedute umane. Ci accorgeremmo, allora, che il torto risiede in noi; e questo perché siamo miopi, interessati, egoisti … Ci manca lo Spirito del Signore e la decisione necessaria per dire un sì totale a Cristo e consegnarci a Lui nell’atteggia­mento di fiducia incondizionata che salva e rinnova.

La giornata delle anime consacrate

La festa della Presentazione è la giornata delle anime consacrate, cioè di coloro che hanno avuta una vocazione particolare nella sequela del Signore. Affascinate dalla sua luce, sono andate incontro a Lui tenendo in mano la fiaccola vibrante della fede, e hanno varcato la soglia del Tempio, accompagnando Gesù a distanza ravvicinata per vivere identifi­cati a Lui, in un totale e irrevocabile consacrazione. Esse si sono impe­gnate, in maniera originale, a donarsi al suo amore e all’amore dei fra­telli.

Don Bosco commenta il Vangelo

Presentazione di Gesù al tempio

Don Bosco raccomanda di offrire i figli a Dio

Nel quarto mistero gaudioso del rosario, insegna il Giovane provveduto, “si contempla come la Vergine Santa presentò Cristo Nostro Signore nel tempio nelle braccia del vecchio Simeone” (OE2 289). Con più dettagli e spiegazioni l’evento della Presentazione viene narrato nella Vita di S. Giuseppe:

Avvicinavasi il quarantesimo giorno dalla nascita del Santo Bambino. La legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito venisse portato al tempio per essere offerto a Dio e quindi consacrato, e per essere purificata la madre. Giuseppe in compagnia di Gesù e di Maria moveva verso Gerusalemme per compiere la prescritta cerimonia. Offrì due tortorelle in sacrificio e pagò cinque sicli d’argento (OE17 324s).

Accettando di consegnare il Bambino nelle braccia di Simeone, Maria manifesta la sua intenzione di offrirlo a Colui a cui il Bambino appartiene. È quella l’interpretazione che don Bosco suggerisce quando scrive nella Storia ecclesiastica: “Toccando Gesù i quaranta giorni, fu da Maria presentato nel tempio fra le braccia del vecchio Simeone” (OE1 181). Simeone lo accolse e benedisse Dio.

Nella Storia sacra, don Bosco mette in evidenza l’immensa gioia di Simeone nel ricevere Gesù tra le braccia: “Come lo ebbe tra le braccia provò tale piena di gioia che esclamò: Ora lascia, o Signore, che il tuo servo se ne muora in pace, poiché i miei occhi hanno veduto il Salvatore da te inviato” (OE3 161).

Giuseppe e Maria sono un modello per i genitori che vogliono offrire i loro figli a Dio. Nel Cattolico provveduto troviamo questa “preghiera di un padre e di una madre pei loro figlioli”:

Io vi ringrazio, Dio mio, di avermi concesso dei figliuoli, affinché siano l’appoggio e la consolazione della mia vecchiaia. Santificate, o Signore, l’amore che loro io porto, concedendomi la grazia di non amarli che in Voi e per Voi, cioè unicamente in riguardo all’eterna loro salute.

Io ve li presento adunque e ve li offro come la santa Vergine già offrì nel tempio il suo amatissimo Figlio Gesù, sottomettendosi interamente alla vostra volontà adorabile a riguardo di lui.

Come lei sottometto io pure il cuor mio a tutti gli ordini della divina Provvidenza sopra di loro, pregandovi di benedirli, di versare sopra del loro capo ogni più squisito favore.

Disponeteli, o Signore, secondo lo stato, a cui nella vostra sapienza e misericordia infinita li avete destinati per la loro salute. Voi siete il loro primo principio, voi l’ultimo loro fine; ordinate di loro come vi piace.

Io mi sottopongo ad ogni sacrificio, a qualsiasi pena, purché si procacci il loro bene. Io non vi domando per essi grandi beni di fortuna; solamente se osassi chiedervi qualche cosa per loro vita temporale, vi domanderei ad esempio di Salomone una modesta facoltà, che li preservasse dai pericoli della ricchezza, e da quelli della miseria.

Quello poi che per essi specialmente vi chiedo, o Dio mio, è il vostro regno, la vostra giustizia.

Conservate la loro anima in tutta la bellezza di cui l’avete adorna nel santo battesimo; vegliate sopra di essi a fine di preservarli dai pericoli, ai quali viene esposta la loro innocenza; proteggeteli contro i funesti esempi e massime del mondo; conservateli sempre nella vostra grazia, nella vostra amicizia.

Non permettete, o mio Signore, che le mie azioni smentiscano questa mia preghiera (OE19 623s).

Anche Margherita, la madre di Giovanni Bosco, ha compiuto un gesto simile. Prima della sua partenza per il seminario fece al figlio un “memorando discorso” nel quale disse al figlio: “Quando sei venuto al mondo ti ho consacrato alla Beata Vergine” (MO 103).

Dopo aver raccontato il sogno che aveva avuto verso le nove anni, Margherita sembrava aver già intuito il futuro del figlio che aveva consacrato alla nascita. Infatti, mentre gli altri membri della famiglia davano la loro interpretazione, ella disse quasi con tono profetico: “Chi sa che non abbi a diventar prete” (MO 63). Per don Bosco, essere sacerdote voleva dire essere al servizio di Dio e della Chiesa, nuovo tempio di Dio.

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

Immagine della domenica

COLONNATO DI SAN PIETRO (ROMA)    –    2020   

«Dobbiamo stare disinteressatamente tra gli uomini,

per poter accendere per essi una luce.

Dobbiamo diventare ancora molto più silenziosi

in mezzo al frastuono generale, per poter scoprire

coloro che sono disposti ad ascoltare».

(J. Wanke, Communio un Missio, 23)


Casella di testo: Malachia 3,1-4
Ebrei 2,14-18
Luca 2,22-40   

Nel Vangelo l’evangelista Luca descrive un duplice atteggiamento: atteggiamento di movimento e atteggiamento di stupore.
Il primo atteggiamento è il movimento. Maria e Giuseppe si incamminano verso Gerusalemme; da parte sua, Simeone, mosso dallo Spirito, si reca al tempio, mentre Anna serve Dio giorno e notte senza sosta. In questo modo i quattro protagonisti del brano evangelico ci mostrano che la vita cristiana richiede dinamismo e richiede disponibilità a camminare, lasciandosi guidare dallo Spirito Santo. L’immobilismo non si addice alla testimonianza cristiana e alla missione della Chiesa. Il mondo ha bisogno di cristiani che si lasciano smuovere, che non si stancano di camminare per le strade della vita, per recare a tutti la consolante parola di Gesù. 

Il secondo atteggiamento con cui San Luca presenta i quattro personaggi del racconto è lo stupore. Maria e Giuseppe «si stupivano delle cose che si dicevano di lui [di Gesù]» (v. 33). Lo stupore è una reazione esplicita anche del vecchio Simeone, che nel Bambino Gesù vede con i suoi occhi la salvezza operata da Dio in favore del suo popolo: quella salvezza che lui aspettava da anni. E la stessa cosa vale per Anna, che «si mise anche lei a lodare Dio» (v. 38) e ad andare ad indicare alla gente Gesù. Questa è una santa chiacchierona, chiacchierava bene, chiacchierava di cose buone, non cose brutte. Diceva, annunciava: una santa che andava da una all’altra donna facendo loro vedere Gesù. Queste figure di credenti sono avvolte dallo stupore, perché si sono lasciate catturare e coinvolgere dagli avvenimenti che accadevano sotto i loro occhi. La capacità di stupirsi delle cose che ci circondano favorisce l’esperienza religiosa e rende fecondo l’incontro con il Signore. Al contrario, l’incapacità di stupirci rende indifferenti e allarga le distanze tra il cammino di fede e la vita di ogni giorno. Fratelli e sorelle, in movimento sempre e lasciandoci aperti allo stupore!
(Papa Francesco)

Preghiere e racconti

La Presentazione del Signore e la Giornata mondiale della vita consacrata

Teniamo davanti agli occhi della mente l’icona della Madre Maria che cammina col Bambino Gesù in braccio. Lo introduce nel tempio, lo introduce nel popolo, lo porta ad incontrare il suo popolo. Le braccia della Madre sono come la “scala” sulla quale il Figlio di Dio scende verso di noi, la scala dell’accondiscendenza di Dio. Lo abbiamo ascoltato nella prima Lettura, dalla Lettera agli Ebrei: Cristo si è reso «in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede» (2,17). E’ la duplice via di Gesù: Egli è sceso, si è fatto come noi, per ascendere al Padre insieme con noi, facendoci come Lui.

Possiamo contemplare nel cuore questo movimento immaginando la scena evangelica di Maria che entra nel tempio con il Bambino in braccio. La Madonna cammina, ma è il Figlio che cammina prima di Lei. Lei lo porta, ma è Lui che porta Lei in questo cammino di Dio che viene a noi affinché noi possiamo andare a Lui.

Gesù ha fatto la nostra stessa strada per indicare a noi il cammino nuovo, cioè la “via nuova e vivente” (cfr Eb 10,20) che è Lui stesso. E per noi, consacrati, questa è l’unica strada che, in concreto e senza alternative, dobbiamo percorrere con gioia e perseveranza.

Il Vangelo insiste ben cinque volte sull’obbedienza di Maria e Giuseppe alla “Legge del Signore” (cfr Lc 2,22. 23. 24. 27. 39). Gesù non è venuto a fare la sua volontà, ma la volontà del Padre; e questo – ha detto – era il suo “cibo” (cfr Gv 4, 34). Così chi segue Gesù si mette nella via dell’obbedienza, imitando l’“accondiscendenza” del Signore; abbassandosi e facendo propria la volontà del Padre, anche fino all’annientamento e all’umiliazione di sé stesso (cfr Fil 2,7-8). Per un religioso, progredire significa abbassarsi nel servizio, cioè fare lo stesso cammino di Gesù, che «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2,6). Abbassarsi facendosi servo per servire.

E questa via prende la forma della regola, improntata al carisma del fondatore, senza dimenticare che la regola insostituibile, per tutti, è sempre il Vangelo. Lo Spirito Santo, poi, nella sua creatività infinita, lo traduce anche nelle diverse regole di vita consacrata che nascono tutte dalla sequela Christi, e cioè da questo cammino di abbassarsi servendo.

Attraverso questa “legge” i consacrati possono raggiungere la sapienza, che non è un’attitudine astratta ma è opera e dono dello Spirito Santo. E segno evidente di tale sapienza è la gioia. Sì, la letizia evangelica del religioso è conseguenza del cammino di abbassamento con Gesù… E, quando siamo tristi, ci farà bene domandarci: “Come stiamo vivendo questa dimensione kenotica?”.

Nel racconto della Presentazione di Gesù al Tempio la sapienza è rappresentata dai due anziani, Simeone e Anna: persone docili allo Spirito Santo (lo si nomina 3 volte), guidati da Lui, animati da Lui. Il Signore ha dato loro la sapienza attraverso un lungo cammino nella via dell’obbedienza alla sua legge. Obbedienza che, da una parte, umilia e annienta, però, dall’altra accende e custodisce la speranza, facendoli creativi, perché erano pieni di Spirito Santo. Essi celebrano anche una sorta di liturgia attorno al Bambino che entra nel Tempio: Simeone loda il Signore e Anna “predica” la salvezza (cfr Lc 2,28-32.38).

Come nel caso di Maria, anche l’anziano Simeone prende il bambino tra le sue braccia, ma, in realtà, è il bambino che lo afferra e lo conduce. La liturgia dei primi Vespri della Festa odierna lo esprime in modo chiaro e bello: «senex puerum portabat, puer autem senem regebat». Tanto Maria, giovane madre, quanto Simeone, anziano “nonno”, portano il bambino in braccio, ma è il bambino stesso che li conduce entrambi.

È curioso notare che in questa vicenda i creativi non sono i giovani, ma gli anziani. I giovani, come Maria e Giuseppe, seguono la legge del Signore sulla via dell’obbedienza; gli anziani, come Simeone e Anna, vedono nel bambino il compimento della Legge e delle promesse di Dio. E sono capaci di fare festa: sono creativi nella gioia, nella saggezza. Tuttavia, il Signore trasforma l’obbedienza in sapienza, con l’azione del suo Santo Spirito.

A volte Dio può elargire il dono della sapienza anche a un giovane inesperto, basta che sia disponibile a percorrere la via dell’obbedienza e della docilità allo Spirito. Questa obbedienza e questa docilità non sono un fatto teorico, ma sottostanno alla logica dell’incarnazione del Verbo: docilità e obbedienza a un fondatore, docilità e obbedienza a una regola concreta, docilità e obbedienza a un superiore, docilità e obbedienza alla Chiesa. Si tratta di docilità e obbedienza concrete.

Attraverso il cammino perseverante nell’obbedienza, matura la sapienza personale e comunitaria, e così diventa possibile anche rapportare le regole ai tempi: il vero “aggiornamento”, infatti, è opera della sapienza, forgiata nella docilità e obbedienza. Il rinvigorimento e il rinnovamento della vita consacrata avvengono attraverso un amore grande alla regola, e anche attraverso la capacità di contemplare e ascoltare gli anziani della Congregazione. Così il “deposito”, il carisma di ogni famiglia religiosa viene custodito insieme dall’obbedienza e dalla saggezza.

E, attraverso questo cammino, siamo preservati dal vivere la nostra consacrazione in maniera light, in maniera disincarnata, come fosse una gnosi, che ridurrebbe la vita religiosa ad una “caricatura”, una caricatura nella quale si attua una sequela senza rinuncia, una preghiera senza incontro, una vita fraterna senza comunione, un’obbedienza senza fiducia e una carità senza trascendenza.

Anche noi, oggi, come Maria e come Simeone, vogliamo prendere in braccio Gesù perché Egli incontri il suo popolo, e certamente lo otterremo soltanto se ci lasciamo afferrare dal mistero di Cristo. Guidiamo il popolo a Gesù lasciandoci a nostra volta guidare da Lui. Questo è ciò che dobbiamo essere: guide guidate.

Il Signore, per intercessione di Maria nostra Madre, di San Giuseppe e dei Santi Simeone e Anna, ci conceda quanto gli abbiamo domandato nell’Orazione di Colletta: di «essere presentati [a Lui] pienamente rinnovati nello spirito». Così sia.

(Papa Francesco, Omelia, 2015).

Presentazione del Signore

Quaranta giorni dopo Natale celebriamo il Signore che, entrando nel tempio, va incontro al suo popolo. Nell’Oriente cristiano questa festa è detta proprio “Festa dell’incontro”: è l’incontro tra il Dio bambino, che porta novità, e l’umanità in attesa, rappresentata dagli anziani nel tempio. Nel tempio avviene anche un altro incontro, quello tra due coppie: da una parte i giovani Maria e Giuseppe, dall’altra gli anziani Simeone e Anna.

Gli anziani ricevono dai giovani, i giovani attingono dagli anziani. Maria e Giuseppe trovano infatti nel tempio le radici del popolo, ed è importante, perché la promessa di Dio non si realizza individualmente e in un colpo solo, ma insieme e lungo la storia. E trovano pure le radici della fede, perché la fede non è una nozione da imparare su un libro, ma l’arte di vivere con Dio, che si apprende dall’esperienza di chi ci ha preceduto nel cammino.

Così i due giovani, incontrando gli anziani, trovano sé stessi. E i due anziani, verso la fine dei loro giorni, ricevono Gesù, senso della loro vita. Questo episodio compie così la profezia di Gioele: «I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni» (3,1). In quell’incontro i giovani vedono la loro missione e gli anziani realizzano i loro sogni. Tutto questo perché al centro dell’incontro c’è Gesù.

Guardiamo a noi, cari fratelli e sorelle consacrati. Tutto è cominciato dall’incontro col Signore. Da un incontro e da una chiamata è nato il cammino di consacrazione. Bisogna farne memoria. E se faremo bene memoria vedremo che in quell’incontro non eravamo soli con Gesù: c’era anche il popolo di Dio, la Chiesa, giovani e anziani, come nel Vangelo.

Lì c’è un particolare interessante: mentre i giovani Maria e Giuseppe osservano fedelmente le prescrizioni della Legge – il Vangelo lo dice quattro volte – e non parlano mai, gli anziani Simeone e Anna accorrono e profetizzano. Sembrerebbe dover essere il contrario: in genere sono i giovani a parlare con slancio del futuro, mentre gli anziani custodiscono il passato.

Nel Vangelo accade l’inverso, perché quando ci si incontra nel Signore arrivano puntuali le sorprese di Dio. Per lasciare che accadano nella vita consacrata è bene ricordare che non si può rinnovare l’incontro col Signore senza l’altro: mai lasciare indietro, mai fare scarti generazionali, ma accompagnarsi ogni giorno, col Signore al centro. Perché se i giovani sono chiamati ad aprire nuove porte, gli anziani hanno le chiavi.

E la giovinezza di un istituto sta nell’andare alle radici, ascoltando gli anziani. Non c’è avvenire senza questo incontro tra anziani e giovani; non c’è crescita senza radici e non c’è fioritura senza germogli nuovi. Mai profezia senza memoria, mai memoria senza profezia; e sempre incontrarsi. La vita frenetica di oggi induce a chiudere tante porte all’incontro, spesso per paura dell’altro – sempre aperte rimangono le porte dei centri commerciali e le connessioni di rete –; ma nella vita consacrata non sia così: il fratello e la sorella che Dio mi dà sono parte della mia storia, sono doni da custodire.

Non accada di guardare lo schermo del cellulare più degli occhi del fratello, o di fissarci sui nostri programmi più che nel Signore. Perché quando si mettono al centro i progetti, le tecniche e le strutture, la vita consacrata smette di attrarre e non comunica più; non fiorisce perché dimentica “quello che ha di sotterrato”, cioè le radici.

La vita consacrata nasce e rinasce dall’incontro con Gesù così com’è: povero, casto e obbediente. C’è un doppio binario su cui viaggia: da una parte l’iniziativa d’amore di Dio, da cui tutto parte e a cui dobbiamo sempre tornare; dall’altra la nostra risposta, che è di vero amore quando è senza se e senza ma, quando imita Gesù povero, casto e obbediente. Così, mentre la vita del mondo cerca di accaparrare, la vita consacrata lascia le ricchezze che passano per abbracciare Colui che resta.

La vita del mondo insegue i piaceri e le voglie dell’io, la vita consacrata libera l’affetto da ogni possesso per amare pienamente Dio e gli altri. La vita del mondo s’impunta per fare ciò che vuole, la vita consacrata sceglie l’obbedienza umile come libertà più grande. E mentre la vita del mondo lascia presto vuote le mani e il cuore, la vita secondo Gesù riempie di pace fino alla fine, come nel Vangelo, dove gli anziani arrivano felici al tramonto della vita, con il Signore tra le mani e la gioia nel cuore.

Quanto ci fa bene, come Simeone, tenere il Signore «tra le braccia» (Lc 2,28)! Non solo nella testa e nel cuore, ma tra le mani, in ogni cosa che facciamo: nella preghiera, al lavoro, a tavola, al telefono, a scuola, coi poveri, ovunque. Avere il Signore tra le mani è l’antidoto al misticismo isolato e all’attivismo sfrenato, perché l’incontro reale con Gesù raddrizza sia i sentimentalisti devoti che i faccendieri frenetici.

Vivere l’incontro con Gesù è anche il rimedio alla paralisi della normalità, è aprirsi al quotidiano scompiglio della grazia. Lasciarsi incontrare da Gesù, far incontrare Gesù: è il segreto per mantenere viva la fiamma della vita spirituale. È il modo per non farsi risucchiare in una vita asfittica, dove le lamentele, l’amarezza e le inevitabili delusioni hanno la meglio.

Incontrarsi in Gesù come fratelli e sorelle, giovani e anziani, per superare la sterile retorica dei “bei tempi passati” – quella nostalgia che uccide l’anima –, per mettere a tacere il “qui non va più bene niente”. Se si incontrano ogni giorno Gesù e i fratelli, il cuore non si polarizza verso il passato o verso il futuro, ma vive l’oggi di Dio in pace con tutti.

Alla fine dei Vangeli c’è un altro incontro con Gesù che può ispirare la vita consacrata: quello delle donne al sepolcro. Erano andate a incontrare un morto, il loro cammino sembrava inutile. Anche voi andate nel mondo controcorrente: la vita del mondo facilmente rigetta la povertà, la castità e l’obbedienza. Ma, come quelle donne, andate avanti, nonostante le preoccupazioni per le pesanti pietre da rimuovere (cfr Mc 16,3).

E come quelle donne, per primi incontrate il Signore risorto e vivo, lo stringete a voi (cfr Mt 28,9) e lo annunciate subito ai fratelli, con gli occhi che brillano di gioia grande (cfr v. 8). Siete così l’alba perenne della Chiesa: voi, consacrati e consacrate, siete l’alba perenne della Chiesa! Vi auguro di ravvivare oggi stesso l’incontro con Gesù, camminando insieme verso di Lui: e questo darà luce ai vostri occhi e vigore ai vostri passi.

(Omelia di Papa Francesco per la Festa della presentazione del signore nella XXII Giornata mondiale della vita consacrata, tenutasi presso la Basilica Vaticana, venerdì 2 febbraio 2018).

«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace»

Spiegando il senso della presentazione del Signore al tempio, S. Am­brogio (t 397) intende mettere in risalto il coinvolgimento universale del­l’umanità agli eventi dell’infanzia, per affermare che nessuno è escluso dai disegni salvifici di Dio. La figura dell’anziano Simeone e le parole che egli dice esprimono, per Ambrogio, il carattere decisivo che assume, per ogni uomo, il suo incontro col Cristo.

«La nascita del Signore non è attestata soltanto dagli angeli e dai profeti, dai pastori e dai familiari, ma anche dagli anziani e dai giusti. Tutte le età, tutt’e due i sessi, e i prodigi avvenuti ne fanno fede: una vergine diventa feconda, una sterile partorisce, un muto si mette a par­lare, Elisabetta profetizza, i magi si prostrano in adorazione, un bimbo esulta benché chiuso nel grembo, una vedova loda Dio, un giusto attende. A ragione è chiamato giusto, perché desiderava non la propria, bensì la salvezza del popolo, e, pur anelando di esser liberato dai vincoli del suo fragile corpo, aspettava di vedere il Promesso; sapeva infatti che beati sarebbero stati gli occhi, che l’avrebbero visto.

Ed esclama: «Ora lascia pure andare il tuo servo» (Lc 2,29).

Guarda questo giusto, che vedendosi rinchiuso nel carcere della terrena gravezza, desidera di partire per cominciare a essere con Cristo; «è assai meglio», infatti, «partire e essere con Cristo» (Fil 1,23). Ma chi desidera di essere lasciato andare, venga al tempio, venga in Gerusa­lemme, attenda l’Unto del Signore, prenda tra le sue mani il Verbo di Dio, lo stringa con le braccia della sua fede. Allora sarà lasciato andare, affinché, avendo veduto la vita, non veda mai più la morte.

Osserva che alla nascita del Signore si diffonde una grazia copiosa su ogni persona, mentre il dono della profezia è negato non ai giusti, ma solo a chi non ha fede. E anche Simeone profetizza che il Signore Gesù Cristo è venuto a caduta e a risurrezione di molti (cf. Lc 2,34), per vagliare i meriti dei giusti e degli iniqui, e, in qualità di giudice giusto verace, decretate la punizione o il premio, a seconda delle nostre azioni».

(Expositio in Lucam, L. II, 58-60; trad. it. di G. COPPA, Opere di Sant’Ambrogio, «Classici delle Religioni», Torino, Utet, 1969, 469-70).

La presentazione al Tempio

Certo le porte al vostro incedere

si sono aperte vibrando da sole

e strana luce si accese sugli archi:

il tempio stesso pareva più grande!

Quando si mise a cantare il vegliardo,

a salutare felice la vita,

la lunga vita che ardeva in attesa;

e anche la donna più annosa cantava!

Erano l’anima stessa di Sion

del giusto Israele mai stanco di attendere.

E lui beato che ha visto la luce

se pure in lotta già contro le tenebre.

Oh, le parole che disse, o Madre,

solo a te il profeta le disse!

Così ti chiese il cielo impaziente

pure la gioia di essergli madre.

Nemmeno tu puoi svelare, Maria,

cosa portavi nel puro tuo grembo:

or la Scrittura comincia a svelarsi

e a prender forma la storia del mondo.

(David Maria Turoldo)

La presentazione di Gesù al tempio di Giovanni Bellini

 La presentazione di Gesù al tempio dove il volto della Vergine, ritratto nella pena del primo distacco dal figlio, è semplicemente sublime.

Il veneziano Giambellino, come lo chiamavano, nato intorno al 1438 e morto nel 1516, era notissimo già al tempo suo come il “pittore delle Madonne”. Tante ne dipinse, su ispirazione o su committenza, e in tutte colpisce l’intreccio delle mani di Maria con le manine del bambino, l’eterno gioco tra madre e figlio.

Ma nella Presentazione il gioco non c’è più, il bambino sta stretto dentro le fasce come una piccola mummia, spunta solo una parte della manina che non riesce più a muoversi in cerca della madre. Maria lo stringe a sé come se non volesse lasciarlo, mentre altre mani lo stanno prendendo e sono quelle del barbuto Simeone, tra gli sguardi muti delle figure sullo sfondo.

La scena sconvolge per la sacralità e il presagio della passione. La si osserva commossi, ci si allontana a guardare altri quadri, poi si torna indietro cercando di capirla meglio e ammirarla una volta di più. Di ritorno a casa, si va a rileggere il passo del Vangelo (Lc 2,22-35) che l’ha ispirata.

L’evangelista Luca racconta che Maria e Giuseppe si recarono al tempio di Gerusalemme per l’offerta del neonato e la purificazione della madre, secondo la legge di Mosè: «Ora, c’era in Gerusalemme un uomo chiamato Simeone: era un uomo giusto e pio… Anzi, dallo Spirito Santo gli era stato rivelato che non sarebbe morto prima d’aver visto il Cristo del Signore. Andò dunque al tempio, mosso dallo Spirito; e mentre i genitori portavano il bambino Gesù, egli lo prese tra le braccia e benedì Dio dicendo:

“Ora, o Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”…».

Il vecchio Simeone riconosce in Gesù il Salvatore. Poi unisce nella stessa profezia il figlio e la madre, dicendo a Maria: «Ecco, egli è posto come segno di contraddizione, sicché una spada trapasserà la tua anima».

Molti grandi pittori hanno raffigurato l’episodio della presentazione al tempio. Nell’affresco di Giotto, Simeone ha già in braccio il bambino, mentre la madre tende le mani come per riprenderselo, timorosa di affidare ad altri la sua creatura. Andrea Mantegna, che era il cognato di Giovanni Bellini, aveva dipinto le stesse figure centrali, ma diversi i personaggi che osservano. Nell’arte di Bellini, una luce gentile accarezza i volti, la timidezza pensosa dei gesti esprime il dialogo tra la terra e il cielo. Ma la scena è illuminata soprattutto dalla bellezza di Maria, capolavoro assoluto del “pittore delle Madonne”. Ha scritto Paolo VI: «Con Maria, ci viene aperta una duplice via: la via della verità che riguarda la sua collocazione nei misteri di Cristo e della Chiesa. E una via più accessibile, anche agli umili. La definiamo la via della bellezza». 

Franca Zambonini, Il pittore delle madonne e la bellezza di Maria, in «Famiglia cristiana» (2008) 52, 130.

La Settimana con don Bosco

26 gennaio-1º febbraio

26. (Ss. Timoteo e Tito) – Timoteo fu il “ca-ro discepolo” di san Paolo (OE21 198). – Tito divenne “un modello di virtù, fedele seguace e coadiutore del nostro santo Apostolo” (OE9 201).

27. (S. Angela Merici) – Don Bosco “volle che il primo Oratorio festivo, aperto nel 1876 in Torino dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, fosse intitolato a sant’Angela Merici” (MB10 589).

28. (S. Tommaso d’Aquino) – “Sapeva sì ben nascondere l’ingegno, che il suo silenzio passava per istolidezza, e dai suoi condiscepoli egli veniva nominato il bue muto” (OE24 238s).

29. “La fede senza opere vale a niente; fac-ciamo dunque opere di fede” (OE3 340s).

30. (B. Bronislao Markiewicz) – “Il lavoro e la temperanza faranno fiorire la nostra Società” (MB10 102).

31. (S. GIOVANNI BOSCO) – “Miei cari, io vi amo tutti di cuore, e basta che siate gio-vani perché io vi ami assai” (OE2 187).

Febbraio

 1. (Commemorazione di tutti i Confratelli salesiani defunti) – “Ogni anno il giorno dopo la festa di san Francesco di Sales tutti i sacerdoti celebreranno una Messa pei soci defunti” (OE27 89).

(Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Avvento e Natale, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 94 (2013) 10, 61 pp.

– Comunità monastica SS. Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– E. Bianchi et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.

– Fernando Armelli, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– D. Ghidotti, Icone per pregare. 40 immagini di un’iconografia contemporanea, Milano, Ancora, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sussidio per il Giubileo

Per la Domenica della Parola di Dio, che si celebra il 26 gennaio, l’Ufficio Catechistico, tramite il Servizio dell’Apostolato Biblico, l’Ufficio Liturgico, l’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro e l’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto hanno preparato un Sussidio per aiutare le comunità diocesane e parrocchiali a celebrare, riflettere e pregare su un tema che solo apparentemente riguarda il passato: il Giubileo.
L’obiettivo, sottolinea nella presentazione Mons. Giuseppe Baturi, Arcivescovo di Cagliari e Segretario Generale della CEI, è “riscoprire nella meditazione della Parola di Dio il senso della libertà biblica e il fondamento solido della speranza che non delude”. “La parola d’ordine, che emerge anche dai testi di questo Sussidio, è libertà”, aggiunge Mons. Baturi evidenziando che “vari sono i soggetti che devono beneficiare di una rinnovata e forse insperata libertà nel tempo giubilare”. “Anzitutto – spiega – le persone: se qualcuno per varie ragioni è caduto in disgrazia ed è diventato schiavo, non deve restare tale per sempre. Viene il tempo in cui recuperare lo status di persona libera. Nessun errore o sciagura del passato sono da considerarsi definitivi. Ma anche la terra deve essere affrancata da ogni potenziale sfruttamento intensivo: astenersi periodicamente dalla semina significa allora ricordare ai proprietari terrieri che la terra è un dono di Dio e come tale va trattata”. Ecco allora che il Giubileo può essere “un tempo speciale, in cui porre gesti concreti di speranza per un futuro nuovo, rispettoso della dignità di tutte le creature di Dio, affrancato dalla schiavitù delle cose materiali e aperto al trascendente”.
Il Sussidio si compone di uno schema per l’animazione liturgica della Domenica della Parola, della proposta di testi biblici e di documenti magisteriali a cui si aggiungono testi teologici e opere d’arte che possono sostenere la riflessione e l’approfondimento.

21 Gennaio 2025

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 62,1-5


      
 Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia, tutti i re la tua gloria; sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te.  
  • La prima lettura è stata scelta per gli evidenti richiami al vangelo, anche qui siamo in un contesto di nozze: è celebrata Gerusalemme come sposa del Signore. Verso la fine del suo libro profetico, ad una comunità scompaginata e delusa, Isaia rivolge un messaggio di sicura consolazione. La città si presenta sfavillante nel suo splendore, dono dello sposo, vincitore sui nemici. Nel poema si sovrappongono e si fondono l’immagine solare e quella del re vittorioso nel giorno delle sue nozze. Egli prende la città-sposa come sua corona e diadema regale, secondo l’espressione di Pr 12,4: «La donna perfetta è la corona del marito».

    II re vincitore ‘trasforma’ la sua sposa, la cui nuova situazione è iscritta nel «nome nuovo». Per i semiti il nome è l’essenza stessa dell’essere, quindi Gerusalemme che riceve un nome nuovo è posta nella condizione di assumere una nuova identità. Da «devastata» e «abbandonata» si trova ad essere «mia gioia» e «sposata». Il compiacimento dello sposo denota che ora si rispecchia pienamente nella sua sposa, che egli ha creato e modellato secondo il suo gusto. La città che ritorna ad essere ‘vergine’ è stata totalmente rifatta dal suo Creatore: la situazione attuale è frutto di un amore che riabilita e rinnova nel profondo. È la novità del bello e del buono, proprio come il vino assaggiato dal maestro di tavola.

Seconda lettura: 1Corinzi 12,4-11

       Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.        
  • Nel quadro dell’odierna liturgia, la lettura paolina aiuta a ritrovare il valore della diversità dei ruoli nell’unità di intenti. Essa prima di tutto stigmatizza un modo di pensare che in un recente passato poneva in tensione dialettica e quasi in opposizione carismi e ministeri, come se il carisma fosse una particolare grazia, frutto dell’imprevedibile libertà dello Spirito e da giocare in libertà e il ministero invece qualcosa di permanente ed in connessione con gli aspetti istituzionali della Chiesa. Tale distinzione convogliava tutte le simpatie sui carismi ed ingenerava nei confronti dei ministeri un atteggiamento più o meno sottile di diffidenza. Il Concilio Vaticano II ha rimesso le cose a posto: anche nei ministeri si libera la presenza e l’azione feconda dello Spirito. Del resto Paolo, sotto la categoria dei ‘doni spirituali’ colloca un po’ tutte le grazie, sia quelle che potremmo chiamare — con termine non appropriato — estemporanee e provvisorie, sia quelle che si incarnano in un ruolo permanente.

    La riflessione sulla natura e sul ruolo dei carismi riceve una lunga e sistematica trattazione nei capp. 12-14 della prima lettera ai Corinti. Evinciamo, senza troppa difficoltà, che numerose idee distorte o confuse ottenebravano il pensiero teologico della comunità. Paolo cerca di far chiarezza e di correggere: privilegiando la dimensione appariscente dell’azione dello Spirito, vengono incrementati l’orgoglio e l’ansia di accaparramento; considerando i doni dello Spirito in chiave prevalentemente individualistica, viene lacerata la comunità; ritenendo che la pienezza della vita cristiana dipenda dal possesso di doni spettacolari, viene scardinata la scala assiologica.

    Precisato ciò, Paolo da preziose direttive:

    1. Lo fa usando tre termini — «carismi» (greco karismata), «ministeri» (greco diakoniai), «attività» (greco energeis) — per indicare non tre specie diverse dei doni dello Spirito, ma tre aspetti differenti della stessa azione: carisma indica la gratuità, ministero la destinazione comunitaria e attività la forza per costruire il regno di Dio. Si da una diversità che, nello Spirito e per lo Spirito, concorre all’unità (v. 4 e v. 11). 

    2. Tutti sono portatori di ‘carismi’ che, al v. 7, ricevono una specie di definizione. Perché vi sia carisma occorrono tre condizioni: che sia dono dello Spirito, dato all’individuo, per il bene comune. Già questo dovrebbe privare il carisma di ogni pretesa meritocratica e di ogni accaparramento egoistico.

    3. Viene proposta una lista di carismi, a puro titolo indicativo (vv. 8-10), per mostrare una varietà che alla fine va ricondotta alla libera e fantasiosa azione dello Spirito (cf. v. 11).

    Il discorso sui carismi deve essere completato anche se la lettura si interrompe a questo punto. Bisogna relativizzare il valore dei doni dello Spirito: al primo posto, in assoluto, sta l’amore. L’uomo è salvato dall’amore ed è chiamato all’amore. È questo il primo e più alto dono che Dio fa al credente che si vede trasformato in creatura nuova. È l’amore l’anima della vita cristiana e, in quanto tale, non avrà mai fine (cf. 13,1-13).

Vangelo: Giovanni 2,1-12

        In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.      

Esegesi

    Giovanni si rivela consumato narratore e raffinato teologo, capace di calibrare la presentazione di Gesù. Di lui offre una inequivocabile carta d’identità che lo situa tra cielo e terra, divina Parola eterna e uomo in mezzo agli uomini (cf. 1,1-18). Poi fa echeggiare la vibrante testimonianza del Battista che lo indica Messia e, più ancora, «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (1,29). Conclusa la fase di presentazione, inizia quella di autopresentazione. Gesù invita alla sua sequela chiamando alcuni uomini con un «venite e vedrete» che li stabilizza al suo seguito in una comunione di vita. Poi vengono esibite le credenziali, fatte di lunghi discorsi e di 7 miracoli che l’evangelista chiama sistematicamente ‘segni’ perché devono indirizzare alla comprensione della persona di Gesù. Il brano evangelico riporta il primo di questi segni, quantitativamente ridotti rispetto ai vangeli sinottici, ma scelti con cura e racchiusi nella cifra che indica una pienezza.

    Troviamo dapprima il quadro di una festa di nozze, la presenza di Maria e Gesù accompagnato dai discepoli e quindi la situazione incresciosa della mancanza di vino (vv. l-3a). Ad un certo momento Maria se ne accorge e ne rende partecipe Gesù (vv. 3b-5); questi reagisce verbalmente quasi a schermirsi, quindi compie il suo intervento prodigioso (vv. 6-8), fino a rendere il vino di ottima qualità: viene così confermato l’avvenuto miracolo (vv. 9-10). La conclusione sancisce l’avvio dell’attività taumaturgica di Gesù, richiamando i temi della gloria e della fede (v. 11). Il v. 12 apparentemente insignificante, perché sembra una semplice informazione, conferisce una valenza ‘ecclesiale’ al miracolo e mostra la presenza di molteplici persone attorno a Gesù, richiamo alle diverse funzioni nella Chiesa. 

    1. Ora e gloria di Gesù. Risulta scontato dire che il brano profuma di cristologia. Una semplice osservazione statistica rivela che il nome Gesù ritorna 6 volte e per altre 7 un aggettivo o pronome si riferisce a lui. Al di là della quantità, appare la qualità. Giovanni ha voluto rivestire di sostanziosa teologia il primo miracolo: troviamo per la prima volta il tema dell’«ora» (cf. v. 4) che rimanda al momento culminante della morte e glorificazione; non per nulla quel concetto è correlato con quello della «gloria» che chiude il brano (cf. v. 11) ed è connesso con la fede dei discepoli che credono in lui, anticipo profetico di quella promessa: «Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (12,32). La vera «ora» sarà quella della morte che disvela appieno la sua gloria, la sua vicinanza con il Padre, la capacità di offrire la vita in un atto di amore infinito. In attesa di quella manifestazione piena e definitiva, ecco alcuni disvelamenti parziali che sono i miracoli, preziose indicazioni che interrogano sulla identità più profonda di Gesù, quella che sfugge allo sguardo frettoloso e distratto. Perciò Giovanni ama chiamare i miracoli ‘segni’ perché sono come preziosi cartelli indicatori che orientano verso la comprensione piena di Gesù.

    2. Dimensione mariologica. I discepoli, per credere, hanno bisogno di vedere la sua gloria riflessa nel miracolo. Maria no. In lei la fede nel Figlio è granitica fin dall’inizio. Il suo comando ai servi «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» non fa una grinza. Maria è il secondo personaggio della pericope perché citata 4 volte e sempre come «madre» (vv. 1.3.5.12). Non si sostiene una solida mariologia se non in intimo legame con la cristologia. Ogni discorso su Maria comprende e rimanda a Cristo. È la prima volta che Giovanni cita la madre; lo farà ancora e solo una volta, al momento della crocifissione: anche in quel caso ella sarà la «madre», madre di Gesù e madre del discepolo prediletto, figura di tutta la Chiesa (cf. 19,25-27). La madre appare nel IV Vangelo all’inizio e alla fine, sempre nel contesto dell’ora, perché ella prima e più di tutti partecipa alla passione/glorificazione del Figlio. Esiste tra i due una comunione che non è priva di ‘fatica’. Anche per Maria credere è una conquista progressiva, un allinearsi non certo istintivo alla suprema volontà divina. La risposta di Gesù: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» denota un distacco che non è separazione, ma autonomia e rispetto dei ruoli. La frase, certamente forte, esprime una divergenza tra interlocutori (cf. Gdc 11,12; 2Sam 16,10), non necessariamente opposizione. La madre intercede ma non interferisce; suggerisce ma non comanda, perché Gesù agisce per decisione propria e sovrana. La sua volontà deve essere conforme solo a quella del Padre, suo criterio ultimo e decisivo di azione (cf. 4,34: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»). Nessun altro deve guidare la sua mano (anche nel caso della malattia di Lazzaro: Gesù non si reca dall’amico alla notizia della sua grave malattia, ma quando lo decide lui, cf. Gv 11,7). Maria non è risentita per quel taglio netto che ella, anzi, bene accoglie e di cui è pienamente convinta. Per questo suggella le sue parole rivolgendosi ai servi chiedendo loro di sottomettersi, come lei, in tutto e per tutto a quello che Gesù vuole.

    3. Valore del matrimonio. Il primo miracolo di Gesù avviene nel contesto di uno sposalizio: non solo Gesù vi è invitato e vi partecipa, ma pure raddrizza una festa che stava ‘deragliando’ per la mancanza di vino. È un modo insolito, certamente originale, di apprezzare e valorizzare il matrimonio. Gesù che interviene a vantaggio dei due ignari sposini intende alludere ad un’altra festa che celebra le nozze tra Dio e l’uomo, tra cielo e terra, in una rinnovata alleanza, dopo che il peccato aveva distrutto il patto tra i due, rendendo l’uomo un ‘estraneo’ di Dio, sua sbiadita e irriconoscibile immagine. Il significato del vino è ripetutamente richiamato, sia nella quantità (una stima approssimativa lo quantifica in circa 500 litri: due o tre barili — in greco: metrete, del valore di circa 40 litri l’una — in ognuna delle sei anfore, cioè almeno litri 40x2x6=480), sia nella qualità (lo riconosce il maestro di tavola che doveva essere un intenditore). Il vino era parte integrante del banchetto e questo a sua volta alludeva ad una situazione di intimità e di comunione che i profeti individuavano come caratteristica dei tempi finali, quelli della armonia di Dio con tutti gli uomini: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25,6).

Meditazione

    L’antica tradizione liturgica poneva l’accento sull’unità della manifestazione – ‘epifania’ – del Signore nei tre eventi dell’adorazione dei Magi, del Battesimo (o Teofania) presso il Giordano, del segno di Cana, dove l’acqua viene tramutata in vino. Canta ad esempio un’antifona della solennità dell’Epifania del Signore:

Tre prodigi celebriamo in questo giorno santo:

oggi la stella ha guidato i magi al presepio,

oggi l’acqua è cambiata in vino alle nozze,

oggi Cristo è battezzato da Giovanni nel Giordano

per la nostra salvezza, alleluia.

    C’è un unico oggi in cui il Signore manifesta la sua salvezza. Ce ne vengono così narrati alcuni tratti essenziali: la salvezza è per tutte le genti (l’adorazione dei Magi); consiste nel renderci partecipi della figliolanza divina nel suo Figlio Unigenito, della cui Pasqua siamo resi partecipi in virtù del battesimo (la Teofania presso il Giordano); compie definitivamente l’alleanza che già la letteratura profetica aveva più volte annunciato con il simbolo delle nozze, come ricorda la prima lettura della liturgia odierna: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4).

    Questa antica e sapiente tradizione liturgica sopravvive nel ciclo C del lezionario domenicale, che propone il segno di Cana come vangelo della II Domenica del Tempo ordinario, in continuità con la solennità dell’Epifania e con la Domenica del Battesimo. Il Tempo ordinario si salda così in modo forte con il Tempo natalizio, per mostrare come la salvezza di Dio, che in Gesù di Nazaret si è incarnata nella nostra storia, si dilati e riempia di sé le pieghe ordinarie e quotidiane della nostra vita.

    Lo stesso evangelista Giovanni, nel raccontare l’episodio apparentemente molto familiare di Cana, insiste nell’affermare che si tratta dell’inizio dei segni compiuti da Gesù, attraverso il quale egli «manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» (v. 11). È l’inizio non semplicemente perché è il primo segno di una lunga serie; piuttosto è il segno archetipo (in greco ‘inizio’ è detto con arké), tale da costituire una sorta di stampo originario che imprime la sua forma su tutti gli altri segni che seguiranno, fino alla Pasqua. Non a caso è un segno che avviene proprio a Cana, piccolo villaggio della Galilea; il significato simbolico del suo nome non sfugge però all’evangelista, che sa bene che cana in ebraico significa ‘fondare’, ‘creare’. Ciò che Gesù opera a Cana è come una nuova fondazione, che porta a compimento la creazione di Dio, riscattandola dal male che il peccato ha introdotto nella storia, e fonda davvero la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. Ora le nozze si compiono, Dio sposa l’umanità!

    Il ricco simbolismo di questa pagina giovannea evoca infatti il tema dell’alleanza. Tutto accade non in un giorno qualsiasi, ma «il terzo giorno» (v. 1 ), espressione che ci orienta in avanti, facendoci immediatamente pensare al terzo giorno della Risurrezione. Nello stesso tempo l’evangelista ci invita a guardare indietro, al terzo giorno del Sinai, quando Dio dona a Mosè le Dieci Parole dell’Alleanza che stipula con Israele: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore» (Es 19,16: così viene introdotta la Teofania che culmina, al capitolo 20, con il Decalogo). E l’alleanza, lo abbiamo già ricordato, è spesso descritta con la metafora delle nozze tra Dio e il suo popolo. Il vino stesso, che certo non può mancare a un banchetto nuziale, raccoglie in sé e simboleggia tutti i beni elargiti da Dio alla sua Sposa, in particolare il dono della Torah e della Rivelazione.

    Qui a Cana, al terzo giorno, Gesù compie definitivamente l’alleanza. Ciò che era prefigurato nella Prima Alleanza diventa definitivo nella Nuova Alleanza. Le sei giare (sei è cifra simbolica di una imperfezione che però tende verso la pienezza del numero sette) colme di acqua fino all’orlo vengono trasformate in vino. Erano giare di pietra che contenevano l’acqua per la purificazione rituale dei Giudei (v. 6). Giare di pietra come spesso può essere di pietra il cuore dell’uomo, soprattutto quando lascia le parole di Dio scritte su tavole di pietra, anziché lasciarsele imprimere nel proprio cuore. Ma per quanto l’acqua riempia queste giare fino all’orlo, non basta a purificare il cuore di pietra e a trasformarlo in cuore di carne. È necessario un vino nuovo, un vino migliore, quello che solo Gesù può donare, trasfigurando la prima alleanza nella nuova e definitiva alleanza. Nel terzo giorno della Pasqua, nella sua Ora che già qui a Cana viene annunciata come imminente (cfr. v. 4), diventerà chiaro che questo vino nuovo e migliore Gesù lo dona nel suo stesso sangue versato per tutti.

    Solo lui lo può donare. «Colui che dirigeva il banchetto… non sapeva da dove venisse» (v. 9). Nessuno può saperlo, perché questo da dove allude al mistero di Gesù, e più ancora al mistero del Padre, il solo che può donare il proprio Figlio e nel Figlio il vino migliore dell’Alleanza nuova, il vino delle nozze definitive con il suo popolo. Da dove (pothen in greco) ricorre spesso nel vangelo di Giovanni e sempre con un forte significato cristologico. Gesù è colui che non sappiamo da dove viene e verso dove va (cfr. Gv 8,14). Comprendere che viene da Dio e a lui ritorna è la condizione che ci permette di conoscere davvero il suo mistero personale e di accogliere la sua rivelazione. Proprio perché allude a Gesù, il da dove ci parla anche dei doni che egli offre alla nostra esistenza per colmare il suo bisogno di vita, e di vita piena, di vita eterna. Qui a Cana il capo-tavola non sa da dove viene il vino. In Samaria la donna chiede ironicamente a Gesù: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?» (4,11). Al capitolo sesto sarà Gesù stesso a domandare a Filippo: «da dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (6,5). Il vino di Cana, l’acqua di Samaria, il pane della Galilea, vengono tutti da quel da dove che è il mistero di Dio e alludono a quel dono per eccellenza che è Gesù, lui che sa da dove viene e dove va. È lui il vero vino, la vera acqua, il vero pane di cui la nostra vita ha assolutamente bisogno per compiersi in pienezza. È lui lo Sposo, o meglio è in lui che si compiono in modo definitivo le nozze tra Dio e il suo popolo.  

    A Cana è presente la madre di Gesù, definita qui, come ai piedi della croce, ‘donna’ (cfr. Gv 19,25-27). È simbolo della figlia di Sion, chiamata però anche ‘madre Sion’ nei testi profetici; in lei è rappresentato il resto di Israele che attende l’ora del Messia, il suo giorno, perché scopre in sé una mancanza che ha bisogno di essere colmata: «non hanno vino» (v. 3). Insieme alla donna/madre ci sono con Gesù i discepoli, come ai piedi della croce ci sarà il Discepolo amato. Là la donna sarà consegnata al discepolo e il discepolo alla donna. La nuova Alleanza si compie, direbbe san Paolo, abbattendo ogni separazione e facendo dei due uno solo (cfr. Ef 2,14-18). La figlia di Sion – Israele – e i discepoli di Gesù – la Chiesa – sono consegnati reciprocamente gli uni agli altri. A Cana, nasce, viene fondata e ricreata, un’umanità nuova, l’umanità dei figli di Dio, chiamati ad abbattere ogni separazione, a superare ogni divisione, a vincere ogni logica perversa di inimicizia.

    Ascoltando questo brano anche noi continuiamo a contemplare la gloria del Padre pienamente manifestatasi in Gesù: la gloria di un amore che continua a donarci in ogni Eucaristia il vino dell’Alleanza nuova, il vino migliore per la nostra gioia.

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco si sofferma sull’intervento di Maria a Cana

Il primo miracolo di Gesù fu ottenuto grazie all’intercessione di Maria, ricorda don Bosco nell’Associazione dei devoti di Maria Ausiliatrice, affermando esplicitamente che “a richiesta di lei Gesù operò il primo dei suoi miracoli in Cana di Galilea” (OE21 346). E il suo intervento fu un atto di “limosina”, cioè di misericordia, scrive don Bosco per il giorno ventinovesimo del suo Mese di maggio:

Imitiamo anche Maria nel fare limosina. […] Ella fu invitata a nozze nella città di Cana nella Galilea. Alla metà del pranzo mancò il vino. Non potendolo ella stessa provvedere invitò suo figlio Gesù, che a richiesta di lei cangiò l’acqua in vino. Immaginiamoci quante grazie e quante benedizioni Maria non otterrà nel cielo dal suo amato Gesù a favore di quelli, che coi loro consigli, colle loro opere, preghiere, limosine o in qualche altra maniera esercitano atti di misericordia verso il prossimo? (OE10 462s).

Soprattutto, secondo quanto scrive don Bosco nelle Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, l’intervento della madre di Gesù è “un fatto che dimostra chiaramente la potenza e lo zelo di Maria nell’accorrere in nostro aiuto” (OE20 223).

Sul modo di intervenire di Maria, don Bosco continua dicendo: “Ella non fa una prolissa preghiera a Gesù come Signore, né gli comanda come a figlio; non fa che annunziargli il bisogno, la mancanza del vino”. E quello che fece Maria per gli invitati alle nozze, lo farà anche per noi:

Voleva provvedere alla necessità di questi ospiti e perciò dice il Vangelo: Mancando il vino, lo disse la madre di Gesù a lui. Onde ci anima san Bernardo a ricorrere a Maria perché se ebbe tanta compassione della vergogna di quella povera gente e loro provvide, quantunque non pregata, quanto più avrà pietà di noi se la invochiamo con fiducia? (OE20 225s).

Dopo la risposta di Gesù, che pareva dura, Maria non si scoraggia. Siamo invitati anche noi a non disperare mai della risposta di Gesù alle nostre preghiere nonostante le apparenze contrarie:

La bontà di Maria verso di noi dimostrata in questo fatto splende maggiormente nella condotta che tenne dopo la risposta del suo divin figliuolo. Alle parole di Gesù un’anima meno confidente, meno coraggiosa di Maria, avrebbe desistito dallo sperare più in là. Maria invece per nulla conturbata si rivolge ai servi della mensa e dice loro: Fate quello che egli vi dirà. Quodcumque dixerit vobis, facite. Come se dicesse: Sebbene sembra che neghi di fare, tuttavia farà (OE20 227).

Nelle poche parole di Maria risplendono poi tante virtù che don Bosco raccomanda anche a noi: la fiducia in Gesù nonostante la dura risposta, la speranza nella sua misericordia, l’amore per Dio perché manifesti la sua gloria, l’obbedienza in tutto raccomandata ai servi, la modestia mentre non approfitta di questa occasione per gloriarsi d’essere madre d’un tanto figlio, la riverenza verso Dio col non pronunziare il santo nome di Gesù. la prontezza nel fare la volontà di Dio, la prudenza e la misericordia nel “prevenire che altri cada nel male” (OE20 227ss).

A Cana, spiega don Bosco anche nel primo dei Nove giorni consacrati allaugusta madre del Salvatore sotto al titolo di Maria Ausiliatrice, Maria “si assunse tosto, come riflette san Bernardino da Siena, l’uffizio di pia ausiliatrice” (OE22 261). A Cana il Signore ha concesso una grazia temporale. Anche oggi il Signore si rivela un Padre pronto a consolarci “nei bisogni temporali come alle nozze di Cana” (OE20 344). In realtà, lo scopo principale di Gesù moltiplicando il vino delle nozze era il bene spirituale delle persone invitate.

Come dovrebbe comportarsi il cristiano di cui don Bosco traccia il ritratto nella Chiave del paradiso? Ecco la risposta: “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea […], cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui, e più occupato del nutrimento spirituale che delle pietanze di cui nutrisce il suo corpo” (OE8 22).

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

È ridicolo, dice l’orgoglio;

è avventato, dice la prudenza;

è impossibile, dice l’esperienza.

È quel che è, dice l’amore.

(Erich Fried)

Casella di testo: Isaia 62,1-5
1Corinzi 12,4-11
Giovanni 2,1-12

Gesù vuole trasmettere a Cana il principio decisivo della relazione che unisce Dio e l'umanità. Tra uomo e Dio corre un rapporto nuziale, con tutta la sua tavolozza di emozioni forti e buone: amore, festa, dono, eccesso, gioia. Un legame sponsale, non un rapporto giudiziario o penitenziale, lega Dio e noi, un vino di festa. A Cana Gesù partecipando a una festa di nozze proclama il suo atto di fede nell'amore umano. Lui crede nell'amore, lo benedice, lo rilancia con il suo primo prodigio, lo collega a Dio. Perché l'amore è il primo segnale indicatore da seguire sulle strade del mondo, un evento sempre decretato dal cielo.  
Gesù prende l'amore umano e lo fa simbolo e messaggio del nostro rapporto con Dio. Anche credere in Dio è una festa, anche l'incontro con Dio genera vita, porta fioriture di coraggio, una primavera ripetuta. A lungo abbiamo pensato che Dio fosse amico del sacrificio e della gravità, e così abbiamo ricoperto il vangelo con un velo di tristezza. Invece no, a Cana ci sorprende un Dio che gode della gioia degli uomini e se ne prende cura. «Dobbiamo amare e trovare Dio precisamente nella nostra vita e nel bene che ci dà. Trovarlo e ringraziarlo nella nostra felicità terrena» (Bonhoeffer).
(Ermes Ronchi)

Preghiere e racconti

Il vino della festa

Sì, il vino: è lui, non l’uva, il vero “frutto” della vigna. E come la vigna è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici. Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata… Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere. Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore: bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire sì alla vita.

Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri -, è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella Bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza. Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante. […] non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.

(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 50-51).

E giunse la sua ora

Quale doveva essere, dunque, la sua ora? Forse aveva scelto di cominciare davanti a una piaga o al capezzale di un infermo; o magari in un attimo qualunque, all’aria aperta, a un segno delle rondini, a un impercettibile turbamento del sangue. Non questa, in ogni caso: un banchetto di nozze. La sua ora è un’altra. Quando? Egli la tiene nascosta come uno stratega che si riserva l’ora precisa in cui scenderà in campo; è segreto anche per sua madre. E il dialogo che con lei si accende qui alla tavola di Cana è una corta battaglia di volontà.

«Non hanno più vino. Io e te soli lo sappiamo, io e te soli possiamo provvedere. Senza vino una festa di nozze può diventare incredibilmente triste. Non lasciar cominciare con un’umiliazione i giorni di questa sposa. Per noi donne non ci sono cose piccole e trascurabili, ed è così facile sciupare le nostre gioie più attese. L’armonia di questa mensa nuziale vale un miracolo».

«Che importa a te e a me? Le loro ore di gioia e di pena sono già tutte contate. Troppe altre volte, nel domani che li aspetta, rimarranno senza vino e io non sarò fra loro. Lasciami, mamma, in quest’ultima pigrizia della vigilia: che io indugi ancora al di qua del confine, in questo mondo in cui il vino finisce e l’acqua resta acqua. Lasciami un altro po’ nella casa, non c’è niente di più dolce che questo: avere una madre, un angolo di silenzio e un letto dove posare la testa. Tu devi pur sapere che cosa comincia per me se mi riconoscono e dove mi porterà questa pietà della povera gente».

«Lo so. Ma essi non hanno più vino».

«Allora addio, se lo vuoi tu. Sai cosa devi ordinare ai servi, perché io ti accontenterò senza che nessuno se ne accorga. Ci separeremo qui, accanto a quest’anfora piena d’acqua. Fra poco sarà vino. Un giorno cambierò anche quel vino, e sarà il mio ultimo miracolo».

Maria ha vinto – mai aveva vinto e non vincerà più. È felice. Non sa che così tutto è anticipato. La macchina dei miracoli gira, è stata lei a scegliere l’ora.

(Luigi Santucci)

La fonte divina dell’amore

Di questa fonte inesauribile parla Giovanni nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-12). Il nostro vino, il nostro tentativo di amare, vede molto presto la fine. Non possiamo dare nessuna garanzia delle nostre emozioni. Prima o poi i nostri sentimenti di amore si volatilizzano e allora crediamo di non riuscire più ad amare l’altro. Questo capita a molti coniugi che assistano stupiti all’esaurirsi del loro amore. Questo capita anche alla coppia che celebra le nozze a Cana. Viene a mancare il vino, il loro amore viene a mancare, già il terzo giorno essi non hanno più né vino, né amore. Allora Gesù trasforma in vino sei otri d’acqua, in modo che il vino non abbia più a finire.

Sei è il numero dell’imperfezione e gli otri di pietra rimandano a quanto di duro e di impietrito vi è in noi. Nella loro incapacità di amare veramente, nelle loro durezze e nei loro blocchi, Gesù mostra agli sposi un’altra fonte d’amore, la fonte divina, che mai smette di sgorgare. Gesù pronuncia la sua parola d’amore in quanto in noi è divenuto sciapo e senza sentimento, in quanto in noi è imperfetto e indurito. Se noi ci fidiamo di questa parola, anche in noi tutto può mutarsi in amore.

D’improvviso noi possiamo amare con le nostre forze e le nostre debolezze, con le nostre imperfezioni e i nostri errori, con le nostre contrazioni e i nostri indurimenti. Tutto in noi può irradiare l’amore divino, così che intorno a noi possa svolgersi la festa della vita.

(A. GRÜN, Abitare nella casa dell’amore, Brescia, Queriniana, 2000, 67-68).

Riempi d’acqua il tuo otre vuoto

Adesso sono un otre vuoto!

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per accorgersi che non era vino buono.

Bisogna consumare tutto il proprio vino

per desiderare, finalmente, il vino di Gesù.

Madre della compassione,

Madre che ti accorgi da sempre,

anche per me, dici a Gesù:

“non ha più gioia!”.

Non ho più gioia.

Otre vuoto io sono,

anche di speranza.

E tu, sicura come chi ha già ottenuto,

con gli occhi che tradiscono una gioia più grande di quella che sarà la mia, supplichi:

“fa tutto quello che Lui ti dirà!”.

E Lui: “riempi d’acqua il tuo otre!”.

Da dove attingere, Signore, per colmare fino all’orlo?

Dalla mia mente deserta?

Dal mio cuore inaridito?

Dalla mia innocenza consumata?

Fammi, Signore, il dono delle lacrime:

siano esse l’acqua che con abbondanza tu trasformi,

e mentre bevo a piene mani, sento che Le dici:

“Donna, ecco tuo figlio!”.

«Non hanno più vino»

Il vino è la gioia di vivere che non può essere comprata ne fabbricata ed è difficile starne senza. È Gesù, questo vino, di cui gli sposi hanno bisogno, ma che non potrebbero mai darsi, questo vino Gesù lo ‘crea’ dall’acqua, perché si tratta di un vino nuovo.

Giovanni vuole dirci che il vino nuovo e buono, mai gustato prima, è Gesù stesso. Il vino è significativo come dono di Gesù:  esso è alla fine; è buono; è abbondante. È segno del tempo della salvezza. Il vino è così il «sangue versato» da Cristo per noi, è il segno della carità, del dono di sé, così importante per poter vivere da cristiani. Il vino delle nozze di Cana, questo buon vino atteso, è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza. Le feste degli uomini hanno la conclusione ben descritta dal maestro di tavola: la tristezza del lunedì. Gesù, invece, è «il sabato senza sera», come diceva sant’Agostino: quando si pensa che la festa finisca – «Non hanno più vino» -, salta fuori il vino buono, conservato fino allora, il vino nuovo mai gustato prima

(Cf. A.S. BESSONE, Prediche della domenica, Anno C, Biella, 1992, 185-190).

Maria, donna del vino nuovo

Nel vangelo c’è un episodio, quello delle nozze di Cana che gli ultimi approfondimenti biblici ci obbligano decisamente a rivedere, soprattutto per ciò che riguarda il ruolo di Maria.

Chi sa quante volte ci siamo commossi pure noi dinanzi alla sensibilità della Madre di Gesù che con finezza tutta femminile, ha intuito il disappunto degli sposi, a corto di vino, e ha forzato la mano del figlio, troncando sul nascere l’evidente imbarazzo che ormai serpeggiava dietro le quinte.

Pare certo, però, che l’intenzione dell’evangelista non fosse tanto quella di mettere in evidenza la sollecitudine di Maria a favore degli uomini, o la potenza della sua intercessione presso il figlio. Quanto, quella di presentarla come colei che percepisce a volo il dissolversi del piccolo mondo antico e, anticipando l’«ora» di Gesù, introduce sul banchetto della storia non solo i boccali della festa, ma anche i primi fermenti della novità.

Festa e novità, quindi, irrompono nella sala su espresso richiamo di lei.

A darcene conferma c’è nella pagina di Giovanni un particolare tutt’altro che accidentale, che anzi, a ben considerarlo, esplode con la prepotenza di un invadente protagonismo. È costituito dalle sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei.

Oscene nella loro immobilità. Ingombranti nella loro ampiezza prevaricatrice. Gelide come cadaveri, perché di pietra. Inutili, perché vuote, agli effetti di una purificazione che sono ormai incapaci di dare.

Sei, e non sette che è il numero perfetto. Simbolo malinconico, quindi, di ciò che non giungerà mai a completezza, che non toccherà più i confini della maturazione, che resterà sempre al di sotto di ogni legittima attesa e di ogni bisogno del cuore.

Ebbene, di fronte a questo scenario di paresi irreversibile rappresentato dalle giare (di pietra, come le tavole di Mosè), Maria non solo avverte che la vecchia alleanza è ormai logora e che l’antica economia di salvezza fondata sulle prescrizioni della Legge ha chiuso da tempo la sua contabilità, ma sollecita coraggiosamente la transizione.

Vede raggiunti i livelli di guardia da un mondo che boccheggia nella tristezza, e invoca da suo figlio non tanto uno strappo alla legge della natura, quanto uno strappo alla natura della legge. Questa non contiene ormai nulla, non è in grado di purificare nessuno, e non rallegra più il cuore dell’uomo.

Interviene, perciò, d’anticipo, e chiede a Gesù un acconto sul vino della nuova alleanza che, lei presente, sgorgherà inesauribile nell’ora della croce.

«Non hanno più vino». Non è il tratto di una provvidenziale gentilezza che sopraggiunge a evitare la mortificazione di due sposi. E un grido d’allarme che sopraggiunge per evitare la morte del mondo.

Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali!

È il vino della festa che vien meno.

Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell’opulenza: ma con l’ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.

Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite.

Non abbiamo più vino. Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l’anima da tempo. Le vecchie cantine non fermentano più. E le botti vuote danno solo spurghi d’aceto.

Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose. Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all’orlo di significati ultimi. E l’ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.

Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva, tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.

Perché è proprio dei giovani percepire l’usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.

Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili. Dalle piccole conversioni sottocosto. Dai rattoppi di comodo. Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall’uso idolatrico della tradizione.

Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l’avvedutezza di sostituire i contenitori. Quando prevale in noi il fascino dello «status quo», rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti.

Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi. E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l’adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescenza precoce.

Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: «Fate tutto quello che egli vi dirà» tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.

E ci affidi il potere di svegliare l’aurora anche nel cuore della notte.

(Tonino BELLO, Maria donna dei nostri giorni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2000,66-68).

La grande festa

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati. Il signore chiese un favore agli abitanti del villaggio: “Metteremo al centro del cortile, dove si terrà il banchetto, un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”. Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “Un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!”. Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi si sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua. Tutti avevano pensato allo stesso modo, e avevano portato solo acqua.

Preghiera

Padre, che hai voluto fare del tuo Figlio l’Uomo nuovo, ricolmo del tuo Spirito, e per mezzo suo lo effondi nei cuori degli uomini rinnovandoli radicalmente, ti chiediamo con fiducia e insistenza, come egli stesso ci ha insegnato a farlo, di voler riempire i nostri cuori della sua presenza e della sua forza. Se tu ce lo doni, noi potremo uscire dalla condizione di uomini vecchi, mossi dall’egoismo che ci rinchiude in noi stessi, e potremo diventare davvero uomini nuovi. Saremo capaci di amare te come figli e gli altri uomini e donne come fratelli e sorelle.

E la gioia profonda della nostra nuova condizione riempirà ogni momento della nostra giornata.

Non lasciare che altri spiriti entrino nei nostri cuori: lo spirito dell’orgoglio, della vanità, dell’invidia, dell’avidità… Essi sono spiriti del mondo vecchio che portano alla morte e noi vogliamo vivere. Tu, che sei «amante della vita», strappa da noi tali spiriti perché possa occupare tutto il nostro spazio interiore lo Spirito vivificante che viene da te attraverso il tuo Figlio diletto.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

BATTESIMO DEL SIGNORE

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 40,1-5.9-11

          «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio. – Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato».  Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».  
  • I versetti 1-11 del capitolo 40 di Isaia fungono da prologo all’intera sezione della seconda parte di Isaia formata dai capitoli 40-55. Il brano è pervaso da una grande letizia, fondata sulla fede esaltante nel Dio guida del popolo, suo liberatore e salvatore. «Consolate, consolate il mio popolo»: Dio comanda di consolare Israele e l’imperativo ripetuto due volte suggerisce l’idea dell’urgenza e della sovrabbondanza della consolazione. Dio può infliggere il «doppio per tutti i suoi peccati», ma non si dimentica del suo popolo e della sua città e torna a rivolgergli parole di salvezza, che parlano al cuore.

     «Una voce grida»: la voce misteriosa del versetto 3 e le altre, che seguono, si possono considerare l’equivalente poetico della formula profetica il «Signore ha parlato». Con maggiore efficacia il secondo Isaia al comando diretto del Signore fa seguire in forma diretta le voci, che ne ripetono il messaggio.

     I sinottici per spiegare il compito profetico di Giovanni Battista adoperano le parole di Isaia 40,3 (cf. Mt 3,3; Mc 1,3; Lc 3,4). Egli è una voce, che ripete il comando del Signore. Il Signore, che aveva abbandonato insieme al popolo la sua dimora e lo aveva seguito in esilio, vi fa ora ritorno: per lui, e quindi anche per il popolo, si deve preparare una strada agevole, percorribile con facilità. Si tratta di una strada «nel deserto», come nel deserto era stata la strada dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra promessa. «La gloria del Signore» (Is 40,5) si rivelerà di nuovo in tutta la sua potenza, come nell’esodo dall’Egitto, momento fondante tutta la storia di Israele.

     I versetti 6-7, che sono stati tolti dalla liturgia di oggi, incentrata sulla rivelazione di Dio, propongono un intermezzo meditativo sulla distanza fra la fragilità dell’essere umano, paragonato all’erba, e la potenza divina. Questa meditazione aiuta a capire che l’intervento di Dio nelle vicende umane e in particolare in quelle di Israele, dipende interamente dalla sua scelta misteriosa, dettata dall’amore.

     Il Signore avanza con potenza e domina col suo braccio, ma verso il suo popolo si rivela un pastore amoroso: «egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).

     «Il suo braccio» è l’immagine che esprime il suo intervento di castigo e dominio (cf. in Esodo l’intervento contro il faraone, ma anche il castigo dell’esilio per il popolo), ma anche di perdono e dono gratuito e sovrabbondante di salvezza. Dobbiamo sempre tenere insieme nel leggere i profeti per non fraintenderli, i messaggi di salvezza, che dipendono sempre dalla bontà misericordiosa di Dio, da quelli di castigo, che sono volti a riportare Israele sulla via del Signore e non vogliono affatto annientarlo: «I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29).

Seconda lettura: Tito 2,11-14;3,4-7

              Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta sal­vezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’em­pietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli ap­partenga, pieno di zelo per le opere buone. Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore no­stro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua mise­ricordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spi­rito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella spe­ranza, eredi della vita eterna.  
  • In un breve scritto di occasione, volto ad esortare un pastore e la sua comunità a superare i contrasti interni e a tenere una condotta moralmente irreprensibile, l’autore della lettera a Tito richiama l’insegnamento fondamentale dell’apostolo Paolo: la nostra salvezza dipende interamente da Dio, dalla sua bontà (chrestòtes, amore per gli uomini (philan-tropìa) e misericordia (eléos) (Tt 3,4.5).

     Noi non possiamo vantare nessuna pretesa nei confronti di Dio. Noi, infatti, eravamo «insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degno di odio e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3). Noi dobbiamo solo accogliere con gratitudine il dono di Dio e rispondere con una condotta che sia conforme alla chiamata di Dio e alla nuova vita che Dio ci ha donato gratuitamente.

     «È apparsa (epiphàne Tt 2,11; 3,4) la grazia di Dio» apportatrice di salvezza per tutti gli esseri umani. Il greco anthropos comprende uomini e donne senza differenze sessuali (a differenza da aner usato solo per uomo e arsen maschio). Si tratta di una vera e propria rivelazione, di un intervento fattivo di Dio, che, anche se apparentemente lascia tutto come prima, in realtà ha trasformato la situazione.

     L’incontro di Dio con gli uomini è un incontro potente e rinnovante. L’autore della lettera attribuisce la stessa potenza salvifica dell’«apparizione» di Dio a Gesù Cristo «nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». Si rinnova in lui il miracolo più volte avvenuto nella storia dell’umanità primitiva e in particolare in quella del popolo di Israele dell’intervento salvifico di Dio.

     In questo caso, la salvezza, data in dono gratuito, è legata al battesimo «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo». I battezzati sono esseri nuovi, che vivono nello Spirito di Dio «effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo».

     La manifestazione della grazia di Dio, effusa per suo volere e senza meriti umani, è, però, strettamente legata all’educazione a fare opere buone. Questo è un insegnamento tradizionale dell’ebraismo. La Torà è la «rivelazione-dono» per eccellenza di Dio. Non possiamo staccare la fede alle opere ammonisce la lettera di Giacomo, che accomuna Abramo che ha creduto, con Raab, la meretrice, salvata per la sua ospitalità (cf. Ge 2,21-25). A proposito di Abramo, il modello della fede per eccellenza, fra le diverse parole a lui rivolte da Dio leggiamo: «Io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso» (Gen 18,19). È Dio che ha scelto Abramo, ma tale scelta comporta una risposta pronta e lo «zelo» per i comandi del Signore.

     Il giudizio finale, secondo il Vangelo di Matteo sarà sulle opere compiute, anche senza il riconoscimento del Signore (cf. Mt 25,31-37), mentre la conoscenza, senza le opere è motivo di condanna: «Non chiunque mi dice Signore Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Dobbiamo tenere insieme i due poli del messaggio biblico: l’insistenza sull’iniziativa gratuita di Dio e il richiamo pressante a mettere in pratica i suoi precetti.

     Fra le tante osservazioni che si possono fare sul brano della lettera a Tito scelto per la liturgia di oggi, merita particolare attenzione l’espressione «nella speranza». Siamo stati giustificati dalla grazia di Gesù Cristo e siamo diventati eredi della vita eterna, ma secondo la speranza.

     La salvezza rivelata da Gesù non è ancora quella definitiva, che non si può più perdere e che si manifesta in gloria e potenza per tutte le creature. «I cieli nuovi e la terra nuova» sono ancora sperati. Il regno del nostro Dio ci è dato nel segno della speranza: la sua manifestazione definitiva è nascosta nel mistero della benevolenza di Dio; a noi spetta il grande compito di testimoniare che il dono del regno ci è stato dato, dobbiamo rendere visibile la nostra speranza. Dobbiamo comportarci da cittadini del regno secondo la condotta dettata dai comandamenti divini.

Vangelo: Luca 3,15-16.21-22

          In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».  

Esegesi

     Il vangelo di Luca nei versetti 14-16 ci presenta il popolo che è in attesa del messia (l’«unto», christòs in greco). Coloro che erano accorsi ad ascoltare la predicazione di Giovanni e a ricevere il suo battesimo di purificazione come segno dell’inizio della conversione (metanoia in greco, teshuvà in ebraico), si chiedevano se non fosse proprio lui il Messia.

     Si tratta di una piccola parte degli ebrei di allora, ma Luca parla del popolo in generale e dice «tutti» si ponevano la domanda sul messia e Giovanni risponde a «tutti». A lui interessa il popolo nella sua dimensione collegiale: al versetto 21 sottolinea: «mentre tutto il popolo veniva battezzato». È «tutto il popolo» che in analogia all’avvenimento del Sinai forma per così dire il luogo della rivelazione divina. Gesù, che in Luca è il destinatario della rivelazione: «Tu sei il Figlio mio, l’amato», appare pienamente inserito nel suo popolo Israele. Senza Israele non c’è la rivelazione del Padre di Gesù Cristo; se stacchiamo Gesù dal suo popolo, suggerisce l’evangelista, non comprendiamo nulla di Lui, perché il Dio, che al battesimo lo consacra «l’amato» con l’investitura dello Spirito Santo, è lo stesso Dio della rivelazione del Sinai a «tutto il popolo», col quale ha stipulato l’alleanza (cf. Es 24,3; 34,10).

     Giovanni si premura di togliere ogni dubbio sulla sua identità e per chiarire la distanza fra sé e il Messia usa il detto popolare, assai efficace, che egli non è degno neppure di «slegare i lacci dei sandali». Un’altra caratteristica rilevante del Vangelo di Luca, rispetto al rac-conto analogo degli altri due sinottici, è il legame fatto fra la rivelazione divina e la preghiera di Gesù.

     «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì…» (Lc 3,21-22). Il Vangelo di Luca mette spesso in rilievo la preghiera di Gesù: «Ma Gesù si ritirava in luoghi deserti e pregava» (Lc 5,16; cf. Mc 1,35; Lc 6,12; 9,18; 11,2); «in preda all’angoscia Gesù pregava più intensamente» (Lc 22,44); egli si affida al padre appena prima di esalare l’ultimo respiro (Lc 23,46).

     Prima della trasfigurazione, narrazione che si accosta a quella del battesimo, «Gesù salì sul monte a pregare. E mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto…» (Lc 9,29).

     La preghiera crea la situazione adatta alla rivelazione e nello stesso tempo ci presenta Gesù nella sua piena umanità, bisognoso di affidarsi al padre per comprendere quale sia la sua missione e per portarla a compimento con coraggio.

     Il battesimo è il momento della consacrazione di Gesù, attraverso la quale egli diviene Cristo, cioè unto, messia: «Dio unse (chriò) in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò benedicendo e risanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Questa consacrazione si presenta come una nuova nascita, resa possibile dalla discesa dello Spirito e dalla manifestazione della paternità divina. Gesù stesso sperimenta una nuova nascita dall’alto per opera dell’acqua e dello Spirito, secondo le parole del vangelo di Giovanni (cf. Gv 3,3-6). Egli inizia al Giordano la strada che indicherà a tutti i discepoli, chiamati ad essere figli di Dio attraverso il dono dello Spirito Santo.

Meditazione

     Il racconto di Luca si apre oggi con l’immagine di un popolo ‘in attesa’ (cfr. Lc 3,15). Sembra essere stata questa la missione fondamentale del Battista: suscitare un’attesa e nello stesso tempo distoglierla dalla propria persona per orientarla verso il ‘più forte’ che deve venire (cfr. v. 16). È l’attesa che si compiano le promesse dei profeti, quelle che ci vengono ad esempio ricordate da Isaia nella prima lettura: che Dio consoli il suo popolo e che ogni uomo possa vedere il rivelarsi della sua gloria. Solo chi attende può giungere ad ascoltare la voce che annuncia: «Ecco il vostro Dio!» (cfr. Is 40,9).

     Nello stesso tempo questa attesa deve rimanere disponibile a lasciarsi purificare e convenire dalla parola del Signore. Dio infatti compie le sue promesse e colma le nostre attese in modo sempre sorprendente, a volte persino sconcertante. Giovanni aveva annunziato il venire di uno più forte di lui, che avrebbe battezzato non semplicemente con acqua, ma in Spirito Santo e fuoco. Eppure, la prima immagine che l’evangelista ci offre di Gesù, dopo il vangelo dell’infanzia, ce lo mostra nel momento in cui ha ricevuto, come tutti gli altri, il battesimo d’acqua da Giovanni. Il più forte è in mezzo al suo popolo, confuso tra i peccatori, insieme ai quali si è sottoposto al medesimo rito di penitenza e di purificazione. Chi può battezzare in Spirito Santo e fuoco non si sottrae al battesimo d’acqua di Giovanni. Ma è proprio mentre è in mezzo al suo popolo, disposto a scendere radicalmente nella fraternità dei peccatori, che Gesù vede il cielo aprirsi, accoglie lo Spirito che scende su di lui, ascolta la voce del Padre che lo conferma nella sua singolare identità: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22).

     Tutto in questa scena è in discesa. Gesù discende dal nord della Galilea verso il sud, dove Giovanni battezza. Discende nella depressione del Giordano, che scorre circa 400 metri sotto il livello del mare, probabilmente il punto più basso della terra che un uomo possa raggiungere camminando sulle sue gambe. Una volta giunto al Giordano discende nelle sue acque e soprattutto si immerge nella fraternità dei peccatori. Ed è in questo cammino di umiltà e di discesa che può vedere il cielo aprirsi e ascoltare la voce del Padre. Nella scena seguente, che racconta la prova nel deserto, il diavolo farà compiere a Gesù il cammino opposto: dapprima lo condurrà «in alto» (cfr. Lc 4,5), poi a Gerusalemme lo porrà «sul punto più alto del tempio» (cfr. Lc 4,9), ma in questa altezza, anziché ascoltare la voce di Dio, si rischia di ascoltare soltanto le suggestioni di Satana. Per ascoltare la voce di Dio occorre invece percorrere un cammino di discesa, nell’umiltà e nell’obbedienza. Più volte Gesù ripeterà nei vangeli che chi si umilia sarà esaltato, e chi si innalza sarà umiliato. Sarebbe riduttivo intendere queste espressioni solamente a un livello morale, o peggio moralistico. Evocano piuttosto l’autenticità dell’esperienza di Dio, che è sempre un’esperienza pasquale. Quando raggiungi il punto più basso del tuo cammino esistenziale, quando sei gettato a terra o dal tuo stesso peccato, o dalla violenza che puoi subire da altri, allora incontri lì il Dio della Pasqua che ti rialza e ti dona una vita nuova. Sarà questa l’esperienza pasquale di Gesù: gettato nella polvere della terra e della morte, disceso nell’oscurità del sepolcro, accoglierà la potenza dell’amore del Padre che lo farà risorgere, innalzandolo nel più alto dei cieli. Nel suo battesimo Gesù anticipa quella che sarà la sua Pasqua. Immergendosi nella fraternità dei peccatori, scendendo con loro, lui l’unico giusto, nell’esperienza del peccato e dell’umiliazione in cui il peccato ci getta, ascolterà il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio, l’amato». In questo modo Gesù capovolge la logica perversa di Caino, il figlio primogenito che vuole rimanere solo, e per questo elimina Abele. Al contrario Gesù è il figlio Unigenito che non vuole rimanere solo, ma ci vuole in lui tutti fratelli e figli dello stesso Padre, e per questo dona la sua stessa vita fino alla Croce, nell’attesa di riceverla rigenerata dall’amore di Dio.

     Il cammino pasquale di Gesù è già tutto incluso nelle parole che ascolta presso il Giordano, molto essenziali ma incredibilmente ricche di contenuto. Almeno tre testi del Primo Testamento vi risuonano. «Tu sei mio figlio» evoca il Salmo 2: «Egli mi ha detto: “Tu sei mio figlio”» (v. 7). «L’amato» riprende, nel testo greco, lo stesso termine che nel Primo Testamento risuona solo in Genesi 22 a proposito di Isacco, che viene definito il figlio ‘amato’ di Abramo (cfr. Gen 22,2). «In te ho posto il mio compiacimento» cita le espressioni iniziali del primo canto del servo sofferente del Signore che leggiamo in Isaia 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui» (v. 1). Tutta l’identità di Gesù è qui delineata, l’intero suo cammino storico e pasquale già trat-teggiato. Gesù è il Figlio unigenito che dovrà vivere la sua identità filiale facendosi servo nella forma di Isacco. Lui è il vero Isacco di Dio, il figlio che non viene chiesto ad Abramo, ma che Dio stesso offre per la salvezza di tutti. È lui il vero capretto donato da Dio, l’Agnello di Dio offerto in sacrificio perché ogni uomo possa vedere la salvezza del Signore.

     «Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», promette Giovanni. Ci farà condividere, cioè, la sua stessa esperienza pasquale, rendendoci partecipi della sua morte per condividere con noi la potenza della sua risurrezione e la novità della sua vita. «L’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo», come Paolo definisce il battesimo nella lettera a Tito (3,5), ci consente di ascoltare insieme a Gesù le parole del Padre come rivolte personalmente a ciascuno di noi. Anche a noi Dio dona il suo Spirito, che è lo Spirito del Figlio, e ci conferma il suo amore di predilezione e il suo compiacimento. La condizione per ascoltare questa parola di Dio rimane anche per noi la disponibilità a vivere, come Gesù, un cammino di discesa, di umiltà, di obbedienza. Solo così la nostra attesa sarà colmata, e potremo riconoscere, come sempre Paolo scrive a Tito, che «egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia» (3,5).

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco spiega l’attesa del popolo

Il Vangelo del battesimo del Signore inizia in Luca con una annotazione molto significativa: “Il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo”. L’attesa del popolo rimanda a tutto l’Antico Testamento come preparazione e annuncio della venuta del Messia atteso da secoli.

Per questo motivo, agli occhi di don Bosco l’AT conserva une forza e un’attualità straordinaria. Lo dimostra l’abbondanza dei riferimenti all’AT nei suoi scritti e, più ancora, la scelta di citazioni della Scrittura che gli stavano più a cuore.

Su 11 citazioni bibliche copiate sui segnacoli del suo Breviario 10 sono tratte dell’AT (MB2 523ss); su un totale di 27 “massime morali” inserite nella Maniera facile di imparare la Storia sacra, 18 provengono dall’AT (OE6 140s); e su 39 iscrizioni bibliche sui muri dell’Oratorio se ne contano 28 (MB5 543ss; MB6 948s; MB7 426). Senza alcun dubbio egli trovava nei libri dell’AT i fondamenti della fede, del culto e della morale cristiana. I testi poi relativi all’educazione lo interessavano in modo particolare.

Ma per don Bosco l’AT rimane valido soprattutto come testimone della speranza messianica, destinata a realizzarsi pienamente in Gesù Cristo. Egli vi trova una folla di simboli e di immagini che annunciano il NT, Gesù Cristo e la sua Chiesa, senza dimenticare la figura di Maria, madre del Messia.

Preso nel suo insieme, infatti, l’AT è un annuncio del Messia, Salvatore promesso a partire dal protovangelo della Genesi fino all’ultimo profeta. Ai lettori del suo manuale Il cattolico istruito nella sua religionedon Bosco ricorda che “la religione giudaica, data da Dio a Mosè, era una preparazione alla religione cristiana” (OE4 253).

Nella Prefazione della decima edizione della sua Storia sacra, appare chiaro il disegno di don Bosco di mettere in luce la presenza del messianismo nell’AT:

Il fine provvidenziale dei Sacri Libri essendo stato di mantenere negli uomini viva la fede nel Messia promesso da Dio dopo la colpa di Adamo, anzi tutta la Storia Sacra dell’Antico Testamento potendosi dire una costante preparazione a quell’importantissimo avvenimento, volli in modo speciale notare le promesse e le profezie che spettano al futuro Redentore (OE27 210).

Tra i testi principali dell’AT ritenuti da don Bosco come annunci messianici troviamo: il protovangelo (Gen 3,15), le promesse fatte ad Abramo (Gen 12,2-3), la profezia della stella (Nm 24,17), la profezia di Mosè sul profeta futuro (Dt 18,15) e quella di Giobbe (Gb 19,25-26). Sono messi parimenti in risalto i testi considerati come annunci dei misteri di Cristo quali l’adorazione dei magi (Sal 72,10), la fuga in Egitto (Is 19,1), la vita a Nazareth (Gl 13,5), oppure la proclamazione della buona novella ai poveri (Is 61,1).

In tre pagine della decima edizione della Storia sacra l’autore elenca una lista di “profezie avverate in Gesù Cristo”. A proposito dell’origine, dell’epoca e del luogo di nascita del Messia scrive:

In più luoghi dell’Antico Testamento si legge che il Messia doveva nascere dalla tribù di Giuda, dalla stirpe di Davide. Giacobbe morendo notò il tempo della nascita del Messia con queste parole: “Lo scettro, ovvero la sovrana potestà ed il potere legislativo, non sarà tolto da Giuda, né il principato dalla sua posterità, finché venga Colui che deve essere mandato, e Questi sarà l’aspettazione delle genti”. Daniele annunziò che non sarebbero scorsi 490 anni prima della sua venuta e della sua morte. Michea predisse ch’Egli nascerebbe in Betlemme (OE27 349s).

L’attesa del popolo di fronte a Giovanni Battista è evidentemente un’attesa messianica nutrita durante tanti secoli passati. Ci vorrà tutta l’umiltà di Giovanni per allontanare da sé la speranza della gente e orientarla verso il vero Messia atteso: Gesù di Nazareth.

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

Immagine della domenica

Lago Arvo-Sila-Località Lorica (Cosenza)   –   2021  

«Credo nel sole,

anche quando piove».

(Anna Frank)

Preghiere e racconti

Battesimo di Cristo come metafora

«Un tentativo di rendermi conto dell’amore di Dio è stato per me la meditazione sul battesimo di Gesù (Lc 3,21s.). Gesù si cala nel Giordano, nell’acqua che è carica della colpa dei molti che si sono fatti battezzare nel fiume da Giovanni. Mentre entra in acqua, il cielo si apre sopra di lui. E Dio gli dice: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Nella meditazione ho sperimentato la realtà di questo amore quando ho sovrapposto consapevolmente la frase «Tu se il mio figlio prediletto» alla paura, all’oscurità, al fallimento, alla mediocrità, alla menzogna esistenziale in me. Ho tentato di calarmi nell’acqua del mio inconscio, nel regno delle tenebre in cui ho rimosso tutto quanto fugge alla luce del sole, ciò che non mi va di guardare alla luce del giorno. Per me è una bella immagine del battesimo di Gesù il fatto che il cielo sopra di lui si sia aperto proprio quando egli si è calato nelle profondità del Giordano. Il cielo vuole aprirsi anche sugli abissi della mia anima. Ma devo avere il coraggio di calarmi in tali abissi, per percepire là in fondo, con un suono nuovo, le parole: «Tu sei il mio figlio prediletto»; «Tu sei la mia figlia prediletta». Solo quando ho sovrapposto alla mia esistenza concreta la frase secondo cui sono il figlio prediletto, essa mi ha toccato nell’intimo, donandomi la pace interiore. Ogni parlare che si fa dell’amore di Dio ci lascia indifferenti se non giunge alle esperienze della nostra vita quotidiana.

Gesù si cala nei flutti della colpa, nell’inconscio, nella pulsionalità, negli elementi della terra, come lo rappresentano sempre le icone. Calandosi in essi, prega tanto intensamente che il cielo si apre sopra di lui, che quanto è essenziale prorompe e la luce di Dio risplende sopra di lui. È un profondo desiderio anche mio quello di saper pregare in modo tale che il cielo si apra sopra di me, che l’amore di Dio rifulga nel profondo del mio inconscio, negli abissi della mia colpa. E anelo a saper pregare anche per gli altri, in modo tale che il cielo si apra sopra di loro. Pregare significa aprire il cielo sopra le persone, in modo che sia loro consentito di sentire il rapporto con Dio come la loro unica salvezza.

Gesù sente dal cielo aperto la voce di Dio che è rivolta a lui: «Tu sei il figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11). Questo è anche il mio anelito più profondo, l’essere il figlio prediletto di Dio, non essere rispettato, ammirato e amato solo dagli esseri umani, bensì da Dio, la causa prima di ogni esistenza, il creatore del mondo».

(A. GRÜN, Apri il tuo cuore all’amore, Queriniana, Brescia, 2005, 20-23).

La parola è “Amato”

[…] Come cristiano, ho scoperto per la prima volta questa parola nella storia del battesimo di Gesù di Nazareth.

«Non appena Gesù uscì dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E sentì una voce dal cielo: “Tu sei mio Figlio, l’Amato, in te mi sono compiaciuto”». […] Sì, è quella voce, la voce che parla dall’alto e da dentro i nostri cuori, che sussurra dolcemente o dichiara con forza: “Tu sei il mio Amato, in te mi sono compiaciuto”. Non è certamente facile ascoltare quella voce in un mondo pieno di altre voci che gridano: “Tu non sei buono, sei brutto; sei indegno; sei da disprezzare, non sei nessuno – e non puoi dimostrare il contrario.”.

Queste voci negative sono così forti e così insistenti che è facile credere loro. Questa è la grande trappola. È la trappola del rifiuto di noi stessi.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 23-24).

La lotta spirituale come esigenza battesimale

La lotta spirituale è organica alla vita cristiana tout-court: essa riguarda tutti i cristiani, non certo solo i monaci o altre “categorie” di iniziati… La necessità di tale lotta discende dal battesimo, è inerente la vita cristiana in quanto tale, e questo secondo tutto il NT e la tradizione cristiana. Il NT definisce «bella» questa lotta (1 Timoteo 1,18; 6,12; 2 Timoteo 4,7), cioè positiva, di altro ordine rispetto alle guerre e contese mondane, ma altrettanto dura ed esigente. È la «lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), insita cioè nell’adesione a Cristo e nella sua sequela, e riguarda ogni cristiano: essa infatti è connessa al battesimo, che sigilla la conversione, la rottura con il paganesimo e immette in una nuova vita.

Per Paolo, il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio, e poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare ad una lotta o ad un combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, ad indossare cioè quelle che Paolo chiama «armi della giustizia» (Romani 6,13-14) e «armi della luce» (Romani 13,12).

Si tratta delle armi della fede, della preghiera, dell’ascolto della Parola di Dio, della docilità all’azione dello Spirito, che consentono al credente di veder agire in sé la forza di Dio stesso. Come Gesù, appena battezzato, ha affrontato l’assalto di Satana e ha combattuto le tentazioni (cfr. Matteo 4,1-11; Luca 4,1-13; Marco 1,12-13), così il cristiano dovrà attendersi, dopo il suo battesimo, una dura lotta contro l’Avversario.

Chiamato a entrare per la porta stretta (Luca 13,24), posto di fronte all’impossibilità di servire due padroni (Luca 16,13), il battezzato, cosciente dell’urgenza dell’ora escatologica instaurata dal Signore Gesù, deve attuare una scelta di campo mettendosi a servizio di Dio e non del peccato (Romani 6,12-14). Il NT definisce il cristiano «soldato di Gesù Cristo» (2 Timoteo 2,3) e afferma che deve sforzarsi di «piacere a chi l’ha arruolato» (2 Timoteo 2,4). Questa lotta assicura l’incessante dinamismo della vita cristiana ed è diretta contro «il peccato che ci assedia» (Ebrei 12,1), contro «il Maligno» (Efesini 6,16), contro quelle potenze indicate con nomi differenti (Efesini 6,12), ma che designano cumulativamente quelle forze negative, presenti nell’uomo e fuori di lui, che tendono a far ricadere il cristiano nella situazione pre-battesimale. È dunque una lotta che si combatte con armi spirituali: vigilanza e perseveranza (Efesini 6,18; Ebrei 12,1), sobrietà (1 Tessalonicesi 5,6.8), temperanza (I Corinzi 9,25), rinuncia e dominio di sé (1 Corinzi 9,27), capacità di soffrire per il Signore (Filippesi 1,29-30; Ebrei 10,32-33), pazienza ed esercizio alla pietà (1 Timoteo 4,8), e soprattutto preghiera (Efesini 6,18-20; cfr. Sapienza 18,21). Il messaggio neotestamentario è dunque esplicito sul carattere battesimale di questa lotta: vi è un rigoroso aut-aut che accompagna il cristiano nella sua vita e che gli contesta qualsiasi compromesso con la mondanità e con il peccato. È la vita cristiana stessa che è una battaglia, una lotta: essa esige lotta contro le tentazioni, ascesi della mente e del corpo per acquisire il necessario dominio di sé, la vigilanza costante sulle relazioni con sé e con gli altri, la disciplina del tempo e degli impegni, la purificazione delle relazioni. Contro che cosa si combatte? Possiamo riprendere le parole di Ilario di Poitiers che, scritte nel corso di quel IV secolo che ha visto il progressivo passaggio del cristianesimo dalla condizione di religione dei martiri a religione ufficiale, di Stato, si adattano molto bene alla nostra attualità:

«Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga… Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci da la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Ilario di Poitiers , Liber contra Constantium, 5).

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI /PIEMONTE-VALLE D’AOSTA, Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 139-140.

Il battesimo di Gesù

I nuovi tempi sono già iniziati,

i tempi nuovi che il mondo attendeva

fin dall’origine, gli ultimi tempi:

e fu la voce dal cielo a bandirli.

«Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre,

nel quale ho posto la mia compiacenza»:

così è spuntata l’aurora del mondo

e fu l’inizio di nuova creazione.

Ma tu sei venuto a battezzarci

in Spirito santo e fuoco:

non vale l’acqua soltanto

ma l’acqua e il sangue

che sgorga dal tuo costato, Signore:

così sia il nostro battesimo

affinché i cieli si aprano anche su di noi.

Amen.

E cielo e fiume insieme si aprirono:

è il nuovo esodo e il patto per sempre!

Come colomba lo Spirito scese

e fu la quiete seguita al silenzio.

David Maria Turoldo  

     

Preghiera

Ancora e sempre sul monte di luce                                   

Cristo ci guidi perché comprendiamo                                 

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

SANTA FAMIGLIA

Lectio – Anno C

Prima lettura: 1Samuele 1,20-22.24-28

          Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuèle, «perché – diceva – al Signore l’ho richiesto». Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre». Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo. Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona, mio signore. Per la tua vita, mio signore, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore». E si prostrarono là davanti al Signore.  
  • L’esperienza di Anna è quella di una maternità sofferta. La donna è sterile e viene nel santuario di Silo a chiedere a Dio la grazia di un figlio (1Sam 1,9-19). Il sacerdote che osserva il fervore della sua preghiera si sente autorizzato a darle una risposta rassicuratrice: «Va in pace e il Dio d’Israele ascolti la domanda che gli hai fatto» (1,17).

     Secondo l’attesa nasce il bambino desiderato. Ma c’è ora da adempiere l’impegno preso al momento della desolazione. «Io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita», aveva detto nel dolore (1,11). Il piccolo Samuele è il figlio della promessa, come il suo stesso nome ricorda «Il Signore ha ascoltato».

    Ora che il bambino è in qualche modo autosufficiente, Anna compie il suo pellegrinaggio verso il santuario di Silo per presentarsi alla faccia del Signore. E per ricevere sicura udienza offre prima un sacrificio di propiziazione e quindi presenta il bambino per offrirlo al servizio del luogo sacro…

     «Il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda» (1,27-28). Non è un baratto, ma una coerenza del proprio credo. Se JHWH dona deve anche ricevere.

    È la logica che ha guidato a suo tempo i passi di Abramo, il padre dei credenti. Pure lui aveva ricevuto miracolosamente un figlio e cede senza discutere alle richieste di chi glielo aveva accordato, ma la prontezza, quindi la sua fede, è il presupposto per riaverlo nuovamente (Gn 22).

    Samuele è consegnato al Signore e rimarrà nel santuario di Silo alla scuola del gran sacerdote Eli; non ritornerà a Ramataim, nelle montagne di Efraim, con i genitori, ma diventerà presto la guida spirituale di tutto Israele. «Da Dan a Bersheba», da un estremo all’altro del paese, tutto il popolo seppe «che era stato costituito profeta del Signore» (1Sam 3,20). Iddio non si era lasciato vincere in generosità.

    E la madre che aveva pianto per la sua sterilità, per la carenza, di un figlio, ora che l’ha perso donandolo al Signore non è afflitta ma, piena di esultanza, intona un canto di gioia e di ringraziamento che sarà l’anticipo del Magnificat di Maria (2,1-10; cf. Lc 1,46-55).

Seconda lettura: 1Giovanni 3,1-2.21-24

               Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.  
  • Le «Lettere» di Giovanni fanno parte di quelle chiamate «cattoliche» dirette cioè non a una singola chiesa, ma a una cerchia più ampia di credenti, in pratica alle comunità cristiane di Asia che registrano nel loro interno i primi attriti e le prime divisioni.

    La condizione del cristiano, secondo l’autore della lettera, è unica, poiché in virtù della sua fede e della rigenerazione battesimale è passato realmente in uno stato di vita nuova che è quello dei figli di Dio.

    Il discorso non è propriamente teologico, ma pratico e soprattutto pastorale. Il «figlio» è colui che è generato dal seno del padre (cf. Gv 1,13.18) non tanto un prodotto della sua potenza. Tra le cose, gli esseri e l’uomo c’è per l’autore biblico, davanti a Dio, una grande differenza, poiché solo l’uomo è a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1,26).

    Il nuovo Testamento fa un passo avanti e stabilisce tra Dio e l’uomo una relazionalità, quasi una parentela che induce il primo a chiamarsi «padre» e il secondo a dirsi «figlio». È  sempre un linguaggio analogico, mutuato cioè dal mondo degli uomini dove la relazione più intima e più cara che esiste tra persone è quella tra i genitori e i figli.

    Il cristiano è colui che ha accettato la testimonianza di Gesù Cristo, vive secondo le sue proposte, soprattutto si prova ad amare i suoi simili, persino i nemici. Egli vive secondo una perfezione che solo Dio possiede. «Se così farete, perdonate cioè anche a quelli che non lo meritano, sarete perfetti come il Padre vostro che è nei cieli» ricordano Matteo e Luca (5,43-48; 6,36:23,34).

     La lettera di Giovanni richiama questa dignità del cristiano che può far propri gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio. Non si tratta di un titolo accademico, di una onorificenza gratuita, ma di una promozione che nasce sì dalla fede in Cristo, soprattutto però dall’assunzione dei suoi insegnamenti a programma di vita. È l’essere veramente cristiani, cioè il tentativo di imitare il grado di carità di Gesù Cristo che rende un uomo figlio di Dio.

    Il passo centrale di tutta la lettera è sempre 1,3-7, soprattutto la frase «Dio è luce in cui non ci sono tenebre; se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri».

    La filiazione divina si rivela nel grado di capacità di accoglienza degli uomini, cioè nel grado di amore verso i fratelli. La comunione con Dio, la dimora in lui, la paternità e la filiazione, temi della lettera, si identificano alla fine con l’imitazione di Cristo, con l’amore degli uni verso gli altri.

    Non sono tanto i sentimenti quanto i comportamenti che rivelano la dignità del cristiano.

Vangelo: Luca 2,41-52

           I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
 

Esegesi

     Luca conclude, con il brano 2,41-52, il racconto dell’infanzia di Gesù. Dopo il dittico degli annunzi (1,5-55) e delle nascite (1,57-2,20) in cui la persona e la missione di Gesù ha il suo risalto soprattutto nel confronto con la figura di Giovanni (simbolo dell’antica alleanza), quella di Maria (la comunità dei credenti) e con Elisabetta (la sinagoga) seguono due quadri che si possono chiamare delle «ascensioni di Gesù al tempio di Gerusalemme», che costituiscono o meglio anticipano l’apoteosi del Cristo nel luogo dell’antico culto e davanti ai dottori d’Israele che rimangono confusi e ammirati davanti alla sapienza del nuovo rabbi che ormai ha eclissato la loro autorità.

     La storia non era andata così, ma l’evangelista non racconta ciò che era realmente accaduto, ma che avrebbe dovuto o dovrebbe accadere: Israele si convertirà e riconoscerà il messia che Dio ha inviato al suo popolo e nello stesso tempo alle genti (Lc 2,32).

     Il testo di Lc 2,41-52 (come quello di Lc 2,21-40) sotto le parvenze di una cronaca e una pagina di alta teologia o se si vuole di profonda cristologia. Il figlio del falegname di cui i nazaretani conoscono i familiari, la madre, le sorelle, i fratelli e che per questo rifiutano di ascoltare è il maestro di sapienza, il salvatore di tutti gli uomini

     Il racconto di Lc 2,41-52 ha l’aria di un episodio, ma il messaggio supera la sua portata aneddotica; bisogna seguire la sua trama, ma senza perdere di vista le alte intenzioni dell’autore.

    Il pellegrinaggio della S. Famiglia a Gerusalemme è l’occasione o il pretesto della visita di Gesù al tempio.

    L’evangelista descrive la fase iniziale della manifestazione di Gesù ma sembra che pensi soprattutto all’ultima, quella che compirà pure in occasione della pasqua.

     La separazione di Gesù dai genitori, lo smarrimento può apparire inverosimile, ma è soprattutto misterioso. Segnala la strada di Cristo che è solitaria. Gesù è accompagnato dai genitori nella sua infanzia, ma quando deve dar compimento alla sua missione è solo. Neanche gli apostoli gli sono di grande aiuto, piuttosto di intralcio. Essi l’abbandonano anche nell’ora del Getsemani che si conclude con la condanna capitale.

     Giuseppe e Maria sono persone reali e simboliche; sono i genitori di Gesù, ma anche i prototipi della comunità credente. Essi si preoccupano del figlio; lo ricercano, lo ritrovano e si preoccupano di capire le ragioni del suo comportamento.

     La domanda «Figlio, perché ci hai fatto questo?» riassume secoli di teologia. In altri tempi si dirà: «Cur Deus homo?» (Perché Dio si è fatto uomo?) oppure: «Perché la croce?». La morte di Cristo è il problema che ha fatto perdere l’orientazione agli apostoli, ha atterrito Paolo e rende perplessi quanti si provano a riflettervi sopra. «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», dice Maria coinvolgendo nella sua angoscia lo sposo e l’intera comunità.

     I «tre» giorni della sparizione possono contenere un’allusione ai tre giorni della sepoltura, della scomparsa di Gesù dallo sguardo dei suoi fratelli e quindi possono contenere un richiamo alla sua passione e morte.

     La risposta alla domanda di Maria e di quanti ella rappresenta non è una spiegazione ma un invito ad accettare le disposizioni che vengono dall’alto anche se non si comprendono. Al «Figlio, perché ci hai fatto questo?» segue un «Perché mi cercavate?». Ogni ricerca sulle scelte di Gesù sfocia in un bivio oltre il quale non è possibile indagare. C’è un imperativo, un dovere a cui occorre solo sottostare.

     La strada della salvezza è segnata da colui che l’ha decisa; ne ha stabiliti i percorsi e le modalità di attuazione; l’uomo deve solo seguirli. È quanto Gesù confessa alla madre e a quanti condividono le sue perplessità.

     «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Egli è, come tutti, «nato da donna», ma è anche «figlio» cioè un prediletto di Dio, un suo particolare inviato, incaricato di una speciale missione in mezzo agli uomini che è quella di richiamarli alla loro vera origine, al rapporto familiare o filiale che hanno con Dio.

     L’appellativo «padre» rivolto a Dio è quello che tutti debbono far proprio al posto di altri più solenni (Signore, altissimo, onnipotente) ma meno opportuni. Gesù tenterà innanzitutto di rinnovare i rapporti dell’uomo con Dio, sottraendolo alla subordinazione e introducendolo nel cuore della sua famiglia. Una «profanazione» che gli costerà la vita, ma egli non può deflettere da quel «dovere» che segna tutta la sua esistenza: sempre incompreso, sempre frainteso, persino dai propri intimi che vengono a prenderlo perché lo credono fuori di sé (Mc 3,21).

     La strada di Dio non è la strada degli uomini, per accettarla bisogna rinunciare a capire; occorre solo credere. È quanto Maria sembra suggerire. L’evangelista nota che «essi non compresero» (2,50) ma non aggiunge che per questo non credettero, come invece asserisce Giovanni a proposito dei «fratelli» (Gv 7,5) o fa capire parlando dei suoi avversari.

     Maria e Giuseppe non compresero, ma anche questa volta riflettono sulle cose udite, le confrontano con altre nel tentativo di riuscire se non a capirle a poterle far proprie, cioè ad accettarle, a credere (cf. Lc 2 19).

     La prima parte del quadro è offuscato dall’ombra della separazione ma la seconda e mondata dalla luce del ritrovamento e del trionfo (2 46-47). Sono messe a confronto tra di loro le due fasi della vita di Gesù: quella terrestre che si chiude sulla croce e nella tomba e quella gloriosa che si apre con la vittoria sui nemici e sulla morte (risurrezione).

     La scena di Gesù in mezzo ai dottori è nuova, più che storica è soprattutto simbolica, profetica. Di fatto Gesù aveva finito la sua esistenza ignominiosamente, con una disfatta, ma è stata una sconfitta che si e trasformata in vittoria. «Presto vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza», aveva detto Gesù ai sinedriti che stavano con-dannandolo (Mc 14,62).

     Il profeta che pochi avevano ascoltato e che pochissimi avevano accettato può parlare ora dal luogo più sacro della terra, accanto alla sede dell’unico e vero Dio e dove le più venerande autorità d’Israele avevano le loro cattedre. Esse sembrano scomparse e quelli che erano i maestri indiscussi della parola di Dio sono se non ai piedi al fianco del nuovo rabbi. È lui che fa loro le domande e in qualche modo orienta le loro risposte. Anche se sembra un ascoltatore, nella mente dell’evangelista è il dottore che ha preso il posto di Mosè ed Elia e dà prova della sua indiscussa autorità (cf. Lc 9,36).

     Quelli che erano stati i più agguerriti avversari di Gesù, appunto gli scribi, i farisei e i dottori della legge, pendono ora dalle sue labbra e quello che è più sorprendente, invece che dall’ira sono pervasi dallo stupore e dalla gioia.

     La situazione si è rovesciata. L’umile profeta galileo è diventato il maestro che Parla dai cortili del tempio, il luogo ufficiale degli interpreti della Legge, e ad ascoltarlo sono le classi dirigenti, i maestri d’Israele proprio quelli che l’avevano rifiutato e fatto condannare a morte.

     È una proiezione profetica e un auspicio che Luca ha davanti ai suoi occhi e propone ai suoi lettori. Mentre racconta la prima esistenza di Gesù guarda con ottimismo al futuro della salvezza cristiana e soprattutto al suo rapporto con l’antico Israele.

Meditazione

Celebriamo oggi la festa della Santa Famiglia di Nazaret. Anche se normalmente questa piccola comunità viene ritenuta ‘straordinaria’ e non confrontabile con le nostre ordinarie esperienze famigliari, il racconto evangelico odierno può forse farci rivedere tale giudizio, mostrandoci come la vicenda di Giuseppe, Maria e Gesù sia molto più vicina, ‘simpatica’ e addirittura imitabile da una qualsiasi famiglia che voglia davvero far crescere tutti i suoi membri.

     Il brano, riportato dal solo Luca, apre uno squarcio nel silenzio dei trent’anni trascorsi da Gesù in famiglia. Ci narra una vicenda svoltasi, significativamente, nell’anno in cui Gesù giunge alla maturità religiosa: a dodici anni, infatti, si diviene bar mitzwa, figlio del comandamento, e si è tenuti all’ascolto operoso della parola di Dio.

     In modo esplicitamente ricercato o accogliendo le sollecitazioni della vita, tutti noi abbiamo vissuto degli avvenimenti simbolici che hanno segnato alcune tappe, alcune svolte fondamentali della nostra esistenza: dal non dormire più nella camera dei genitori al ricevere le chiavi di casa, dalla scelta della scuola e del lavoro al primo viaggio in solitudine, dalla ricerca di una autentica amicizia alla prima preghiera fatta liberamente, senza la necessità di compiacere alcuno… Sono ‘riti’ che si imprimono nella carne, nella memoria profonda di ognuno e ai quali vale la pena talvolta ritornare per ripercorrere il nostro cammino, ritrovando vigore nuovo.

     Queste esperienze presentano e richiedono sempre dei tratti comuni: curiosità esistenziale, ricerca di novità, coraggio di staccarsi dalle relazioni ordinarie, perseveranza… Ci si potrà dirigere verso qualcosa di proibito o di sconsigliato, di rischioso o di illecito ma anche verso qualcosa di ambito e raccomandato, di consigliato e suggerito. Potrà essere l’ambito affettivo o quello lavorativo, quello religioso o quello avventuroso… Comunque sia, lo si farà da soli! A modo proprio. E difficilmente lo si potrà esprimere e raccontare, giustificare, in modo convenzionale: ma questo può essere garanzia di autenticità. Quale genitore, seppur nel dolore del distacco, del taglio del ‘cordone ombelicale’, non ha la sua più grande soddisfazione nel vedere i propri figli camminare autonomamente, alla ricerca della verità e dell’autenticità? Non è forse gioia grande osservare nei figli il desiderio di superare le convenzioni per intraprendere un cammino di ricerca personale, la ‘propria via’? Ogni genitore conosce questo passaggio, sa che deve vigilare su di esso con prudenza. Eppure capita spessissimo che si verifica un’incapacità di leggere e capire le vicende dei propri figli. Come anche i loro linguaggi e messaggi: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (2,49).

     La famiglia di Nazaret non si sottrae a questa esperienza. L’angoscia (cfr. 2,48) che arriva a investire Maria e Giuseppe cozza violentemente contro la decisa autonomia – non è una scappatella adolescenziale! – rivendicata con intensità da Gesù. E scoppia l’incomprensione…

     Come quindi si diceva sopra: niente di nuovo sotto il sole! Oggi come allora. Un’esperienza di fatica, di frustrazione reciproca ma anche qualcosa di necessario, di liberante. La festa vera di una famiglia sta proprio nel veder sorgere al proprio interno una personalità adulta, nell’accompagnare la sua crescita con rispetto e discrezione – «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (2,51) -, nel ritrovare la dimensione fondamentale di coppia senza ridursi a quella di genitore, nell’accogliere gli stimoli nuovi immessi dai nuovi linguaggi. A questo proposito, il nostro testo ci consegna le prime parole di Gesù riportate dal terzo evangelista e sono una formidabile sfida e verifica del nostro cammino di fede: «Perché mi cercavate?» (2,51).

     C’è dunque un mistero di morte e risurrezione dentro ogni famiglia e il nostro brano vi allude ripetutamente: Gesù viene ritrovato nel tempio dopo tre giorni (cfr. 2,46; 24,46); non si comprende la ragione di questa separazione (cfr. 2,48; 24,14); lo si ritrova dove non ci si aspettava (cfr. 2,46; 24,31). Pasqua in famiglia!

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco commenta il racconto di Luca

Il vangelo della solennità della Sacra Famiglia inizia con il racconto di un immenso dolore per la famiglia di Nazareth. Nella “Corona di Maria addolorata”, inserita da don Bosco nel suo Giovane provveduto, lo smarrimento di Gesù dodicenne costituisce il terzo dolore di Maria, dopo la profezia del vecchio Simeone e la fuga in Egitto (OE2 295s). Il primo grande dolore del piccolo Giovanni Bosco, invece, fu la morte del padre. Pare significativo anche il fatto che nel raccontare questo dolore nelle sue Memorie dell’Oratorio, don Bosco usi per la prima volta il termine “famiglia” scrivendo: “Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione” (MO 60). 

Il vangelo di oggi è un invito speciale a cercare Gesù, e a trovarlo soprattutto nel tempio. Così, per incoraggiare la frequenza al tempio di Maria Ausiliatrice appena consacrato, don Bosco ricordava nelle Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice l’episodio evangelico:

Nel tempio si riceve la divina misericordia. Nel tempio Maria e Giuseppe trovarono Gesù quando lo ebbero smarrito; nel tempio lo troveremo noi se lo cercheremo con quello spirito di santa fiducia e di santo timore con cui lo cercarono Maria e Giuseppe (OE20 344).

Quando l’avremo trovato, potremo dire con la sposa del Cantico dei Cantici citata nella Corona dei sette dolori di Maria: “Ho ritrovato quello che veramente ama il mio cuore; lo riterrò sempre con me, né lo lascerò mai più partire” (OE23 35).

Nel raccontare la scena di Gesù nel tempio di Gerusalemme, don Bosco sembra voler sottolineare anche la precoce saggezza del ragazzo che “disputava coi dottori della legge, essendo in età di anni dodici”, come leggiamo nella Maniera facile per imparare la Storia sacra (OE6 93). Lui stesso ha potuto costatare dei segni di grande maturità umana e spirituale in certi ragazzi molto giovani, come Domenico Savio, Michele Magone o Francesco Besucco.

Quanto all’apparente rimprovero di Gesù ai genitori, don Bosco lo cita come modello per coloro che vogliono seguire ad ogni costo la chiamata di Dio. Ai giovani religiosi forse tentati dai richiami della famiglia, don Bosco ricordava le parole di Gesù in una conferenza riportata nelle Memorie biografiche: “Così noi dobbiamo rispondere a chi volesse distaccarci dallo stato, dal luogo, nel quale il Signore ci vuole: non sapete che io debbo fare la volontà del mio Padre celeste?” (MB12 561s).

Ma la sorprendente risposta di Gesù, che attesta il primato assoluto della volontà del Padre celeste, non annulla per niente la sottomissione ai genitori. Nella Storia ecclesiastica don Bosco presenta Gesù dopo l’episodio del tempio come un giovane assolutamente obbediente ai genitori: “Ritornato in Nazareth, tutto sommesso ed ubbidiente a Maria e a san Giuseppe s’occupò nei bassi lavori di semplice artigiano” (OE1 182).

Obbedienza e crescita poi sono le due caratteristiche di Gesù durante la sua giovinezza, come se ci fosse un legame inscindibile tra le due cose. Leggiamo infatti nell’edizione del 1876 della Storia sacra di don Bosco: “La storia della giovinezza di Gesù è compendiata in queste parole: Gesù era obbediente a Maria ed a Giuseppe, e cresceva in età ed in sapienza dinanzi a Dio ed agli uomini”. Di qui la raccomandazione di don Bosco ai ragazzi che vogliono crescere: “Studiatevi, o giovani, per imitare Gesù nell’ubbidienza; sia egli l’unico vostro modello; fate di esser docili e pii” (OE27 359).

Insieme all’obbedienza, l’altra caratteristica di Gesù durante la sua giovinezza viene descritta dall’evangelista con queste poche parole: “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”. Nella Vita del giovane Besucco Francesco don Bosco ci tiene a mostrare come quel ragazzo è riuscito a crescere attraverso lo spirito di preghiera, l’obbedienza alla mamma e il coraggio di alzarsi di buon mattino per servire la messa: “Con queste disposizioni – conclude don Bosco – cresceva il fanciullino in età ed in grazia presso Dio e gli uomini” (OE15 257).

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

PRESEPE CONGREGAZIONE CAUSA DEI SANTI (ROMA)   –   NATALE 2021   

 

«Per tutti il Natale sia l’occasione di riscoprire la famiglia come culla di vita e di fede; luogo di amore accogliente, di dialogo, di perdono, di solidarietà fraterna e di gioia condivisa, sorgente di pace per tutta l’umanità. Buon Natale a tutti!».

(Papa Francesco, Natale 2020)

Preghiere e racconti

La casa di Nazaret

“La casa di Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo. Qui si impara a osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio, tanto semplice, umile e bella. Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del vangelo e diventare discepoli del Cristo. Non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazaret.

In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! Silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l’interiorità della vita, la preghiera che Dio solo vede nel segreto.

Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile. Ci faccia vedere com’è dolce e insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell’ordine sociale. Infine impariamo la lezione del lavoro.

Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana”

(Paolo VI, Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1965).

La mamma è qui

«Il bambino amato sente che ha qualcosa di bello, di valido, e che esiste per qualcuno perché si sente scelto. Il bambino si sente scelto solamente quando c’ è una figura femminile affettivamente disponibile, gratuita, permanente, che vive per lui. Non si può essere madre e padri a ore. Ogni bambino svegliandosi ha bisogno di vedere il volto della madre che gli sorride e andando a letto vuole il bacio della buona notte, la benedizione di papà e mamma e quando ritorna a casa da scuola ha il desiderio di sentirsi rispondere “la mamma è qui”.

(Oreste BENZI, Per la Famiglia. La coppia oggi tra libertà dell’uomo e mistero di Dio, Rimini, Guaraldi, 1992, 73).

La Sacra Famiglia

Tre Persone e un amato

esse sono tutte e tre:

in esse un solo amore,

un amante le rendeva;

l’amato tale amante

ove ognuna d’esse vive;

perché l’essere che hanno

delle tre ognuna tiene

e ciascuna d’esse ama

chi tal essere possiede.

Questo esser è ciascuna,

questo solo le congiunge

in un nodo sì ineffabile

che ridire non si può;

infinito è per tal modo

quell’amore che le unisce,

che in tre è un solo amore,

lor sostanza essa si dice;

e l’amor quanto più uno

tanto più amor produce.

(Giovanni della Croce).

La famiglia, icona della Trinità

Il Signore benedica tutti i vostri progetti, miei cari fratelli. Il Signore vi dia la gioia di vivere anche l’esperienza parrocchiale in termini di famiglia. Prendiamo come modello la Santissima Trinità: Padre, Figlio e Spirito che si amano, in cui la luce gira dall’uno all’altro, l’amore, la vita, il sangue è sempre lo stesso rigeneratore dal Padre al Figlio allo Spirito, e si vogliono bene.

Il Padre il Figlio e lo Spirito hanno spezzato questo circuito un giorno e hanno voluto inserire pure noi, fratelli di Gesù. Tutti quanti noi.

Quindi invece che tre lampade, ci siamo tutti quanti noi in questo circuito per cui e la parrocchia e le vostre famiglie prendano a modello la Santissima Trinità.

Difatti la vostra famiglia dovrebbe essere l’icona della Trinità. La parrocchia, la chiesa dovrebbe essere l’icona della Trinità.

Signore, fammi finire di parlare, ma soprattutto configgi nella mente di tutti questi miei fratelli il bisogno di vivere questa esperienza grande, unica che adesso stiamo sperimentando in modo frammentario, diviso, doloroso, quello della comunione, perché la comunione reca dolore anche, tant’è che quando si spezza, tu ne soffri.

Quando si rompe un’amicizia, si piange. Quando si rompe una famiglia, ci sono i segni della distruzione.

La comunione adesso è dolorosa, è costosa, è faticosa anche quella più bella, anche quella fra madre e figlio; è contaminata dalla sofferenza. Un giorno, Signore, questa comunione la vivremo in pienezza. Saremo tutt’uno con te.

Ti preghiamo, Signore, su questa terra così arida, fa’ che tutti noi possiamo già spargere la semente di quella comunione irreversibile, che un giorno vivremo con te.

(Don Tonino Bello)

Preghiera dinanzi al presepe      

Signore Gesù, noi ti vediamo bambino

 e crediamo che tu sei il Figlio di Dio

e il nostro Salvatore.

Con Maria, con gli angeli e con i pastori

noi ti adoriamo.

Ti sei fatto povero

per farci ricchi con la tua povertà:

concedi a noi di non dimenticarci mai

dei poveri e di tutti coloro che soffrono.

Proteggi la nostra famiglia,

benedici i nostri piccoli doni,

che abbiamo offerto e ricevuto,

imitando il tuo amore.

Fa che regni sempre tra noi

questo senso di amore

che rende più felice la vita.

Dona un Buon Natale a tutti, o Gesù,

perché tutti si accorgano che tu oggi sei venuto

a portare al mondo la gioia.

DECALOGO DELLA FAMIGLIA

1. Scopri la famiglia …

la tua e quella degli altri.

L’amore sa scoprire sempre

nuove attese, nuove speranze!

2. Conosci la famiglia,

la tua e quella degli altri,

di quella conoscenza di amore

che sa comprendere e donare.

3. Aiuta la famiglia,

la tua e quella degli altri.

L’amore verso saprà dirti

Che cosa fare per aiutare.

4. Difendi la famiglia,

la tua e quella degli altri:

… il dono dell’unione profonda e vera in Gesù,

sia la sua difesa e la sua gioia.

5. Senti la famiglia,

la tua e quella degli altri,

allora scoprirai un mondo stupendo:

io, tu, noi … uniti nel volerci bene!

6. Accogli la famiglia,

la tua e quella degli altri,

con una generosità, dimentica di sé,

che non conosca limiti nel donare.

7. Sostieni la famiglia,

la tua e quella degli altri.

La vita conosce difficoltà e ansie:

diffondi pace, accresci speranza.

8. Godi della famiglia,

della tua e quella degli altri:

aiuta a godere dei doni di Dio,

perché intorno si irradi la luce.

9. Ammira la famiglia,

la tua e quella degli altri:

perla preziosa nel campo del mondo,

meraviglia della vita che corre nel tempo.

10. Ringrazia per la famiglia,

per la tua e per quella degli altri …

con te, altri si sentiranno “figli” del Padre

che è nei cieli e, in Gesù,

loderanno il dono che rimane in eterno.

Preghiera per la famiglia

O Padre del cielo,

fa’ che nella nostra famiglia

imitiamo le stesse virtù

e lo stesso amore

della Santa famiglia di Nazareth,

perché, riuniti insieme nella tua casa,

possiamo un giorno godere

la gioia eterna.

Per Cristo nostro Signore.

Amen.

(Paolo VI)

 

La festa della Sacra Famiglia ci ricorda che la nascita del Salvatore avviene in un contesto familiare in cui viene accolto il mistero del Dio fatto uomo. Attraverso il grembo di Maria e le cure di Giuseppe, Gesù diviene membro dell’umana famiglia (Preghiera Colletta) e rivela il senso profondo della vita quale “dono” e “mistero” che ha in Dio la sua sorgente e il suo culmine. La Presentazione di Gesù al Tempio dipinta da Giovanni Bellini e conservata a Venezia, presenta il momento culminante del racconto evangelico in cui si narra che i genitori di Gesù, trascorsi i quaranta giorni dal parto, portarono il bambino al Tempio di Gerusalemme per presentarlo al Signore (cf. Lc 2,22-35). I personaggi sono dipinti su uno sfondo scuro e a mezzobusto, separati dall’osservatore soltanto da una finta cornice di marmo alla quale la Madonna appoggia il gomito destro. Il modello seguito dall’artista sembra essere quello di alcune epigrafi funerarie romane. Questa sensazione è confermata e accentuata dalla figura del bambino Gesù che è avvolto in fasce, simile a un defunto, e che ha il capo coperto da un cappuccio rosso, probabile simbolo della passione. Al centro Bellini dipinge Maria, Giuseppe e il vecchio Simeone. Per conferire profondità alla scena e meglio organizzare lo spazio, l’artista dipinge il Bambino come appoggiato su un davanzale, un possibile riferimento all’altare e al sepolcro. Il silenzio avvolge la scena, fatta di contemplazione e di consapevolezza. Dagli sguardi che si scambiano la Madonna e il vegliardo Simeone si coglie il contenuto del loro dialogo: “Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace…e anche a te una spada trafiggerà l’anima” (cf. Lc 2,29.35). Maria e Giuseppe partecipano alla passione del Figlio e accogliendolo si fanno essi stessi strumenti docili per la realizzazione della salvezza; con la loro obbedienza, poi, pongono sull’altare del sacrificio le loro esistenze come oblazione santa e gradita a Dio.


I genitori portavano il bambino Gesù al Tempio per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo. Essi adempiono ogni cosa secondo la Legge del Signore perché pienamente coscienti di essere essi stessi parte di una grande storia di salvezza, depositari di un dono e custodi di un mistero più grande di loro. «Maria e Giuseppe – ha detto papa Francesco nell’ottobre del 2013 rivolgendosi alle famiglie venute in pellegrinaggio a san Pietro per l’anno della fede -, sono la Famiglia santificata dalla presenza di Gesù, che è il compimento di tutte le promesse». Le famiglie cristiane, continuava, così come la famiglia di Nazareth, sono inserite nella storia di un popolo e sono custodi di una memoria. Ciascuna famiglia se ha Gesù al centro, mantiene la memoria della sua origine divina, la comunione trinitaria, della sua missione nel mondo, cioè essere sacramento dell’amore di Dio per l’uomo, e della sua destinazione, ovvero la partecipazione escatologica alla vita divina del Padre, del Figlio e dello Spirito.


Bellini, investigando con molte sfumature il tema dell’amore tra la Madre e il Figlio, dipinge Maria la quale tiene stretto a sé quel Figlio che tuttavia consegna alle mani del sacerdote perché si compia la volontà di Dio. Anche Giuseppe, in secondo piano, assiste al passaggio di Gesù dalle mani della Madonna a quelle del sommo sacerdote, in un gesto che esprime la consegna del Figlio da parte del Padre e la consegna del Figlio al Padre e al mondo sulla croce. Lo sfondo scuro favorisce l’assoluta concentrazione dello sguardo sui personaggi raffigurati. Nessun elemento architettonico o paesaggistico può distrarre dall’evento che in quell’istante si sta compiendo. L’artista riesce a rendere la forte umanità che si palesa nei gesti, nella posizione dei volti e soprattutto negli sguardi che si scambiano i diversi personaggi.


Maria e Giuseppe, in particolare, chinano il capo dinanzi al mistero. Sono consapevoli di ciò che Dio chiedeva loro e senza indugio, con la trepidazione del cuore e con l’adesione dello spirito, pronunciano il loro sì a Dio. Tutto ciò riceve nuova luce se rileggiamo il n. 23 della Relatio Synodi della recente assemblea generale del Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia: «La Santa Famiglia di Nazareth ne è il modello mirabile, alla cui scuola noi “comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo” (Paolo VI, Discorso a Nazareth, 5 gennaio 1964). Il Vangelo della famiglia, nutre pure quei semi che ancora attendono di maturare, e deve curare quegli alberi che si sono inariditi e necessitano di non essere trascurati».

La santa Famiglia

Al centro di questa icona. Gesù è al tempo stesso punto focale e motivo di unione tra Maria e Giuseppe. Egli, seduto su un trono regale, è rivestito dell’abito che rivela la sua onnipotente e mite regalità; con un gesto ampio e carico di dolcezza, benedice i genitori e noi che contempliamo l’icona.

Sul capo del Figlio scende un raggio con la simbologia delle altre due Persone della divina Trinità: del Padre, a cui allude la mano creatrice, e dello Spirito Santo, nel simbolo della bianca colomba. Con il gesto indicativo delle mani, Maria e Giuseppe mostrano e porgono alla nostra fede la pienezza del Mistero della Santissima Trinità che dimora nella loro vita. Tale Mistero, che riempie e che dona armonia alla vita, è qui unito da un raggio di luce che raffigura il legame d’amore che ogni famiglia tenta di esprimere nell’umile quotidianità della vita e che la santa Famiglia di Nazaret ha vissuto in maniera compiuta.

E tu,

Madre,

cui era stata predetta una spada nell’anima,

ogni giorno trepidante

segui la vita di un figlio che non è tuo…

Non sono nostri i figli,

Maria!

Sono i figli e le figlie della vita.

Hanno un percorso da compiere,

una gioia da realizzare,

un amore da costruire.

Come frecce scoccate lontano

i nostri figli se ne vanno…

Custodiscili tu,

o Madre,

e prega

per tutti i figli e le figlie dell’umanità

lacerata da discordie

e violenze.

Consola il nostro cuore,

come il tuo attraversato da una spada,

e sia data a tutti

benedizione e pace.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO

IV DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Michea 5,1-4a

        Così dice il Signore: «E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me  colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui, fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra. Egli stesso sarà la pace!».  
  • Il profeta Michea è un contemporaneo di Isaia (VIII secolo). In questo passo egli dedica la sua attenzione non a Gerusalemme, ma a Betlemme, la città che ha dato i natali a Davide. A distanza di anni i discendenti di Davide non hanno ancora assolto alla loro missione. Occorre che venga un discendente particolare che darà origine a un nuovo inizio. Da Betlemme infatti verrà il Salvatore, discendente di Davide.

     Il testo profetico non è esplicito, però lo diventa alla luce del NT e anche del vangelo odierno. Il sussultare di Giovanni nel seno di sua madre alla presenza di un altro feto, si capisce se pensiamo alla identità di Gesù. Egli viene profeticamente celebrato nella prima lettura.

     Il testo di Michea è un celeberrimo vaticinio messianico. Il messia è il centro ideale e soggetto logico, anche se non sempre grammaticale. Di Lui si esalta la patria, Betlemme/Efrata (dal nome di un clan di Efratei che si era stanziato a Betlemme): una modesta borgata assurge al ruolo di protagonista perché da essa «uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele» (v. 1).

     I tempi non sono ancora maturi e, in attesa del grande evento, Israele sarà ancora alla mercé dei suoi nemici (cf. v. 2). Tra la profezia di Michea e la sua realizzazione si colloca la speranza, autentico motore della storia di Israele.

     La figura del Messia è caratterizzata come il pastore che «pascerà con la forza del Signore»: affiora un tema a largo spettro biblico (cf. Ez 34; Gv 10). La espressione «con la maestà del nome del Signore, suo Dio» suona un po’ barocca, ma serve all’autore a far capire che Dio si impegna personalmente; per noi è facile leggere tra le righe la divinità del Messia (cf. v. 3).

     Il v. 4 conclude l’oracolo profetico e ne riassume il significato: la pax davidica fu effettivamente vissuta nei primi anni del regno di Salomone. Ora la storia freme verso il futuro e colui che nascerà porterà la vera pace, lui chiamato «principe della pace» (Is 9,8).

Seconda lettura: Ebrei 10,5-10

         Fratelli, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”». Dopo aver detto: «Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato», cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: «Ecco, io vengo per fare la tua volontà». Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.     
  • La Bibbia ha sempre di mira una visione ‘olistica’ della realtà: la sola prospettiva biologica non basta a garantire la grandezza della vita. Che a colui che doveva nascere fossero riconosciuti indiscussi segni di grandezza morale, lo avevano detto bene le due precedenti letture: sia la muta testimonianza di Giovanni o quella esplicita di Elisabetta, sia il messag-gio della profezia di Michea. La presente lettura ha il merito di interpretare la piena consapevolezza del Messia e il suo totale ingaggio a favore dell’umanità.

     La lettera agli Ebrei parla della morte di Gesù servendosi del linguaggio cultuale dell’AT. Gli ordinamenti cultuali antichi avevano funzione preparatoria e quindi transitoria. Non era ancora giunto quanto Dio desiderava. Poi arriva Cristo con l’offerta della sua vita. L’Autore trova un prezioso parallelo nel Sal 40 che egli cita nel testo greco dei LXX.

     La pienezza della vita viene raggiunta con il dono della medesima, perché solo allora si tocca il vertice dell’amore di Dio («Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà») e dell’amore del prossimo («Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» Gv 15,13).

Vangelo: Luca 1,39-45

        In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».  

Esegesi

     Troviamo ora insieme due donne, Elisabetta e Maria, che in precedenza Luca aveva presentato separatamente. Se un filo di soprannaturale comunione le legava già prima, in quanto parte attiva del progetto amoroso di Dio, ora hanno l’opportunità di incontrarsi e di comunicare.

     Il brano si compone di due parti, introdotte da un quadro di riferimento cronologico-geografico: dopo l’evento dell’annunciazione, Maria si trasferisce dal nord (Nazaret) al sud (città di Giuda) (cf. v. 39). In tale contesto si colloca dapprima l’incontro delle due madri (vv. 40-45), quindi la preghiera di Maria, il Magnificat, nata in quell’occasione e per quell’occasione (vv. 45-48; in realtà continua fino al v. 55, ma il testo liturgico si interrompe prima). Dal confronto delle due parti, vediamo che la prima è dominata dalla parola di Elisabetta, mentre la seconda dalla parola di Maria. Due madri che, ciascuna a proprio modo, cantano un inno alla vita.

     Dopo la stupenda esperienza di Nazaret che la promuoveva a ruolo di ‘Madre di Dio’, Maria non appare una creatura beata in se stessa, isolata nella sua intimità divina, bensì un essere corporeo, fatto di concretezza, di sensibilità e di disponibilità. Ella lascia la mistica tranquillità della sua casa e si mette in strada. Non viene detto espressamente il motivo del viaggio; tutto lascia pensare che la causa sia da ricercare nell’annuncio angelico: Maria era stata informata che la parente Elisabetta era al sesto mese di gravidanza (cf. v. 37). Il fatto che ella si fermerà tre mesi, giusto il tempo perché il bambino possa nascere, permette di concludere che effettivamente Maria intenda recare aiuto alla futura mamma. Ella si muove e va là dove la chiama l’urgenza di un bisogno. «In fretta» esprime la sollecitudine di recare il giovanile aiuto all’anziana parente. L’amore al prossimo, anche in questo caso, testimonia l’autenticità dell’amore a Dio.

     Non sono fornite indicazioni geografiche, se non un generico «verso la regione montuosa, in una città di Giuda». Una tradizione del VI secolo identifica il luogo con Ein Karem, la cui scelta è forse dovuta alla bucolica serenità del luogo e al fatto di essere equidistante da Gerusalemme e da Betlemme. A noi interessa rilevare lo spostamento da Nazaret, al nord, verso la Giudea, al sud, con un percorso di circa 150 Km che richiedeva circa tre giorni di cammino. Da questo cammino, non privo di fatica e di disagi, verrà la possibilità di un incontro e quindi della lode. Cammino, incontro e lode sono quindi i tre segmenti che costruiscono l’armonia di questo racconto.

     Maria si mette in cammino. Grazie a lei anche Gesù, prima ancora di nascere, è in movimento verso gli altri, profetico anticipo della sua missione itinerante che intende portare a tutti la parola che aiuta e che salva. Luca utilizza l’episodio per mettere alla luce quanto si era compiuto nell’intimità di Nazaret, che solo con il dialogo con un’interlocutrice poteva lasciare la sua segretezza e la sua dimensione individuale.

     La prima scena è dominata da Elisabetta e dalle sue parole; non va dimenticato che queste si sprigionano dal suo animo quando sono sollecitate da Maria. Due eventi causano e spiegano tali parole. Il primo, apparentemente ordinario, è l’ingresso di Maria nella casa di Zaccaria con il conseguente saluto rivolto a Elisabetta. È una felice ‘provocazione’. Il saluto origina il secondo evento, il sussulto del bambino di Elisabetta che sembra riconoscere la voce di Maria e, più ancora, sembra relazionarsi a colui che ella porta in grembo.

     L’incontro delle due madri è l’occasione per l’incontro dei due figli che portano in grembo, Giovanni e Gesù. Su di loro riposa lo spessore teologico del brano. Si instaura ancora a livello di feto quella dipendenza gerarchica, un misto di servizio incondizionato e di gioia piena, che caratterizzerà la vita di Giovanni. Egli testimonierà: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo: Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,29-30). Al presente c’è una percezione che si riverbera in un sussulto di gioia. Le due madri sono ‘arche sante’, ‘ostensori sacri’ di due esseri destinati l’uno a tratteggiare la via, l’altro ad essere lui stesso via. La scena, pur dominata dalle due madri, ha il suo fulcro nella percezione che Giovanni ha di Gesù e nell’implicito riconoscimento della sua grandezza.

     Effettivamente le parole di Elisabetta documentano che lo spessore teologico attraversa i ‘concepiti’ più che le madri: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (vv. 42-43). Con una espressione semitica che equivale a un superlativo («fra le donne»), Maria viene celebrata per la sua funzione o carisma (essere «Madre del mio Signore») e per la sua adesione incondizionata a tale vocazione. A lei vengono riservate una benedizione («benedetta tu») e una beatitudine («beata»).

     La benedizione è una formula tipica dell’AT, dove il verbo ebraico barak e il sostantivo derivato berakah si trovano ben 398 volte. Secondo diversi studiosi, la radice ebraica brkh è collegata a berekh (= ginocchio) creando il nesso tra la benedizione e l’inginocchiarsi, tipico atto di adorazione e di omaggio alla divinità. Nella Bibbia le benedizioni si dividono in ‘ascendenti’ quando celebrano Dio per qualche intervento (cf. Sal 41,14) e ‘discendenti’ quando si invoca la potenza di Dio su qualcuno o su qualcosa (cf. Nm 6,24-27) o quando è lo stesso Dio a benedire (cf. Gn 1,28). La benedizione è un dono che ha rapporto con la vita; possiamo affermare che la ricchezza fondamentale della benedizione è quella della vita e della fecondità: questo vale tanto per la terra, quanto per le persone (cf. Dt 28,1-14). Lo vediamo bene nel nostro passo, quando alla benedizione per Maria viene affiancata quella per il figlio: «e benedetto il frutto del tuo grembo!». Maria viene celebrata proprio per la sua maternità. Così la benedizione viene da Dio e a Lui ritorna ora sotto forma di invocazione e di preghiera; è un riconoscere quello che Lui ha fatto.

     La beatitudine del v. 45 la prima del vangelo di Luca, certifica l’adesione di Maria alla volontà divina. Ella quindi non è solo destinataria privilegiata di un arcano disegno che la rende benedetta, ma pure persona responsabile che accetta e aderisce. Maria non è una creatura che sa, ma una creatura che crede, perché si è aggrappata ad una parola nuda che ella ha rivestito di amore. Ora Elisabetta le riconosce questo amore, espresso con «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto», e la celebra come la prima di tutte le donne. Maria va da Elisabetta per un servizio domestico, Elisabetta le restituisce il servizio liturgico della lode, riconoscendola benedetta come madre e beata come credente.

     Il ‘cantico di Elisabetta’ (cf. vv. 42-45), dono dello Spirito, pubblicizza per il lettore e per il credente il mistero che Maria pensava affidato alla segretezza della sua intimità. Non esiste rapporto autentico con Dio che non abbia la possibilità di diventare ‘pubblico’: questo è il concetto fondamentale di carisma e Maria ha in primis il carisma di essere la «madre del mio Signore», come le riconosce la parente. L’incontro di due madri in attesa, diventa l’incontro del frutto che hanno in grembo; Giovanni percepisce la presenza del suo Signore ed esulta, esprimendo con il suo sussultare la gioia a contatto con la salvezza, che Maria potrà formalizzare nel canto che segue.

Meditazione

Con la quarta domenica di Avvento la liturgia, dopo essere ‘partita dalla fine’, dal compimento della storia e dalla venuta del Figlio dell’uomo, dopo aver ascoltato la ‘parola’ che è Giovanni il Battezzatore, l’uomo del deserto e dell’Avvento, ora nell’ultima tappa dà inizio alla lettura dei testi che nei Vangeli narrano la venuta storica del Messia. In particolare sono i ‘poveri’ di YHWH a fare la loro comparsa nella liturgia di questa domenica: saranno i ‘protagonisti umani’ di tutto il tempo di Natale: coloro che sanno accogliere! Gli umili e i poveri sono coloro che hanno occhi per vedere e riconoscere la visita di Dio. Fino alla solennità dell’Epifania saranno il modello per il credente di oggi, chiamato a vedere che Dio continua a visitare il suo popolo e a incarnarsi nella storia perché tutto in Lui sia ‘re-intestato (Ef 1,10).

E tu Betlemme, la piccola

Nel testo di Michea si parla di piccolezza e di grandezza nel medesimo tempo. Betlemme è un piccolo borgo della Giudea, chiamato ad essere il luogo della nascita di colui che «pascerà il suo popolo con la gloria del Signore».

Come da Betlemme uscì il grande Re Davide (1Sam 16,4; 17,12), il più piccolo della casa di suo padre Jesse (1Sam 16,7), colui che fece la grandezza del regno di Israele, riunendo in un’unica realtà politica tutte le tribù, così anche il Messia, figlio di Davide, colui che doveva compiere le profezie fatte al Re di stabilire per sempre la sua discendenza sul trono di Israele, viene dalla più ‘piccola’ tra le città di Giuda.

Come nella scelta di Davide, anche nella vicende che accompagnano la nascita di Gesù si scopre il volto di un Dio che segue parametri totalmente differenti da quelli che l’uomo sarebbe portato a seguire. Come ai tempi di Davide, anche ora la scelta di Dio cade sui più piccoli, perché Dio non guarda ciò che guarda l’uomo: «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7).

La gioia dell’incontro

Nel brano evangelico, il farsi strada della salvezza nella storia assume il linguaggio di un incontro. Le relazioni umane di due donne appartenenti al popolo di Israele sono il linguaggio che il vangelo di Luca utilizza per descrivere l’arrivo dei tempi del Messia. L’incontro di due donne incinte, entrambe custodi della vita che attende di sbocciare, diviene immagine della storia ‘gravida’ che sta per partorire un tempo nuovo e definitivo. Una donna sterile e anziana, come ai tempi di Abramo, il primo padre; una donna vergine, sposa pronta per l’incontro con il suo sposo, come il popolo che nel suo esilio si sente promettere da Dio di essere ‘rifatto vergine’ per grazia: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). Una donna sterile e una donna ‘vergine’ sono immagini dell’umanità che diviene capace di generare la vita. Lì, proprio lì, dove sembra che sia impossibile ogni segno di vita, ogni speranza di futuro, l’intervento di Dio fa fiorire la gioia, la danza, l’esultanza e il canto.

Ma nel vangelo di Luca si parla anche dell’incontro di due bambini non ancora nati. Un incontro che fa danzare Giovanni il Battista, che già nel grembo materno è profeta e precursore.

Questo testo di Luca è ricco di riferimenti al corpo: due donne incinte, due bambini non ancora nati, Giovanni che sussulta di gioia nel seno della madre… tutte immagini che coinvolgono il corpo in un modo molto forte e anche un po’ provocatorio. Con esse Luca ci dice che la salvezza ci raggiunge proprio nel corpo, quella dimensione — ‘dimensione’ e non ‘parte’, come spesso noi siamo portati a immaginare con un linguaggio un po’ dualistico — che nel linguaggio dell’antropologia biblica indica il luogo della relazione. Noi entriamo in relazione con il mondo e con gli altri grazie al nostro corpo. Anche questo è un annuncio provocante: la salvezza ci raggiunge nel corpo. Noi pensiamo che ci possa raggiungere nell’anima e che il corpo sia quasi un peso e un ostacolo. Invece il vangelo di Luca ci annuncia che non c’è salvezza che non passi per il corpo, perché la salvezza si gioca nell’incontro e nella relazione. Dio ha voluto descrivere sempre il suo rapporto con l’uomo e con il suo popolo come relazione, anzi come le relazioni più profonde e vere: la relazione uomo/donna, padre/figlio…

La danza di Davide

C’è un testo dell’Antico Testamento che ci può aiutare nella compren­sione del Vangelo di questa quarta domenica di Avvento: 2Sam 6. In questo testo si narra di re Davide che, ormai insediatosi a Gerusalemme e dopo aver unificato tutto il regno, decide di riportare l’Arca dell’alle­anza a Gerusalemme. Nell’ultima parte di questo racconto così bello e vivace viene descritto l’ingresso dell’Arca a Gerusalemme tra la festa del popolo e la danza di Davide. Anche qui il corpo è protagonista. Il gran­de re Davide, un peccatore dal cuore grande, ha la freschezza di un bambino nell’accogliere la visita di Dio… e sa danzare quasi nudo, senza vergogna, davanti all’Arca santa che fa il suo ingresso nella città regale: «Allora Davide andò e trasportò l’arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. Quando quelli che portavano l’arca del Signore ebbero fatto sei passi, egli immolò un bue e un ariete grasso. Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Ora Davide era cinto di un efod di lino. Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportava­no l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba» (2Sam 6,12-15).

Ma questo comportamento turba la figlia di Saul divenuta moglie di Davide, Mikal. Essa si scandalizza perché Davide si rende ridicolo agli occhi del popolo: «Bell’onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!» (2Sam 6,20). Davanti al suo sdegno, la risposta di Davide è questa: «L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!» (2Sam 6,21-22).

Elisabetta e Maria sono quelle ‘serve’, quelle donne appartenenti al popolo dei poveri e degli umili, che diventeranno l’onore di Davide e che sapranno cantare, gioire e danzare per la venuta del Signore in Gerusalemme. Anche Giovanni danza davanti a Maria che porta in sé il Signore, come Davide danzò davanti all’Arca. La vergine e la sterile che sanno gioire per un incontro diventano madri, e fanno fiorire la vita; Mikal che non danza e si scandalizza della danza diviene sterile (2Sam 6,23): immagine dell’umanità che si chiude alla vita, nel momento in cui è incapace di gioire per un incontro e di accorgersi quando è visitata.

Un corpo mi hai preparato

Nella seconda lettura, tratta dalla Lettera agli Ebrei, non troviamo un
tono parenetico, bensì un annuncio. Sono le parole che l’autore mette in bocca a Cristo per annunciare, attraverso il linguaggio sacrificale-sacerdotale di questo scritto del Nuovo Testamento, il senso dell’esi­stenza e della missione di Cristo. È significativo che tutto si riassuma nell’espressione «mi hai preparato un corpo», facendo dell’umanità nella sua dimensione di fragilità e creaturalità, con tutto ciò che essa comporta, il luogo dell’obbedienza alla volontà del Padre. Anche se questo testo non è direttamente parenetico, tuttavia non è privo di conseguenze per la vita cristiana. L. Manicardi scrive: «Per il cristiano si tratta di vivere il corpo e di giungere a fare della propria vita un dono, un’offerta, sulla scia dell’offerta fatta da Cristo stesso. Per i cri­stiani ormai il corpo è il luogo dell’adempimento della volontà di Dio».

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco medita sul mistero della Visitazione

Per don Bosco la Visitazione fu prima di tutto una “opera di misericordia esercitata verso il prossimo per amor di Dio”. Di qui l’invito nel suo Mese di maggio ad imitare Maria, la quale “guidata da vero spirito di carità andò a visitare santa Elisabetta, e stette in casa sua tre mesi servendola come umile ancella” (OE10 462). Lo stesso pensiero si legge nel primo dei Nove giorni consacrati allaugusta madre del Salvatore sotto al titolo di Maria Ausiliatrice dove don Bosco sottolinea la prontezza di Maria:

Maria appena conobbe dall’arcangelo che la famiglia di Zaccaria e specialmente Elisabetta aveva bisogno di aiuto, in tutta fretta a lei si portò, facendo per aspre montagne un viaggio di circa settanta miglia, abiit in montana cum festinatione. Giunta poi in quella casa avventurata Maria per tre mesi la servì quale umile ancella, né più l’abbandonò finché più non ebbe bisogno del suo servizio (OE22 260s).

Oltre alla sua opera di carità verso il prossimo, don Bosco ci tiene a sottolineare che Maria nel mistero della Visitazione ha compiuto una missione di santificazione. Nel suo Cattolico provveduto il sussultare del bambino nel grembo di Elisabetta viene interpretato come la manifestazione della santificazione verificatasi attraverso la visita e il saluto di Maria che porta Gesù nel grembo: “solo per mezzo di lei [Gesù] volle santificare il suo precursore prima che nascesse” (OE19 299).

Maria porta la grazia, la santità e la benedizione anche a Elisabetta. “Non dobbiamo noi confessare che Maria aveva ricevuta la missione di santificare?”, chiede don Bosco nelle sue Meraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice, affermando che “Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, precisamente allorché Maria giunta in casa di lei la salutò ed Elisabetta udì il saluto” (OE20 217s). Per don Bosco è chiaro che Maria prosegue ancora oggi una missione di santificazione.

Ma la cosa più bella per don Bosco nel racconto della Visitazione è la glorificazione di Maria da parte di Elisabetta come “madre del mio Signore”, e “benedetta fra le donne”. Queste parole furono veramente ispirate ad Elisabetta dallo Spirito Santo:  

Lo Spirito Santo per bocca di Elisabetta esaltò Maria al di sopra di ogni altra fortunata donna, volendo con questo insegnare che Maria era stata benedetta e favorita da Dio eleggendola a recar agli uomini quella benedizione, che perduta in Eva erasi sospirata per quaranta secoli, quella benedizione che togliendo la maledizione doveva confonder la morte e darci la vita sempiterna (OE20 218s).

Con profonda convinzione don Bosco afferma nel Mese di maggio che “niuna creatura può essere elevata a dignità più sublime, nessuna creatura può conseguire maggior grado di gloria, e per conseguenza nessuna creatura può essere più potente presso Dio quanto è Maria” (OE10 308).

Nella Vita di S. Giovanni Battista, l’autore conclude con l’invito ad imitare Elisabetta: “Come Elisabetta ripiena di Spirito Santo loda Maria, impariamo anche noi da essa a benedire e lodare “questa nostra pietosissima e potentissima madre” (OE20 390).

Infine va notato che le parole di Elisabetta sono entrate nella preghiera dell’Ave Maria dopo quelle dell’angelo Gabriele. Nel racconto Massimino ossia incontro di un giovanetto con un ministro protestante sul Campidoglio,il ragazzo di dieci anni, portavoce di don Bosco, spiega al suo contradittore che le parole dell’Ave Maria provengono dalla Bibbia:

Noi pregando Maria, recitiamo le parole con cui l’Arcangelo Gabriele la salutò, quando per ordine di Dio Le annunziò il mistero della Incarnazione del Figliuolo di Dio. […] Sarà da biasimarsi chi indirizza alla Vergine quello che hanno detto e fatto gli Angeli? Aggiungiamo poi le parole di santa Elisabetta, quando Maria si recò in casa sua per servirla quale umile ancella: E benedetto il frutto del ventre tuo.

La conclusione è ovvia: “Faranno male i cattolici, ripetendo le parole dell’Angelo e di santa Elisabetta, registrate nel santo Vangelo?” (OE25 192s).

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Lago Arvo-Sila-Località Lorica (Cosenza)    –   2021  

«Bisogna irradiare la bellezza di ciò che è vero e giusto nella vita, perché solo questa bellezza rapisce veramente i cuori e li rivolge a Dio».

(card. Carlo Maria Martini)

Casella di testo:  Michea 5,1-4a
Ebrei 10,5-10
Luca 1,39-45

Da Maria ed Elisabetta impariamo anche noi l’arte dell’incontro: la corsa di Maria è accolta da una benedizione. Un vento di benedizione dovrebbe aprire ogni dialogo che voglia essere creativo. A chi condivide con me strada e casa, a chi mi porta un mistero, a chi mi porta un abbraccio, a chi mi ha dato tanto nella vita, io ripeterò la prima parola di Elisabetta: che tu sia benedetto, Dio mi benedice con la tua presenza, possa Egli benedire te con la mia presenza.

Benedetta tu fra le donne. Su tutte le donne si estende la benedizione, su tutte le figlie di Eva, su tutte le madri del mondo, su tutta l’umanità al femminile, su «tutti i frammenti di Maria seminati nel mondo e che hanno nome donna» (G. Vannucci). E beata sei tu che hai creduto. Risuona la prima delle tante beatitudini dell’evangelo, e avvolge come un mantello di gioia la fede di Maria: la fede è acquisizione di bellezza del vivere, di un umile, mite e possente piacere di esistere e di fiorire, sotto il sole di Dio. 

Elisabetta ha iniziato a battere il ritmo, e Maria intona la melodia, diventa un fiume di canto, di salmo, di danza. Le parole di Elisabetta provocano una esplosione di lode e di stupore: magnificat. I primi due profeti del Nuovo Testamento sono due madri con una vita nuova, che balza su dal grembo, e afferma: «Ci sono!». E da loro imparo che la fede e il cristianesimo sono questo: una presenza nella mia esistenza. Un abbraccio nella mia solitudine. Qualcuno che viene e mi consegna cose che neppure osavo pensare. Natale è la convinzione santa che l’uomo ha Dio nel sangue; che dentro il battito umile e testardo del mio cuore palpita un altro cuore che – come nelle madri in attesa – batte appena sotto il mio. E lo sostiene. E non si spegne più.
(Ermes Ronchi)

Preghiere e racconti

Andiamo fino a Betlem

Andiamo fino a Betlem, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso.

Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi dell’onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte, e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

(don Tonino Bello)

IV Domenica di Avvento

In questa IV domenica di Avvento, che precede di poco il Natale del Signore, il Vangelo narra la visita di Maria alla parente Elisabetta. Questo episodio non rappresenta un semplice gesto di cortesia, ma raffigura con grande semplicità l’incontro dell’Antico con il Nuovo Testamento. Le due donne, entrambe incinte, incarnano infatti l’attesa e l’Atteso. L’anziana Elisabetta simboleggia Israele che attende il Messia, mentre la giovane Maria porta in sé l’adempimento di tale attesa, a vantaggio di tutta l’umanità. Nelle due donne si incontrano e riconoscono prima di tutto i frutti dei loro grembi, Giovanni e Cristo. Commenta il poeta cristiano Prudenzio: «Il bambino contenuto nel grembo senile saluta, attraverso la bocca di sua madre, il Signore figlio della Vergine» (Apotheosis, 590: PL 59, 970). L’esultanza di Giovanni nel grembo di Elisabetta è il segno del compimento dell’attesa: Dio sta per visitare il suo popolo. Nell’Annunciazione l’arcangelo Gabriele aveva parlato a Maria della gravidanza di Elisabetta (cfr Lc 1,36) come prova della potenza di Dio: la sterilità, nonostante l’età avanzata, si era trasformata in fertilità.

Elisabetta, accogliendo Maria, riconosce che si sta realizzando la promessa di Dio all’umanità ed esclama: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,42-43). L’espressione «benedetta tu fra le donne» è riferita nell’Antico Testamento a Giaele (Gdc 5,24) e a Giuditta (Gdt 13,1), due donne guerriere che si adoperano per salvare Israele. Ora invece è rivolta a Maria, giovinetta pacifica che sta per generare il Salvatore del mondo. Così anche il sussulto di gioia di Giovanni (cfr Lc 1,44) richiama la danza che il re Davide fece quando accompagnò l’ingresso dell’Arca dell’Alleanza in Gerusalemme (cfr 1 Cr 15,29). L’Arca, che conteneva le tavole della Legge, la manna e lo scettro di Aronne (cfr Eb 9,4), era il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il nascituro Giovanni esulta di gioia davanti a Maria, Arca della nuova Alleanza, che porta in grembo Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo.

La scena della Visitazione esprime anche la bellezza dell’accoglienza: dove c’è accoglienza reciproca, ascolto, il fare spazio all’altro, lì c’è Dio e la gioia che viene da Lui. Imitiamo Maria nel tempo di Natale, facendo visita a quanti vivono un disagio, in particolare gli ammalati, i carcerati, gli anziani e i bambini. E imitiamo anche Elisabetta che accoglie l’ospite come Dio stesso: senza desiderarlo non conosceremo mai il Signore, senza attenderlo non lo incontreremo, senza cercarlo non lo troveremo. Con la stessa gioia di Maria che va in fretta da Elisabetta (cfr Lc 1,39), anche noi andiamo incontro al Signore che viene. Preghiamo perché tutti gli uomini cerchino Dio, scoprendo che è Dio stesso per primo a venire a visitarci. A Maria, Arca della Nuova ed Eterna Alleanza, affidiamo il nostro cuore, perché lo renda degno di accogliere la visita di Dio nel mistero del suo Natale.

(Benedetto XVI, Angelus,23.12.2012).

C’era una volta un lupo

C’era una volta un lupo che viveva nei dintorni di Betlemme. I pastori lo temevano e vegliavano l’intera notte per salvare le loro greggi. C’era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era ogni volta più affamato, scaltro e arrabbiato.

Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori. L’eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell’aria.

Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.

Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.

“Quante smancerie per un cucciolo d’uomo” pensò il lupo. Ma incuriosito e soprattutto affamato com’era, li seguì nell’ombra a passi felpati.

Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell’ombra e attese.

I pastori portarono dei doni, salutarono l’uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono.

L’uomo e la donna stanchi per le fatiche e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono.

Furtivo come sempre, il lupo scivolò nella stalla. Nessuno avvertì la sua presenza.

Solo il bambino.

Spalancò gli occhioni e guardò l’affilato muso che, passo dopo passo, guardingo, ma inesorabile si avvicinava sempre più. Il lupo aveva le fauci socchiuse e la lingua fiammeggiante. Gli occhi erano due fessure crudeli. Il bambino però non sembrava spaventato.

“Un vero bocconcino” pensò il lupo. Il suo fiato caldo sfiorò il bambino.

Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.

In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza. Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: “Ti voglio bene, lupo”.

Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme. La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio.

Sotto, apparve un uomo. Un uomo vero, in carne e ossa.

L’uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.

Poi l’uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti: “È nato un bambino divino che può donarvi la vera libertà!

Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!”.

La venuta del Signore

Noi aspettiamo il giorno anniversario della nascita di Cristo: il nostro spirito dovrebbe come slanciarsi, pazzo di gioia, incontro al Cristo che viene, tutto teso in avanti con un ardore impaziente, quasi incapace di contenersi e di sopportare ritardo… Chiedo per voi, fratelli, che il Signore, prima di apparire al mondo intero, venga a visitarvi nel vostro intimo. Questa venuta del Signore, sebbene nascosta, è magnifica, e getta l’anima che contempla nello stupore dolcissimo dell’adorazione. Lo sanno bene coloro che ne hanno fatto l’esperienza; e piaccia a Dio che quelli che non l’hanno fatta ne provino il desiderio!

(GUERRICO D’IGNY, Sermoni per l’avvento del Signore, II, 2-4).

Quando Dio spera…

…non è per lo spazio d’una notte

che Dio spera contro speranza.

Mendicante sconosciuto, instancabilmente percorri

i lidi delle notti umane,

ombra tra le ombre innumerevoli

dei senza speranza.

Nella tua bocca muta si spengono i singhiozzi,

ma tu vorresti gridare, anche tu,

perché questo grido se ne vada,

come un’eco diversa,                      

come un richiamo nuovo,

a confondersi con il lamento crescente,

con le grida degli assetati di luce

con il terribile silenzio dei pianti soffocati,

e non resta che aprirsi

al vuoto dei marosi grigi,

all’alba che si accende non veduta.

Sul lido delle notti umane, sei il Dio senza voce.

Poiché la tua Parola fu detta in un giorno del tempo.

L’ hai pronunciata tutta,                            

l’hai gridata sino alla fine,

sino all’ultimo respiro del tuo Figlio.

Ma quando fu compiuta la tua Parola nella sua pienezza,

per te, Dio, venne il tempo della speranza nuda,

della speranza muta,

della speranza contro ogni speranza.

Preghiera della quarta domenica di Avvento

Dio eterno,

Dio sempre nuovo,

inafferrabile,

Dio di alleanza,

Dio di libertà,

dove adorarti? dove cercarti? dove attenderti?

dove si annuncia la tua venuta?

La tua Parola ci rassicuri,

o Padre degli uomini,

Dio della promessa,

ora e sempre.

Presenza imprevedibile,

Dio di lunga pazienza,

Signore dell’impossibile,

noi non sappiamo ne l’ora ne il luogo

della tua venuta.

Ma, sicuri che il tuo amore ci è dato

per scoprire, per svelare, per generare,

non cessiamo di pregarti:

il tuo Spirito ci guidi alle opere del Regno,

all’incontro con il tuo Figlio Gesù Cristo,

nostro fratello e nostro Signore, per sempre.

(Nicole Berthet).

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA DI AVVENTO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Sofonia 3,14-18

         Rallègrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Re d’Israele è il Signore in mezzo a te, tu non temerai più alcuna sventura. In quel giorno si dirà a Gerusalemme: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia».     
  • La prima lettura dà il là di intonazione alla liturgia odierna, invitando alla gioia. Letta in connessione con il Vangelo, la ragione sta nella venuta del Messia, quella storica che riviviamo nel Natale, quella teologica che si attua nella vita veramente cristiana di ogni credente.

     Due minuscole unità compongono il presente brano: un invito alla gioia (vv. 14-15) e una parola di consolazione (vv. 16-18). Le due parti hanno un comune fondamento, dato dalla presenza di Dio. Egli non si mostra più giudice, ma amore. Egli è ciò che il suo Nome esprime: JHWH, il Dio verace, il Dio presente, il Dio salvatore. Per contestualizzare il brano e capire la sua esplosione festosa, occorre sapere che su Gerusalemme si era abbattuto minaccioso il giudizio divino. I nemici erano lo strumento nelle mani della divina giustizia per mostrare la scissione avvenuta tra Dio e il suo popolo. Ora, grazie anche alla predicazione profetica, era venuta una salutare reazione da parte del popolo, pronto alla conversione. Il profeta gli annuncia: «Il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico» (v. 75). In termini più positivi, il Signore sta in mezzo al suo popolo, segno di una comunione ritrovata. L’alleanza ha ripreso a palpitare, respirando con i due polmoni, quello di Dio e quello del popolo. Qui sta primariamente la fonte della gioia, affidata al giubileo del v. 14, di cui risuona una eco nell’annuncio dell’angelo a Maria (cf. Lc 1,28: da tradurre con «rallegrati» e non con il bolso «ti saluto»).

   L’idea del Dio in mezzo al suo popolo anima pure il brano consolatorio (vv. 16-18). «In quel giorno» rimanda ad una situazione non facilmente definibile nel tempo, ma non per questo ipotetica. Il suo carattere escatologico la colloca tra i grandi interventi di Dio, che prenderanno piena forma nel NT. Dio ha sospeso il giudizio di condanna contro il suo popolo traditore: egli lo vuole salvare, solo in forza dell’incommensurabile amore verso di esso. Lui si presenta re di Israele, e pure domina su tutti i popoli della terra. Non si è ancora totalmente manifestata la sua potenza regale, ma l’imminente manifestazione della salvezza diventa segno, inizio e condizione di una signoria completa.

    Anche se il presente risulta difficile, chi ripone la propria fiducia nella potenza di Dio salvatore non deve temere nulla. Di più, può contare sull’amore di Dio che rinnova e che invita alla festa (cf. v. 18).

Seconda lettura: Filippesi 4,4-7

         Fratelli, siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti.  E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.     
  • Il brano si trova nella parte conclusiva della lettera, quando è il momento delle ultime raccomandazioni, e contiene cinque frizzanti imperativi. La scelta liturgica si spiega per il binomio gioia-vicinanza del Signore: l’invito alla gioia e l’esortazione a compiere il bene verso tutti sono motivati da Paolo con la frase che il Signore è vicino.

    Il discorso si allarga dai singoli (cf. i precedenti vv. 2-3) alla comunità. Questa riceve l’esortazione alla gioia, tema che attraversa tutta la lettera. Mentre prima erano individuati motivi concreti che causavano la gioia (cf. 1,18; 2,17-18), ora l’appello è generale e insistito. La gioia ha tre aspetti: una radice interiore, un’espressione esterna e una causa ben precisa. La radice è il Signore: sempre si tratta di gioia in Lui («rallegratevi nel Signore»), per distinguerla nettamente da realtà che portano lo stesso nome ma che hanno contenuto diverso: qui Paolo si preoccupa di bloccare le imitazioni. La gioia che invade l’intimo dell’individuo e della comunità, investe pure l’esterno, tutti gli altri, sotto forma di «affabilità». Infine viene indicata la causa, consistente nell’avvicinarsi del Signore. Questa precisazione orienta e determina il contenuto della gioia cristiana; è la presenza di Cristo che garantisce e assicura una condizione di benessere per sé e per gli altri: «L’attesa della parusia è per l’apostolo un motivo parenetico centrale» (J. Ernst).

    La vicinanza del Signore, già reale presenza per molti aspetti, funge da deterrente contro ansie incontrollate: chi lascia operare nella propria vita la semplice parola ‘il Signore è vicino’, esperimenta già ora la pace di Dio. Paolo non pensa tanto alla pace tra gli uomini, ma alla calma interiore del cuore, che ha il suo fondamento nelle promesse di Dio. Il cri-stiano che organizza la propria esistenza alla luce di Cristo, non si lascia irretire da lacci che frenano il suo impegno o che smorzano la sua serenità di fondo. Anche sotto questo punto si comprende il precedente invito alla gioia. Paolo non fa mistero circa le reali e spesso dure difficoltà dell’esistenza cristiana ed è già stato chiaro, alludendo fin dall’inizio alle sue catene (cf. 1,13). Ma è altrettanto convinto che non giova lasciarsi prendere da ansiose inquietudini (cf. in greco il verbo merimnao, lo stesso di Mt 6,25.31.34) che bloccano e rendono improduttivi; positivamente, tutto prende senso e valore nella comunione con Cristo/Dio di cui la «pace» del v. 7 è la sacramentalizzazione. La fiducia in Dio si concretizza nel manifestare a Lui la nostra situazione, attraverso «preghiere, suppliche e ringraziamenti». Non è certo un ‘far conoscere’ qualcosa che non sa, ma è il modo per l’uomo di mantenere il filo diretto con Dio, nel dialogo di amore, nel sereno abbandono alla Sua volontà, nella fiduciosa attesa davanti a Lui. Colui che è capace di pregare e di ringraziare depone il suo affanno in Dio.

    Potrebbero sembrare belle parole di circostanza, se non venissero dalla vita stessa di Paolo che ha dimostrato di leggere tutto, persecuzione compresa, con gli occhi illuminati dalla luce della Provvidenza (cf. 1,15-20). Paolo si trova in prigione quando scrive la presente lettera. Egli pensa alla sua comunità di Filippi e pensa altresì a Cristo che ha sempre riempito la sua vita. Egli pensa al ritorno di Cristo, mediante la morte che può giungere da un momento all’altro. Paolo ha detto il suo sì anche a questa situazione estrema e rimane un uomo felice pur nella catena e nella incertezza del suo futuro. L’incontro con Cristo trasforma in aurora di vita quello che, umanamente parlando, ha il sapore crepuscolare del fallimento o della repentina conclusione.

Vangelo: Luca 3,10-18

          In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.  

Esegesi

     Nei versetti che precedono il nostro brano avevamo assistito a un vigoroso appello alla conversione, non privo di toni forti, tipici della personalità e del messaggio del Battista. Ora il tono in parte si smorza, senza perdere vigore, e trapassa nella consolante esortazione che tutti possono concorrere a preparare degnamente la venuta del Messia.

    Il brano ha un marcato carattere esortativo. Distinguiamo una prima parte (vv. 10-14), in cui Giovanni sollecita tre gruppi a comportarsi correttamente, da una seconda (vv. 15-17), con la testimonianza che il Precursore dà su Gesù, esortando implicitamente a seguirlo. Il v. 18 mantiene una funzione conclusiva e sembra pure un passaggio del testimone da Giovanni a Gesù, grazie al verbo ‘evangelizzare’ («annunciava la buona novella»).

    Giovanni svolge una duplice attività: predica e battezza. La prima è funzionale alla seconda, in quanto le sue parole devono portare le persone al pentimento. Segno visibile di quella volontà di cambiare vita è l’acqua che i pellegrini ricevono dal Battista. Non si tratta certo di battesimo in senso cristiano, ma comunque di ‘battesimo’, se prendiamo la parola nel suo significato etimologico di ‘immersione’. Il battesimo-sacramento sarà possibile solo dopo la morte e risurrezione di Gesù; per il momento ci si prepara ricevendo il battesimo di Giovanni. Esso è molto più di un semplice gesto esteriore perché implica la buona volontà di migliorare la propria esistenza alla luce della predicazione. Non basta una decisione interiore di cambiar vita: occorre vedere anche all’esterno la novità. Da qui l’esigenza di assumere comportamenti concreti che si indirizzano secondo le indicazioni del Battista che ha il primario compito di «dare al suo popolo la conoscenza della salvezza» (Lc 1,77).

    Nella esemplificazione dei comportamenti da tenere, passiamo a un nuovo registro dove impressiona il calore di una comprensione che apre le porte a tutti. Non è certo ‘indulgenza’ del predicatore, ma coerenza con il messaggio che egli annuncia: un messaggio che vuole raggiungere tutti indistintamente, superando le antiche barriere che creavano steccati e divisioni: non solo tra popolo eletto e altre nazioni, ma pure all’interno degli stessi ebrei. Incontriamo una pacata istruzione che ha tutta l’aria di essere un minicatechismo oppure un vademecum di teologia e di saggezza, di comprensione e di incoraggiamento. Luca lascia trasparire anche qui la sua sensibilità universalistale folle interrogavano Giovanni») Se ha una preferenza, questa va tutta per gli emarginati.

    Infatti mette sul palcoscenico del suo interesse le categorie che noi diremmo ‘a rischio’: odiati esattori di tasse che collaboravano con l’occupante romano e che spesso calcavano la mano sulla povera gente diventando autentici strozzini (cf. 5,30; 19,7), oppure soldati mercenari che facevano il gioco dei potenti. La salvezza non ha ‘colore’ o ‘tessera di appartenenza’ come qualcuno amava, e qualche volta anche oggi ama, far credere. La salvezza è dono di Dio, quindi espressione della gratuità del suo amore che, in quanto tale, non ha ‘corsie privilegiate’. Tutti sono potenziali destinatari di tale dono e lo saranno effettivamente nella misura in cui si apriranno nella disponibilità della loro vita. È a questa apertura che punta Giovanni, invitando e sollecitando tutti. I segni di rinnovamento vertono esclusivamente sull’amore al prossimo: la gente deve imparare a condividere, i pubblicani a praticare la giustizia, i soldati a trattare con umanità.

     Oltre alla universalità, altro dato interessante per entrare nella sfera della salvezza è la normalità. Non sono richiesti miracoli né atteggiamenti di eccezione per fruire del dono della salvezza: solo il corretto esercizio della propria professione. È come dire che le persone si santificano nel tessuto della loro storia quotidiana, facendo bene quello che devono. Viene valorizzata al massimo una ‘sana laicità’ intendendo per laicità l’inserimento nel tessuto della storia. A meno che si tratti di un’attività manifestamente disonesta (per esempio il furto o la prostituzione), tutte le professioni hanno una dignità che va onorata con il proprio impegno. Giovanni non richiede a nessuno di cambiare mestiere, esige piuttosto di vivere bene la propria vocazione. Ottima preparazione per attendere degnamente il Messia.

     Di Lui Giovanni parla con vigore, alzando le note nel rigo della sua testimonianza. Compito di Giovanni è solo preparatorio, preparare «un popolo ben disposto» (Lc 1,17). Egli prepara la strada a chi viene dopo di lui, al Messia. Egli si dimostra ben vaccinato contro il virus da protagonismo e dichiara apertamente di non essere il Messia. Questi gode di una dignità che non ha confronto. Essa viene espressa negativamente con la distinzione tra i due, e positivamente per il contenuto della missione di Gesù. La distanza abissale che separa Giovanni dal Messia viene affidata dapprima all’immagine dello sciogliere i lacci dei sandali. Era questo il compito riservato abitualmente allo schiavo. Giovanni non si ritiene nemmeno degno di essere lo schiavo del Messia. Quindi la sostanza arriva nei versetti successivi che conservano un colorito palestinese e aprono a una prospettiva escatologica. Prendendo lo spunto dalla pratica del contadino che sull’aia utilizzava il ventilabro (attrezzo di legno a forma di pala con il quale si gettava in aria il grano: questo, più pesante, cadeva a terra e la pula era portata via dal vento) per separare il grano dalla pula, Giovanni presenta Gesù come ‘il giudizio di Dio’, colui che distingue e che determina. In termini semplificati: è Gesù l’elemento discriminante e decisivo, colui per il quale occorre impegnarsi se si vuole raggiungere la salvezza; il rifiuto di Gesù equivale al rifiuto della salvezza.

Meditazione

      Le letture bibliche di questa domenica ci raccontano la gioia dell’Avvento. Il tempo della vita dell’uomo può essere abitato dalla gioia, perché proteso verso un incontro, e visitato da una Presenza. È questo l’evangelo che per il tempo dell’uomo è il ‘sacramento’ dell’Avvento.

Ma non basta usare la parola ‘gioia’, occorre dare un volto a questo sentimento che la liturgia di oggi ci invita a scoprire come proprio della esperienza credente. Quale volto ha la gioia dell’Avvento? più in generale, quale volto ha la gioia cristiana?

Il Signore tuo Dio è in mezzo a te!

La prima lettura, tratta dal profeta Sofonia, è come un canto di vittoria. Un invito pressante a Israele affinché sfoderi tutte le ‘note’ della gioia. Si usano ben quattro verbi differenti per invitare Israele a cantare la gioia della liberazione e della salvezza: giubila, rallegrati, gioisci, esalta! E come se per cantare la salvezza di cui Israele è destinatario occorressero tutte le sfumature della gioia.

Ma da cosa è causata tale gioia che il linguaggio umano stenta ad esprimere? Il motivo di fondo è la presenza di YHWH in mezzo al popolo: «Il Signore, re d’Israele, è in mezzo a te, non avrai più da temere la sventura» (Sof 3,15). I re che governavano su Israele, sebbene discendenti della casa di Davide, allontanavano il popolo dal suo Dio attirandogli la sventura. Ma ora il Re di Israele è Dio stesso. Per questo le sorti del popolo cambiano radicalmente.

Ma nel testo c’è qualcosa di più. Si dice che «YHWH danza». Di YHWH il profeta dice: «Egli esulterà di gioia per te, ti rinnoverà per il suo amore, danzerà per te giubilando, come nei giorni di festa!» (vv. 17-18). Quindi la gioia dell’Avvento è anche danza e gioia di Dio… Anche per Dio si usa una pluralità di verbi per esprimere la sua gioia indicibile nell’abitare in mezzo al suo popolo, nel ‘porre la sua tenda’ in mezzo a noi, in mezzo a quel popolo «povero e umile che confida nel nome del Signore» di cui si parla alcuni versetti prima (Sof 3,12). Sof 3,17 inoltre può essere tradotto in modo differente. Ad esempio Diodati traduce: «Egli esulterà di gioia per te, nel suo amore starà in silenzio, si rallegrerà per te con grida di gioia». Se accettiamo questa possibile traduzione, potremmo dire che qui Sofonia descrive l’accoglienza da parte di Dio del popolo che ritorna con «l’immagine incantevole di un silenzio carico di parole» (P. Torresan).

L’Evangelo di Giovanni

Se passiamo alla lettura del brano evangelico, possiamo in un primo tempo pensare che qui il tema della gioia sia assente. In realtà non è così.

Per la lettura del testo, visto che il lezionario ci priva dell’introduzione (Lc 3,7-9), possiamo iniziare dalla conclusione, che in qualche modo tira le fila del discorso e, con un breve sommario, riassume il senso dell’attività di Giovanni Battista. Nel v. 18 leggiamo: «Con queste ed altre esortazioni annunziava [euaggelizeto] al popolo la salvezza». Una espressione che potremmo tradurre anche in questo modo: «Così egli evangelizzava il popolo, esortandolo in molti altri modi». Tutta l’opera di Giovanni Battista, a partire dal ‘razza di vipere’ iniziale (v. 7), è interpretata dall’evangelista come una `evangelizzazione’. Quindi da questa conclusione possiamo intravedere il rapporto di questo brano evangelico con il tema della gioia.

Ma com’è questo Evangelo che Giovanni annuncia? Qual è il suo contenuto? Per rispondere a queste domande, ritorniamo all’inizio del brano. Il testo afferma che diverse categorie di persone si recano da Giovanni.

La folla, di fronte all’invito di Giovanni alla conversione, domanda: «Che cosa allora dobbiamo fare?». A questa prima domanda, che si ripete tre volte nel nostro brano, Giovanni risponde invitando alla condivisione. Noi ci aspetteremmo la richiesta di grandi penitenze, ma Giovanni invita alla condivisione dei vestiti e del cibo… le cose più comuni e semplici della vita.

Dopo questa prima domanda delle folle in generale, prende la parola una categoria specifica, i pubblicani. Una classe molto odiata: i pubblicani erano considerati impuri dai giudei per il loro rapporto con l’occupante romano in quanto esattori delle tasse, e ‘ladri’ perché spesso chiedevano di più per intascare la differenza. Anche alla loro domanda Giovanni risponde con semplicità. Non chiede di lasciare la loro occupazione, non tocca il tema dell’impurità… parla solo di rettitudine e onestà. Un altro passo della conversione è quindi l’onestà, l’integrità, la rettitudine.

Infine anche alcuni soldati pongono la medesima domanda a Giovanni. I soldati erano anch’essi una categoria malvista, perché spesso approfittavano del loro potere per compiere delle ingiustizie. Ebbene, anche a questa categoria di persone Giovanni risponde in modo semplicissimo. Nemmeno a loro chiede di lasciare la loro occupazione, ma solamente di non abusare della loro forza. Quindi Giovanni chiede ai soldati di far buon uso della loro posizione: di viverla al servizio degli altri e non unicamente per il proprio interesse. Il terzo passo della conversione consiste nel vivere per gli altri le proprie occupazioni.

L’Evangelo di Giovanni si concretizza quindi in un triplice invito alla conversione rivolto alle folle che si recavano da lui per farsi battezzare. Questo triplice invito cade sopra un popolo (non più una ‘folla’) che è in attesa e in cuor suo si pone una domanda radicale (v. 15) — nel cuore, che per la Bibbia è il luogo dell’incontro con Dio e delle decisioni. A questa domanda così radicale che segna l’attesa positiva di un popolo —che secondo la Bibbia è il soggetto in relazione con Dio, la sua ‘sposa’ —Giovanni annuncia la venuta di un altro, che è il vero Sposo. Quindi anche qui si parla della gioia per l’annuncio di un Evangelo. La Buona Notizia di una Venuta, la venuta dello Sposo che il popolo attende. Ma il testo evangelico ci parla della gioia con un tratto particolare: è la gioia della conversione. Non c’è vera gioia senza la conversione del cuore che permette di accogliere quella Presenza dalla quale — come abbiamo visto in Sofonia — nasce la gioia. Una conversione fatta di cose semplici… le più semplici e decisive della vita: condivisione, rettitudine, attenzione all’altro.

La pace di Dio custodirà i vostri cuori

Troviamo un ultimo tratto della gioia cristiana nella seconda lettura tratta dalla Lettera ai Filippesi. Qui si afferma che la gioia vera è ‘custodita’ dalla preghiera. Dal testo si capisce che qui non si parla di pace e di gioia quando tutto va bene. Questa sarebbe una falsa idea di gioia!

L’apostolo invita i destinatari della sua lettera a rallegrarsi sempre, nella prosperità ma anche nelle difficoltà, e il motivo è sempre il medesimo: il Signore è vicino! Ma questa gioia è custodita dalla preghiera che ci fa aprire gli occhi su questa presenza. Essa infatti può essere sempre offuscata dalle preoccupazioni per le difficoltà della vita. L’apostolo invita perciò a chiedere ‘con ringraziamenti’: una preghiera quindi che non è solamente richiesta, ma è ringraziamento. Cioè quella forma di preghiera che esprime nel linguaggio umano il nostro totale affidamento a Dio e la nostra fiducia.

Don Bosco commenta il Vangelo

Don Bosco commenta la predicazione di Giovanni Battista

Alle folle che chiedevano a Giovanni il Battista ciò che dovevano fare, egli rispondeva: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha”.

Nella sua Vita di S. Giovanni Battista don Bosco è rimasto colpito da questo comando dalla cui osservanza fa dipendere la salvezza: “Desiderosi di salvarsi, interrogavano Giovanni quale cosa fosse loro necessaria per conseguire la salute eterna. Esso rispondeva alle turbe inculcando loro la carità: Chi ha due vesti ne dia a chi non ne ha, e il simile faccia dei commestibili” (OE20 405).

L’insegnamento di Giovanni Battista ha ispirato i santi. Nella sua Vita di san Martino don Bosco racconta come questo santo, essendo ancora soldato, ha praticato il precetto della condivisione con il prossimo predicato dal Battista:

Avvenne che l’esercito, in cui era Martino, passando per la città di Amiens, un poverello tremante, quasi nudo e colle carni esposte alla rigidezza dell’aria chiese qualche soccorso da quei soldati. […] Giunto Martino davanti a lui si ferma, lo rimira e dice tra sé: bella occasione di coprire un nudo! Intanto mette la mano in tasca e non trova più danaro, perché già tutto aveva speso a favore dei poveri. Che fare? La carità è industriosa e trova sempre modo di beneficare. Depone il proprio mantello, trae fuori la spada, lo taglia per metà, e dandone una parte al povero, coll’altra alla meglio che può, ricopre sé stesso (OE6 401s).

Più avanti, don Bosco riporta una riflessione edificante e inaspettata del santo fatto vescovo di Tours: “Vedendo un giorno una pecora di recente tosata, disse piacevolmente a quelli che erano seco: Ecco una pecora che ha osservato il Vangelo: essa aveva due vesti e ne ha data una a quello che ne mancava. Imitiamola” (OE6 424).

Dare una veste al bisognoso è fare “elemosina”, parola che vuol dire semplicemente misericordia. È un atto capace di assicurarci il paradiso, spiega don Bosco al ventinovesimo giorno del suo Mese di maggio: “Un mezzo molto efficace, ma assai trascurato dagli uomini per guadagnarsi il paradiso è la limosina. Per limosina io intendo qualunque opera di misericordia esercitata verso il prossimo per amor di Dio”. Poi cita e sviluppa le parole di Giovanni: “Chi ha due vesti ne dia una al bisognoso e chi ha già oltre il necessario, ne faccia parte a chi ha fame” (OE10 458s).

Va notato inoltre che Giovanni non chiede a nessuna categoria dei suoi uditori di cambiare mestiere ma di comportarsi in modo giusto nel proprio mestiere. Ognuno si salvi nelle proprie condizioni di vita, anche se soldato o pubblicano. Leggiamo infatti più avanti nella Vita di S. Giovanni Battista:

Ai pubblicani che erano tenuti dagli Ebrei come gente infame, perché prendevano in appalto le gabelle e le pubbliche entrate, e per questo erano molto odiati dagli Ebrei, non prescriveva di lasciar l’impiego, perché era loro necessario per guadagnarsi il sostentamento, ma solo di non esigere più di quello che loro era stato fissato. Ai soldati diceva di non togliere il suo ad alcuno per forza, né con frode, e di contentarsi della loro paga. Così istruiti li rimandava alle proprie case, senza ritenere alcuno presso di sé nel deserto, eccetto quelli che più particolarmente avessero voluto unirsi con lui, e che si facevano suoi discepoli (OE20 405s).

Ma ciò che suscita di più l’ammirazione nel Battista è la sua umiltà. L’umiltà è la prova più forte della virtù di quest’uomo, come si legge nella Vita di S. Giovanni Battista:

Se egli era il più grande degli uomini, ne era anche il più umile. Non solo egli dichiarò che non era il Messia, ma si pose tanto al disotto di lui fino a dire che non era degno di gettarsi ai suoi piedi e di sciogliere le corregge delle scarpe (OE20 406).

Per don Bosco l’umiltà è fondata sulla verità, e la verità deve renderci umili. L’umiltà va esercitata in particolare nelle azioni più basse a favore del prossimo, come quella indicata dal Battista: sciogliere i lacci delle sue scarpe.

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

VIA DELLA CONCILIAZIONE-SAN PIETRO (ROMA)   –   2021  

«Ci sono due modi di

diffondere la luce: essere la candela oppure lo specchio che la riflette».

(Edith Wharton)

Casella di testo:  Sofonia 3,14-18
Filippesi 4,4-7  
Luca 3,10-18

Ci muoviamo tra due poli: il desiderio di essere felicità; il desiderio della gioia della felicità; ed il cammino, la conquista di questo desiderio. 

Dice Sant'Agostino che ogni uomo tende verso il "luogo suo", cioè verso quel luogo dove sa che troverà la pace, il riposo. La gioia consiste proprio nel tendere verso quel luogo: è la gioia della speranza ...non è la gioia della conquista. 

Le letture bibliche di questa domenica ci raccontano la gioia dell'Avvento. Il tempo della vita dell'uomo può essere abitato dalla gioia, perché proteso verso un incontro, e visitato da una Presenza. È questo l'evangelo che per il tempo dell'uomo è il 'sacramento' dell'Avvento.

Ma non basta usare la parola 'gioia', occorre dare un volto a questo sentimento che la liturgia di oggi ci invita a scoprire come proprio dell’esperienza credente. Quale volto ha la gioia dell'Avvento? Più in generale, quale volto ha la gioia cristiana?
Preghiere e racconti

Domenica gaudete

Questa domenica, la terza del tempo di Avvento, è detta “Domenica gaudete”, “siate lieti”, perché l’antifona d’ingresso della Santa Messa riprende un’espressione di san Paolo nella Lettera ai Filippesi che così dice: “Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti”. E subito dopo aggiunge la motivazione: “Il Signore è vicino” (Fil 4,4-5). Ecco la ragione della gioia. Ma che cosa significa che “il Signore è vicino”? In che senso dobbiamo intendere questa “vicinanza” di Dio? L’apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, pensa evidentemente al ritorno di Cristo, e li invita a rallegrarsi perché esso è sicuro. Tuttavia, lo stesso san Paolo, nella sua Lettera ai Tessalonicesi, avverte che nessuno può conoscere il momento della venuta del Signore (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette in guardia da ogni allarmismo, quasi che il ritorno di Cristo fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2). Così, già allora, la Chiesa, illuminata dallo Spirito Santo, comprendeva sempre meglio che la “vicinanza” di Dio non è una questione di spazio e di tempo, bensì una questione di amore: l’amore avvicina! Il prossimo Natale verrà a ricordarci questa verità fondamentale della nostra fede e, dinanzi al Presepe, potremo assaporare la letizia cristiana, contemplando nel neonato Gesù il volto del Dio che per amore si è fatto a noi vicino.

In questa luce, è per me un vero piacere rinnovare la bella tradizione della benedizione dei “Bambinelli”, le statuette di Gesù Bambino da deporre nel presepe. Mi rivolgo in particolare a voi, cari ragazzi e ragazze di Roma, venuti stamattina con i vostri “Bambinelli“, che ora benedico. Vi invito a unirvi a me seguendo attentamente questa preghiera:

Dio, nostro Padre,

tu hai tanto amato gli uomini

da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù,

nato dalla Vergine Maria,

per salvarci e ricondurci a te.

Ti preghiamo, perché con la tua benedizione

queste immagini di Gesù, che sta per venire tra noi,

siano, nelle nostre case,

segno della tua presenza e del tuo amore.

Padre buono,

dona la tua benedizione anche a noi,

ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici.

Apri il nostro cuore,

affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia,

fare sempre ciò che egli chiede

e vederlo in tutti quelli

che hanno bisogno del nostro amore.

Te lo chiediamo nel nome di Gesù,

tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace.

Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

Amen.

(Le parole del Papa, Benedetto XVI, alla recita dell’Angelus, 14-XII-2008). 

Il Vangelo della gioia

«Il Signore è fedele per sempre

rende giustizia agli oppressi,

da il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti,

il Signore protegge lo straniero».

(Sal 145)

C’è una splendida invocazione con la quale chiediamo al Padre di poter accogliere, riconoscenti, il Vangelo della gioia.

Viene così indicato il tema che, con modulazioni diverse, percorre con tale insistenza i testi biblici da indurre ad enumerare i termini che appartengono alla famiglia di «santa letizia», e che risuonano continui nella liturgia.

«Rallegratevi nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi, il Signore è vicino» (Fil 4, 4.5). Se l’invito alla gioia oggi è perentorio come non mai, non meno chiare sono le indicazioni che ci vengono offerte affinché si possa accogliere fruttuosamente il Vangelo della gioia.

Rischiando forse la semplificazione, potremmo individuare le condizioni di fondo, per esserne destinatari sicuri, in questi tre atteggiamenti: umiltà, fedeltà, utopia. Se poi le categorie astratte ci risultano difficili, possiamo dire che la gioia del Natale viene accordata agli umili, agli uomini fedeli e ai sognatori.

Umiltà

Qualche finezza etimologica non guasta. E allora è utile capire che la parola letizia ha la stessa radice di letame.

II verbo latino laetare, infatti, significa fecondare, concimare, rendere fertile. Letame è, appunto, lo strame che rende ubertosa la terra. E letizia è quel sentimento di ricchezza interiore che deriva dal rigoglio spirituale. Così come lieto è un aggettivo il cui significato originario è fecondo, cioè fertile, rigoglioso.

Sembra fuori posto osservare che certi messaggi del cielo si insinuano perfino nelle radici delle parole?

E appare davvero esibizione di bravura far notare che, se nei versetti dei salmi si dice «ascoltino gli umili e si rallegrino», l’abbinamento tra umiltà (espressa dal letame) e letizia non è proprio puramente casuale?

E può definirsi esercitazione sterile quella che sottolinea le tante connessioni tra i poveri e il lieto annunzio che viene ad essi portato?

E può essere giudicato fuori tema il riferimento a Maria, protagonista silenziosa, la quale ha dato la spiegazione di tanta esultanza in Dio suo salvatore proprio nell’umiltà della sua serva? (Lc 1, 47.48).

Ed è indugio sui versanti del moralismo facile il richiamo alla necessità di fare il vuoto dentro di sé, per farsi ricolmare di beni dal Signore?

Del resto tutta quella turba di indigenti che affollano i testi biblici e che sono soccorsi da Dio e che gioiscono per liberazioni raggiunte, non ci dice forse che l’umiltà è la condizione indispensabile perché le speranze di salvezza si tramutino in realtà?

La legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare

Nelle parole del profeta, Dio danza di gioia per l’uomo. Appare un Dio felice, il cui grido di festa attraversa questo tempo d’avvento, e ogni tempo dell’uomo, per ripetere a me, a te, ad ogni creatura: «tu mi fai felice». Tu, festa di Dio. La sua gioia è stare con i figli dell’uomo. Il suo nome è Io-sono-con-te: «non temere, dovunque tu andrai, in tutti i passi che farai, quando cadrai e ti farai male, non temere, io sono con te; quando ti rialzerai e sorriderai di nuovo, io sarò ancora con te». È con te Colui che mai abbandona, vicino come il cuore e come il respiro, bello come un sogno. Tutti i giorni, fino al consumarsi del mondo. Mai nella Bibbia Dio aveva gridato. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, aveva la voce dei sogni; solo qui, solo per amore Dio grida. Non per minacciare, per amare di più.

Il profeta intuisce la danza dei cieli e intona il canto dell’amore felice, dell’amore che rende nuova la vita: “ti rinnoverà con il suo amore”. Il Battista invece, quasi in contrappunto, risponde alla domanda più feriale, che sa di mani e di fatica: “e noi che cosa dobbiamo fare?”. E il profeta che non possiede nemmeno una veste degna di questo nome, risponde: “chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l’ha”. Colui che si nutre del nulla che offre il deserto, cavallette e miele selvatico, risponde: “chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha”. Nell’ingranaggio del mondo Giovanni getta un verbo forte, “dare”. Il primo verbo di un futuro nuovo. In tutto il Vangelo il verbo amare si traduce con il verbo dare (non c’è amore più grande che dare la vita per quanti si amano; Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, chiunque avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca…). È legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare. Vengono pubblicani e soldati, pilastri del potere: “e noi che cosa faremo?” “Non prendete, non estorcete, non accumulate”. Tre parole per un programma unico: tessere il mondo della fraternità, costruire una terra da cui salga giustizia.

Il profeta sa che Dio si incarna attraverso il rispetto e la venerazione verso tutti gli uomini, come energia che libera dalle ombre della paura che ci invecchiano il cuore. L’amore rinnova (Sofonia), la paura paralizza, ruba il meglio della vita. «E io, che cosa devo fare?». Non di grandi profeti abbiamo bisogno, ma di tanti piccoli profeti, che là dove sono chiamati a vivere, giorno per giorno, siano generosi di giustizia e di misericordia, che portino il respiro del cielo dentro le cose di ogni giorno. Allora, a cominciare da te, si riprende a tessere il tessuto buono del mondo.

(Ermes Ronchi)

La gioia

Il tema della gioia traversa le letture bibliche di questa terza domenica di Avvento: gioia a cui è invitata Gerusalemme per la presenza salvifica di Dio in mezzo a essa (Sofonia); gioia a cui sono esortati i cristiani di Filippi di fronte all’annuncio che “il Signore è vicino” (II lettura); gioia insita nel Vangelo, nella buona notizia che Giovanni annunzia: “(Giovanni) annunciava al popolo la buona novella (euenghelízeto tòn laón)” (Luca).

La gioia cristiana non è un fatto solo interiore e non si identifica con un umorale sentire, ma è connessa alla relazione con il Signore e ha un prezzo: la conversione. Convertirsi significa operare concretamente un cambiamento nella propria vita. La domanda “che cosa dobbiamo fare?” in bocca a folle, pubblicani, soldati (vv. 10.12.14), indica la diversificazione dei concreti movimenti di conversione richiesti a persone che si trovano in differenti stati di vita. Al tempo stesso le richieste che il Battista pone a ciascuna categoria di persone possono essere lette come elementi costitutivi di ogni cammino di conversione: la condivisione (v.11), il non pretendere (v. 13), il non abusare, il non essere violenti (v. 14). In effetti Giovanni non indica delle “cose da fare”, ma chiede a ciascuno di rimanere nel proprio stato facendo spazio all’altro, rispettando l’altro, accogliendo l’altro e impedendosi assolutamente di avere ed esercitare potere sull’altro.

La condivisione implica che non si veda più solo il proprio bisogno, ma anche quello dell’altro e che si decida di provvedere a tale bisogno donando all’altro o spartendo con lui ciò che si ha. In quel donare emerge la libertà della persona non schiava delle cose che possiede, ma tesa al bene grande della relazione. In profondità, la condivisione è un esistere con l’altro proibendosi di pensare e agire senza gli altri. Ciò che va condiviso non è solo ciò che si possiede, ma ciò che si è. E nella vita cristiana non vi è amore più grande di chi dona la vita per gli amici (cf. Gv 15,13).

Non pretendere significa certamente non esigere dagli altri ciò che non spetta loro darci, ma soprattutto significa non porci nei loro confronti con una pretesa e dunque con un potere. Esigiamo amore, obbedienza, affetto, tempo, energie, attenzione, ci comportiamo come se gli altri ci “dovessero” qualcosa, fossero tenuti a essere a nostro servizio. Certo, tra i cristiani vi è il debito, il munus dell’amore reciproco (cf. Rm 13,8), ma questo è il dono che si dà, non che si riceve. Non pretendere significa dunque entrare nell’umiltà, nella realistica accettazione di sé e degli altri. Non maltrattare non significa certo solo non usare violenza fisica, ma soprattutto non abusare della propria posizione di forza o di potere. E soprattutto comporta l’avere intelligenza dell’altro e della sua vulnerabilità, così da non usare violenza nei suoi confronti: una violenza che è quotidiana, domestica, sottile e non necessariamente si nutre di toni aspri o troppo forti, ma è anche indifferenza, mutismo, disinteresse.

Giovanni non chiede gesti radicali come farà Gesù, non chiede di lasciare tutto e di seguire lui, ma mostra un livello imprescindibile e perenne della conversione, un livello molto umano e che non ha nulla di direttamente religioso. Si tratta di assumere l’umanità propria e quella degli altri, di addomesticare i propri appetiti, di assumere i propri limiti e di avere come misura della propria libertà la libertà degli altri. Essere se stessi consentendo agli altri di essere se stessi.

La conversione chiesta da Giovanni, che non si esaurisce in aggiustamenti esteriori, trova la sua radice in rapporto al Signore veniente e che viene per purificare, per operare un giudizio (v. 17). Giovanni in realtà non è un predicatore di morale, ma del Veniente. In questo senso egli è già evangelizzatore (v. 18): perché con la sua persona e con le sue parole egli annuncia il Cristo veniente e, chiedendo conversione, dispone ad accoglierlo e a conoscere così la salvezza di Dio. Del resto, il Vangelo è dono esigente, è grazia a caro prezzo, è amore che impegna.

(Luciano Manicardi)

Fedeltà

La gioia cristiana deriva da due fontane. La prima è la certezza che Dio è fedele e non viene meno alle sue promesse. Se egli ha assicurato il suo aiuto, si può star certi che non si tira più indietro. Il nostro, insomma, è un Dio di parola. «Il Signore è fedele per sempre»: è il grande attacco del salmo 145 il quale prosegue enumerando emblematicamente le categorie degli umili che confidano in Dio e che non resteranno delusi: dagli oppressi agli orfani, dagli affamati alle vedove, dai carcerati agli stranieri.

«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio! Non temete, ecco il vostro Dio: giunge la ricompensa divina”».

È il profeta Isaia (35, 3) che esorta i poveri, soprattutto nei momenti dello sconforto, a fare assegnamento sulla fedeltà del Signore. La gioia non tarderà ad irrompere.

La seconda fontana di gioia è la fedeltà che noi dobbiamo conservare nei confronti del Signore, fino a quando egli tornerà: «Siate pazienti fino alla venuta del Signore».

Una pazienza che significa perseveranza, fiducia incrollabile e perdurante, capacità di superare la prova, attitudine alla tenacia anche nelle avversità, forza che non si affievolisce, tempra non scalfibile nel tempo.

A questo punto, non è male riflettere se alle radici di tante nostre tristezze non ci siano forse dei processi patologici di infedeltà, nonostante le mille professioni di fede, e se, di fronte a un Dio di parola, non dovremmo rivedere seriamente certe nostre strutture comportamentali, connotate dal tradimento cronico e dalla slealtà sistematica.

Utopia

«Fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35, 10). È la più osata battuta di Isaia. La più incredibile.

Messa al termine di una pagina intrisa di sogni, vibra al limite dell’allucinazione: steppe che fioriscono come narcisi, deserti che risuonano di canzoni, zoppi che saltano come cervi, muti che esplodono negli urli della gioia.

Ma si tratta di intemperanze dovute a un particolare genere letterario, e che, quindi, vanno prosciugate di un abbondante tasso di assurdo perché diventino più assimilabili alle nostre logiche terra terra?

O sono, invece, i primi segnali di quel mondo altro, il più vero, il cui avvento, nonostante i nostri sospiri liturgici, facciamo ancora fatica ad affrettare perché, omologati ai canoni del più gelido realismo, non percepiamo quanto sia umbratile la cosiddetta concretezza delle nostre esperienze?

O sono il banco di prova del nostro gioioso abbandono alla Parola, superato felicemente il quale, Gesù ci giudicherà destinatari di quella beatitudine che è risuonata nel Vangelo: «Beato colui che non si scandalizza di me»?

(Don Tonino Bello, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007, 67-72)

Porto una responsabilità

      Anche se come singolo non posso ottenere che tutto vada per il meglio, posso portare il mio contributo perché qualche cosa in questo mondo migliori. Non posso sottrarmi alla responsabilità con la scusa che gli altri dominano il mondo. Ognuno lascia una traccia in questo mondo con la sua vita.  E da queste tracce il mondo viene plasmato. Ho la responsabilità di lasciare là dove vivo una traccia buona e feconda. Posso e devo contribuire perché il mondo intorno a me diventi migliore, perché in me e attraverso di me il bene diventi visibile in questo mondo. Non posso lasciare questo compito ad altri. Devo cominciare da me.

(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 140).

Preghiera

Mi sorprende anche quest’anno la tua promessa, Signore: mentre sono in cammino con la Chiesa, per prepararmi al natale, sentire che sei tu ad aprirmi una strada per la conversione.

Mi apri una strada raggiungendomi con la tua Parola: mentre io la ascolto spesso stancamente e senza entusiasmo, tu mi ricordi che l’incontro con essa è più forte della potenza degli imperi e dei grandi di questo mondo e che trasforma anche la mia vita in storia di salvezza. Insegnami ad ascoltare, insegnami il silenzio.

Mi apri una strada promettendo di abbattere monti e colmare valli. Se non fosse perché lo dici tu, sarei tentato di pensare che si tratti per me di una battaglia persa in partenza: che io non smetta, Signore, di lottare contro le montagne dell’orgoglio, dell’ira, dei vizi e non mi spaventi per le lacune della mia risposta poco generosa.

Mi apri una strada indicandomi i tanti deserti che trovo intorno a me e gli spazi vuoti che la nostra carità non sa mai colmare: che io possa, Signore, fare la mia parte, senza scoraggiarmi per il tanto che non posso e non so fare.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– R. FERRIGATO (ed.), Avvento e Natale 2012. Sussidio liturgico-pastorale, Milano, San Paolo, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– Don TONINO BELLO, Avvento e Natale. Oltre il futuro, Padova, Messaggero, 2007.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

Lectio – Anno B

Prima lettura: Daniele 7,13-14

           Guardando nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.      
  • La visione del Figlio dell’uomo in Dn 7,13ss chiude la prima visione apocalittica del nostro libro. La si trova al centro del c. 7 e poi alla fine della spiegazione dei simboli (7,26s). Nella prima parte, sotto lo sguardo profetico del veggente, si svolge la paurosa attività delle 4 bestie simboliche, che salgono dalle acque del mare mosse dai 4 venti. Esse rappresentano 4 famosi re, che dalle descrizioni sembrano identificarsi con l’impero babilonese («terribile leone dal cuore d’oro»), con l’impero medo («orso che divora Babilonia»), con il persiano («leopardo» dalle 4 teste di regnanti), con il greco («mostro dai denti di ferro, che tutto

stritola» assieme al tiranno che combatte contro i Santi di Dio, probabilmente l’empio Antioco IV del 168 a.C. persecutore dei pii Giudei).

     Si trattava di eventi del passato collegati alla situazione contemporanea, visti secondo la nota concezione apocalittica: l’agitarsi delle acque primordiali, da cui provengono le forze del male, sotto il vigile controllo della ruah, lo spirito di JHWH, come in Genesi 1,1-2; governanti e imperi si muovono quali strumenti dell’onnipotente Dio d’Israele.

     Lo dimostra l’improvvisa apparizione di un Vegliardo che, circondato da miriadi di esseri celesti, siede sul trono a giudicare le 4 bestie, togliendo loro ogni potere e condannandole alla morte. A questo punto irrompe la scena del nuovo sovrano dei popoli.

     v. 13: «ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo». Il personaggio viene dall’alto, e non più dagli abissi dell’oceano; è un essere dalle sembianze umane, non ben definite, superiori a quelle di un semplice mortale; non più sotto il simbolo di bestie mostruose e feroci… Egli è come l’angelo-principe di una grande nazione (10,13).

     v. 14: «Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano». A lui sono affidati i poteri regali su tutte le nazioni della terra: un regno che non vedrà mai il tramonto. Nella prospettiva del messianismo escatologico reale rappresenta l’intervento definitivo del Dio d’Israele sulle vicende della storia, proiettato in un futuro indeterminato

(l’eschaton), l’‘ahar, il seguito degli anni nella forma di un governo collettivo, consegnato al «resto santo» del popolo prediletto, i Santi dell’Altissimo. Non si esplicita se esso sarà di tipo terreno o spirituale. Si dichiara però che sia il rappresentante ideale (il figlio dell’uomo), sia la sua sovranità vengono dall’alto, proprio come la piccola pietra che si stacca dal monte e annienta le potenze del male (Dn 2,45).

     Vi si intravede la figura personale di un Inviato dal Signore Onnipotente, già delineato negli scritti dell’epoca giudaico-maccabeica (Parabole di Enoc, del 95 circa a.C.): considerato come «Re celeste, assise presso la gloria divina, che dovrà un giorno rendersi manifesto,

quale giudice del cielo e della terra, dei vivi e dei morti». È il Messia del giudizio universale, che in Mt 25,31 ss assegnerà a ogni uomo la sorte eterna in base al comandamento del sincero amore fraterno, e dirà l’ultima parola su tutta la storia dell’umanità: «gli rispose Gesù: Anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26,64).

Seconda lettura: Apocalisse 1,5-8

          Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!         
  • Siamo all’inizio della grande rivelazione profetico-apocalittica di Giovanni. Dopo il breve prologo (1,1-3) in cui si presenta il tema di tutta l’opera: — esposizione dei mirabili eventi prossimi ad accadere, così come l’autore li ha appresi da Cristo, a utilità di chi legge e ascolta —, si entra immediatamente in dialogo con le 7 chiese della cristianità d’Asia, a cui saranno indirizzate le 7 epistole (cc. 2-3), dettate dal Figlio dell’uomo, il Vivente in eterno, apparso a Giovanni in estasi (1,9-17).

     Il veggente si introduce con un saluto ai destinatari e con l’augurio di «grazia e pace» da parte di Colui che è, era e viene (il Padre divino), dei 7 Spiriti che stanno davanti al suo trono (Lo Spirito, cioè, con i suoi 7 doni, che da Lui proviene), e di Cristo Gesù. Di questi in particolare vengono esaltate le eccelse prerogative in 3a persona (vv. 6-7) e più direttamente in 1a persona (v. 8).

     v. 5a: «Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra». Son i titoli della grandezza di Gesù, visto nel suo ruolo di rivelatore supremo delle realtà divine («testimone fedele»), protagonista della storia salvifica (il «primo» a risorgere), dominatore delle vicende umane (signore dei signori).

     vv. 5b-6: «A Colui che ci ama e ci ha liberati… a lui la gloria e la potenza». Al richiamo di quei titoli sgorga dal cuore del profeta una elevata dossologia: — egli è colui che per amore ci ha lavati nel suo sangue, purificandoci dai nostri peccati e facendo di noi (ormai uniti vitalmente a Lui) una comunità sacerdotale di fronte al resto dell’umanità, per la lode di Dio suo Padre; a Lui si renda ogni onore e gloria per sempre…

     v. 7: «Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà». Egli è il maestoso Personaggio, già contemplato da Daniele e annunziato dallo stesso Maestro divino nel processo di Caifa (MC 14,62), a cui è conferito ogni potere in cielo e in terra, dinanzi al quale compariranno un giorno tutte le genti, anche coloro che lo hanno trafitto, perché ne siano giudicati (Zc 12,9).

     v. 8: «Io sono l’Alga e l’Omega… Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!». Ora parla lo stesso Gesù: — Egli non è il trasumanato eroe esaltato dalle mitologie orientali, ma Colui che è Principio e Fine di tutte le cose, Alfa e Omega cioè Colui che comprende e supera tutto ciò che esiste o è pensabile, che è (JHWH), che era ab aeterno, che viene in ogni epoca e si presenta sempre a nuovo nelle sue manifestazioni e nelle sue gesta, mai pienamente definibile dalla mente umana; centro e ragione d’essere di tutti gli avvenimenti che seguiranno, meta gloriosa dell’umanità e dell’universo! —.

Vangelo: Giovanni 18,33b-37

         In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».    

Esegesi

     Il tratto di Gv 18,33-38a è la parte centrale del processo di Gesù dinanzi a Pilato (18,28-19,16). I capi dei Giudei che hanno deciso per conto loro di mandare a morte Gesù lo hanno condotto presso il tribunale del procuratore romano, perché sia lui a pronunziare la sentenza definitiva, quale detentore supremo del jus gladii (il diritto di vita e di morte sui sudditi di Roma). Dopo aver essi dichiarato che il Rabbì di Galilea, secondo il loro giudizio, era un trasgressore della legge e reo di morte. Pilato rientra nel pretorio per interrogare Gesù e rendersi personalmente conto della colpevolezza di Gesù (18,28-33): era nel suo diritto.

     Qui l’evangelista Giovanni riporta il luminoso dialogo tra il Maestro divino e il rappresentante della potenza pagana. Il discepolo vi ha impresso qualche barlume della sua intima comprensione del Cristo: ne ha fatto l’epifania della sua Regalità divina.

     v. 33: «Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» L’interrogatorio comincia con la chiara accusa dei capi giudei: Gesù avrebbe preteso di essere uno dei seducenti Messia, pretendente alla guida del suo popolo (Lc 23,3). «Gesù il nazareno, il re dei Giudei»: sarà il titolo posto sulla croce per ordine dello stesso Pilato (19,19).

     v. 34: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» Gesù, prima di rispondere, vuole chiarificare in che senso il governante di Roma intendeva quel titolo: nel senso del popolo giudaico che aspettava la venuta di un Messia, leader religioso inviato dall’alto, ovvero nel senso di un condottiero politico liberatore dal giogo straniero, come poteva immaginarlo un romano? Pilato parlava secondo la concezione degli ebrei, o secondo la propria mentalità?… Il procuratore respinge quasi con sdegno la prima ipotesi. Non gli interessava proprio nulla delle credenze di quella gente: «Sono forse io Giudeo?». A lui preme sapere se davvero quell’imputato ha commesso le gravi trasgressioni per cui i suoi connazionali lo hanno sottoposto al suo giudizio! E conclude: «che cosa hai fatto»? (v. 35).

     v. 36: «Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo». Il divin Maestro ora può parlare liberamente e illustrare la sua reale posizione di fronte al tribunale di Roma. Egli poteva rassicurare il rappresentante dell’impero, dicendo di non aver fatto nulla, né contro l’ordine  sociale, né contro l’autorità dei Cesari accettata dal suo popolo (Lc 20,20-26), ma ha preferito attirare l’attenzione di quell’uomo a qualcosa di più profondo e convincente: la caratteristica incontrovertibile della sua Persona, quella che Giovanni ha già molte volte sottolineato nel suo racconto: la trascendenza del messaggio di Cristo.

     Egli promuove un regno che non appartiene all’ordinamento di questo mondo visibile (8,23), poggiato sulla forza delle armi e del consenso popolare. Il governatore lo può ben constatare: non c’è alcun suo fautore che lo difenda contro le ingiuste accuse dei suoi avversari (18,8.11).

     v. 37: «Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re». All’insinuazione, sembra un po’ ironica di Pilato: «e allora saresti Re, tu?» «tu così solo e improvviso?» (trad. ad litt. dal greco), il divino accusato prosegue: — Io sono realmente Re, nel senso che ti ho indicato, e sono venuto al mondo per testimoniare quel che ho visto e conosco (3,13; 8,23; 19,35): la realtà di un altro mondo, una realtà soprasensibile, che supera tutte le cose e le concezioni di quaggiù; realtà percepibile da chi è pronto ad accettare la Verità. Chi infatti è aperto alla verità riconosce la mia voce (10,3) e mi segue (3,31-36; 1 Gv 19,18-20). Il mio sarà così un regno nuovo, senza violenza e soprusi di alcun genere, basato solo sulla libera accoglienza del Trascendente, che è presso di ognuno e si rivela attraverso la mia parola (8,26).

     Siamo al centro di tutta la Rivelazione del Verbo divino fattosi uomo, così come si presenta nel quarto Vangelo: il Verbo che risplende tra le tenebre e manifesta a tutti la verità dell’Amore infinito del Creatore, e aggrega, chiunque vi aderisce, alla sua stessa vitalità eterna e consostanziale col Padre; si rimane nel mondo, ma non si è più di questo mondo (17,11.16).

     Pilato, tuttavia, è ancora lontano da quella verità, e se ne esce con una battuta: «ma cos’è la verità?» (18,38a).

Meditazione

Con questa domenica si chiude l’anno liturgico. Tra sette giorni la Liturgia della Chiesa inviterà i credenti ad iniziare un nuovo tempo di preghiera e di memorie sante. Non si tratta semplicemente di un ciclo temporale che si aggiunge ad altri calendari (scolastico, solare, giudi­ziario, amministrativo, e così via). Il tempo liturgico è altro da quello ordinario o da quelli stabiliti dagli uomini. È, infatti, un tempo nel quale non siamo noi, o le vicende di questo mondo, a decidere le sca­denze e a segnare i ritmi e gli obiettivi, come sempre accade. Nel tempo liturgico siamo noi ad essere guidati: veniamo, infatti, come sottratti alla normalità delle nostre abitudini e delle nostre preoccupazioni per essere inseriti in un altro ritmo temporale: quello di Gesù. Sono le pagi­ne del Vangelo a scandire il tempo dell’anno liturgico perché i creden­ti, strappati dal tempo dei propri affari, siano trasportati dentro la sto­ria stessa di Gesù, divenendo così suoi contemporanei. Da Natale a Pasqua sino a Pentecoste siamo chiamati a stare accanto a Gesù che nasce, che cresce, che predica e che guarisce percorrendo le strade e le piazze della sua terra, che soffre e che muore sulla croce, che però risorge, che ascende al cielo e che manda lo Spirito Santo sulla Chiesa inviando i discepoli sino agli estremi confini della terra. L’anno liturgi­co, insomma, è Cristo stesso («annus est Christus», diceva l’antica sag­gezza cristiana) che ci viene donato.

In questo singolare «anno» non si commemora un assente, ricordan­do magari con affetto i momenti salienti della sua vita. Si tratta, invece, di una realtà ben più profonda: la memoria liturgica rende presente in mezzo a noi il mistero stesso che celebriamo. Nell’anno liturgico tra­scorso di domenica in domenica siamo stati presi per mano dalla Santa Liturgia e portati appunto accanto a Gesù, dentro la sua vita, seguen­dolo passo dopo passo in tutto il suo itinerario verso il Padre che sta nei cieli. E così accade ogni anno. Ma non è una stanca ripetizione. Se gli «anni liturgici» continuano a ripetersi, è perché non termina mai la nostra condizione di discepoli, ossia di seguaci del Signore. Abbiamo sempre bisogno di riascoltare la Parola di Dio e di riprendere a seguire Gesù perché cresciamo con lui «in sapienza, in età e in grazia», come scrive Luca. Il Vangelo che viene annunciato in questa domenica ci porta vicino al Signore, unico pastore della nostra vita, perché noi ascoltandolo lo seguiamo e seguendolo lo amiamo.

Quest’ultima domenica dell’anno liturgico fa celebrare ai credenti la festa di Gesù Cristo, re dell’universo. È la festa della Sua signoria sul mondo, sul creato, sugli uomini, sulla storia. È una domenica che viene per così dire a coronare tutta la vicenda di Gesù e della stessa storia umana. È la festa in cui contempliamo Cristo nella pienezza della sua signoria sul creato. Ma il paradosso di questa festa sta nel fatto che men­tre vediamo Cristo, come re dell’universo, il Vangelo ce lo presenta umiliato, ridicolizzato, sconfitto. Questo stridente contrasto porta a chiederci: ma che re è il nostro? Che regalità è la sua? E che regno è quello su cui governa? È lo scetticismo di Pilato di fronte all’affermazio­ne di coloro che gliela avevano condotto perché lo condannasse. Infatti, chiede incuriosito: «Tu sei il re dei giudei?». L’aspetto arrendevole e modesto di Gesù, era ben lontano da quello di un sobillatore capace di mettersi alla testa di una banda armata. Eppure, Gesù non nega l’affer­mazione fatta da Pilato: «Tu lo dici, io sono re!». Ma, per chiarire il senso di questa affermazione, aggiunge immediatamente: «Il mio regno non è di questo mondo». E ne porta una prova lampante: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei». È tutto vero, anche se viene da pensare che quei pochi amici che pure aveva, non solo non lo hanno difeso, al contrario lo hanno abbandonato dandosi alla fuga; solo uno ha tentato la difesa con un colpo di spada, ma si è attirato una dura reprimenda da parte di Gesù. Il Maestro, il pastore resta solo. Ma che re è? Certo, non lo è alla maniera di questo mondo. E lo dice con chiarez­za: «il mio regno non è di questo mondo». In quattro righe questa affermazione è ripetuta per ben due volte: «Il mio regno non è di quag­giù». La sua regalità non trae origine dal mondo, non poggia sul con­senso della gente (fosse anche da un ampio consenso democratico) e non dipende dalle sue qualità; essa viene dall’alto, da Dio. I profeti avevano preannunciato l’avvento di questo nuovo re. La profezia di Daniele riportata nella prima lettura della Liturgia parla infatti di «uno, simile a figlio d’uomo» che appare sulle nubi del cielo e che riceve dal «vegliardo» il «potere, la gloria e il regno». E la visione continua con una scena grandiosa: «Tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto». La visione del profeta Daniele si consuma nella sua pie­nezza nel regno di cui parla Gesù, un regno che viene dal cielo e per questo eterno e indistruttibile. Ma non è lontano ed estraneo alla terra.

Al contrario, pur non essendo del mondo, il potere di Cristo si esercita sulla terra e nella storia degli uomini. E Pilato a suo modo lo capisce, tanto che conclude: «Dunque, tu sei re?». È come dire che l’accusa rivolta a Gesù è giusta. Ed in effetti Gesù afferma che è venuto nel mondo proprio per «rendere testimonianza alla verità». E aggiunge: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce!». La verità di cui Gesù parla non sono principi logici astratti o idee belle da contemplare. La verità è una storia, ossia la storia dell’amore di Dio per gli uomini. Egli, come scrive Giovanni nel suo Vangelo: «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perdu­to, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» ( Gv 3,16-17). Gesù è il volto concreto dell’amore di Dio, il volto concreto della Verità, il testimone della inimmaginabile «passio­ne» di Dio per gli uomini. È vera regalità quella di Gesù, anche se agli occhi del mondo è davvero strana. Egli regna dal pretorio, ma stando dalla parte dello sconfitto. Egli si erge a maestro autorevole, ma stando dalla parte degli imputati. Il suo potere è la forza dell’amore, è la forza della misericordia, della compassione e della mitezza. Così Egli governa i cuori degli uomini e la loro storia. L’amore appare debole agli occhi degli uomini, ma è forte agli occhi di Dio. È una forza reale. Del resto Gesù lo ha detto fin dall’inizio della sua missione sul monte delle Beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). La terra non è dei violenti, ma dei miti, dei misericordiosi. La vera grandez­za, la vera regalità, il vero potere, sta nel lasciarsi conquistare dalla «veri­tà» di Dio, ossia dal suo sconfinato amore che giunge sino a dare la vita per gli uomini. Di questo amore ha bisogno il mondo. Perché l’amore sconfigge ogni male, compresa la morte. In questa domenica che chiu­de l’anno liturgico, la Chiesa ci fa vedere la conclusione della storia: Gesù trionfa sul male e instaura il regno dell’amore. Giovanni, come a descrivere la liturgia celeste di questa domenica, ci apre uno spiraglio sul cielo: «Ecco, viene son le nubi del cielo e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batte­ranno il petto».

L’immagine della domenica

«Se qualcuno mi dimostrasse

che Cristo è fuori della verità,

mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo… Beh, io preferirei, lo stesso, restare con Cristo piuttosto che con la verità».

(F. Dostoevskij)

Casella di testo: Daniele 7,13-14
Apocalisse 1,5-8
Giovanni 18,33b-37



Siamo giunti alla fine dell’anno liturgico B, nel quale abbiamo ascoltato nella liturgia domenicale il vangelo secondo Marco. Domenica scorsa l’annuncio del Veniente, il Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,26), ci ha rallegrati, perché questa è la nostra speranza, la nostra attesa: che il Signore Gesù venga nella gloria e venga presto. 
Oggi, in verità, celebriamo un aspetto di questa venuta nella gloria, attraverso il quarto vangelo, che con audacia profonda sa leggerla già nella storia di Gesù di Nazaret, addirittura nella sua passione. In essa avviene un’epifania: proprio quando Gesù è nel pretorio romano di Gerusalemme, consegnato dai capi dei giudei, si confessa davanti a Pilato “Re dei giudei”, cioè loro Messia, unto e inviato da Dio al suo popolo. Ma attenzione: nel quarto vangelo Gesù è un “Re al contrario”, non ha il potere mondano, la gloria dei re della terra, non si fregia dell’applauso della gente, non appare in una liturgia trionfale. Al contrario, proprio nella nudità di un uomo trattato come schiavo, quindi torturato, flagellato, finanche incoronato di spine, si rivela quale unico e vero Re di tutto l’universo, con una gloria che nessuno può strappargli, la gloria di chi ama gli altri fino alla fine (cf. Gv 13,1), di chi sa dare la vita per loro (cf. Gv 15,13), rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9): gloria dell’amore vissuto e dell’amore mai contraddetto. 

Preghiere e racconti

Occhi spalancati sulla croce

In quel Vangelo che portavo sempre in tasca cercavo dunque, prima di tutto, l’incontro con uno Sguardo capace di illuminare ogni cosa.

Ricordavo le parole della catechesi: io sono la Via, la verità, la Vita. E non era forse questo l’affanno costante dei miei giorni? Tra l’opacità del quotidiano, tra i suoi infiniti e ingannevoli viottoli, trovare la Via, la strada maestra il cui ingresso spesso è celato dai rovi. Lì, ne reo certa, erano nascosti i pilastri della Verità, e solo quei pilastri sarebbero stati in grado di accogliere per sempre la mia vita nella dimensione della libertà assoluta.

Dunque, grazie a Francesco, a un tratto scoprii che Cristo poteva anche avere gli occhi aperti, e che le sue braccia, anziché pendere mestamente dalla croce, potevano essere spalancate in un cosmico abbraccio. Fino ad allora, i pochi crocefissi che avevo visto erano tutti tristemente e dolorosamente morti. Quella desolazione, quei corpi inanimati, quegli occhi chiusi mi avevano fatta sentire esclusa da qualsiasi possibilità di dialogo.

Quanti danni ha fatto – e continua a fare – una visione di Cristo unicamente doloristica! A chi può parlare un uomo tormentato dagli spasmi dell’agonia? In un mondo ormai completamente scristianizzato, in cui l’unico vero peccato riconosciuto è quello della gola – perché attenta alla linea – come si può immaginare che le persone inizino un cammino spirituale se, come sprone, hanno davanti a sé un’immagine che non ha nessun segno della potenza della vita che verrà?

Oh, magnifici crocefissi con gli occhi spalancati, con le braccia aperte, vive, pronte ad abbracciare e a consolare ogni pianto.

Oh, sguardo di pura Luce, sguardo che contiene l’universo e costantemente lo rigenera, tocca i nostri cuori, invalidi!

Solo Tu puoi sciogliere il ghiaccio, solo tu puoi compiere la misteriosa alchimia in grado di trasformare la pietra in carne, l’odio in amore, la non vita della menzogna in vita!

Solo Tu puoi liberarci dalle catene che ci tengono prigionieri, ignoti, sconosciuti e ostili a noi stessi.

Solo Tu puoi donarci la libertà assoluta di chi non soccombe alla morte.

È questa la nostalgia che hai impresso in ogni embrione che si forma nella splendente profondità del ventre materno.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015, 145-147)

     La Verità e le verità

«Credo che la nostra maturità umana dipende dalla capacità di unificare noi stessi e il nostro sguardo sulla realtà. Altrimenti rischiamo di rimanere preda di un molteplice illusorio, di verità, libertà, parole…»

Esercizio non facile in una società multiculturale come quella in cui viviamo, dove si incrociano esperienze, tradizioni e religioni diverse e dove chi parla di una sola verità rischia di essere o di apparire un integralista. «Senza dubbio questo rischio c’è – ammette don Ignazio -, ma la verità di cui parlo io è la verità dell’indicibile. Quando la verità è dicibile c’è molta difficoltà a definirla come l’unica verità. La verità unica è quella che parla a tutti e quando non riesce a farlo bisogna essere prudenti a definirla l’unica vera verità. Quando diciamo che la parola è una noi siamo convinti di appartenere a questa verità, ma questa verità non ci appartiene, perché è molto più grande di noi e non possiamo gestirla né possiamo avere con essa un rapporto ideologico. Noi apparteniamo alla verità e all’infinito, ma l’infinito non ci appartiene».

(Dal libro di Enzo Romeo, I solitari di Dio. Separati da tutto, uniti a tutti, Catanzaro/Roma, Rubbettino/Rai-Eri, 2005, 10).

Un regno che libera, un re che si fa servitore

 Due re, uno di fronte all’altro. Pilato, la massima autorità civile e militare in Israele, il cui potere supremo è di infliggere la morte; Gesù che invece ha il potere, materno e creatore, di dare la vita in pienezza. Chi dei due è più libero, chi è più uomo? Pilato, circondato dalle sue legioni, prigioniero delle sue paure, oppure Gesù, un re disarmato che la verità ha fatto libero; che non ha paura, non fa paura, libera dalla paura, che insegna a dipendere solo da ciò che ami?

Mi commuove ogni volta il coraggio di Gesù, la sua statura interiore, non lo vedi mai servile o impaurito, neppure davanti a Pilato, è se stesso fino in fondo, libero perché vero. Dunque tu sei re? Pilato cerca di capire chi ha davanti, quel Galileo che parla e agisce in modo da non lasciare indifferente nessuno. La riposta: Sì, ma il mio regno non è di questo mondo. Forse riguarda un domani, un al di là? Ma allora perché pregare “venga il tuo regno”, venga nelle case e nelle strade, venga presto? I regni della terra, si combattono, il potere di quaggiù ha l’anima della guerra, si nutre di violenza. Gesù invece non ha mai assoldato mercenari, non ha mai arruolato eserciti, non è mai entrato nei palazzi dei potenti, se non da prigioniero. «Metti via la spada» ha detto a Pietro, altrimenti la ragione sarà sempre del più forte, del più violento, del più crudele, del più armato. Il suo regno è differente non perché si disinteressa della storia, ma perché entra nella storia perché la storia diventi tutt’altra da quello che è. I servi dei re combattono per loro. Nel suo regno accade l’inverso, il re si fa servitore: non sono venuto per essere servito, ma per servire. Non spezza nessuno, spezza se stesso; non versa il sangue di nessuno, versa il suo sangue; non sacrifica nessuno, sacrifica se stesso per i suoi servi. «Il suo regno non è di questo mondo, ed è per questo che può essere in questo mondo, e può riprenderne le minime cose senza sciuparle, può riprendere ciò che è rotto e farne un canale» (Fabrice Hadjadj).

Pilato non può capire, prende l’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei. Voleva deriderlo e invece è stato profeta: il re è visibile là, sulla croce, con le braccia aperte, dove dona tutto di sé e non prende niente. Dove muore ostinatamente amando. E Dio lo farà risorgere, perché quel corpo spezzato diventi canale per noi, e niente di quell’amore vada perduto. Pilato poi si affaccia con Gesù al balcone della piazza, al balcone dell’universo, lo presenta all’umanità: ecco l’uomo! E intende dire: ecco il volto alto e puro dell’uomo.

(Ermes Ronchi)

La passione secondo Giovanni (cf. Gv 18,1-19,42), si compone di undici scene, ognuna situata in un luogo diverso. Al centro sta la scena dell’incoronazione di spine, in cui Gesù riceve l’adorazione dei soldati che lo sbeffeggiano e lo salutano con scherno: “Salve, Re dei giudei” (Gv 19,3), dandogli colpi in faccia. È una scena oggettivamente di derisione, di disprezzo, ma nel vangelo secondo Giovanni in verità è epifania, cioè rivela la vera regalità di Gesù, servo e vittima innocente del male del mondo. La scena-epifania di questa domenica è quella immediatamente precedente, la quarta, quando i capi dei giudei hanno ormai consegnato Gesù al procuratore romano, perché lo condanni a morte come malfattore. Pilato, che ha incontrato Gesù e non vorrebbe interessarsi della sua sorte, resiste alle pressioni degli accusatori e, entrato nel pretorio per chiamare Gesù, lo interroga. Innanzitutto gli chiede ciò che più gli interessa: “Sei tu il Re dei giudei?”. Ovvero: “Tu vanti un potere politico su questa terra e su questa gente?”. Questo, infatti, può essere un’insidia per Cesare. Ma Gesù non gli risponde subito, ponendogli invece a sua volta una domanda: “Tu, non ebreo, appartenente alle genti, ai gojim, mi fai questa domanda per una ricerca interiore o semplicemente perché sei istigato dai miei accusatori?”. Insomma, Pilato è manipolato dai capi dei giudei o la sua domanda nasce da una mozione interiore? Pilato, però, non comprende e mostra anzi il profondo disprezzo verso i giudei e anche verso Gesù, un uomo legato, consegnato a lui, inerme e per nulla bellicoso. Ripete solo a Gesù che sono proprio i suoi connazionali e correligionari ad averlo dato in balia del potere imperiale.

Segue dunque la domanda: “Che cosa hai fatto da poter essere incolpato, quale delitto contro la legge hai commesso?”. Ed ecco che Gesù fa la rivelazione: “Il Regno, quello mio, non è di questo mondo”. Quello di Gesù non è un regno che si instaura con la violenza della spada, non ha soldati pronti alla guerra, non è un regno tra i regni di questo mondo, in concorrenza tra loro. Ripeto, non è possibile nessuna concorrenza, tanto meno una conciliazione tra il Regno che Gesù annuncia e i regni che sono sulla terra: il Regno di Gesù è servizio, è dare la vita, è pace, giustizia e non può essere letto a partire dall’esperienza del potere propria degli esseri umani. Ma Pilato non riesce a reggere questa risposta di Gesù, non riesce a sintonizzarsi sulle sue parole. Non può fare altro che dirgli: “Dunque tu sei re?”, cioè pretendi – condannato come sei, in mio potere, ridotto a “cosa”, consegnato a me dai capi dei giudei e da me consegnabile alla morte – di essere re? Gesù allora replica: “Tu lo dici: io sono Re. Per essere Re sono venuto in questo mondo, con una missione che mi chiede semplicemente di essere testimone della verità: testimone della verità sull’uomo che è chiamato a essere figlio di Dio; testimone della verità che deve essere ‘fatta’, realizzata da ogni uomo e da ogni donna; testimone della verità di un Dio che ha tanto amato l’umanità da darle suo Figlio (cf. Gv 3,16)”.

Stiamo attenti: la verità non è una realtà astratta, non è neppure riducibile a una dottrina o a un’etica, ma è innanzitutto una “vita”, la vita di un uomo conforme alla volontà di Dio, la vita di un uomo che è vera e autentica quando è donata, dunque la vita di Dio stesso che Gesù vive in sé e narra umanamente a tutti quelli che lo incontrano, lo vedono, lo ascoltano.

In questa risposta a Pilato, dunque in questa epifania, Gesù è Re più che mai, Re dell’universo, Re di tutta l’umanità, perché è lui l’umanità autentica come Dio l’ha pensata, voluta e creata. Qui Gesù si mostra Re più che mai, perché non ha nessuna paura, perché regna su tutto ciò che lo attornia e su tutto ciò che accade; domina gli eventi, resta libero e parla, agisce solo per amore: regna con la regalità con la quale regna Dio! Se c’è un’ora in cui il Regno di Dio è venuto, è stato in mezzo a noi e si è rivelato, è stato narrato, questa è l’ora della passione e della croce.

Comprendiamo allora perché l’evangelista subito dopo annota che Pilato, rivolgendosi alla folla e ai capi dei giudei, proclama per due volte che Gesù è innocente, che non c’è in lui alcuna colpa secondo il diritto romano (cf. Gv 18,38; 19,4; e ancora in 19,6); poi, dopo averlo fatto flagellare (cf. Gv 19,1), lo presenta con le parole: “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). Pilato però – ci rivela sempre l’evangelista – durante quell’interrogatorio ha paura, e quando sente che, secondo l’accusa, Gesù si è fatto Figlio di Dio, “ha ancor più paura” (cf. Gv 19,7-8). I poteri di questo mondo possono non avere paura l’uno dell’altro, e per questo si fanno guerra; ma di fronte a Gesù “hanno paura”, perché Gesù inerme, mite, povero, innocente, regna veramente ed è lui il Re e il Giudice di tutto l’universo.

Questa festa di Cristo Re è stata come ri-evangelizzata dalla riforma liturgica del Vaticano II, grazie alla scelta delle letture evangeliche che presentano Gesù quale Re nella passione (il testo odierno è Lc 23,35-43) e quale Giudice veniente nella misericordia (cf. Mt 25,31-46).

(Enzo Bianchi)

Dio-verità

Chi ha superato la paura della morte, non ha ancora vinto tutti gli altri timori. Alcuni non temono la morte, ma hanno paura dei piccoli mali della vita. Alcuni non temono la morte, ma temono la morte delle persone care. Chi cerca la Verità, deve vincere tutti questi timori e altri ancora: bisogna essere pronti a sacrificare tutto per la Verità. La verità non si può sacrificare per nessuna ragione. La verità è come un grande albero, che più lo si coltiva, più da frutti. Colui che cerca la verità dovrebbe essere più umile della polvere.

Se conoscessimo la verità intera, che bisogno ci sarebbe di cercarla? Possedere la conoscenza perfetta della verità è possedere Dio. Poiché la verità è Dio. Dal momento che non conosciamo la verità totale, dobbiamo sentirci impegnati in una ricerca incessante, e questo è il più grande privilegio e il più grande dovere dell’uomo.

Dio-verità va incontro a quelli che lo cercano. Sono un umile cercatore della verità, e in questa ricerca ripongo la massima fiducia nei miei compagni per poter conoscere i miei errori. Sono fedele soltanto alla verità e non devo ubbidienza a nessuno salvo che alla verità. Tutta la verità, non semplicemente le idee vere, ma i visi autentici, i dipinti o le canzoni autentiche sono sommamente belli. Volete sapere quali siano le caratteristiche di un uomo che desideri realizzare la Verità che è Dio?  Deve essere completamente libero dall’ira e dalla lussuria, dall’avidità e dall’attaccamento, dall’orgoglio e dal timore. Voi ed io siamo una cosa sola. Non posso farvi del male senza ferirmi. Io sono il servo di musulmani, cristiani, persi, ebrei, come lo sono degli indù. E un servo non ha bisogno di prestigio, ma di amore. L’amore è il rovescio della moneta, il cui diritto è la verità.

(Mahatma Gandhi).

Ho cercato la verità, amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle Confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio MAZZI, Preghiere di un prete di strada).

Imparare a riconoscere Gesù

Qualche volta noi ci crogioliamo un po’, ci lamentiamo col Signore, che non si manifesta in maniera chiara, che non ci dice come fare. Adagio adagio, però, si capisce che il Signore vuole che noi cerchiamo, che cresciamo in questa ricerca. Noi diventiamo veri ricercatori di Dio cercando la sua volontà, cercandola in questa Chiesa, in questo mondo, in questa società, in queste situazioni difficili, crescendo nel dialogo, nella pazienza, nella sopportazione, nell’ascolto.

Così cresciamo. Se no saremmo degli automi; se ogni mattina ci risvegliassimo col programma già fatto da Dio, allora non ci sarebbe più problema. Invece siamo degli operatori attivi e cresciamo responsabilmente nel Regno di Dio, ricercando umilmente la sua volontà e purificandoci in questa ricerca. Ciò vale anche per la ricerca di Dio in se stesso, che è crescita purificante, faticosa, e se molti arrivano a non credere in Dio, non è perché abbiano più o meno argomenti di noi, ma perché si sono stancati di cercarlo, cioè hanno finito di fare il vero mestiere di uomo che è mettersi di fronte alla verità.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 57-58).

Il mio Regno non è di questo mondo

Ascoltate, giudei e gentili; ascoltate circoncisi, ascoltate incirconcisi; ascoltate, regni tutti della terra: «Io non intralcio la vostra sovranità in questo mondo. Il mio Regno non è di questo mondo (Gv 18,36)». Non lasciatevi prendere dal vano timore da cui fu colto Erode il Grande, quando gli fu annunciato che era nato Cristo e, nell’intento di far morire Gesù, uccise così tanti bambini (cfr. Mt 2,3.16). «Il mio Regno non è di questo mondo», dice Gesù. Che volete di più? Venite nel Regno che non è di questo mondo; venite con fede e non vogliate diventare crudeli per la paura! È vero che in una profezia Cristo, parlando di Dio suo Padre, dice: «Da lui io sono stato costituito re sopra Sion, il suo monte santo» (Sal 2,6), ma quella Sion e quel monte non sono di questo mondo. Che cos’è il Regno di Cristo? Sono quelli che credono in lui, a proposito dei quali egli dice: «Voi non siete del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16), anche se egli voleva che rimanessero nel mondo, e per questo prega il Padre per essi: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal male» (Gv 17,15). Per questo anche qui non dice: «Il mio Regno non è in questo mondo», ma dice: «II mio Regno non è di questo mondo». E dopo aver dimostrato questo dicendo: «Se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servi combatterebbero per me, affinché non fossi consegnato ai giudei» (Gv 18,36), non dice: «Ora il mio Regno non si trova in questa terra», ma dice: «Il mio Regno non è di questa terra». Il suo regno, infatti, è in questa terra fino alla fine dei secoli, e porta in sé la zizzania mescolata con il grano fino al momento della mietitura, che avverrà alla fine dei tempi, quando verranno i mietitori, cioè gli angeli, e toglieranno dal suo Regno tutti gli scandali (cfr. Mt 13,38-41). E questo non potrebbe avvenire se il regno non fosse qui, sulla terra. Tuttavia, non è di questa terra, poiché è in esilio in questo mondo. A quelli che fanno parte del suo Regno egli dice: «Voi non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo» (Gv 15,19).

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 115,2,NBA XXIV, pp. 1520-1522).

La determinazione del tempo del Regno: una spiegazione

Il Regno di Dio è come un seme posto nella terra, che raggiungerà certe fasi della crescita in modo graduale, giungendo a ciascuna fase solo al momento giusto e con il passare del tempo.

Letteralmente, sappiamo che i Regno di Dio è un invito da parte di Dio e un atto di accettazione da parte del genere umano. L’invito è esteso in una serie di richieste e di eventi, come quando, nella nostra cultura, un giovane invita una donna a condividere la sua vita. C’è il primo appuntamento, l’invito ad un rapporto speciale ed esclusivo (“fare coppia fissa”), la proposta di matrimonio e il periodo di fidanzamento; infine ci sono i voti e il rito del matrimonio. Similmente, attraverso Gesù Dio ha esteso a noi non uno bensì una serie di progressivi inviti, chiamandoci in modo sempre più profondo ad un’intimità con lui. […]

Il Regno di Dio, dunque, è un invito divino che ci chiede di entrare, di dire “sì” e di partecipare al piano di condivisione di Dio.

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 165).

Preghiera

Troppe volte, Signore Gesù,

abbiamo rivolto il nostro cuore ad altri sovrani,

ai vari dominatori del mondo.

Troppe volte, dominati dall’ansia del futuro

e dall’angoscia del pericolo,

ci rivolgiamo ad altri «re».

Solo l’amore e la fiducia che ne deriva

liberano l’uomo dalla fobia

e dalla tirannia della sua presunzione.

Oggi, Signore, ci inviti ad alzare il capo

e a guardare nel tuo futuro.

Tu, Re di misericordia,

ricordati di noi nel tuo Regno,

facci percepire il palpito del tuo cuore.

Un mondo disgregato dalla diffidenza,

dal dubbio e dallo scetticismo

trova solo in te la salvezza.

Il tuo Regno non è fatto

di splendido isolamento,

ma di profonda solidarietà

con l’umanità redenta.

Il tuo Regno non impone diffidenza,

ma libera, salva, assicura speranza.

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi

PER L’APPROFONDIMENTO: